Un fragile antifascismo.

Periodicamente riemergono gesti, comportamenti, affermazioni che testimoniano quanto l’antifascismo sia un fragile e indifeso fiore nelle italiche praterie. Saluti romani, mausolei per generali felloni, magliette saloine e quant’altro provocano brevi fiammate di indignazione e accorate chiamata alle armi di schiere sempre più disperse e divise, piuttosto impegnate a preparare la nuova, inevitabile, vittoria delle destra o del dilettantismo politico stellato.

Antifascismo fragile. Perché. Propongo qualche elemento di riflessione che, spero, sia di qualche utilità.

Il primo è quasi banale. L’antifascismo in Italia è fragile perché…l’Italia è stata fascista.

Fascista per opportunistica convenienza, certo (Longanesi diceva che “Essere fascisti è obbligatorio, ma non è impegnativo”), ma anche per convinzione, perché il fascismo era stato espressione dei tanti difetti e limiti di una nazione ancora giovane e nata su tante contraddizioni (frattura nord-sud, distacco fra Stato e Nazione, una monarchia certo non all’altezza del compito storico di costruire uno Stato moderno, la presenza ostile della Chiesa).

Un’Italia (fascista) che ha vissuto la transizione verso la democrazia sulla base di una sostanziale continuità di apparati dello Stato, istituzioni e uomini.

Un secondo elemento investe direttamente il fenomeno Resistenza. Defunto l’antifascismo degli anni anni trenta, con la firma del Patto Molotov-Ribbentrop, l’antifascismo che è alla base della lotta degli anni 1943-45 viene in qualche modo “reinventato” dagli alleati e facilitato, nello scenario italiano, dall’atteggiamento di collaborazione dell’Urss tradotto nella cosiddetta “svolta di Salerno”. Antifascismo per la prima volta unitario, il contributo degli italiani allo sforzo alleato contro il III Reich.

Ma la Resistenza non fu un fenomeno nazionale, l’avanzata degli alleati nella penisola, se evitò le tragedie dell’occupazione nazista, paradossalmente ebbe un effetto negativo sulla costruzione democratica in quelle zone del paese dove non si ebbe nessuna rottura fascismo\democrazia ma una quasi completa continuità di classi dirigenti, inclusi i rapporti fra Stato-chiesa e criminalità organizzata.

La durata della Resistenza fu quindi, com’era logico attendersi, vincolata all’andamento della campagna d’Italia combattuta dagli alleati. La cronologia rende bene questo dato di fatto. Napoli è liberata alla fine del settembre 1943, Roma il 4 giugno 1944, Firenze nell’agosto, Milano il 25 aprile 1945.

Ampie zone d’Italia che erano state fasciste fino al giorno prima non ebbero la Resistenza a sovvertire l’ordine sociale e politico pre-esistente, a fornire una nuova classe dirigente. L’Italia del “prima” si riversò nel “dopo” come i risultati del referendum del 2 giugno 1946 confermarono, con l’Italia spaccata in due, con un sud ancora monarchico e il nord repubblicano. Per questa parte d’Italia l’antifascismo rimase un fenomeno di minoranze politicizzate, un’eco lontana di fronte al potere reale e presente sul territorio.

Quando poi, nell’Italia della ricostruzione e della guerra fredda, l’antifascismo fu preso-e a buon diritto- come collante identitario dal solo partito comunista (la DC che avrebbe avuto altrettanto diritto di rivendicare la sua attiva partecipazione alla Resistenza scelse la via dell’atlantismo e dell’anticomunismo) si innescò il processo che vediamo oggi giungere alle estreme conseguenze.

Antifascismo come ideologia di parte, geograficamente vincolata e limitata.

Il post 1989 ha poi fatto il resto, la sinistra post-comunista trasformista e incapace di arrivare alla sua Bad Godesberg per ridefinire, finalmente, l’antifascismo nella categoria dell’antitotalitarismo, rialzava bandiere sempre più stanche e sfilacciate di fronte alle vecchie correnti sotterranee che potevano riemergere nel berlusconismo prima e nella polverizzazione degli schieramenti che stiamo vivendo.

Avrebbe potuto essere diversa questa storia dell’antifascismo nazionale? Senza entrare in narrazioni distopiche penso siano state perse varie occasioni per dare qualche possibilità a qualche migliaia di italiani (se non milioni) di sentirsi parte della vicenda storica che ha liberato l’Italia dal fascismo.

Dopo l’8 settembre oltre 600.000 militari italiani finirono prigionieri nei lager in Germania come IMI (Internati militari italiani). Di essi meno del 15% accettò di rientrare in patria aderendo alla RSI (e di questi una percentuale non trascurabile disertò per unirsi ai partigiani). Gli altri rimasero prigionieri. Dissero no. Almeno un 15% di loro morì per le condizioni durissime dell’internamento.

Furono partigiani? No, ma furono resistenti, i primi resistenti. Preferirono la fame, l’odio (per essere nella prospettiva dei tedeschi dei “traditori”) e le botte a proseguire a combattere coi nazisti e fascisti.

Dissero “no” come potevano fare. E lo fecero. Erano ragazzi di tutta Italia, soldati di un esercito nazionale. Quando tornarono in Puglia, Sicilia, Sardegna, Calabria dopo la fine del conflitto, non furono riconosciuti per quello che avevano fatto. Non furono considerati anche loro parte attiva di quella costruzione di una democrazia. Tornarono da sconfitti, vissero in pieno quella “solitudine del sopravissuto nel mondo del ritorno” descritta da Anna Bravo, reduci in un’Italia che voleva dimenticare e ripartire. E il loro fu il silenzio, per quasi tutti durato fino alla loro morte. Storie ritrovate da figli e nipoti, recuperate in solaio dentro a zaini e valigie abbandonate per 60 anni. Ognuno di loro avrebbe potuto essere un elemento attivo di democrazia in tanti parti d’Italia che, oggi lo vediamo, mostrano tutti i loro limiti di consapevolezza culturale ed etica, prima ancora che democratica in senso ampio. Una grande occasione perduta.

La Resistenza armata, l’icona del partigiano armato che scende a liberare le città (tutto vero ma non sufficiente) negli anni della guerra fredda e della monumentalizzazione della guerra di Liberazione poi, ha schiacciato la feconda complessità del fenomeno Resistenza (anzi delle tante Resistenze) che furono il nostro contributo alla vittoria alleata in Italia. Ha relegato sullo sfondo il ruolo femminile, l’azione di salvataggio degli ebrei dalla Shoah, le tante azioni singole e collettive di resistenza civile senza le quali proprio la celebrata resistenza armata non avrebbe potuto attecchire così in profondità in tante zone dell’Italia occupata.

Occasioni perdute in un’Italia che ha dovuto attendere il 24 aprile 1964 perché “Se questo è un uomo” fosse trasmesso per la prima volta alla Radio nazionale, mentre già nel 1957 Gaetano Azzariti (che era stato presidente del cosiddetto “tribunale della razza”, istituita presso il dipartimento di Demografia e razza del ministero dell’Interno nel 1938) diventava presidente della Corte Costituzionale.

E oggi siamo a raccogliere i pezzi, ad accorgerci di quanto sia diventato brutto un paese dove, scomparsi i partiti (che facevano azione se non di educazione almeno di limitazione dei danni) ci attacchiamo a ritornelli un po’ logori, seppur in buona fede.

La scuola…”, vero, bene. Da anni parliamo con gli studenti, ma che fatica qualche decennio fa convincere il partigiano che quello che doveva raccontare in classe non era la storia della seconda guerra mondiale (lui che era arrivato, non per colpa, alla terza elementare) ma la sua vita di ragazzo di 20 in montagna, con la paura, la fame, le speranze di allora. Svolgere a pieno il proprio ruolo di testimone e non di inadeguato insegnante.

E che fatica convincere tanti che “se uno cosa era successa bisognava raccontarla” per superare i silenzi sulla violenza agìta nella resistenza, silenzi che tanto sono costati in termini di percezione diffusa della lotta partigiana.

La scuola. Vero, bene. Ma la famiglia? Che ruolo ha avuto nel formare questa diffusa mancanza di coscienza antitotalitaria? Chi ha formato i genitori ad evitare ragionamenti e pensieri razzisti poi trasferiti sui figli? Paradossalmente sono più “formati” i giovani di vent’anni che i loro padri e madri di quaranta o cinquanta. In oltre quindici anni abbiamo lavorato con migliaia di giovani portandoli nei “Viaggi della memoria” sui luoghi della Shoah e della Resistenza europea. Sono diventati spesso loro i formatori dei loro genitori, spesso consapevoli di quanto non fosse stato loro trasmesso negli anni.

Abbiamo detto della scomparsa dei partiti, o meglio della loro nebulizzazione, conseguenza diretta di non-scelte compiute quando il novecento, “secolo breve”, si concluse con la caduta del muro di Berlino.

