Quando i leghisti erano statisti (Marco Travaglio)

Facile prendersela oggi con Bossi e il suo clan. Come prendersela col duce nel 1945 e con Craxi nel 1993. Sono almeno dieci anni che della Lega delle origini, quella che contribuì ad abbattere la prima Repubblica e a salvare Mani Pulite da sicuro affossamento, s’è perso persino il ricordo. Eppure fior di intellettuali e opinionisti “indipendenti” hanno fatto finta di niente sino all’ultimo. Ancora nel 2008, ultima vittoria elettorale di Bossi e Berlusconi, davano mostra di credere alle magnifiche sorti e progressive del “federalismo”, ciechi e sordi dinanzi alla satrapia dell’anziano leader menomato e agli scandali della Credieuronord, dell’amico Fiorani e delle quote latte.

Stefano Folli predicava il 15 aprile 2008 sul “Sole-24 ore”: “Silvio Berlusconi è il leader che riesce a rappresentare la sintesi di un Paese moderato, ma voglioso di modernità… e sempre più insofferente verso i vincoli, i freni e le incongruenze di chi diffida del cambiamento. Ma non si comprende il senso della vittoria berlusconiana… se si sottovaluta il dato politico che l’accompagna: vale a dire l’impronta nordista che l’affermazione della Lega porta con sé… La Lega è un partito leale agli accordi di coalizione, anche perché ha tutta la convenienza a esserlo. La lealtà paga, visto che oggi tra Lombardia e Veneto abbiamo quasi una seconda Baviera, con Bossi nei panni che furono di Strauss e Stoiber. E la “questione settentrionale”, anche quando significa timore della globalizzazione e inquietudine verso gli immigrati, è incarnata dalla Lega… Bossi ha citato la priorità del federalismo fiscale. Ecco un esempio di riforma, certo urgente, che tuttavia esige un alto senso di responsabilità politica per non danneggiare una parte del Paese”. Sappiamo com’è poi finita, la seconda Baviera. Ma Folli è sempre lì a spiegare come va il mondo.

Un altro folgorato sulla via di Gemonio fu Andrea Romano, già direttore del samizsdat dalemiano Italianieuropei, poi editor della berlusconiana Einaudi, ora testa d’uovo della montezemoliana Italia Futura e columnist prima de “La Stampa”, poi del “Riformista”, infine del “Sole”, lo stesso che l’altra sera pontificava in tv sull’ineluttabile fine del bossismo. Ecco cosa scriveva sulla “Stampa” il 16 aprile 2008: “La Lega potrebbe diventare il motore riformatore del governo Berlusconi… è un movimento politico ormai lontano dalla rappresentazione zotica e valligiana… ha accantonato definitivamente il teatrino secessionista… giustamente Stefano Folli sul “Sole-24ore” rimanda all’esempio della Csu bavarese”: insomma la Lega è un modello di “buona amministrazione locale”, piena di “giovani preparati come il piemontese Roberto Cota” (l’attuale catastrofico governatore del Piemonte), ergo sarà “il reagente indispensabile a una vera stagione di rinnovamento”. Certo, come no: vedi alla voce cerchio magico.

Se Romano citava Folli, Angelo Panebianco l’indomani sul “Corriere” citava Romano che citava Folli, in una travolgente catena di Sant’Antonio, anzi di Sant’Umberto: “Come ha osservato Andrea Romano, non si capisce la Lega Nord se non si tiene conto della capacità che Bossi ha avuto nel corso degli anni di fare crescere una classe dirigente locale, di giovani amministratori, spesso abili, e capaci di tenersi in sintonia con le domande dei loro amministrati”. Tipo Belsito, per dire.
L’altro giorno, sul “Corriere”, Antonio Polito rivelava di aver capito tutto da un pezzo (ovviamente all’insaputa degli eventuali lettori): “Già da tempo la Lega aveva dato segni evidenti di essersi trasformata da movimento in regime, con i tratti sovietici dell’inamovibilità del gruppo dirigente… Ma nessuno aveva immaginato che il regime fosse diventato una satrapia. Nemmeno Berlusconi”. Che strano: lo stesso Polito, direttore del “Riformista”, nell’aprile 2008 invitava il centrosinistra a rifuggire da un’opposizione severa e intransigente contro il nuovo governo Berlusconi-Bossi, e ad “aprire il dialogo con l’Italia berlusconiana” e naturalmente bossiana. È grazie a simili illuminazioni che Polito ha guadagnato la prima pagina del “Corriere”.

(L’Espresso, 13 aprile 2012)

I nuovi padroni del Nord (Curzio Maltese)

    Ma quant’è furbo, da uno a dieci, Beppe Grillo che sta girando l’Italia per spiegare che lo scandalo della Lega è una trama dei giudici servi di Monti contro l’opposizione? «Tocca alla Lega, poi a Di Pietro e quindi a noi!». Quant’è abile a urlare in piazza e su YouTube una tesi innocentista e complottista a proposito delle porcate della «family», quando perfino Bossi ha dovuto scaricare il figlio e il cerchio magico. A corteggiare i leghisti spaesati dagli scandali con il no alla cittadinanza per i figli d’immigrati, a costo di sfidare le ire dei blogger, e il ritorno alla parole d’ordine dello sciopero fiscale contro la corruzione politica. Eccolo il nuovo campione del Nord tartassato contro Roma Ladrona, Beppe Grillo. «Ho seguito qualche suo comizio e l’analogia col primo Bossi è impressionante» commenta Pippo Civati, consigliere del Pd, uno dei pochi esponenti del centrosinistra ad avere le antenne puntate sulla crisi leghista. «Per non dire che Grillo gli copia interi passaggi e slogan, gestacci compresi. Purtroppo funziona, anche per colpa nostra. Avremmo delle praterie davanti, dico il Pd e il centrosinistra in generale, ma rimaniamo fermi a guardare. E così c’è il rischio che il Nord salti dalla padella padana alla brace del populismo grillino, per certi versi perfino peggiore».

Un rischio che al momento è una certezza. A dar retta ai sondaggi, oltre la metà dell’elettorato in fuoriuscita dalla Lega oggi voterebbe Movimento 5 Stelle. L’altra metà si spalma in parti uguali fra Pd, Pdl e il resto. Merito del fiuto commerciale del comico genovese, ma anche dell’afasia dei grandi partiti. I berluscones sono troppo occupati a trattare con il governo Monti franchigie personali e aziendali per rivolgere lo sguardo al cataclisma leghista. Il Pd la questione settentrionale non l’ha mai capita e finirà al solito per candidare qualche industriale deluso dal sogno padano. Senza contare l’imbarazzo del caso Penati, che è la ragione per cui Bersani non si fa vedere in una piazza lombarda da quasi un anno. Il progetto di un centrosinistra del Nord era andato in pensione con Sergio Chiamparino e le giuste profezie di Massimo Cacciari sull’imminente crollo di rappresentanza della Lega sono state lasciate cadere nel vuoto. Sul territorio gli unici a muoversi, in ordine sparso, sono a sinistra i nuovi sindaci, a cominciare da Fassino e Pisapia, e a destra l’onnipresente sistema di potere ciellino di Formigoni, inossidabile lui sì a qualsiasi scandalo. Per il resto via libera all’Opa grillina. Una marcia di conquista partita dalla Val di Susa, luogo perfetto per un revival della Lega degli esordi, ecologista, no global, anti sistema, pronta a gettare il cuore montanaro oltre l’ostacolo degli interessi combinati di grande capitale, burocrazia europea, finanza mondiale e solita Roma ladrona.

