Fortezza Bastiani

In morte Cossiga

Nessun onore in quelle armi
di Nicola Fangareggi

L’onore delle armi reso da Prospero Gallinari ed ex compagni di lotta in morte di Francesco Cossiga non fa notizia per i cultori del genere. Il presidente emerito, famigerato “ministro di polizia” del periodo più tragico degli anni di piombo, cercò a lungo occasioni di dialogo con i brigatisti una volta presi e sconfitti e vi trovò soddisfazione, avendo gli uni bisogno dell’altro e viceversa.

La relazione fu durevole e si resse sulla simmetria delle avverse posizioni.
Solitario e ciclotimico, Cossiga dovette convivere senza mai liberarsene col peso dell’assassinio di Aldo Moro, di cui avvertiva la responsabilità morale. La ricerca di contatto con i colpevoli materiali ne fu una conseguenza più o meno conscia di alleviare quel peso.

I superstiti non pentiti della lotta armata tra i quali appunto Gallinari necessitavano di una cornice politica a giustificazione dei molti morti innocenti lasciati sul terreno. Non terroristi ma guerriglieri, e nulla importava se il delirio criminale della rivoluzione proletaria avesse prodotto solo sangue, dolore e lacrime.
Di qui lo speculare equilibrio di cui la lettura mediatica prima ancora che storica si è nutrita nell’arco di un trentennio. Gli ex nemici che fanno pace fanno notizia e abbozzano i contorni di un possibile happy end.

La spettacolare simmetria di interessi si è prolungata nel tempo dando luogo a episodi di regolare impatto scandalistico. Cossiga incontrava la Faranda in tv, stringeva la mano agli ex combattenti riciclati alla vita civile, chiedeva la grazia per Curcio e firmava gli appelli per la liberazione dei cosiddetti “prigionieri politici”.
Vi era nell’azione del presidente emerito un tratto narcisistico che solo le precarie condizioni psicologiche nelle quali per sua stessa ammissione versava potevano giustificare. Il tutto avveniva nel più assoluto spregio della memoria delle vittime e delle proteste dei familiari, come sempre ignorati dalla politica e dai media.

Con il passaggio a miglior vita del presidente emerito il cerchio del teatrino delle illusioni si è chiuso, non senza appunto il suo degno epitaffio. 
Il nostro concittadino a piede libero, sedicente guerrigliero in pensione, si concede il lusso della chiosa in morte dell’antico nemico. Un vezzo da star, in fondo, che esprime a sua volta il narcisismo esasperato di chi per rimuovere i morti ammazzati dalla coscienza rivendica una giustificazione tratteggiata di nobile carica ideale.

Chi abbia avuto curiosità di leggerlo, il Gallinari “contadino nella metropoli” edito quattro anni fa da Bompiani, o di seguirne le non rare esternazioni, ne ha incrociato l’orizzonte circoscritto al confine di un marxismo da scuola elementare. L’assenza di qualsiasi segno di compassione per i morti ammazzati sorprende solo chi sia digiuno di fanatismo vecchio e nuovo.

Muove dunque a notevole ripulsa che quella banda di assassini di poliziotti, magistrati, giornalisti e politici colpevoli solo di appartenere al genere umano e alla società del loro tempo si permetta oggi di “rendere l’onore delle armi” al presunto nemico che fu.
La lotta armata nell’Italia degli anni Settanta non fu rivolta popolare né tantomeno guerra civile. Fu invece il frutto di un delirio di branco fondato sull’odio ideologico e sul terrore pratico al quale la storia non ha concesso prove d’appello. In Italia e nel mondo.

Il signor Gallinari che passeggia oggi placido in via Emilia come un innocuo pensionato deve essere grato a quello Stato che tentò di abbattere col piombo per avergli consentito, malgrado la condanna all’ergastolo, di essere libero dal ’96. Per strada i più non lo riconoscono, lui fa la sua vita e non mi permetto alcun commento.
Tranne che una testimonianza personale. Ogni volta che lo incrocio a passeggio, il Gallinari a piede libero, penso inevitabilmente ai cinque ragazzi della scorta di Moro che alle 9 del mattino del 16 marzo 1978 a Roma egli, vestito da aviatore civile, massacrò a colpi di mitra insieme ai suoi complici (c’era un altro reggiano a sparare, Franco Bonisoli, che credo meriti la citazione).

Chiudo questo articolo ricordando i loro nomi: Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Francesco Zizzi.
E per far capire ai più giovani di cosa si trattò, pubblico anche qualche fotografia di quel massacro, in modo che i lettori possano comprendere il senso di ribrezzo che provo da ieri quando ho sentito parlare di “onore delle armi”.

http://www.reggio24ore.com/Sezione.jsp?titolo=Nessun+onore+in+quelle+armi&idSezione=16497

In morte Cossigaultima modifica: 2010-08-18T18:12:00+02:00da
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