Né in mondo dell’associazionismo gode di migliore salute. La stessa Anpi da depositaria di valori con la progressiva scomparsa dei protagonisti si è avviata a divenire una “normale” associazione politico-culturale dove trovano spazio istanze antagoniste, residui di anacronismi storici (come dirsi antifascisti e comunisti oggi?), assumendo ruoli politici nel dibattito nazionale, anziché rimanere la casa di tutti coloro che credono nell’antitotalitarismo di dimensioni almeno europee.

Nessuna conquista è per sempre” si ricorda tante volte e anche l’antifascismo, leggibile oggi solo come antitotalitarismo, deve ritrovare la sua strada, in una foresta sempre più oscura.

Il vecchio pozzo

Lì, sotto i prunus rossi e gialli, c’è il vecchio pozzo. Una cosa senza pretese, un semplice tubo di cemento con qualche filo d’edera arrampicato. Allora un coperchio rotondo di assi di legno inchiodate, oggi un cappello pesante di metallo, di un verde un po’ stinto.

Nemmeno prima che arrivasse l’acquedotto da quel pozzo si attingeva acqua da bere, lo si usava per raccogliere l’acqua piovana che andava ad integrare quella di una piccola falda poco più a monte della casa. Non serviva per l’acqua ma più modestamente come elementare frigorifero. Il padre d’estate teneva in fresco la sua birra, che faceva arrivare chissà da dove, chiusa in bottiglie con quella cosa a scatto basculante che chiamavano “macchinetta”. La birra e qualche panetto di burro, prodotto a pochi metri da lì, nel caseificio di famiglia.

Fine estate 1944, l’Appennino brucia ancora sotto i colpi dell’Operazione Wallenstein, case bruciate, stalle svuotate, bestiame razziato. I figli più grandi, allora ragazzi poco più che ventenni, erano andati fino a Bibbiano, dove nel campo sportivo, trasformato in lager di passaggio, era stato rinchiuso anche lo zio, don Bonini, il parroco di S.Andrea del Castello di Carpineti che aveva visto la sua chiesa colpita dalle cannonate tedesche sparate da Pantano, dall’altra parte della vallata. Era andata distrutta anche la sua canonica e con essa non solo quei bei mobili antichi, lascito di fedeli devoti, ma soprattutto tutti i suoi risparmi, quel sacchetto di “marenghini” d’oro che aveva accantonato per i suoi poveri, una volta che, ormai vecchio com’era, se ne fosse andato. Erano andati a riprenderlo, lui che aveva voluto seguire a piedi nel caldo e nella polvere i suoi contadini catturati, e lo avevano riportato a casa, per consentirgli almeno da lì a poco di arrivare a quella pace che la sua vita di povertà e dedizione gli aveva ben meritato.

La montagna saccheggiata, i partigiani sbandati, il borgo attraversato da soldataglia carica di bottino. In quella casa arrivarono verso l’imbrunire, una giornata calda. Chissà se davvero erano SS, in fondo bastava anche meno per morire in quelle giornate. Qualche parola smozzicata da un ufficiale che, cosa strana in quelle giornate, bussa prima di entrare. Sudato, i capelli biondi rasati corti e un ciuffo. Si siede a tavola e chiede “aqua..”, altri due si fermano sulla porta, un mitra a tracolla, l’elmetto legato al fianco.

Silenzio in casa, le donne si stringono verso il camino, i figli sono nascosti in solaio. Classe 1915 e 1918. Renitenti. Roba da finire contro il muro, quello mezzo intonacato, lì nella piazzetta vicina al voltone.

Il padre fa un cenno, abbozza un saluto all’ufficiale, poi rivolto alla figlia: “Paolina, vai a prendere la birra..”. La ragazza è giovane, ventun anni ancora da compiere, alta, i capelli ondulati. Si muove, fa qualche passo, poi si ferma: sulla porta i due, quasi appoggiati agli stipiti. Sorridono, una parola, due, fra loro, poi si scostano lo spazio appena per farla passare, per sentire da vicino il profumo di quella ragazza. Paolina esce e corre al pozzo, scosta le assi, le bottiglie sono dentro un secchio di lamiera tenuto da un mattone legato alla corda, come contrappeso. Prende le bottiglie ma c’è un altro secchio. Non quello solito del burro, è più in basso. C’è qualcosa di lungo avvolto in tela da sacco, umida. La scosta appena. Sono due canne di fucile, lucide, scure. Due piccoli occhi che la guardano. Per un attimo non respira. Poi, quasi per automatismo, lascia ricadere il coperchio di legno.

Trovare birra in una casa di italiani, gente infida. Chissà cosa avrà pensato quell’ufficiale, ma in guerra tutto può succedere e chiama gli altri due e riempiono i bicchieri. La madre, intanto ha preso del pane dalla madia. Pane e birra, e lo mangiano di gusto e annuiscono con qualcosa sul viso che assomiglia a un sorriso. Il soldato raccoglie anche le briciole e si prendono le due bottiglie vuote. Possono sempre servire con quella chiusura ermetica.

Anche il capo s’è alzato, si riaggiusta il ciuffo e bofonchia qualcosa che sembra un ” ‘giorno”. Sono usciti da qualche minuto prima che qualcuno in casa riesca ad aprire bocca. Passa mezz’ora buona prima che scendano i figli dal solaio. Paolina è ancora nell’angolo dove era tornata, la sorella le stringe un braccio e piange in silenzio.

La madre si muove verso il tavolo, raccoglie i bicchieri e dice al padre che si è quasi accasciato su una sedia: ” Iusfin (Giuseppe), stasera farai a meno della birra..”.

Storie d’Italia: pillole per non dimenticare (2). La nascita di una Nazione.

441px-Camillo_Benso_Cavour_di_Ciseri Camillo Benso Conte di Cavour (1810-1861)

Perché tanta fatica nel ricordare i centocinquant’anni dell’Unità?

L’Unità d’Italia fu un percorso accidentato e difficile, che raggiunse i propri obiettivi in tempi lunghi e differenziati e non solo grazie a una serie di vicende internazionali, ma anche in seguito a compromessi fra le diverse anime e forze che lo ispirarono, compromessi che alla fine fecero sì che ben pochi potessero rispecchiarsi nella nuova Italia con convinta soddisfazione.

L’Italia unita ebbe certamente molti padri, ma alla fine nacque orfana e con qualche nemico di troppo. Il Piemonte, convinto di raggiungere con una serie di annessioni una semplice espansione territoriale, si trovò a dover governare una nazione tanto, troppo eterogenea; i democratici alla Garibaldi e Mazzini si accontentarono, a malincuore, di un’unità al di sotto delle loro aspettative politiche e territoriali; il tutto in un Paese a maggioranza cattolica con la Chiesa come grande avversario di quel processo che si stava compiendo.

Che l’Unità nazionale sia stato un evento sottovalutato dagli stessi protagonisti lo conferma l’atteggiamento di Casa Savoia. Vittorio Emanuele II, divenuto re d’Italia, non sentì la necessità di marcare la svolta decisiva cambiando nome (diventando magari Vittorio Emanuele, re d’Italia), le legislature proseguirono la numerazione progressiva del Regno di Sardegna, una volta conquistata Roma non si pensò a costruire un Campidoglio, una sede per il parlamento del nuovo Stato, ripiegando  sull’infelice sede di Montecitorio. Lo stesso Savoia soggiornò solo per brevi periodi a Roma, risiedendo di mala voglia al Quirinale, un palazzo già appartenuto al papa. Conoscendo la sua passione per la caccia, si cercò di invogliarlo acquisendo la tenuta di Castelporziano, ma anche quello servì a poco. A parte il primo re d’Italia, che morì a Roma nel 1878, dei grandi protagonisti dell’unità nessuno morì nella “città eterna”: Cavour a Torino nel 1861, Mazzini a Pisa (da clandestino) nel 1872, Garibaldi a Caprera nel 1882. 

Perché non c’è una festa nazionale che ricordi l’Unità?

Nel 1861 si decise di festeggiare l’avvenuta unità non con una data propria, magari quella della dichiarazione d’unità (il 17 marzo), ma inglobandola nella festa dello Statuto, nata nel 1851 per ricordare la concessione dello Statuto Albertino. In quella ricorrenza si celebrò così anche l’Unità, posta significativamente in una data mobile, la prima domenica di giugno, per confonderla in qualche modo con una giornata già festiva, a evitare un’eccessiva partecipazione popolare che sarebbe potuta essere occasione di proclamazione delle diverse tendenze politiche e degli ideali che l’Unità aveva solo momentaneamente sopito. Dopo i grandi movimenti popolari del 1848-49 e del 1859-60, la folla nelle piazze faceva paura.

Altre nazioni hanno fatto scelte diverse: gli Usa, oltre al 4 luglio ricorrenza della Dichiarazione d’Indipendenza, nel 1868 decretarono il Memorial Day, per ricordare tutti soldati caduti nelle guerre, la Germania la giornata di Sedan (1871) e la Francia elevò il 14 luglio (presa della Bastiglia) al ruolo di festa nazionale nel 1880.