Ma davvero basta imitare i comizi d’annata del Senatur, come fa Grillo, oppure impugnare la scopa e invocare il ritorno alle origini, alla Maroni, per riprendersi la rappresentanza del più importante pezzo d’Italia? Se si leva lo sguardo dalla cronache politiche e giudiziarie, dai piccoli spettacoli quotidiani di trasformismo mediatico, e lo si alza sull’immenso laboratorio che corre dal Monviso al delta del Po, in una sequenza ininterrotta di case, centri commerciali, capannoni e industrie, si capisce che è un’utopia nostalgica. Lega delle origini e poi il berlusconismo erano il racconto, a volte geniale, del Nord fra gli anni Ottanta e Novanta. Ma in questi vent’anni tutto è cambiato, il Nord ha vissuto una rivoluzione che nessuno ha ancora raccontato. La morte politica dell’asse Berlusconi-Bossi si è consumata proprio in questa incapacità di raccontare e rappresentare il nuovo, assai prima di perdersi nel dedalo maleodorante delle ruberie e degli scandali, nelle storie di escort e false lauree.

La Lega delle origini, con Bossi solo in Parlamento, era il grido di rabbia delle comunità montane isolate e depresse. Ricordo uno dei primi comizi del Senatur, ancora scortato da Miglio, in una trattoria della Valmalenco, davanti a facce contadine stravolte dalla fatica, ma eccitate dalla favola, dove oggi c’è un Internet bar frequentato da ventenni che sembrano studenti di Stanford. Trento, Belluno, Sondrio, Aosta, Cuneo, culle del leghismo primigenio e pauperista, ispirato dagli autonomisti aostani e della Val d’Ossola, sono ormai da anni in cima alla classifica di reddito e qualità della vita pro del Sole 24 Ore, davanti a Milano, Bologna, Roma. Quando il sindacato leghista organizzava i primi comizi nella bergamasca, la Brembo e la Mapei erano piccole fabbriche con qualche decina di operai e ora sono colossi internazionali, con Squinzi e Bombassei che si giocano la presidenza di Confindustria all’ultimo voto. Alle prime assemblee di imprenditori leghisti, Daniele Vimercati mi faceva notare: «Guardali, si vestono allo stesso modo, hanno lo stesso capannone, tipo d’auto, villetta e perfino piante in giardino. Sono più uguali dei loro operai». Oggi la crisi ha spezzato le fila e prodotto una selezione darwiniana fra chi è cresciuto e chi sta fallendo. L’altro giorno nel Trevigiano un imprenditore agricolo si è impiccato nel capannone mentre il vicino festeggiava coi dipendenti il raddoppio delle esportazioni di soia per il biodiesel.

«La Lega è stato un formidabile imprenditore della paura del Nord davanti alla globalizzazione – è la lettura di Aldo Bonomi, sociologo, autore di uno dei migliori libri sul malessere del Nord, Il Rancore -. Ma bene o male in questi vent’anni la globalizzazione è arrivata e ha stravolto il paesaggio umano e sociale del paese, soprattutto delle aree più produttive. Di fronte a questo mutamento straordinario la Lega non ha saputo elaborare nuove risposte, è rimasta aggrappata ai vecchi miti, evocati oggi anche da Maroni: la Padania, il federalismo, la piccola patria. Ma oggi le questioni che interessano i ceti produttivi del Nord sono altre. Si chiamano default, riguardano la tenuta del paese intero come seconda potenza manifatturiera d’Europa. E’ cambiata l’imprenditoria, non più molecolare come vent’anni fa, ma selezionata dalla crisi fra una media industria in espansione, che regge da sola le sorti industriali dell’Italia, e una piccola in via di estinzione. E’ cambiato moltissimo il ceto medio, con l’avvento di quello che possiamo definire il terziario riflessivo. Nuove generazioni che lavorano soprattutto nel campo della comunicazione, il 27 per cento dei nuovi posti, e coltivano idee, sogni e bisogni molto distanti dai nostalgici archetipi leghisti. Si è rovesciato il rapporto fra il contado, per esempio la provincia pedemontana, e la metropoli. Per vent’anni il contado ha dato l’assalto alla città, con alla testa i condottieri di provincia Bossi e Berlusconi, assai più brianzolo che milanese. Ora sono la finanza, le banche, i saperi cittadini che tornano a mettere le mani sulla provincia, a investire nelle grandi reti, nella rete idrica, nel futuro della produzione energetica, nella green economy. E’ una trasformazione profonda, che ha influito anche sui sentimenti e sui risentimenti. Prenda la questione dell’immigrazione. A Milano la Lega, con la Moratti al seguito, ha impostato tutta la campagna contro Pisapia su questo tema e ha clamorosamente perso».

La Lega aveva insomma esaurito la spinta propulsiva anche prima degli scandali. «Sì, ma non bisogna commettere l’errore di considerare la crisi della Lega come la fine di una questione settentrionale che oggi è semmai ancora più viva e decisiva per il futuro dell’Italia. Altrimenti si rischia di evocare un’ondata di antipolitica ancora più disastrosa di quella che vent’anni fa ha consegnato il potere a Berlusconi e Bossi».

(da Repubblica, 13 aprile 2012 )

Una buona battaglia…

Invito i miei 25 lettori a sostenere questa buona battaglia di impegno culturale, civile e, quindi, politico. Si può sottoscrivere la seguente petizione a: http://www.firmiamo.it/perimuseicivici-reggioemilia

Altre info sul blog: http://amicideimuseicivici.blogspot.it/

Nel 2007 l’Amministrazione Comunale di Reggio Emilia ha dato l’incarico del riallestimento dei musei civici allo Studio Rota. Il progetto risponde solo in minima parte alle esigenze di un museo civico come quello reggiano: da un lato propone soluzioni eclatanti quanto discutibili, dall’altro non offre alcun racconto organico della vita antica e moderna della città e del suo territorio. Occorre investire nel museo assicurando la piena funzionalità dei diversi ambienti e la manutenzione delle collezioni storiche, ma occorre anche che ci sia un investimento più profondo sul piano dei contenuti, delle forme comunicative e della didattica.

Confermiamo e sottoscriviamo i contenuti delle lettere inviate alla stampa da un gruppo di cittadini reggiani (20.2 e 5.3.2012) e chiediamo all’Amministrazione che il progetto venga non solo presentato, ma condiviso e discusso pubblicamente nei suoi dettagli e che vengano abbandonate soluzioni, sia interne che esterne all’edificio, tanto estranee ai “fini di ordine culturale, scientifico, educativo”  perseguiti dal museo, quanto costose, in particolare alla luce della attuale situazione economica e sociale.

Io ne ho viste cose che voi umani…

“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.”

 

Anch’io, nel mio piccolo, posso dire di “aver visto cose..” in questi anni di onorato lavoro.

Ho visto piantare un albero della Libertà nel bicentenario della Rivoluzione francese, albero benedetto addirittura dal reverendo parroco. Albero poi, per fortuna, seccatosi, forse per la vergogna.

Ho visto celebrare i fratelli Cervi facendoli paladini della lotta contro le tossicodipendenze al grido di “Se fossero vivi lotterebbero contro la droga!”.

Ho visto un Assessore al Bilancio inneggiare ai Viaggi della memoria in una pubblica manifestazione. Assessore di un Comune che aveva appena tagliato il contributo ai medesimi Viaggi.

 

Ma non avevo ancora visto una mostra “storica”(?!), anzi, pardon “Una sorta di laboratorio di riflessione sul futuro della collettività fatta come esito di una raccolta differenziata di cose varie e disperse, portate “random”da volenterosi cittadini. Sì perché in questo weekend con l’iniziativa “Gli oggetti ci parlano” ci viene richiesto proprio questo: portare cose, roba, insomma vuotare i solai, far saltare per questa settimana il mercatino del riciclo e consegnare festosi la merce.

 

Perché? “…per meditare sul nostro futuro, fare scelte importanti, ma anche ricordarci l’attitudine delle generazioni che ci hanno proceduto e che hanno creduto fortemente in un’idea di progetto positiva e condivisa, che una volta realizzata ha determinato cambiamenti significativi nelle abitudini e nella quotidianità…Questi oggetti verranno catalogati, schedati per liste tematiche e fotografati. Cosa portare? Quattro le aree tematiche della mostra: come mangeremo, come vestiremo, come condivideremo, come parteciperemo.”

