No, la valorizzazione no!!! Lasciate in pace S.Tommaso (il carcere non il santo)

Leggo sulla stampa odierna locale (Resto del Carlino) che si torna a parlare dell’ex carcere di S.Tommaso (“Per l’ex carcere c’è l’ipotesi dismissione del Demanio“). Nel quadro delle dismissioni previste nel maxi emendamento del governo (si fa per dire), beni demaniali sarebbero messi in vendita, fra questi il carcere (ora deposito dell’Archivio di Stato) e l’archivio notarile di via Emilia S.Stefano.

Il nostro SonderAssessore Spadoni ci informa che il comune aveva”..inoltrato richiesta di concessione all’ente locale per un progetto di valorizzazione...”.

E qui mi vengono i brividi, giù per la schiena e oltre. No, la “valorizzazione” no, tutto ma la “valorizzazione” no. Cos’è questa “valorizzazione”? Consiglio la lettura del suddetto lemma nel dizionario “Parole e pirlate dell’Italia contemporanea“, edito da Scureletture, Budrio 2011.

Valorizzazione“: s.f. a. Come prendere un bene pubblico e regalarlo ai privati; b. Come prendere un luogo storico e farci outlet, boutique del pene, piadinerie e negozi di calzature; c. Come prendere un luogo storico e di memoria e cancellarlo accuratamente dal patrimonio comunitario.

Il Carcere di S.Tommaso (già convento del Corpus Domini) è l’unico luogo di memoria giunto INTATTO a noi: da lì sono passati i Cervi prima di essere fucilati (la loro cella è ancora come quella mattina del dicembre 1943), tutti gli antifascisti reggiani arrestati negli anni ’30 e ’40, i dieci ebrei reggiani finiti ad Auschwitz furono tenuti lì (e i registri del carcere lo confermano). Davanti al carcere il 26 luglio 1943 la folla chiese e ottenne la liberazione dei detenuti politici. E tutto è-per fortuna-ancora lì. Un luogo di memoria unico, nel centro della città, ci è giunto miracolosamente e che noi che pensiamo di farne? Valorizzarlo???

No. Basta. non ne posso più di queste valorizzazioni. Ci raccontano di sapere, cultura e poi? Appena si diffonde nell’aria il profumo del mattone questi qua vanno in trance, hanno orgasmi multipli e via che partono gli incarichi-progetti a architetti penici e penosi che costano talleri su talleri e rimangono (per fortuna!!) sulla carta. Carte costose, ma meglio carta che cemento, signora mia!!

Vogliamo parlare dei Civici Musei? Dello sventramento operato? Dei dieci anni di cantiere che hanno trasformato il palazzo S.Francesco nella biblioteca di Serajevo? E Dio benedica il patto di stabilità e Tremonti (sfpd) che impedisce che parta il progetto Rota (con funghetti e onanistiche stanze del tempo..).

Valorizzazione? Svendita, cancellazione, lucro.

eingang_dokuzentrum.jpgMa è così difficile capire che un luogo di memoria è una risorsa non solo culturale ed etica ma anche economica? Fatevi un weekend a Norimberga e andate a vedere cos’hanno fatto sui luoghi delle adunate nazi. Pensate quante villette, maisonette, direzionali, outlet, svincoli e rotonde avrebbero potuto metter giù i norimberghesi (roba che Malagodj sarebbe andato a vivere là di corsa..), invece no.

Hanno fatto una VERA scelta di valorizzazione, culturale, etica ed eco-no-mi-ca. Investimento in sapere, luoghi di memoria, centri di documentazione dove migliaia di persone ogni anno vanno (portando eurini). http://www.museums.nuremberg.de/documentation-centre/

Qui si fanno le gallerie commerciali, petali, fiori e genialate varie, loro fanno altro.

Noi, illusi patetici, a Reggio rompiamo i cabasisi da anni per avere la “Memoria della città“, un luogo significativo dove che viene a Reggio possa trovare la nostra storia dell’ultimo secolo. Ogni città europea delle nostre dimensioni l’ha fatto o lo sta facendo. Loro pensano a “valorizzare” con outlet e negozi (senza tener conto del livello da terzo mondo dei nostri commercianti..).