Mancava quella che Mazzini chiamava la «religione della Patria» e faticò a prendere l’avvio la costruzione di una simbologia nazionale. La figura dello stesso Mazzini ne è un esempio concreto: una statua in suo onore fu deliberata dal Parlamento solo nel 1890 e ci vollero altri cinquant’anni perché fosse realizzata.

Storie d’Italia: pillole per non dimenticare (1)

Inizio a pubblicare qualche “pillola” di storia patria, considerato come spesso accada di leggere notizie imprecise, luoghi comuni, banalità inutili. Le “pillole” sono tratte dal mio volume “Question Time. Cos’è l’Italia? Cento domande (e risposte) sulla storia d’Italia, Aliberti Editore 2011” (ormai felicemente esaurito).

ferdinando_iiFerdinando II di Borbone

È vero che il sud della penisola era al momento dell’Unità più sviluppato del nord ed è stato depredato dai conquistatori piemontesi?

Si tratta di una forzatura che si basa su una visione parziale della realtà economica del Regno delle Due Sicilie. Esistevano certamente manifatture di un certo livello, concentrate in poche zone e difese da una politica economica protezionista. Tuttavia la ricchezza di un paese non è data dalla ricchezza di una singola città o di una singola zona ma dal complesso della sua produzione e delle sue risorse.

In effetti Napoli era una capitale molto più grande e lussuosa di Torino ma era anche la capitale di uno Stato molto più grande del Piemonte sabaudo. Si trattava di uno Stato organizzato in maniera fortemente centralizzata e che tendeva a drenare risorse dall’intero territorio continentale per dirottarle alla capitale. Insomma il Regno delle Due Sicilie era certamente Napoli ed i suoi tanti e ricchi teatri e palazzi ma anche e soprattutto la Lucania, le zone interne dell’Abruzzo, le plaghe lunari e desolate della Calabria, le pianure malariche del Volturno etc.

La situazione dell’Istruzione, della Sanità, delle infrastrutture del Regno delle Due Sicilie era tale che, ancora oggi, alcune delle situazioni più svantaggiate non hanno trovato rimedio. A ciò va aggiunto che, al momento della Spedizione dei Mille, il Regno delle Due Sicilie viveva una gravissima crisi politica e istituzionale alimentata anche dall’indipendentismo siciliano. La crisi fu talmente repentina da sconvolgere gli stessi progetti politici di Cavour che non s’aspettava un crollo dell’intera struttura statale borbonica.

Possiamo dire che l’unificazione fu come un matrimonio, portò benefici (la gran parte) ma anche difficoltà e problemi. Resta comunque in fatto che in un’Europa già dominata dai grandi stati nazionali come Francia Germania e Gran Bretagna i sette piccoli stati italiani preunitari non avrebbero avuto avuto nessuna prospettiva futura se non quella di rimanere protettorati di qualche potenza più moderna e sviluppata. All’influenza austriaca si sarebbe sostituita quella francese (come forse Napoleone III aspirava) o quella inglese al sud, ma senza nessun peso sugli equilibri politici e l’economia continentale, moltiplicando ancora una volta il ritardo già storico nel percorso della modernità.

Ma il sud era davvero così arretrato?

Il ritardo non era solo del sud verso il nord ma anche, e soprattutto nei confronti dell’Europa. Se valutiamo lo sviluppo delle ferrovie, un parametro efficace visto che quantificava la capacità dell’industria pesante, al 1860 il Regno di Sardegna aveva attivato circa un migliaio di chilometri di linee ferroviarie, più di tutti gli altri stati italiani insieme, ma la produzione di ferro e ghisa italiana a quel momento era di sole 60.000 tonn.\anno contro gli oltre 3 milioni della Gran Bretagna, dove già alla metà dell’800 la metà della popolazione attiva era impiegata nell’industria.

Una crescita industriale italiana, possibile solo grazie all’unificazione, prese l’avvio solo a fine secolo con quasi un secolo di ritardo nei confronti dei paesi leader europei (Francia, Germania, Gran Bretagna) e con l’intervento, frequente, proprio di capitale straniero.

Gli stati italiani avevano sviluppato, in vari settori, un numero limitato di imprese che però per dimensioni non potevano competere in alcun modo con quelle francesi o tedesche. Erano imprese protette dai dazi dei singoli stati, il loro mercato era limitato. Avevano buone potenzialità che, quasi sempre, l’unità, per come venne condotta, non valorizzò, anzi  portò al fallimento. Così nel Regno delle Due Sicilie, il primo a costruire una ferrovia (la Napoli-Portici nel 1839) o a istituire un servizio di illuminazione pubblica a gas, era stata aperta una fabbrica metalmeccanica a Pietrarsa con annessa scuola per ferrovieri. E da cantieri borbonici era uscita la prima nave a vapore in servizio nel Mediterraneo. Contemporaneamente però già dal 1816 era stata data in concessione alla Gran Bretagna lo sfruttamento delle miniere di zolfo che rappresentavano il 90% della produzione mondiale (e all’epoca lo zolfo era una risorsa strategica, vista il suo impiego nella produzione di polvere da sparo).

E online tutti diventano storici

Vincenzo Grienti (Avvenire, 19.12.2013

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Nell’era digitale fatta di computer senza fili, tablet e smartphone intelligenti il binomio storia e web potrebbe sembrare anacronistico. Basta invece andare sui principali motori di ricerca e su centinaia di siti per capire che non è così. Il primo viaggio di Cristoforo Colombo alla scoperta dell’America del 1492, la Rivoluzione francese del 1789, la Rivoluzione industriale in Inghilterra così come l’epopea di Napoleone, l’Unità d’Italia e i due conflitti mondiali possono essere riletti, approfonditi e condivisi grazie ai nuovi strumenti del web 2.0 e ai social network.

Dall’enciclopedia online Wikipedia, che ha fatto della partecipazione collaborativa la sua bandiera, ai siti come cronologia.leonardo.it/storia, Dizionario di storia moderna e contemporanea (www.pbmstoria.it), Ars Bellica (www.arsbellica.it) alle centinaia di riviste specializzate pubblicate solo in Rete c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Su YouTube, la principale piattaforma di video sharing, è possibile inoltre visualizzare migliaia di clip, film, documentari in bianco e nero caricati da singoli utenti o da centri studi, enti, istituzioni, testate giornalistiche impegnate nella divulgazione storica. In Italia un’esperienza originale è quella dell’Istituto Luce Cinecittà (www.youtube.com/cinecittaluce) che ha stretto un accordo con Google per rendere accessibile e condivisibile l’immenso patrimonio audiovisivo mentre su www.archivioluce.it viene offerta la possibilità di consultare 200mila schede catalografiche, 4mila ore di filmati, 400mila fotografie, in libera consultazione. Una risorsa indispensabile per studiosi e cultori di storia sono poi gli archivi digitali e le riviste online.

Ne è un esempio il The National Security Archive della George Washington University fondato nel 1985 che, oltre ad essere centro di giornalismo investigativo e istituto di ricerca sulle questioni internazionali, raccoglie e pubblica documenti declassificati degli Stati Uniti. Digitando www2.gwu.edu/~nsarchiv è possibile entrare in una tra le più grandi e aggiornate collezioni non governative del mondo.

È del 4 dicembre la più recente pubblicazione della Relazione sugli archivi di polizia guatemaltechi disponibili in inglese. Scribd.com, invece, è un servizio per la condivisione di documenti e libri in vari formati (Pdf, word, txt). Basta registrarsi e accedere al suo patrimonio digitale scaricabile che mensilmente fa incontrare oltre 50 milioni di utenti per più di 50mila tra libri, relazioni, saggi di storia, articoli, sintesi storiche. Frequentato dal mondo accademico è Academia.edu, dove è possibile trovare pubblicazioni scientifiche. Lanciato nel settembre 2008, conta più di un milione di utenti registrati.

In Italia, tra le poche realtà non governative o statali a rendere disponibili libri, saggi di storia e redirect ad altre biblioteche digitalizzate è la Sism, la Società italiana di storia militare: «Tra i nostri fini statutari – dice il presidente, Virgilio Ilari – c’è quello di promuovere lo studio della storia militare e offrire ai propri soci la pubblicazione gratuita online, sia sul nostro sito sia nei siti open come Scribd, Archive, Academia di articoli e libri approvati da specialisti della materia trattata».