Domanda: ma cos’è l’attitudine delle generazioni che ci hanno proceduto? Attitudine a cosa?

Come diceva il poeta “..quelli che ti spiegano le tue idee senza fartele capire, oh yeah!”

 

turkey-hat_3519.jpgComunque via alla caccia a “scatole portacappelli di modiste famose… carte geografiche d’epoca, reclame di viaggi, riviste,.. uova di struzzo, zampe di elefante montate… elettrodomestici di marca (aspirapolvere, lavapiatti, robot da cucina, macchine per il caffè.. macchine per scrivere, vecchi telefoni,… calze di nylon…”. Mancano solo i classici “tacchi, dadi e datteri” e poi l’elenco è completo.

 

Non è meraviglioso? La fantasia che ci libera finalmente da quei mucchi di roba accumulata negli anni, perché venderla? Regaliamola gioiosi e felici, convinti che qualcuno, ben più intelligente di noi, poveri accumulatori inconsapevoli, provvederà a dare un senso a tutto, a svelarci il senso delle nostre “attitudini”. Quale il progetto, quale il fine? Realizzare le famose “period room” che ci racconteranno come siamo stati ma soprattutto come saremo. Basta aspettare e capiremo tutto nella futura epifania di stampo televisivo. E pensare che noi eravamo abituati a realizzare mostre con il procedimento opposto: prima sapere di cosa vogliamo parlare e poi andare a cercare gli oggetti e i documenti che ci potevano servire. Vecchi, obsoleti, polverosi. Per fortuna che c’è chi è così avanti. Avanti dove, come? Non importa, avanti! E tutto “agratis”. Geniale.

 

Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di ridere….

 

http://www.fotografiaeuropea.it/fe2012/gli-oggetti-ci-parlano-2/

 

 

Uovo di Pasqua

Sotto l’albero di Natale abbiamo trovato il ritiro del vecchio satiro plastificato, nell’uovo di Pasqua la caduta rovinosa del patetico guitto che ha condotto la lega (che, come dice mio figlio, non merita neppure la maiuscola) ha dare il suo contributo allo scassamento del povero paese. Bene. Buona Pasqua. Però. Sono caduti i capi, i vice si stanno scannando, i famigli cercano di salvare l’argenteria e le playstation, ma tutto rimane come prima. Questi satiri, questi buffoni da bar, questi lusi-belsito qualcuno li aveva messi sulle loro poltrone, qualcuno li aveva votati. Loro sono caduti, fuggiti, carcerati ma i milioni di elettori sono ancora a piede libero, pronti al nuovo leader, al nuovo Masaniello, a destra come (purtroppo) a sinistra. Dopo la caduta berlusconiana, riflettendo con i miei 25 lettori, richiamavo tutti alla necessità del rigore, della serietà, dell’autocritica, perchè in quella stagione di guano che si stava concludendo in qualche modo c’eravamo finiti dentro tutti. Invece no. E’ ripresa la solita giostra, ognuno a difesa del suo pitale mezzo vuoto (o pieno cambia poco) a replicare coattivamente parole, riti, concetti che il tempo ha prima logorato e poi resi inutili. Ognuno a volere tutto e a volerlo subito, ognuno in preda alla sindrome del NIMBY (not in my backyard): riforme? Sì, ma prima quella degli altri…Sacrifici? Sì, però prima lui/lei/loro…

Ho preso aspre rampogne anche da quella che considero la mia parte, additato come un “NP” (nemico del popolo), solo perchè ho suggerito che c’era altro nel mondo e in un paese che non funziona che l’art.18, ricordando che in oltre 25 anni di lavoro (onorato, credo) non ho mai sentito una volta vicino ai miei problemi alcuna forza sindacale. Continuiamo ad affrontare problemi del XXI secolo con parole nate nel XIX (riformista/massimalista/padrone), con analoghi strumenti di lotta (sciopero) e con la medesima mentalità (il complotto, il conflitto…). Allora si bloccavano le ferrovie oggi le autostrade ma la mentalità è-ahimè- cambiata ben poco. Ci indignamo per i rimborsi elettorali spaventosi (con cui davvero potremmo fare qualcosa per i giovani) però non ci indignamo se i partiti che ancora votiamo  (non si sa se per abitudine o per masochismo) al massimo propongono la riduzione dei decimali a quegli stessi rimborsi. Parliamo di casta e poi non pretendiamo che almeno i nostri eletti si dimezzino-qui e ora- i loro assurdi stipendi. o che torni un poco di democrazia nella gestione delle nostre città. Come si diceva una volta “Signora..viene la rivoluzione e non ho niente da mettermi…!”.

Cambiare giacca è facile, partito anche, ma cambiare mentalità e morale è quasi impossibile. Abituati al tifo da curva sud, alla difesa eterna del nostro “particulare”, risulta difficile sederci a un tavolo e ragionare, ripartire da noi, applicare una sano e diverso  NIMBY (NOW in my back yard), almeno per salvare noi stessi perchè gli altri e il mondo è tutta un’altra questione. Non ci riuscirono i partigiani scesi dalle montagne un aprile di tanti anni fa. Anzichè ragionare su cosa avrebbe dovuto cambiare (e sul perchè non è cambiato), sul fatto che quei 20 mesi portavano in sè i germi di una rivoluzione morale che non ci fu,  stiamo ancora a perdere tempo a discutere con i fascisti se ci fu qualche morto in più o in meno, dedichiamo il 25 aprile alla lotta contro la mafia anzichè ricordare che quel 25 aprile avrebbe comportato anche la sconfitta della mafia se fosse andato avanti. Tranne poi, ovviamente, dimenticarci del 25 aprile e della mafia il giorno dopo.

Buona Pasqua, comunque, a Fortezza Bastiani tira il vento e le gocce di pioggi battono sui vetri, ierisera ho mangiato la cena di Pessach, ho bevuto i quattro calici di vino, ho mangiato il “maror”, le erbe amare. Una lattuga, le prime foglie sono dolci poi mentre si procede all’interno il gusto è sempre più amaro. Come la schiavitù che all’inizio può essere anche rassicurante, con tutte le responsabilità nelle mani del “padrone”, ma poi diviene insopportabile. Buona Pasqua.

Monti e la Formula 1

 formula1.jpgDomenica mattina a Fortezza Bastiani ho visto il GP di Malesia. Ebbene sì, faccio un doppio outing: a FB c’è una tv e non perdo un GP dal 1968 (o meglio uno lo persi, era il 1988 ed ero in Istria in viaggio di nozze…). Una volta tanto grande spettacolo, pioggia, sorpassi, vince Alonso con un catenaccio d’auto da far paura. Evviva.

E mi viene in mente che in fondo Monti è come la Safety Car in F1. Qualcuno si schianta, perde pezzi, semina detriti in pista, parcheggia in mezzo alla curva? La Direzione Gara fa entrare la Safety Car che mette tutti in fila, rallenta qualche giro mentre gli addetti ripuliscono, spostano, riordinano e poi la SC spegne le lucine lampeggianti torna ai box e la gara riparte.

Domenica è venuto giù il diluvio (se fai un GP in Malesia nella stagione dei monsoni può capitare..), entra la SC, addirittura escono le bandiere rosse (no, calma, niente nostalgie, è il segnale di interruzione di gara), la gara si ferma, si aspetta che spiova, e si riparte: due giri dietro la SC e poi vera gara e vinca il migliore.

Alla fine del 2011 l’Italia era cotta, decotta, anche (forse) in condizioni peggiori di quanto ci hanno detto. Detriti ovunque, pozze d’acqua e champagne, pali da lap dance divelti, tanga svolazzanti, spread stellare, debitori con i forconi alle porte. Come quando una famiglia è allo sbando e si chiama lo zio serio e noioso è arrivato Monti. La Safety Car che ha messo in riga le vetture per ripulire la pista e ricominciare la gara.

Preciso per gli amici che mi hanno già inserito nella blacklist dei NdP (Nemici del popolo) che anche le SC possono sbagliare: possono andare troppo piano o forte, restare in pista troppo o troppo poco. Ma servono. E tornano utili.