Allora, appello ai potenti: non “valorizzate” S.Tommaso. Lasciatelo lì, con la sua polvere, i suo gatti/topi, le carte d’archivio. NON fate niente, fate finta, lasciatelo sciogliere, crollare dolcemente, tenete fuori le coop, gli immobiliaristi che hanno già devastato tutto. Fategli costruire ancora un po’ negli ultimi prati che restano case che nessuno compra più, ma S.Tommaso lasciatelo stare. Grazie.

p.s. visto che ormai sono vecchio e so come va (male) il mondo, a chi toccherà S.Tommaso lancio la maledizione dell’eremita Gualberto di Monforte (sec.XI): “Che ti si attacchino le dita alla matita che stai temperando nel temperino elettrico e che si temperino indice e pollice fino all’osso, che manchi la luce nel bagno e tu possa scambiare carta vetrata per la morbidosa carta igienica profumata, che tu possa restar chiuso in ascensore per sei ore con un petomane e un fumatore di toscano, che ti giunga alfine il caghetto a spruzzo fulminante mentre stai ascoltando l’ennesima conferenza dell’archistar di turno e-logicamente-la sala conferenze non sia dotata di alcun servizio igienico funzionante“. Amen.

Italo, Alcide e il mito (di Sergio Luzzatto)

Domenica 17 gennaio 1954, un vecchio contadino emiliano entrò nel palazzo del Quirinale per incontrare un vecchio proprietario terriero piemontese che era anche il primo presidente eletto della Repubblica italiana. Il vecchio contadino, Alcide Cervi, portava al petto sette medaglie d’argento, una per ciascuno dei suoi figli caduti nella Resistenza. Il vecchio proprietario e presidente, Luigi Einaudi, teneva a onorare di persona chi aveva pagato un prezzo tanto alto alla liberazione del paese. Poche settimane prima (correva il decimo anniversario della fucilazione dei fratelli Cervi) Einaudi aveva scoperto la figura di Alcide grazie a un articolo pubblicato sulla rivista dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, «Patria indipendente». L’articolo – che sta all’origine di un mito – era stato scritto da Italo Calvino.

Calvino era allora un tipico interprete del “lavoro culturale” svolto per conto del Partito comunista: autore e funzionario della casa editrice Einaudi, fondata vent’anni prima dal figlio del futuro presidente della Repubblica; collaboratore fisso dell’«Unità». Sul giornale di partito Calvino aveva pubblicato, negli ultimi giorni del 1953, un secondo articolo sui Cervi. Per scrivere quei pezzi il trentenne ex partigiano si era recato di persona a Gattatico, nella “bassa” emiliana fra Parma e Reggio. Aveva visitato la fattoria dove i sette fratelli resistenti (e il padre stesso) erano stati catturati dagli uomini di Salò il 25 novembre 1943, un mese prima di essere messi al muro senza processo, per rappresaglia dopo un attentato. Aveva incontrato papà Alcide, «basso e solido e nodoso come un ceppo d’albero»: «il padre scampato al terrore e al dolore», rimasto vedovo subito dopo la morte dei figli. Aveva parlato con almeno una delle vedove dei fratelli, e con la maggiore degli undici orfani, «la ragazza coi capelli rossi che quando i fascisti assediarono la casa aveva nove anni, e adesso ne ha diciannove».

Calvino era rimasto folgorato dalla visita a casa Cervi. Lo si capisce dal tono insieme complice e solenne, familiare e fiabesco, che impronta i suoi articoli del dicembre ’53. Articoli così eloquenti da folgorare – di riflesso – un “padre della patria” che si era imposto all’attenzione dell’opinione pubblica, dopo gli anni della Costituente, come il massimo cantore della Resistenza: il giurista fiorentino Piero Calamandrei. Sulle orme di Calvino, anche Calamandrei aveva visitato casa Cervi. E sulla falsariga degli articoli di Calvino, Calamandrei aveva preparato un discorso in onore di Alcide ch’egli tenne al teatro Eliseo di Roma il 17 gennaio 1954: lo stesso giorno in cui, al Quirinale, il contadino emiliano era stato ricevuto dal presidente piemontese.

Le fondamenta del mito dei fratelli Cervi furono gettate allora, nel mese scarso che separò la pubblicazione degli articoli di Calvino dall’orazione di Calamandrei. Allora prese corpo una sorta di tacita intesa fra il giovane narratore e il maturo giurista, per rappresentare i sette fratelli emiliani come il simbolo uno e plurimo dell’epos resistenziale: eroi degni della voce di Omero, o della penna di Ariosto. Il 12 gennaio 1954, su un cartoncino augurale della casa editrice Einaudi, Calvino si rivolse a Calamandrei come un discepolo al maestro, ma anche come un capostipite all’erede: «Caro professore, le cose che mi scrive sui miei articoli sui Cervi mi fanno molto piacere, soprattutto perché mi sta a cuore che la loro storia sia divulgata e sentita e intesa. Mi dispiace non poterLa sentire, domenica, a Roma. Chissà che cose belle saprà dirne, Lei, che sa ancora parlare di queste cose con parole non logore».