Su www.societaitalianadistoriamilitare.it sono anche scaricabili gratuitamente saggi, relazioni e numerosi volumi di non facile reperimento, perfino risalenti al Cinquecento. Sul fronte universitario meno di un anno fa è nata la rivista Polo Sud di recente è nato un semestrale online redatto da storici del dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania «con l’intenzione di fare incontrare la grande storia con quella locale per cogliere meglio la complessità dei processi storici». spiega Giancarlo Poidomani, docente di storia contemporanea presso l’ateneo catanese. Diretta da Rosario Mangiameli, la rivista può essere sfogliata su www.editpres.it/cms/book/polo-sud-1.
Un’iniziativa nata attorno a uno dei molti periodici di storia specializzati è quella di Storia Doc (www.storiadoc.com), il primo sito italiano dedicato esclusivamente ai documentari di storia. «In streaming sono disponibili biografie, retroscena della storia dell’arte, enigmi storici e processi controversi», sottolinea Fabio Andriola, direttore del mensile Storia in Rete (www.storiainrete.com).

Sulla stessa scia ma con obiettivi più divulgativi è la rivista online InStoria(www.instoria.it), «un progetto editoriale nato per offrire ai suoi lettori alcuni approfondimenti su rilevanti tematiche del nostro presente e del nostro passato», spiega il direttore Matteo Liberti. Storia in Network (www.storiain.net) ha appena rinnovato il proprio sito. Si tratta di un mensile diretto da Alessandro Frigerio giunto al suo 203° numero e rivolto a studenti e appassionati del Novecento e dei secoli passati. Su Facebook e Twitter digitando la parola “storia” nella sezione “cerca” il risultato sono centinaia di pagine fan e microblog di mensili, riviste, canali e trasmissioni televisive e radiofoniche.
È il caso di RaiStoria e History Channel oppure di programmi come La Storia siamo noi della Rai o Quando l’Italia e I militi ignoti della fede di Tv2000.

 

Vincenzo Grienti

Operazione deresponsabilizzazione. A proposito della miniserie “Generation War”

Venerdì 7 e sabato 8 è andata in onda su Rai Tre la miniserie intitolata Generation War sulla Germania nazista.

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di pubblicato sabato, 8 febbraio 2014 ·

Quando nel 2010 si è aperta a Berlino la mostra su Hitler e i tedeschi (HitlerunddieDeutschen) sono andata a vederla: era la prima volta che in Germania si organizzava una cosa del genere. I giornali ne avevano parlato un sacco: “i tedeschi fanno i conti con il consenso”, avevano scritto, e io pensavo “alla buon’ora”. Avevo da poco scritto un documentario per Rai Tre sulla medicina nazista e mi aveva colpito notare come, a differenza dell’Italia, gli archivi audiovisivi tedeschi fossero male organizzati, sintomo anch’esso, pensavo, di una rimozione collettiva oscurata, nella consapevolezza pubblica, da decine di serie Tv autoprodotte sul Terzo Reich. Non mi aspettavo dunque granché da questa mostra ma quello che ho trovato era davvero al di qua di ogni mia aspettativa: su Unter der Linden non c’erano indicazioni esterne, il viale delle parate di Hitler doveva rimanere spoglio di ogni simbolo nazista, seppure funzionale alla mostra, che era nascosta nel seminterrato del DeutschesHistorischesMuseum. Per trovarla bisognava davvero cercarla, non c’era la possibilità di entrare nel museo per un’altra cosa e dire “toh adesso me la guardo”. Solo chi sapeva, chi aveva letto i giornali, poteva decidere di andare a vederla. La mostra era povera, quaderni, lettere, che denunciavano l’amore dei tedeschi per Hitler: bella scoperta, e in più una premessa, Hitler era amato anche perché mentiva e i tedeschi non sapevano quello che faceva, soprattutto dopo l’inizio della guerra quando le peggiori atrocità si erano spostate sul fronte orientale. Una mostra sul consenso con queste premesse, il consenso estorto con l’inganno, bel punto di arrivo dopo sessant’anni di pedagogia antinazista e ricerca storiografica, una mostra inutile dunque? Ripenso a questa domanda che mi ero fatta allora guardando le tre puntate di Generation War, in onda stasera su Rai Tre: miniserie tedesca prodotta da ZDF, diffusa in Germania nel marzo 2013 e negli Stati Uniti pochigiornifa.

Perché Generation war arriva alla stessa conclusione: Hitler ha tradito il popolo tedesco, che ha creduto in lui in buona fede; Unsere Mutter, unsere Vater, le nostre madri, i nostri padri richiamati dal titolo originale della miniserie, hanno avuto colpe, sembrano dirci gli autori, ma sono colpe che hanno espiato, e la vicenda dei cinque giovani protagonisti della serie è, in questo senso, paradigmatica.

La trama. Estate 1941. La Germania ha appena l’invaso l’Unione Sovietica, e cinque amici si incontrano per l’ultima volta in un locale di Berlino, sono Wilhelm (Volker Bruch) patriottico e convinto che la guerra finirà in un lampo; suo fratello Friedhelm (Tom Schilling), intellettuale e pacifista ma costretto a partire per il fronte. Charlotte (Miriam Stein) che non vede l’ora di raggiungere l’Unione Sovietica per prendere servizio come infermiera, rappresentando in questo suo slancio tutte le donne tedesche, come lei stessa dichiara; Greta (Katherina Schüttler) vuole diventare la nuova Marlene Dietrich, è innamorata di Viktor (Ludwig Trepte) ebreo, e per salvarlo diventerà l’amante di un nazista. Ma la storia ancora è agli inizi, e tutti sperano di ritrovarsi a Berlino per Natale. Non andrà così.

Wilhelm, Friedhelm e Charlotte sono la quintessenza di quello che per gli autori doveva essere la gioventù nazista: cresciuta a pane e Hitler eppure in grado di provare sentimenti, sono i padri e le madri richiamati nel titolo. Hanno un cuore al punto tale da avere nella loro cerchia ristrettissima un ebreo: Viktor Goldstein, figlio di un sarto reduce della prima mondiale, ancora convinto, nel 1941, che cucirsi la stella gialla sulla giacca sarà per gli ebrei un bene e non la fine.

I tre giovani “ariani” partono per il fronte, Greta e Viktor rimangono insieme a Berlino, ma per poco, la stretta antisemita si fa più feroce e Goldstein decide di fuggire negli Stati Uniti: per aiutarlo Greta diventa l’amante di un nazista che a sua volta le promette di farla diventare una cantante famosa. Ma le vite dei cinque amici continuano a incrociarsi per tutta la durata della guerra: si incontrano ogni tre per due, negli ospedali militari in Unione Sovietica, sui campi di battaglia, perfino nei boschi, come ha notato anche David Demby sul New Yorker “The Germans invaded the Soviet Union in June, 1941, with more than three million men, yet these five people keep bumping into one another on the Eastern Front as if they were crisscrossing a large fairground”. Comunque, malgrado questo ottimismo psicogeografico, niente andrà come da loro previsto o sperato, e le tre puntate (due nella versione distribuita negli Usa e in Italia) sono una lenta discesa agli inferi, da dove non c’è ritorno. Solo tre sopravviveranno, fantasmi, in una Germania distrutta, nella quale i nazisti si ricicleranno senza problemi anche grazie all’aiuto degli americani (non dimentichiamo questo punto).

Le reazioni. In Germania la serie è stata accolta con entusiasmo: i quotidiani sono tornati a discutere delle “persone normali” coinvolte, loro malgrado, nella guerra e nello sterminio degli ebrei. Il quotidiano DerSpiegel ha scritto che Unsere Mutter, unsere Vater è un punto di svolta nella rappresentazione audiovisiva della guerra poiché mostra senza alcuna reticenza scene di violenza tradizionalmente censurate dai media tedeschi: e in effetti la ferocia del conflitto sul fronte orientale è resa molto bene da un punto di vista televisivo, anche grazie al fatto che la fiction è costata 14 milioni di euro, ed è un esplicito omaggio a Spielberg e al suo Saving Private Ryan. La fattura è stata elogiata anche dalla stampa anglosassone, ma se gli inglesi sono stati per lo più entusiasti della miniserie, gli americani hanno espresso maggiori perplessità che si riassumono perfettamente nella frase di Adam Kirsch “The manipulation of sympathy, the defiance of historical realities, the insistence on showing the exception rather than the rule: these are practically requirements when it comes to making a middlebrow war movie. America has made plenty of them; but when the Germans do it, the rest of the world has a right to be concerned” (il resto dell’articolo qui). E qui sta il primo punto critico, percepito anche da molti osservatori sui social network, ovvero: possono i tedeschi romanzare il proprio passato, possono portare sullo schermo l’eccezione e non la regola? Sicuramente ci saranno stati uomini e donne simili a quelli raccontati nel film, ma narrare la loro storia insegna qualcosa, è giusto?.