Certo è più divertente vedere la corrida, ruote volare, alettoni carambolare, fiamme scoppiettare, hostess scosciare e sponsor sponsorare, ma questo lo abbiamo già visto. Grazie.

E poi in pista dietro alla SC domenica c’erano 6 campioni del mondo, dietro alla Monti Car chi c’è? Una baraonda di conti-decotti-stracotti-biscotti delle più variopinte scuderie. Piloti del Banana Racing, quelli che truccavano le gara con donne e champagne, usando escort (non Ford, proprio ragazze di gambasvelta) e dollari come giocassero al Monopoli. Piloti del SantaMaria Team che stanno attaccati alle cuffie per sentire gli ordini dai box oltre Tevere. Piloti del RSWGBBY Team (RedStar WhiteFlower Greengrass BlueEconomy BeigeIdeas YellowCab) sempre indecisi se partire con la prima marcia, la seconda o la retromarcia e senza aver capito ancora il senso di marcia del circuito. Piloti del AL (Always Left) Racing che ancora non hanno capito che girando sempre a sinistra si torna al punto di partenza, oltre che, usando ancora Renault Dauphine, Trabant e Daf Variomatic, difficilmente si vincerà mai una gara, fosse anche la gymkana del carciofotto di Abbiategrasso.

Un assaggio lo abbiamo avuto in questi giorni che la SC era su altri circuiti. Sportellate, corna dal finestrino, rutti in diretta, riforme del puffo concordate sapendo che tanto nulla si farà come sempre, scioperolotta già pronti sulla rampa di lancio. Il solito bordello.

Oddio! E quando davvero la SC se ne tornerà ai box e là resterà? Si tornerà all’eterna ricreazione cui abbiamo assistito negli ultimi 15 anni? Sarà servito qualcosa il periodo di sacrifici e difficoltà in cui ci troviamo? In F1 chi sgarra, anche dopo la SC, viene richiamato una volta, la seconda volta gli viene data la bandiera nera e va a casa. Esiste un regolamento. Qui sembra di avere una classe dirigente di senzatetto. Annidati nei palazzi, palazzini, palazzetti come non avessero più una dimora, e famiglie e amici dove tornare, restare e non rompere più i cabasisi. Non c’è nessun regolamento, li hanno infranti tutti e sono ancora lì. Costretti ad accettare la SC non per responsabilità (concetto ignoto) ma perché era quasi finita per tutti e quindi anche per loro. Ora sono appena piegati perché passi la piena, “Aspetta che questo rompico..si tolga dalle scatole e vedrete che ti combino io..”, questo il pensiero silente di questi piloti del nulla, esperti dell’eventuale, artisti del vedremo. Il campionato di F1 dura 20 gare, la Monti Car poco di più. Ma nel 2013 ci sarà sicuramente un altro Campionato di F1. Ci sarà anche l’Italia?

Memorie e identità (intervista a Michel Wieworka)

UNA CITTÀ n. 142 / 2006 Ottobre

Intervista a Michel Wieviorka
realizzata da Francesca Barca

MEMORIA E IDENTITA’
Un nuovo antisemitismo che, pur avendo perso i connotati razzistici tradizionali, si definisce sempre per l’odio verso un particolare gruppo umano. L’identificazione degli ebrei con Israele e degli arabi e musulmani immigrati con la causa palestinese. Il rinnovamento del modello di cittadinanza repubblicano indotto dalla riscoperta dell’identità, e della memoria, da parte di minoranze. Intervista a Michel Wieviorka.

Michel Wieviorka, sociologo, è direttore del Centro di Analisi e d’Intervento Sociologico (Cadis) dell’Ehess di Parigi. E’ fondatore e direttore della rivista Le Monde des Débats.