Quanto magnificamente sapesse parlare di queste cose Calamandrei avrebbe dimostrato l’anno successivo, quando celebrò il decimo anniversario della Liberazione raccogliendo in volume i suoi maggiori discorsi e le sue migliori epigrafi di argomento partigiano: Uomini e città della Resistenza valeva da cartaceo monumento ai caduti, e portava al centro il testo dell’orazione romana di Calamandrei. Ma più importanti ancora si rivelarono gli effetti del “lavoro culturale” di Calvino. L’eloquenza dei suoi due articoli sui fratelli Cervi fu infatti tale da spingere i dirigenti nazionali del Pci a lanciare una vera e propria campagna di propaganda, per trasformare i sette figli del cattolicissimo Alcide nella quintessenza del martirologio resistenziale comunista.

Anche il segretario generale del Pci, Palmiro Togliatti, compì (non era la sua prima volta) il pellegrinaggio a Gattatico: incontrò Alcide Cervi il 17 settembre 1954. E la Commissione stampa e propaganda del Pci – dove lavorava un giovane cronista dell’«Unità» che sarebbe divenuto, decenni dopo, un celebre “volto” televisivo: Sandro Curzi – decise di mobilitarsi per allestire un libro di memorie firmato da “papà Cervi”. L’onore toccò a un altro giornalista del quotidiano di partito, Renato Nicolai. Il quale, ricamando ad abundantiam sugli articoli di Calvino, su conversazioni col vecchio Alcide, su interviste con parenti o compaesani, e soprattutto sulle direttive della Commissione stampa e propaganda, produsse per gli Editori Riuniti un volumetto che l’Einaudi rimanda adesso in libreria, corredato da un’introduzione dello storico Luciano Casali. Pubblicato per la prima volta nell’autunno 1955, I miei sette figli fu uno straordinario bestseller. Venne promosso capillarmente presso le sezioni del Pci, fu messo in vendita attraverso un sistema di pagamento rateale, diventò un must nella bibliotechina di ogni buona famiglia comunista. Entro un anno dall’uscita, si calcola che ne fossero state diffuse quasi un milione di copie.

La storia dei fratelli Cervi – aveva detto Calamandrei nel discorso del teatro Eliseo – era talmente meravigliosa da non richiedere alcuna toilette: «Non c’è bisogno di abbellirla. I fatti parlano da sé». In realtà, da Italo Calvino in giù, l’intellighenzia comunista fece di tutto per abbellire una storia certo eroica, ma parecchio complicata. Perché nei due o tre mesi intercorsi fra l’inizio della Resistenza e la loro morte, i sette fratelli Cervi erano stati tutto fuorché altrettante incarnazioni del «rivoluzionario disciplinato», consapevole avanguardia di un «popolo alla macchia». Quando, all’indomani dell’8 settembre 1943, il movimento partigiano si presentava ancora informe, spontaneistico, velleitario, i Cervi si erano dati all’attività di renitenza e di sabotaggio con una convinzione ai limiti dell’incoscienza. Né erano mancate le frizioni fra loro e i dirigenti locali del Partito comunista clandestino, che accusavano i fratelli Cervi di comportarsi da «anarcoidi».

Fu per fare «leggenda» (com’ebbe a dire Calamandrei stesso) che i cantori dell’epos resistenziale trasformarono i fratelli Cervi in icone, quasi in santini. Riconoscendo un massimo di coerenza entro un percorso che era stato, dal cattolicesimo all’antifascismo e dall’antifascismo alla Resistenza, più appassionato che lucido, più coraggioso che accorto. E sottacendo le difficoltà ambientali, gli inciampi militari, l’isolamento politico dei sette fratelli durante la loro breve stagione da partigiani sull’Appennino. Fu per fare leggenda, e fu inoltre per segnalare agli italiani del dopoguerra come la storia della Resistenza nella “bassa” emiliana non fosse affatto riconducibile alla caricatura infamante che andava veicolandone la propaganda anticomunista, tutta impegnata a denunciare i crimini del cosiddetto «triangolo della morte».

Nei dintorni di Reggio Emilia, durante la guerra civile del 1943-45, i partigiani “rossi” erano stati vittime delle belve nazifasciste molto più che carnefici di agnelli innocenti. Era questa la lezione che veniva (e che ancora viene) dalla storia dei fratelli Cervi, fucilati senza processo senza che avessero, loro, mai ucciso nessuno. Era questa la «storia familiare» che per diventare «storia d’Italia» – teorizzò allora Calvino – aveva bisogno di farsi mito.

Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2010

Sergio Luzzatto insegna Storia Moderna all’Università di Torino