LaurenceZuckerman, sul New York Times, ha scritto una lunga riflessione sulla serie tedesca GenerationWarShowsNaziMassKillersWithLoveinTheirHearts mettendo in rilievo come i personaggi protagonisti siano assolutamente poco realistici, mentre, afferma Zuckerman, ormai le ricerche hanno dimostrato che “Were there any good Germans during WWII? Over the past two decades, the odds have narrowed. “No serious scholar has attempted to argue that ordinary German men did not become mass killers,” Holocaust historian Christopher R. Browning wroterecently, “or that the Wehrmacht—the institution shaping the experience and behavior of by far the largest groups of Germans in World War II—was not heavily implicated in Nazi criminality.” Ma, aggiunge, a lui Generation war è piaciuta: “Which makes the following fact deeply uncomfortable: I enjoyed watching the series immensely. As entertainment, it is at turns enthralling, horrifying, and moving. The acting is first-rate, and the work has a very strong antiwar message. I even found myself tearing up at times”. In effetti ha ragione, anche se io non mi sono mai commossa.

Perché farla?. A questa domanda risponde la Suddeutsche Zeitung quando, all’uscita del film, nel marzo del 2013, scrive: “la fiction offre la prima e ultima possibilità per la generazione che ha oggi sui trent’anni di chiedere conto ai propri nonni delle proprie biografie reali, i loro compromessi immorali, le possibilità mancate di agire per il bene, insomma ogni singolo comportamente che, moltiplicato per milioni di persone, ha portato il paese alla catastrofe”. Il regista Philipp Kadelbach, e lo sceneggiatore, Stefan Kolditz, hanno dichiarato che loro intenzione era quella di stimolare un dibattito fra generazioni e infatti dopo la messa in onda i talk show sono stati popolati per giorni da vecchissimi sopravvissuti che hanno condiviso le loro memorie personali. Un fenomeno, questo, che l’Italia ha conosciuto nel 1994, con la messa in onda della controversa serie Combat Film: allora come oggi dare la voce a chi aveva aderito al totalitarismo suscita indignazione da un lato, pone nuovi problemi rispetto al ruolo giocato dai media nella costruzione di un senso del passato che risponde più alle esigenze del presente che non a quelle della ricerca storica, per cui in Generation war, come in Combat film, si sdogana in modo definitivo l’idea che i morti, alla fine, sono tutti uguali. Così, tornando alle intenzioni del regista e dello sceneggiatore, questo bisogno di domandare ai propri padri, ai propri nonni, è lo specchio entro il quale leggiamo oggi quel passato che non passa di cui in Germania si discute almeno dai tardi anni Settanta: e infatti era dai tempi di Holocaust e poi di Heimat che un prodotto per la Tv non suscitava un dibattito simile. E dunque come nel caso di Heimat e di ogni prodotto culturale, ci parla molto di più del tempo in cui viene prodotto che del periodo di cui parla: come ha scritto A. Scott su The New York Times: “As the Second World War slips from living memory, as Germany asserts its dominant role in Europe with increasing confidence, and as long-suppressed information emerges from the archives of former Eastern bloc countries, the war’s cultural significance for Germans has shifted” (qui)

Madri e padri. Eppure il cinema tedesco non è nuovo a questo tipo di analisi, e la “scoperta” del rapporto padri figli, la necessità di fare domande, l’urgenza di farle prima che tutta la generazione coinvolta nel nazismo scompaia per sempre, appare tristemente retorica e fuori tempo massimo se si pensa a episodi come il dialogo con la madre di Fassbinder in Germania in autunno (Deutschland im Herbst 1978), o quella di Von Trotta in Anni di piombo (Die bleierne Zeit, 1981) per citare soltanto i più eclatanti. E’ stata Renate Siebert, fra gli altri, a tematizzare il rapporto fra generazioni da un punto di vista storiografico in un’ottica soggettiva. Nei suoi racconti autobiografici racconta delle sue esperienze di militanza e di studio all’Università di Francoforte, presso l’Istituto diretto da Adorno. “La tragicità della situazione che vivevano i ragazzi e gli adolescenti in Germania negli anni ’50 e ’60, a pochi anni dalla sconfitta del nazismo, quando non c’erano punti di riferimento tra gli adulti, non si parlava degli orrori del nazismo e dell’olocausto (ci si limitava a sussurrare: “noi non lo sapevamo”). Le violentissime discussioni con gli adulti, il vergognarsi di essere tedeschi”. Tutte questioni che dovrebbero essere dunque, ormai, superate, sia dal cinema che nel dibattito pubblico. Ma evidentemente non è così. Generation War fa tabula rasa di tutto questo lavoro critico e rovescia i termini della questione: la soggettività in crisi è quella dei padri, non dei figli per i quali “comprendere” ad ogni costo diventa un imperativo categorico. La pietà che si prova verso di loro dunque, finisce per essere (quasi) la stessa che si prova verso i cittadini ebrei dell’Unione Sovietica, se non maggiore: loro infatti, i cinque protagonisti, i padri, li conosciamo bene e pure se uno di loro è ebreo la sua guerra sembra una passeggiata in confronto a quella degli amici che combattono nella Wermacht. Prevale dunque un sentimento di cristiana pietà, un universale pacifismo, che nasconde ogni specifica responsabilità nella notte in cui tutte le vacche sono nere.
La fine. Sopravvivono in tre. Uno di loro riconosce in un ufficio alleato, nella Berlino occupata del 1945, un ex comandante nazista: lavora per gli Americani. Anche il futuro, dunque, è ipotecato. Forse il momento più sincero dell’intera narrazione, quello nel quale, al bisogno di comprendere i padri, subentra l’impossibilità di giustificarli. L’unico, ma anche solo per questo la fiction merita di essere guardata e discussa, perché nelle pieghe della burocrazia statale, in Germania come in Italia, rimangono nel dopoguerra le tracce più importanti dei regimi dittatoriali. Una storia ancora troppo poco raccontata, che Generation War ha il merito di ricordare.

in: http://www.minimaetmoralia.it/wp/operazione-deresponsabilizzazione-a-proposito-della-miniserie-generazion-war/

Antifascismo oggi, ancora?

resistenza23_img.jpgViviamo in un paese strano e lo sappiamo, una paese, per fortuna inserito nella buona vecchia Europa, in cui accade che una amministrazione pubblica (Regione Lazio) finanzi un mausoleo dedicato a un criminale di guerra o che il presidente della Camera di Commercio di Forlì proponga di intitolare il locale aeroporto non ad Eulalia Torricelli ma a Benito Mussolini. Per non dire poi di Predappio dove da anni, sotto amministrazioni “democratiche” si assiste a sfilate, inni, camicie nere e fez intorno alla tomba del caro estinto, all’insegna dell’antico “pecunia non olet”.

Cose inconcepibili in paesi come Francia e Germania (provate ad andare in piazza a Monaco, alzare il braccio teso e gridare “Sieg Hiel!” e poi vedrete…). Qui è diverso.

Accadono questi episodi (ultimo in ordine di tempo la folla di saluti romani alle esequie di Rauti, amen) ed ecco, comprensibile reazione, spuntare comunicati di protesta, inviti alle autorità ad intervenire e simili. Bene, ottimo, ma forse non basta.

Non mi interessa, per ora, ragionare sul (neo)fascismo, preferisco fare qualche considerazione sulla “nostra” parte, quella antifascista.

Nel Documento redatto da ANPI e Istituto Cervi nel luglio scorso si parla di “un nuovo impegno e una nuova cultura antifascista”. Bene, partiamo da qui. Prima osservazione logica (e domanda): se ci vuole una nuova cultura antifascista è lecito pensare che quella “vecchia” non sia più adeguata. Bene, quale cultura vogliamo proporre per il futuro?

Seconda osservazione (e domanda): gli episodi sopra riferiti e cento altri, piccoli e grandi, ci fanno porre una domanda forse spiacevole ma reale dalla quale non si può sfuggire:perchè l’Italia non è antifascista? Perchè l’antifascismo non è diventata la koinè culturale della Repubblica?

Ipotizzo, fra le tante, quattro risposte:


  1. Perché l’Italia è stata fascista, il fascismo ha saputo costruire un consenso, forgiare una cultura e una mentalità che si sono saldate con radici e legami profondi nella storia italiana. Alla vigilia dell’entrata in guerra l’antifascismo italiano ed europeo erano stati sconfitti, dalle politiche dei regimi e dall’accordo Molotov-Ribbentrop che aveva sancito l’allenaza fra nazismo e stalinismo. L’antifascismo viene “reintrodotto” dagli alleati dopo il 1942 come collante ideale nella lotta alle potenze dell’Asse. Residuale in Italia, paese invasore e poi sconfitto, l’antifascismo “seconda versione” e la Resistenza sono giocati come “alibi” per far dimenticare all’esterno, come all’interno, quanto noi italiani avevamo fatto nei vent’anni di regime.

  2. Perché la Resistenza non è stata un fenomeno nazionale, nè da un punto di vista geografico (il sud è stato liberato dagli alleati prima che potesse nascere un movimento di resistenza) che numerico (l’Italia non è stata l’Emilia e la stessa Emilia non è stata Reggio e Modena).