Esiste l’antisemitismo oggi?
Sulla questione dell’antisemitismo è utile intanto distinguere tra la dimensione Stato nazione e quella invece planetaria. Io penso che il fenomeno sia presente ad entrambi i livelli e che però sia evoluto assumendo caratteristiche diverse. E’ evoluto nei suoi contenuti, ma anche dal punto di vista degli attori; non solo: è diventato appunto un fenomeno globale. Questo significa che l’antisemitismo in Francia ha a che fare con le trasformazioni interne della società, ma allo stesso tempo è la proiezione sul suolo francese di logiche che vengono dall’esterno.
Allora, la prima novità è che l’antisemitismo ha smesso di essere razziale in senso biologico. Non si sente più parlare di sangue, di razza ebraica, di tratti fisici propri agli ebrei. La “biologizzazione” dell’antisemitismo si è indebolita man mano che il fenomeno veniva portato avanti da attori a loro volta vittime del razzismo, più o meno a sfondo biologico. In Francia, per dire, gruppi di origini algerine o marocchine, fanno resistenza a caratterizzare fisicamente gli ebrei perché sanno che il medesimo meccanismo potrebbe avere un effetto boomerang nei loro confronti.
Una seconda caratteristica importante concerne i suoi contenuti: oggi l’antisemitismo dice quasi il contrario di quello che diceva il vecchio antisemitismo. Fino a cento anni fa l’antisemitismo consisteva nel ritenere gli ebrei un pericolo, una minaccia per l’identità nazionale, per l’integrazione, per il corpo sociale, per l’omogeneità del paese… Insomma, gli ebrei incarnavano logiche che minavano il gruppo dominante e quindi l’immagine della propria società, della propria nazione, della Repubblica…
Oggi accade quasi il contrario. Gli ebrei non rappresentano più una minaccia di quel tipo, ma al contrario l’occupazione del centro della nazione, della società, della repubblica. Non si dice più: “Gli ebrei sono un pericolo per la nazione, per la repubblica, per lo Stato, per la società” bensì: “gli ebrei si sono integrati”…
Troppo?
Appunto, sono troppo al cuore della nazione, della società. Insomma quello che viene loro rimproverato non è la minaccia che costituirebbero, ma il fatto che sono “entrati” e che occupano posti di potere. E’ un cambiamento considerevole. Del resto è vero che gli ebrei oggi in Francia non sono vittime né di segregazione né di discriminazione, in alcun modo, mentre fino a un secolo fa lo erano ancora.
L’altro cambiamento, come dicevo, riguarda i nuovi “attori”, coloro che portano avanti i contenuti antisemiti. Beninteso, il vecchio antisemitismo nazionalista, razzista, xenofobo non è sparito, come pure quello cristiano che ritiene appunto che gli ebrei abbiano ucciso Gesù: esiste ancora e lo si incontra oggi nelle aree di destra “dura”, di estrema destra.
Da questo punto di vista il vero spartiacque è dato dal fatto che dopo la seconda guerra mondiale l’antisemitismo è diventato “criminale”, quindi non può più avere un’espressione esplicita, e tuttavia continua ad apparire, casomai in forma velata. In Francia in particolare è stato risvegliato dall’estrema destra, nella persona di Jean-Marie Le Pen, che ha avuto spesso uscite molto infelici, come nel 1998 all’università estiva del partito, in cui se ne uscì con il gioco di parole “Durafour crématoire”, a proposito del ministro ebreo Michel Durafour, o ancora con affermazioni come “la Shoah è un dettaglio della seconda guerra mondiale”, per non parlare dell’interesse che ha sempre manifestato il Fronte Nazionale verso i cosiddetti testi “negazionisti”.
Quindi il vecchio antisemitismo non solo continua ad esistere, ma negli anni ’80 è stato rilanciato.
Un altro elemento, neanche questo nuovo, è la presenza di un certo antisemitismo nell’estrema sinistra, anch’esso erede di una vecchia tradizione, sia marxista che anarchica; sia in Karl Marx che in Proudhon se ne trovano tracce. Il partito comunista è stato anch’esso talvolta antisemita o ha comunque manipolato l’antisemitismo.
Ecco, tutta questa tradizione ha trovato una nuova edizione nell’identificazione politica alla causa palestinese. Il ragionamento è abbastanza semplice: “Israele è il sionismo, un progetto inaccettabile, la dominazione e la distruzione dei palestinesi, la colonizzazione”, cose peraltro, a mio avviso, in parte condivisibili, ma da qui si fa un passaggio ulteriore per cui lo Stato di Israele e le sue politiche vengono a coincidere tout court con gli ebrei, e di conseguenza tutto quello che tocca ai palestinesi rimanda al male assoluto incarnato dagli ebrei.
In sostanza, per alcuni il punto di partenza è l’antisemitismo, per altri l’antisemitismo è piuttosto un punto di arrivo.
Ha parlato dell’estrema destra, e di una certa sinistra terzomondista. Che ruolo rivestono invece le popolazioni immigrate di origine arabo-musulmana in questo fenomeno?
Allora, premesso che si può essere arabi e non musulmani, come si può essere musulmani senza essere arabi, qui direi che di nuovo l’antisemitismo nasce da un’identificazione alla causa palestinese. Molti di questi giovani immigrati vivono nei quartieri popolari, dove alcuni discorsi trovano terreno fertile: “io immigrato in Francia mi sento trattato come i palestinesi in Medio Oriente”, “io sono vittima del razzismo della polizia come loro dell’esercito israeliano”, “io sono escluso socialmente e vivo in condizioni molto dure, come i palestinesi”. E’ un po’ lo stesso meccanismo: chi domina, sfrutta, disprezza, terrorizza i palestinesi sono gli israeliani, gli israeliani sono gli ebrei…
In Francia, l’aspetto interessante è che, a rigore, questo discorso si sviluppa senza alcun riferimento a degli ebrei reali. E tuttavia non si può negare che il discorso comunitario ebraico oggi pone effettivamente un problema. Il Crif (Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche Francesi), attraverso il suo presidente, ha spesso dato l’immagine di una diaspora francese solidale con il governo israeliano, qualunque cosa esso faccia. Da questo punto di vista, almeno nel caso francese, non è così bizzarro equiparare la critica al governo israeliano a quella agli ebrei nel loro insieme.
Una seconda logica, che è molto diversa, è quella alla Samuel Huntington, ovvero lo scontro tra civiltà, o meglio tra religioni: l’Islam e l’Occidente sono in guerra, io sono musulmano quindi sono in guerra contro l’Occidente. L’Occidente sono gli Stati Uniti, gli Stati Uniti sono governati da degli ebrei, o comunque sono a favore di Israele, di qui l’equazione Israele uguale Stati Uniti. Ecco come viene fuori il discorso antisemita. In questo caso non si tratta di identificazione alla causa palestinese.
Va anche detto che a volte abbiamo una logica senza l’altra, a volte le abbiamo entrambe contemporaneamente. Direi che è questo il nuovo paesaggio.
Dati i cambiamenti delineati, ha ancora senso parlare di antisemitismo o sarebbe più opportuno utilizzare un’altra espressione, come quella di “giudeofobia” coniata da Taguieff?
A me pare che le altre espressioni non siano molto felici. Si è tentato di chiamare questa nuova evoluzione con l’antico termine “antigiudaismo” o appunto “giudeofobia”. Antigiudaismo tuttavia significa che si sta parlando di una religione, e quindi si parte da una definizione restrittiva degli ebrei, perché una grossa parte del mondo ebraico non si definisce affatto in termini religiosi. Non si può insomma ridurre il fatto ebraico al giudaismo. C’è chi propone delle altre parole: giudeicità, giudaismo, ebraicità, ecc…
Poi c’è appunto l’espressione giudeofobia, che è più aperta, ma rimanda comunque alla religione.
A mio avviso però è proprio la parola “fobia” che pone il problema, perché fobia è una cosa molto precisa, che non corrisponde a quello che osserviamo. In questo senso il vocabolario disponibile non è il più felice. E poi io credo che bisogna accettare una cosa: è vero che l’antisemitismo di oggi non è quello che c’era tra le due guerre e tuttavia è comunque l’odio per lo stesso gruppo, e la parola che designa maggiormente questa continuità storica della vittima è antisemitismo.
Si può anche ragionare diversamente, in modo più scientifico: per un sociologo l’antisemitismo è un razzismo, per cui andrebbe analizzato con le stesse categorie che si usano per gli altri razzismi. E tuttavia c’è un tale spessore storico nella vicenda dell’antisemitismo che rende quasi improponibile metterlo sullo stesso piano degli altri razzismi. Ecco perché dico che bisogna conservare la parola “antisemitismo”, anche se il contenuto è cambiato, e l’odio verso gli ebrei non si accompagna a ideologie costruite sull’idea di razza semita, o cose del genere.
C’è un fenomeno apparso recentemente, che complica ulteriormente il quadro, anche se non lo modifica: l’emergere di un razzismo in popolazioni che si definiscono loro stesse per il colore della pelle: i neri…
Si tratta di un fenomeno che non è nuovo, né in Francia né negli Stati Uniti, basti pensare alle dichiarazioni di Louis Farrakhan. Come dicevo, in Francia quello che viene rimproverato agli ebrei è appunto di essere al cuore della nazione, della Republique, della società. Ora però sta emergendo una dimensione ulteriore di quell’accusa che recita più o meno così: gli ebrei non solo sono pienamente riusciti nella loro integrazione, ma impediscono agli altri gruppi di compiere lo stesso percorso.
Questa logica, incarnata dalla figura di Dieudonné, sta assumendo forza soprattutto nel mondo antillese francese, ovvero i francesi discendenti dagli schiavi.
La rivendicazione investe due dimensioni: una “memoriale”, che quindi rimanda alla storia, e una sociale. In base alla prima si accusano gli ebrei di avere un vero monopolio della sofferenza storica, che impedisce a tutti gli altri di fare in qualche modo valere il proprio passato: lo schiavismo, la tratta dei neri, la colonizzazione.
In secondo luogo, si accusano gli ebrei di comportarsi in maniera razzista e addirittura di avere avuto un ruolo centrale nella tratta dei neri. Accusa palesemente falsa, dato che tutte le indagini storiche negano che gli ebrei, o anche “degli ebrei”, abbiano avuto un ruolo in quella vicenda, che tuttavia ha un seguito.
Tra le novità ha citato anche la “globalizzazione” dell’antisemitismo. Può parlarne?
Oggi bisogna parlare di un fenomeno globale, cioè sostenuto da logiche planetarie, che però si installano sulle dinamiche interne di ciascuno Stato nazione. In realtà nemmeno questa è una novità a tutti gli effetti: l’antisemitismo è globale da molto tempo. Le ricerche che hanno indagato l’odio verso gli ebrei nell’antichità lo registravano già in diverse aree.
La globalizzazione è stata promossa dal cristianesimo: l’accusa mossa agli ebrei di essere un popolo deicida è circolata per una tale quantità di tempo da fornirgli una dimensione globale.
Quello che invece è nuovo, utilizzando una definizione non mia, ma di un marxista americano, David Harvey, è che con l’inizio degli anni ’90 si può parlare della globalizzazione come di una “doppia compressione”, del tempo e dello spazio, che investe anche l’antisemitismo.
Un esempio: nei paesi del Medio Oriente si accusano gli ebrei di ogni sorta di nefandezza: i crimini rituali (le vecchie accuse cristiane), il complotto per prendere il potere sul mondo; si recuperano i Protocolli dei Saggi di Sion (un testo inventato dalla polizia dello zar alla fine del XIX secolo); si riprendono argomentazioni di tipo nazista, quindi razziali, sorte in Europa all’inizio del XX secolo, ma anche tematiche negazioniste, per cui gli ebrei avrebbero inventato la Shoah, o comunque manipolata a loro profitto, per rafforzarsi.
Insomma, si prende quello che arriva da ogni parte del mondo e lo si amalgama e tutto questo circola un po’ dappertutto. E’ in questo senso che il fenomeno dell’antisemitismo è globale e non semplicemente locale. Questa è una novità. La domanda è: queste sono logiche che appartengono a una dimensione planetaria che poi prendono corpo nei vari paesi, oppure sono interne a ogni paese?
In Francia c’è stata una recrudescenza di violenze e aggressioni antisemite all’inizio del 2000, in concomitanza con lo scoppio della seconda Intifada. Molti hanno interpretato questo dato sostenendo che l’antisemitismo francese non sarebbe nulla più che la proiezione sul suolo nazionale di quello che succede in Medio Oriente, quindi logiche planetarie. Gli ultimi eventi però non trovano corrispondenza nell’attualità internazionale. Di qui l’idea che l’antisemitismo sarebbe invece l’esito di un disagio sociale, nello specifico, la crisi nelle banlieues, l’esclusione, la povertà…
Ecco, io credo che una buona analisi sia quella che prova a coniugare i due registri, facendoli giocare insieme.
Meno di un anno fa un giovane ebreo, Ilan Halimi venne sequestrato, torturato e infine ucciso da una banda di criminali. E’ stato subito evidente, per quanto se ne sia discusso, che quest’azione aveva una connotazione antisemita perché la vittima era stata scelta in quanto ebrea. I rapitori avevano sequestrato un ebreo certi di avere il riscatto: gli ebrei sono il denaro -un pregiudizio antisemita. E se la famiglia non paga, la comunità pagherà. E infatti i rapitori alla fine hanno chiesto il denaro a una sinagoga, a un rabbino. Tuttavia quest’azione non ha nulla a che fare con la globalizzazione. Si è trattato di un gesto criminale e barbaro interno alla società francese. Allora, da un lato ci sono questi giovani che vedono alla televisione un bambino palestinese trattato in modo inumano dall’esercito israeliano e che poi cercano di incendiare una sinagoga -una proiezione sulla Francia del conflitto israelo-palestinese, quindi logiche globali, mondiali, planetarie. Dall’altro c’è l’affaire Fofana (dal nome del capo della banda), che è proprio un delitto francese. Quindi, di nuovo, possiamo avere l’una o l’altra, ma spesso le due logiche sono legate.
L’emersione di nuove identità ha investito il rapporto con la memoria, la storia, la stessa nazione…
Facciamo qualche passo indietro. Dalla fine degli anni ’60, la Francia, come molti altri paesi, ha conosciuto un “ethnic revival”, una rinascita delle identità. E’ cominciato con le identità regionali, quella occitana, bretone, più tardi quella corsa, con ricadute anche in ambiti inediti. Gli stessi sordomuti si sono “risvegliati” e hanno chiesto il riconoscimento della lingua dei segni diventando a loro volta un movimento identitario. Anche gli ebrei di Francia in quel periodo si sono conseguentemente allontanati dal modello repubblicano classico, ereditato dall’epoca rivoluzionaria e dall’Illuminismo, fondato sull’idea che si potesse essere ebrei in privato ma non in pubblico. In sostanza possiamo dire che a partire dalla fine degli anni ’60 questo modello inizia a scricchiolare aprendo nuovi spazi a queste emergenti identità che fanno appello in primo luogo alla loro memoria.
Aggiungo che non si può capire il risveglio degli ebrei di Francia se non si tiene in considerazione quanto successo durante la Seconda Guerra Mondiale in questo paese: il ruolo della polizia, dello Stato, del regime di Vichy, quindi la messa in causa dello Stato e della storia nazionale.
Gli stessi occitani del resto hanno messo in primo piano il loro essere stati vittime, così i bretoni. Insomma, c’è l’idea che per esistere collettivamente bisogna rintracciare una propria storia specifica, attraverso la memoria.
Negli anni ’80 il fenomeno identitario ha preso un’altra direzione, sostituendo la memoria con l’appartenenza religiosa: l’Islam.
Negli anni sempre più “identità” hanno chiesto un riconoscimento, anche dal punto di vista della memoria, a partire dall’appartenenza a un gruppo che avesse sofferto storicamente a causa della Francia. Talvolta si è chiesto alla Francia di ammettere questa sofferenza anche se causata da un altro Paese. E’ il caso degli armeni, che hanno chiesto alla Francia di riconoscere il genocidio perpetrato dai turchi contro di loro.
Così arriviamo agli anni ’90 e a oggi, con l’emergere di nuovi appelli a memorie e storie fatte di sofferenza, distruzione, sterminio, fino al passato coloniale e allo schiavismo dei neri di Francia. Di qui il dibattito su Napoleone ad Haiti, la tratta dei neri, lo schiavismo, la colonizzazione, la decolonizzazione… Insomma siamo entrati in una situazione in cui sempre di più le radici nazionali, la storia, sono in discussione. Talvolta le rivendicazioni, le affermazioni, sono portate da gruppi che partono da fatti storici molto contestabili, o comunque presentati in modo discutibile, banale, semplificato. Oggi si sente dire che gli antillesi discendono tutti dagli schiavi, che in parte è vero, ma le cose sono molto più complicate. Dopo tutto la tratta dei neri non è “la” tratta dei neri, ma “le” tratte dei neri, e non c’è alcuna ragione per imputare tutte le colpe alla Francia. Il fenomeno ha interessato anche altri paesi d’Europa, Portogallo, Spagna, Inghilterra, come pure alcuni paesi dell’Africa stessa. Se si vuole parlare seriamente di queste tematiche bisognerebbe affidarsi a indagini storiche serie -alcune, per dire, hanno messo in luce anche il ruolo degli africani nella tratta dei neri. Quindi siamo all’interno di un panorama articolato e a tratti scivoloso, specie quando si appella a memorie false.
Abbiamo parlato di Dieudonné. Allora, è ovvio che c’è stato lo schiavismo. Ma il discorso che lui sta portando avanti è assai strano, non corrisponde che molto lontanamente alla realtà. Nella costruzione di una propria memoria e identità, i vari gruppi si appellano a degli intellettuali o pseudo-tali. Ecco, in Francia, più che altrove, tutto questo ha come contraltare la messa in discussione della storia in quanto radice nazionale. Vengono così interpellati coloro che per professione producono la storia, cioè gli storici, ma anche i politici.
La Francia oggi è così costretta a confrontarsi con l’immagine di un paese tutt’altro che glorioso, che anzi ha perpetrato crimini orribili. In passato le nazioni erano incoraggiate a dimenticare i crimini, in particolare quelli fondativi, su cui appunto si erano costruite. Oggi un’altra idea comincia a farsi strada: una grande nazione è tale perché riconosce i suoi torti. Questo ragionamento ha tuttavia dei limiti perché quando si inizia non si finisce più.
Jacques Chirac comunque è stato molto chiaro a questo proposito: la nazione francese per crescere deve riconoscere i torti del regime di Vichy e dello Stato, e la schiavitù. Una posizione inedita rispetto al XIX secolo, quando la bella e grande nazione francese aveva sempre ragione.
In che senso entra in crisi il modello repubblicano alla francese e qual è la posizione degli ebrei?
Tutti questi gruppi rivendicano il diritto di essere riconosciuti pubblicamente, che i libri di storia ne parlino. Queste identità vogliono esistere anche sul piano pubblico, avere mezzi di espressione, risorse, visibilità; non accettano più di essere confinati alla sfera privata.
E’ questo il nodo critico, perché il modello repubblicano francese consiste sostanzialmente nel dire: nello spazio privato fate quello che volete, ma in quello pubblico non ci sono che individui, quindi non ci sono minoranze, gruppi, né particolarismi culturali. Ecco, un’applicazione dura e pura di questo principio non è più accettabile.
Stiamo cioè assistendo alla nascita di quello che io chiamerei un modello “neo-repubblicano”.
E’ in atto una trasformazione del modello repubblicano: questi gruppi si aspettano molto dalla repubblica, ne rispettano pienamente i valori, ma nello stesso tempo vogliono essere riconosciuti come tali.
Qui l’esperienza degli ebrei francesi è molto interessante. I primi ad avere compreso tutto questo infatti sono stati loro. Nel vecchio modello repubblicano si poteva essere ebrei solo in privato. Addirittura non li si chiamava ebrei, bensì israeliti, la parola era scomparsa dal vocabolario. Col tempo però hanno preso le distanze da questo modello e sono diventati visibili, religiosamente, politicamente, nel loro rapporto con Israele, culturalmente, si sono quasi “etnicizzati”. Di qui una rottura con il modello repubblicano classico. Allo stesso tempo -è diventato evidente soprattutto in questi ultimi anni- hanno dimostrato di aspettarsi molto dalla Repubblica.
Quando c’è stato l’omicidio del giovane ebreo Halimi c’è stata una mobilitazione che ha espresso la richiesta alla Republique di garantire la sicurezza e il rispetto dei valori democratici. Dopo una fase di grande presa di distanza, oggi gli ebrei francesi, appellandosi alla Repubblica, stanno contribuendo ad inventare questo modello neo-repubblicano, facendosi di fatto portavoce anche delle rivendicazioni degli altri gruppi.