  3. Perchè nel dopoguerra si è scelto di valorizzare/mitizzare la figura del partigiano combattente e non si sono valorizzate le altre “Resistenze”, prima fra tutte quella degli internati militari in Germania, i primi a dire “no” a Salò e a resistere nei lager. E fra quei primi resistenti c’erano italiani di tutte le regioni, sud e isole comprese.

  4. Perché la transizione fascismo-democrazia si è svolta nella continuità di strutture, apparati e quindi di uomini, funzionari, magistrati, carabinieri passati indenni, o quasi, dal fascismo a Salò alla Repubblica. Il primo presidente della Corte Costituzionale che succedette a De Nicola nel 1957 fu Gaetano Azzariti che era stato Presidente del Tribunale della Razza dal 1938 al 1943, dopo essere stato fra i firmatari del Manifesto della Razza. Al luglio 1960 i 34 dei questori in servizio provenivano dall’Italia fascista o da Salò.

  5. Perché l’antifascismo italiano del dopoguerra è stato un fenomeno di parte che ha coinciso, dopo la scomparsa del Partito d’Azione, in buona parte, con il PCI,  che doveva scontare la zavorra, in termini di credibilità democratica, dei suoi legami con uno stato dittatoriale come l’URSS.

In questo difficile contesto non stupisce la progressiva marginalità dell’antifascismo. Nell’Italia della guerra fredda il partito di maggioranza relativa (DC) scelse altri valori di riferimento, come il filo-atlantismo e l’anticomunismo, relegando ai margini il ricordo della sua partecipazione alla Resistenza (il primo democristiano partigiano a divenire segretario del partito fu Zaccagnini nel 1975 e i ruoli rilevanti svolti da Taviani erano legati alla sua indiscussa fedeltà alla NATO).

L’antifascismo in Italia nel corso della guerra fredda rimase patrimonio di una parte politica e non ebbe capacità inclusiva.

Dopo la caduta del Muro di Berlino anche sull’antifascismo, come sulle altre basi ideali della “sinistra” non fu aperta alcuna riflessione. Scomparso il Pci, i partiti che seguirono preferirono cambiare più volte nome e simboli (mantenendo rigorosamente lo stesso personale politico) senza porsi il problema di cosa mantenere (e cosa abbandonare) di quello che era stato il sistema di valori fino a quel punto.

E mentre gli storici, di fronte anche al nuovo contesto europeo -dove nei paesi dell’est sovietico l’antifascismo era stata la ideologia ufficiale di uno stato dittatoriale- ricostruivano le vicende storiche dei vari “antifascismi” che si erano succeduti in Europa fra gli anni venti e la fine della guerra fredda e richiamavano la necessità di una riformulazione del concetto stesso di antifascismo, nella grande crisi di avvio della seconda repubblica l’antifascismo diveniva qualcosa-nel dibattito politico-di scomodo e ingombrante da rimuovere al più presto. Per far dimenticare di essere stati comunisti si decise che non esistevano più i fascisti e quindi perchè parlare ancora di anti-fascismo? Se si poteva invitare Fini alla Festa dell’Unità che senso aveva utilizzare quel vecchio residuo ideologico?

E così, acriticamente, si è superato un nuovo passaggio semplicemente aggirando la questione senza risolverla, nessuna citazione di antifascismo nello statuto del nuovo partito nato dalla fusione delle anime principali della Resistenza ma, paradossalmente, punto di riferimento per quei partiti dell’estrema sinistra che facevano (e fanno) riferimento al comunismo realizzato nell’esperienza dittatoriale dell’URSS.

Nuova cultura antifascista si richiede oggi (comprensibilmente) ma quali sono gli ambiti, i territori entro cui operare? Si può essere antifascisti e inneggiare al regime castrista di Cuba? Il termine antifascista non dovrebbe contenere al suo interno come elemento decisivo il concetto di “antitotalitarismo” riprendendo in questo il senso più completo dell’antifascismo degli anni venti e trenta, avverso ai regimi fascisti come allo stalinismo comunista? Se la nostra Costituzione è, come è, realmente antifascista (e antitotalitaria) la risposta è già data, ma si deve avere il coraggio di uscire dagli equivoci, anche se motivati da antichi e nobili (per l’Italia almeno) legami con l’esperienza comunista del secolo scorso.

Un’ultima osservazione che potrebbe superare, almeno nominalisticamente, il problema: e se abbandonassimo il prefisso anti- che in qualche modo definisce una identità culturale e politica contro qualcosa e qualcuno? Noi esistiamo anche senza i fascisti, siamo portatori di idee e valori “per”, non abbiamo bisogno di loro. Non basterebbe dire “costituzionali”?

Patria e Onore….

Quel mausoleo alla crudeltà
che non fa indignare l’Italia
Il fascista Graziani celebrato con i soldi della Regione Lazio

patria-onore_b1--180x140.jpgIl mausoleo costruito per Rodolfo Graziani ad Affile, in provincia di Roma, sul quale dominano le scritte ‘Patria’ e ‘Onore’, capisaldi del fascismo.
«Mai dormito tanto tranquillamente », scrisse Rodolfo Graziani in risposta a chi gli chiedeva se non avesse gli incubi dopo le mattanze che aveva ordinato, come quella di tutti i preti e i diaconi cristiani etiopi di Debra Libanos, fatti assassinare e sgozzare dalle truppe islamiche in divisa italiana. Dormono tranquilli anche quelli che hanno speso soldi pubblici per erigere in Ciociaria un sacrario a quel macellaio? Se è così non conoscono la storia.
Rimuovere il ricordo di un crimine, ha scritto Henry Bernard Levy, vuol dire commetterlo di nuovo: infatti il negazionismo «è, nel senso stretto, lo stadio supremo del genocidio». Ha ragione. È una vergogna che il comune di Affile, dalle parti di Subiaco, abbia costruito un mausoleo per celebrare la memoria di quello che, secondo lo storico Angelo Del Boca, massimo studioso di quel periodo, fu «il più sanguinario assassino del colonialismo italiano». Ed è incredibile che la cosa abbia sollevato scandalizzate reazioni internazionali, con articoli sul New York Times o servizi della Bbc,ma non sia riuscita a sollevare un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica nostrana. Segno che troppi italiani ignorano o continuano a rimuovere le nostre pesanti responsabilità coloniali.

Francesco Storace è arrivato a dettare all’Ansa una notizia intitolata «Non infangare Graziani» e a sostenere che «nel processo che gli fu intentato nel 1948 fu riconosciuto colpevole e condannato a soli due anni di reclusione per la semplice adesione alla Rsi». Falso. Il dizionario biografico Treccani spiega che il 2 maggio 1950 il maresciallo fu condannato a 19 anni di carcere e fu grazie ad una serie di condoni che ne scontò, vergognosamente, molti di meno.

È vero però che anche quella sentenza centrata sul «collaborazionismo militare col tedesco», era figlia di una cultura che ruotava purtroppo intorno al nostro ombelico (il fascismo, il Duce, Salò…) senza curarsi dei nostri misfatti in Africa. Una cultura che spinse addirittura Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti (un errore ulteriore che ci pesa addosso) a negare all’Etiopia l’estradizione di Graziani richiesta per l’uso dei gas vietati da tutte le convenzioni internazionali e per gli eccidi commessi e rivendicati. E più tardi consentì a Giulio Andreotti a incontrare l’anziano ufficiale, in nome della Ciociaria, senza porsi troppi problemi morali.

Il sito web del comune di Affile dedica una pagina a Rodolfo Graziani ‘figura tra le più amate e più criticate a torto o a ragione’
Allora, però, nella scia di decenni di esaltazione del «buon colono italiano» non erano ancora nitidi i contorni dei crimini di guerra. Gli approfondimenti storici che avrebbero inchiodato il viceré d’Etiopia mussoliniano al suo ruolo di spietato carnefice non erano ancora stati messi a fuoco. Ciò che meraviglia è che ancora oggi il nuovo mausoleo venga contestato ricordando le responsabilità di Graziani solo dentro la «nostra» storia. Perfino Nicola Zingaretti nel suo blog rinfaccia al maresciallo responsabilità soprattutto «casalinghe».
Per non dire dell’indecoroso sito web del Comune di Affile, dove si legge che l’uomo fu una «figura tra le più amate e più criticate, a torto o a ragione» del periodo fra le due guerre e un «interprete di avvenimenti complessi e di scelte spesso dolorose». Che «compì grandiosi lavori pubblici che ancor oggi testimoniano la volontà civilizzante dell’Italia». Che «seppe indirizzare ogni suo agire al bene per la Patria attraverso l’inflessibile rigore morale e la puntigliosa fedeltà al dovere di soldato».