I diversi silenzi della storia

…La sto­ria non è poi
la deva­stante ruspa che si dice.
Lascia sot­to­pas­saggi, cripte, buche
e nascon­di­gli. C’è chi soprav­vive.
La sto­ria è anche bene­vola: distrugge
quanto più può: se esa­ge­rasse, certo
sarebbe meglio, ma vendette la sto­ria è a corto
di noti­zie, non com­pie tutte le sue vendette.

La sto­ria gratta il fondo
come una rete a stra­scico
con qual­che strappo e più di un pesce sfugge.
Qual­che volta s’incontra l’ectoplasma
d’uno scam­pato e non sem­bra par­ti­co­lar­mente felice.
Ignora d’essere fuori, nes­suno glie n’ha par­lato.
Gli altri, nel sacco, si cre­dono
più liberi di lui. (
E.Montale, Satura)

Nella storia ci sono tanti silenzi, silenzi interessati, silenzi obbligati (dalla mancanza di fonti), silenzi di stato, silenzi di parte/partito/chiesa, ma ci sono anche i silenzi pietosi, quelli necessari a lasciare che la storia vada avanti, oltre quelle “cripte, buche e nascondigli” che Montale ci ricorda.

Di questi silenzi mi sono ricordato nei giorni seguenti dopo la giusta sentenza di non luogo a procedere nei confronti di Giacomo Notari. Chiusa la tragica vicenda dei 20 mesi di occupazione, quando una guerra che ebbe anche caratteri di guerra civile sconvolse il nostro territorio, le comunità locali dovettero ricominciare a vivere, a ricostruire una convivenza che la guerra fascista aveva lacerato. “La storia è a corto di notizie, non compie tutte le sue vendette”. E così fu: la violenza, le uccisioni, le vendette furono l’eccezione. La regola fu la ripresa della vita quotidiana. Il cimitero come luogo comune di dolore. Il lavoro come obiettivo e mezzo di rinascita. Le fratture, gli odi, furono sanati dal bisogno quotidiano di vita, dalla voglia prepotente dei giovani che quella guerra avevano fatto, loro malgrado, ad avere finalmente una vita vera, un futuro. E così è stato. Ma quel percorso è stato reso possibile anche dalla pietà amministrata attraverso il silenzio. I figli dei caduti sono cresciuti insieme agli altri, le solidarietà hanno coperto il dolore. In questo modo le comunità, i paesi hanno ripreso la loro vita, con la consapevolezza e la memoria dell’accaduto ma con quella pietas che ha consentito a tutti un futuro. Così anche i fascisti e i loro figli hanno avuto, com’era giusto, un loro futuro, hanno dato il loro contributo alla crescita collettiva. La pacificazione è stata così realizzata concretamente, ben rappresentata dall’art.3 della Costituzione che faceva di tutti gli italiani cittadini veri e reali, indipendentemente dalle loro idee (e dal loro passato).

Questo patto ha tenuto per oltre mezzo secolo, poi la crisi della Repubblica fondata dai partiti usciti dalla Resistenza ha incrinato l’equilibrio e si sono aperti strappi in quella rete che è la storia. Strappi necessari in certi casi, dolorosi e inutili in altri.

Dopo la vicenda giudiziaria appena conclusa non ho potuto non pensare alla famiglia che quella causa aveva promosso. Spinta da sentimenti pur comprensibili, mal consigliata e peggio assistita, ha ottenuto esattamente l’opposto di quanto sperato e cercato. Il silenzio aveva coperto pietosamente le vicende di quegli anni, lasciandole all’analisi degli storici. Nessuno si sarebbe sognato di riaprire le ferite, pagina chiusa, roba da archivi, fogli poco letti. Invece no. Ora chiunque potrà unire verità storica e verità giudiziaria e ricordare, riprendere, descrivere. L’ideologia che ha guidato questa sterile operazione di rivalsa ha travolto quella pietà, per rialzare bandiere sporche e impresentabili ha strumentalizzato il dolore privato. Forse da quella parte non ci si poteva aspettare altro ma lascia un sapore amaro verificare come, ancora una volta, la strada da percorrere per arrivare ad un paese maturo e “normale” sia ancora tanta.

 

 

Nazisti in Europa, anche in Italia (Stefano Nazzi)

naziisrael.jpgOggi Jena su La Stampa si chiede Perché i nazisti non muoiono mai? La domanda è anche Come possono esistere nazisti in Europa, nel 2012? Eppure ci sono, eccome. Anche in Italia.
Andate a vedere il sito www.holywar.org. Superate il disgusto. Io mi chiedo, e spero di non essere il solo, come fa a restare aperto un sito italiano che pubblica una foto di Elsa Fornero e la definisce “razzista ebrea”. Fini, Bersani, Draghi, Vendola vengono definiti “100 per cento ebrei”. Si parla di “mafia giudaico massonica”, sulla cartina dell’Italia viene disegnata una piovra con la stella di David e disegni che sembrano riportare agli anni Trenta descrivono individui con le bocche insanguinate e naturalmente il naso adunco. Il sito propaganda il Movimento di Resistenza Popolare che, tra l’altro, illustra il suo programma così: «Dovrebbe essere chiaro a tutti i cristiani che se la nostra gente deve essere felice e prospera sarà necessario mettere fine agli esperimenti razzisti-sionisti e ristabilire l’ordine originario cristiano delle cose». Proprio ieri il sito ha pubblicato i nomi di cinque professori universitari toscani accusati di essere “sayanim” cioè, secondo Holywar.org, agenti dormienti al servizio di Israele.
Certo, è probabile che dietro a Holywar.org ci siano solo quattro fanatici semifolli. Sono un po’ più di quattro gatti gli aderenti italiani al gruppo mondiale degli hammerskin. Sono filonazisti, non ci sono dubbi, basta guardare la gallery fotografica del loro sito. È una sorta di setta, i suoi membri si considerano l’élite del movimento naziskin mondiale. Per entrare a farne parte devi essere presentato da qualcuno che è già membro e poi essere sottoposto a un lungo periodo di prova. Solo dopo, se accettato, il nuovo membro avrà il diritto di tatuarsi sul braccio il simbolo dei due martelli.
Di Forza Nuova si è già parlato tanto, loro non diranno mai di essere fascisti né tantomento nazisti. Però si ispirano apertamente al nazista rumeno Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro. Altro punto di riferimento di Forza Nuova è Leon Degrelle, il belga fondatore del movimento Rex che combatté nel contingente vallone della Waffern Ss. Nell’ottobre scorso, per celebrare l’anniversario della marcia su Roma, il movimento Lealtà e Azione aveva indetto a Milano proprio un convegno su Degrelle. Lealtà e Azione fa capo agli hammerskin e aveva una sede in viale Brianza in un locale gestito dall’Aler. Lo spazio era stato concesso dalla ex giunta Moratti al prezzo di 3.300 euro lordi all’anno. Con trattativa privata. Insomma, chi gestiva l’Aler, aveva scelto di fare un bel regalo a un gruppo di nazisti.
Si potrebbe andare avanti a lungo, gli esempi non mancano. I nazisti esistono in Europa, in Francia come in Italia. La cosa grave è che c’è chi li sopporta. E c’è anche chi li aiuta.

http://www.ilpost.it/stefanonazzi/2012/03/20/nazisti-in-europa-anche-in-italia/

Un secolo affondato: quel difficile ‘900

ghiara.jpgPochi giorni fa, discutendo con un rappresentante del Comune, mi è stato detto che le mie critiche erano “superficiali” e “qualunquiste”. Avevo obiettato che nel 2012 il Comune non aveva partecipato ai Viaggi della Memoria e che, Dio non voglia, anche quando andasse in porto il progetto Rota sui Civici Musei, la nostra città non avrebbe un centimetro quadrato di spazio museale dedicato alla storia reggiana nel ‘900. Faccio fatica a capire come dei fatti, reali, verificabili da chiunque, possano essere superficiali o qualunquistici; tali possono esserlo le mie considerazioni al riguardo (per questo chiedo scusa: la prossima volta studierò di più) ma i fatti restano fatti.

Come già scritto su queste pagine il problema è la difficoltà, se non il rifiuto, di confrontarsi con la storia del secolo scorso. Certamente non è questa una novità e non appartiene solo a questa amministrazione che paradossalmente, ma non tanto, condivide questa difficoltà con le precedenti. Parlo di paradosso ma il termine è inadeguato. Partendo da problemi, situazioni, culture opposte ci si è ritrovati-amministrazioni precedenti e attuali- ad avere lo stesso problema di rapporto con quello che la città e il territorio hanno espresso e rappresentato nel ‘900.

Ancora una volta lo spartiacque è il 1989. In una faticosa e affannata riconversione dopo il crollo dell’impero sovietico, con cui i rapporti-seppur indeboliti e sempre più esili-si erano mantenuti almeno fino a pochi anni prima, quelli che erano stati “i comunisti”, per sfuggire all’ingrato ruolo di ex hanno impegnato energie degne di miglior causa nel tentativo di far dimenticare il passato recente e non. Sfumato per motivi giudiziari il fascinoso approdo craxiano agli inizi degli anni ’90 ci si è ridotti alla rincorsa di ogni “novità”, scandita dal periodico mutamento della ragione sociale del “nuovo partito” in cui si agitava qualunque nuova idea di importazione. Si è stati così, stagione dopo stagione, “clintoniani”, “blairiani, “zapateriani”, cercando “terze vie” spesso collocate anche oltre le porte di Tannhauser. Nessuna riflessione, nessuno stop sul mondo nuovo in cui ci si trovava ma solo necessità di andare comunque avanti nella gestione di un potere che, comunque, era rimasto più o meno immutato. A forza di voler essere “qualcos’altro” si è finito per non essere più nulla.

In questo affannoso rincorrere un mondo in tanto  rapido cambiamento come confrontarsi con il ‘900, secolo di sogni e di incubi, di speranza e tragedie, ma soprattutto di costruzione di quel modello emiliano da parte di un partito/chiesa/stato che il 1989 aveva definitivamente cancellato? Si poteva riutilizzare quello che il mondo aveva riconosciuto, come il sistema educativo reggiano (bastava solo tralasciare il fatto che Malaguzzi fosse stato, come tanti, comunista) o si potevano utilizzare i modelli trascorsi nei comizi del 25 aprile ma non andare oltre: si preferì rispolverare miti più tranquillizzanti come il Tricolore e la contessa Matilde. E infatti il Museo della Resistenza sciolto in silenzio alla metà degli anni ’80 venne avvicendato dal nuovo (si fa per dire) Museo del Tricolore. Si metteva in soffitta il novecento per rispolverare parte del secolo dei lumi, tanto preoccupati delle scansioni temporali da far coincidere il termine del nuovo allestimento con la scadenza del primo centenario (1897) e il discorso del buon Giosuè Carducci, giusto alle soglie del tanto preoccupante ‘900.

Missione compiuta, evoluzione terminata, il novecento restava buono per qualche celebrazione, qualche intitolazione di strade e tangenziali mentre la Reggio di Calatrava era lanciata verso il futuro, una città sul modello Pistorius, veloce ma senza gambe, senza memoria.

Dall’altra parte il cambio di amministrazione nel 2004 completa il mosaico di assenze. L’arrivo del primo sindaco cattolico alla guida di una città dove la storia dell’ultimo secolo aveva relegato a ruoli secondari (seppur di altissimo livello come testimonia la breve esperienza dossettiana) quella componente culturale e politica non poteva non avere conseguenze rilevanti ai fini di queste superficiali considerazioni.

Da un lato i nuovi amministratori hanno interpretato il loro arrivo come una “svolta” epocale capace di portare finalmente la città fuori da una situazione cristallizzata operando così un’azione fortemente ideologica e in buona parte controproducente nella costruzione/consolidamento di un consenso in rapida decrescita. Dall’altro, di fronte ad una eredità storica e memoriale che non apparteneva -se non in minima parte-alla loro storia culturale e politica si sono limitati ad assumerne il minimo indispensabile per conservare l’immagine ancora spendibile di città “democratica e resistente” sul piano della comunicazione pubblica (25 aprile, 2 giugno) e per poter gestire i rapporti con una realtà al contrario vitale quale quella espressa dalle tante realtà (Istoreco, Istituto Cervi, associazioni partigiane) attive e radicate proprio in quella storia.

Colpito su entrambi i versanti il ‘900 a Reggio è rapidamente colato a picco e con essa buona parte della nostra storia contemporanea e non, sostituita da una generica attenzione alla “contemporaneità” che ha progressivamente espunto ogni elemento storico e storiografico a favore di una concatenazione di eventi culturali di vario tipo e livello, in bilico fra intellettualismo e provincialismo, che nulla hanno consolidato a livello di strutture.

Con un’espressione superficiale vorrei ricordare che realizzare un luogo di memoria della città richiede una profonda riflessione sul nostro senso di “città”, mancando con tutta evidenza il quale, si è cercato il sotterfugio dell’affidamento all’archistar nel caso dei civici Musei o del totale silenzio/rimozione nel caso della nostra storia nel secolo scorso.

Reggio è forse una delle poche città di medie dimensioni nella quale, per scelta precisa, il Museo della città non si occupa-che in minima parte-della storia della città stesso. Perché, è opportuno ricordarlo, non è solo il ‘900 ad essere assente ma anche gran parte della vicenda storica della città e del suo territorio, almeno dal Medioevo alla fine dell’Ancient Règime. E’ stato questo un progressivo slittamento, un’ “assenza” progressiva realizzatasi nel corso almeno degli ultimi trenta anni nel silenzio generale. E’ questo un elemento degno di qualche riflessione nel momento in cui, al contrario, altre realtà si muovono in altra direzione: è recente l’apertura a Bologna del Museo della città che, per quanto discutibile per più aspetti, segnala un interesse forte alla vicenda storica complessiva di quella comunità. Su altro piano, ma ugualmente da segnalare, è la quasi contemporanea inaugurazione del nuovo Museo Ferrari a Modena mentre si annuncia, proprio nella nostra vicina ex capitale ducale, l’apertura del Centro Immagine e Fotografia che ospiterà le collezioni di Fondazione Fotografia aperta nel 2007.

A Reggio nulla di tutto questo, l’operazione-Reggiane rimane in alto mare, i luoghi di memoria sono (per fortuna) abbandonati al loro destino, sono stati salvati gli archivi più importanti sul territorio ma non c’è nessuna programmazione sul futuro per la loro gestione e valorizzazione. Ci siamo auto-proclamati capitale della fotografia europea ma per un qualunque visitatore che si trovi a passare a Reggio al di fuori del mese di esposizione non esiste alcun luogo che sostanzi quella fantasiosa attribuzione. Come pensare allora a un luogo dedicato alla “Memoria della città”? Utopia o per dirla con Violetta Valery “follia, follia!!”.