«Inflessibile rigore morale»? «Rodolfo Graziani tornò dall’Etiopia con centinaia di casse rubate e rapinate in giro per le chiese etiopi», racconta Del Boca. «Grazie a lui il più grande serbatoio illegale di quadri e pitture e crocefissi della chiesa etiope è in Italia». Certo, non fu il solo ad avere questo disprezzo per quella antichissima Chiesa cristiana fondata da San Frumenzio intorno al 350 d.C. Basti ricordare le parole, che i cattolici rileggono con imbarazzo, con cui il cardinale di Milano Ildefonso Schuster inaugurò il 26 febbraio 1937 il corso di mistica fascista una settimana dopo la spaventosa ecatombe di Addis Abeba: «Le legioni italiane rivendicano l’Etiopia alla civiltà e bandendone la schiavitù e la barbarie vogliono assicurare a quei popoli e all’intero civile consorzio il duplice vantaggio della cultura imperiale e della Fede cattolica ».

Fu lui, l’«eroe di Affile», a coordinare la deportazione dalla Cirenaica nel 1930 di centomila uomini, donne, vecchi, bambini costretti a marciare per centinaia di chilometri in mezzo al deserto fino ai campi di concentramento allestiti nelle aree più inabitabili della Sirte. Diecimila di questi poveretti morirono in quel viaggio infernale. Altre decine di migliaia nei lager fascisti.

E fu ancora lui a scatenare nel ’37 la rappresaglia in Etiopia per vendicare l’attentato che gli avevano fatto i patrioti. Trentamila morti, secondo gli etiopi. L’inviato del Corriere, Ciro Poggiali, restò inorridito e scrisse nel diario: «Tutti i civili che si trovano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente con i sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada… Inutile dire che lo scempio s’abbatte contro gente ignara e innocente».

I reparti militari e le squadracce fasciste non ebbero pietà neppure per gli infanti. C’era sul posto anche un attore, Dante Galeazzi, che nel libro Il violino di Addis Abeba avrebbe raccontato con orrore: «Per tre giorni durò il caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano».

Negli stessi giorni, accusando il clero etiope di essere dalla parte dei patrioti che si ribellavano alla conquista, Graziani ordinò al generale Pietro Maletti di decimare tutti, ma proprio tutti i preti e i diaconi di Debrà Libanòs, quello che era il cuore della chiesa etiope. Una strage orrenda, che secondo gli studiosi Ian L. Campbell e Degife Gabre-Tsadik autori de La repressione fascista in Etiopia vide il martirio di almeno 1.400 religiosi vittime d’un eccidio affidato, per evitare problemi di coscienza, ai reparti musulmani inquadrati nel nostro esercito.

Lui, il macellaio, quei problemi non li aveva: «Spesso mi sono esaminato la coscienza in relazione alle accuse di crudeltà, atrocità, violenze che mi sono state attribuite. Non ho mai dormito tanto tranquillamente ». Di più, se ne vantò telegrafando al generale Alessandro Pirzio Biroli: «Preti e monaci adesso filano che è una bellezza».

C’è chi dirà che eseguiva degli ordini. Che fu Mussolini il 27 ottobre 1935 a dirgli di usare il gas. Leggiamo come Hailé Selassié raccontò gli effetti di quei gas: si trattava di «strani fusti che si rompevano appena toccavano il suolo o l’acqua del fiume, e proiettavano intorno un liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava accadendo, alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in un’agonia che durò ore. Fra i colpiti c’erano anche dei contadini che avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini».

Saputo del monumento costato 127 mila euro e dedicato al maresciallo con una variante sull’iniziale progetto di erigere un mausoleo a tutti i morti di tutte le guerre, i discendenti dell’imperatore etiope, come ricorda il deputato Jean-Léonard Touadi autore di un’interrogazione parlamentare, hanno scritto a Napolitano sottolineando che quel mausoleo è un «incredibile insulto alla memoria di oltre un milione di vittime africane del genocidio», ma che «ancora più spaventosa» è l’assenza d’una reazione da parte dell’Italia.

Rodolfo Graziani «eseguiva solo degli ordini»? Anche Heinrich Himmler, anche Joseph Mengele, anche Max Simon che macellò gli abitanti di Sant’Anna di Stazzema dicevano la stessa cosa. Ma nessuno ha mai speso soldi della Regione Lazio per erigere loro un infame mausoleo.

Gian Antonio Stella

Corriere della Sera, 30.9.2012

25 aprile | Cosa significa resistere, cosa significa ricordare (Andrea Cortellessa)

Schermata 2012-04-25 a 11.01.11.pngÈ il 1968 quando esce La Beltà di Andrea Zanzotto. I muri del mondo, in quei mesi, sono pieni di scritte che rappresentano, e insieme performativamente sono, la rivoluzione in atto. Durerà poco, quel momento di sospensione e trascendentale rilancio della storia; ma ciò non toglie che sia stato (lo dimostra il fatto che fa ancora incazzare tanta gente). E in effetti le scritte sui muri – attraverso le quali, aveva profetizzato Lautréamont, un giorno saremmo stati tutti poeti – non cessarono allora di esistere. Sono rimaste un luogo simbolico e performativo di grande importanza, nella formazione e nella vita politica delle generazioni più giovani; nonché, a ben vedere, un efficace tramite di memoria intergenerazionale. Cioè di storia.
 
In quel libro atroce e sublime di Zanzotto – il più importante, se non il più bello, della nostra poesia contemporanea – si rincorrono non a caso diciotto grandi poesie-tableaux che recano il titolo complessivo di “Profezie o memorie o giornali murali”; poche pagine prima, invece, si legge un grande componimento dal titolo “Retorica su: lo sbandamento, il principio-‘resistenza’”. I bagliori corruschi delle guerre civili di venticinque anni prima si sovraimprimono a quelli bituminosi del Napalm che brucia all’orizzonte, a Oriente; e il “principio resistenza” (mutuato, spiega il poeta, da quello speranza di Ernst Bloch) illustra proprio come la storia brilli in quelle che Walter Benjamin aveva chiamato “immagini dialettiche”: sovrapposizioni, sovrimpressioni di figure diverse che insistono sugli stessi luoghi, geografici o psichici. La macrostoria che produce “retorica” – cemento linguistico di cui necessita qualsiasi comunità – si ricapitola così in mille rivoli di microstorie, e viceversa. L’ontogenesi dell’evento, la filogenesi della memoria.
 
Davvero il “principio resistenza” è un’immagine dialettica. Sovraimprime il presente al passato, ne fa sprizzare scintille. È un esempio di quella che più di recente il grande filosofo Paul Ricoeur ha chiamato “rimemorazione”. Se commemorare il più delle volte è un atto retorico (nel senso più deteriore), un rituale istituito e non davvero sentito, in definitiva il manifestarsi di un’ipocrisia collettiva, rimemorare significa al contrario rifare presente l’essere stato nel passato o, diciamo, l’esserci stato: ed è attraverso la passione dei luoghi – nei quali la memoria è di una situazione, non di un avvenimento – che si aziona il cortocircuito decisivo. Non può essere inteso come una generica, ancorché condivisibile, posizione etica collocata nell’oggi. Non è insomma una citazione, l’omaggio reverenziale (o il re-enactement meramente spettacolare) di una Resistenza di ormai quasi settant’anni fa. Deve invece raccogliere almeno uno dei testimoni, concettuali e pratici, di quelle staffette.
 
E quello che oggi pare più aperto al futuro riguarda proprio l’essere situato del nostro agire. I partigiani difendevano un ideale di libertà ma anche un territorio concreto, che apparteneva a una geografia fisica e insieme morale: il “pathos dei luoghi”, visceralmente affettivo ma anche concretamente logistico, di cui ha parlato Gabriele Pedullà nella sua antologia di Racconti della Resistenza, non a caso, geograficamente ordinata. Proprio presentando questo libro, a Pieve di Soligo il 25 aprile 2005, ascoltai il vecchio Zanzotto ricordare un proprio racconto-apologo ivi compreso e risalente a dieci anni prima, 1944: FEIER. Il titolo riproduceva una grande scritta a carbone nero tracciata sul muro di un casolare da un contadino veneto: il quale così s’era tatuato quel tempo e quel suono, con le proprie mani aveva inciso quel trauma a futura memoria. Ma, diceva Zanzotto, passato poco tempo prima da quel casolare, con amarezza aveva scoperto che la scritta era stata cancellata.
 
La stessa cosa è accaduta qualche anno fa nel quartiere romano dove ho studiato per tanti anni, San Lorenzo: sul muro scrostato di uno degli edifici bombardati nel luglio del ’43, e mai restaurati completamente, a lungo s’era letta, vergata a lettere cubitali, la scritta EREDITÀ DEL FASCISMO. Per gli studenti della mia generazione quel “monumento involontario”, come ha definito quelli di questo genere Sandro Portelli, ha costituito un monito di forza straordinaria. Ma qualche anno fa l’ossessione gentrificante della giunta Veltroni – proprio mentre con sussiego inaugurava Case della Memoria e della Storia – ha pensato bene di stendere, su quel muro, una mano d’oblio.
 
La performance-installazione della giovane artista torinese Paola Monasterolo, Lettere da un fronte, cortocircuita in una scritta-immagine potentemente dialettica, in un singolo gesto iconico di straordinaria efficacia, tutti questi stimoli concettuali. Che riesce a tradurre in un grandissimo impatto emotivo. Sui muri del cortile del Museo Diffuso della Resistenza di Torino, a Corso Valdocco 4/A, questa mattina alle 11.00 si potrà leggere in formato gigante il finale di una delle lettere dei condannati a morte della Resistenza, quella spedita dal ventitreenne Pietro Ferreira ai compagni del Partito d’Azione di Torino il 22 gennaio 1945, alla vigilia della sua esecuzione da parte dei fascisti della R.S.I. È una lettera di sorprendente serenità, dal tono di grande fermezza e lucidità, che però nel finale s’impenna in una lampeggiante immagine del futuro: “Tra poco le armate alleate spezzeranno l’ultimo baluardo difensivo tedesco, anche l’Italia tutta verrà liberata e terminerà per voi questo lungo periodo di lotta cospiratoria che tanto ha assottigliato le vostre file; e allora sarà per voi la vita, l’aria, la luce, il sole, la gioia di aver combattuto e di aver vinto e l’esultanza della libertà raggiunta…… siate felici….. Addio… un abbraccio a tutti vostro Pedro”. L’Italia liberata, oggi lo sappiamo bene, quel futuro d’aria e di luce non lo conoscerà mai davvero. Ma quell’aria e quella luce sono state: una sera, a Torino, nella mente e nella lingua di Pedro.
 
Paola Monasterolo ha scelto di gigantografare queste righe utilizzando una tecnica particolare, desunta dai racconti dell’ex partigiano Enzo Pettini, il quale ha rievocato una forma di resistenza che, seppur minima, ha lasciato tracce nella memoria orale e sui muri di alcune case del quartiere operaio di Borgata Vittoria. Su questi muri slogan antifascisti venivano scritti da donne e bambini impiegandoun particolare inchiostroottenuto lasciando a mollo la calce spenta nell’olio di motore. E durante la giornata di oggi il pubblico verrà coinvolto in un canto collettivo da Marco Testa, e sarà invitato a proseguire e completare con le proprie mani il decoro murale.
 
È significativo che il Museo della Resistenza, qui a Torino, si definisca “Diffuso”; così come che il progetto d’arte per lo spazio pubblico che ha promosso il lavoro di Monasterolo si chiami “SITUA.TO”. Appunto situati, ce ne rendiamo sempre meglio conto, sono tutti i movimenti politici che negli ultimi tempi hanno assunto significato e valore: da Occupy Wall Street a No TAV al Teatro Valle. Tutti incentrati su un luogo, un sito storico e simbolico che si fa segno di riconoscimento: proprio perché tutti noi, nel nostro quotidiano, subiamo la virtualizzazione della nostra esistenza in non-luoghi telematici nei quali s’è da tempo polverizzata qualsiasi idea di società. La sfida di questo spatial turn anche politico sta allora nel trascendere la miseria di un localismo identitario – che ha prodotto negli ultimi vent’anni più o meno gravi catastrofi politiche, dalle carneficine balcaniche alla fiera dell’intolleranza dei leghisti – per elevare questa concretezza di situazione a paradigma idealmente universale. Questa sfida del pensiero e della volontà ha un nome: si chiama politica.

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Modesta riflessione del dopo 25 aprile

25-aprile-1945.jpgBella giornata. Sole, aria di festa in giro. Tutto bene o quasi. Lo so, gli storici sono dei frangipalle, sempre ad alzare il ditino, a far la punta agli spilli, a spaccare il classico capello in quattro, otto, sedici. Già è così. Scusateci: è uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo.

Il 25 aprile è festa di libertà, di liberazione, la sconfitta del nazismo e del fascismo. Una svolta nella storia del nostro paese, forse un’occasione mancata ma certamente uno dei momenti più alti della nostra storia nazionale. 25 aprile 1945, un evento, una data, legata a quella storia. Certo una data che rappresenta valori importanti, fondamentali per il nostro vivere, valori che hanno poi trovato nella Costituzione la loro migliore collocazione e riconoscimento. Ma non possiamo dimenticare che il 25 aprile è una data, collocata nel tempo e nello spazio. Possiamo (e dobbiamo) farne un simbolo, il più possibile condiviso, un elemento importante della costruzione di una cittadinanza democratica e repubblicana, ma non possiamo andare oltre.

Ci lamentiamo, a buon diritto, dell’uso pubblico della storia, vizio vecchio come il mondo, ma il tempo non trasforma un vizio in un pregio. Usare fatti, vicende, storie passate per il nostro presente, per l’uso e consumo contingente. Lo critichiamo quando gli “altri” ne fanno un uso spregiudicato ma, purtroppo, taciamo quando quell’(ab)uso lo troviamo nelle nostre piazze, nelle nostre manifestazioni.

Il 25 aprile è la vera festa nazionale laica, popolare, vissuta e partecipata in buona parte del paese, perché dobbiamo, come accade sempre più spesso anno dopo anno, farlo affiancare da altre motivazioni, altre cause, altre situazioni, quasi che il 25 aprile non si reggesse più da solo e avesse bisogno di un sostegno, un pretesto, una giustificazione per essere ricordato e celebrato degnamente? Come in una goffa operazione di marketing della memoria: il vecchio marchio non convince più il “cliente”, mi invento un pacco dono, un’offerta speciale per sostenere le vendite. Quest’anno il prodotto di lancio e traino è stata la lotta alla/e mafia/e. Dal tema della liberazione, quella storica dal nazismo e dal fascismo, una liberazione che ha costruito le basi per l’Europa di oggi che ha ridato dignità ad un paese che aveva scatenato guerre di aggressione, massacrato popoli dopo aver distrutto la propria libertà, siamo passati ad una altra “liberazione”, quella dalle strutture criminali che opprimono e sfruttano varie aree del paese e si infiltrano anche nella nostra società emiliana.

Una liberazione vale l’altra? È banale dire che non si sta svalutando in alcun modo l’impegno e il sacrificio dei tanti contro la criminalità ma non possiamo stiracchiare la storia come un foglio di domopack per coprire quello che ci fa comodo per cucinare una comunicazione che raccolga più consenso possibile. Perché questo è uno dei primi effetti/scopi, passare da una data che ancora presenta elementi di divisione a qualcosa di tranquillizzante, unificante. Sappiamo bene quanti problemi nella trasmissione della memoria del 25 aprile si incontrano ogni giorno, come sia difficile confrontarsi con memorie diverse/divise, come la ricorrenza richieda scelte non sempre tranquille. Inserire altre “liberazioni” semplifica il compito: in occasione del 25 aprile parliamo di altro, di qualcosa su cui nessun possa alzarsi in piedi e dire ”no”. E siamo a posto: abbiamo santificato la festa di precetto, abbiamo celebrato la messa laica annuale e contemporaneamente abbiamo trasmesso un messaggio di impegno civile unificante. Ieri in piazza chi avrebbe mai potuto gridare “viva Provenzano!”? Così, seguendo il vecchio detto popolare “troppa grazia, S.Antonio!*”, nell’entusiasmo dell’occasione ci siamo lanciati in similitudini davvero spericolate, in messaggi in bilico fra sentimentalismo e chiamata alle armi, a formare un mix davvero bizzarro in una giornata, lo ripeto, che ricorda la sconfitta del nazismo e del fascismo e la nascita della nostra democrazia, grazie alla collaborazione dei resistenti allo sforzo bellico degli alleati. Punto. Non c’è abbastanza materiale per farne tanti di discorsi importanti? Sul fascismo risorgente in Europa, sul razzismo, sulla cancellazione della memoria storica, sul difficile futuro dell’Europa?

Perché i mafiosi non sono i nuovi nazisti-come ho sentito ieri-e Falcone e Borsellino non erano partigiani e i sindaci che rischiano la vita oggi non fanno la nuova Resistenza. Fanno altro, cose fondamentali come difendere lo stato democratico, spesso nonostante lo Stato stesso, a rischio della loro vita difendono la libertà e la dignità delle persone. E per questo vanno ringraziati e difesi. Ma tutte queste lotte nobili e fondanti del vivere civile celebriamole il 26 aprile, magari il 23 maggio nell’anniversario della strage di Capaci, in quella giornata fermiamoci tutti, scendiamo in piazza per chiedere di buttare fuori dal Parlamento i condannati e gli inquisiti, di troncare i legami fra economia legale e criminalità al sud come nelle nostre feraci terre padane. C’è tanto da fare e da fare insieme e con tante buone ragioni da non aver bisogno di striracchiare la storia per trovare giustificazioni a quelle scelte. E poniamoci di fronte al significato vero e profondo del 25 aprile, accettando la discussione sul senso del nostro essere antifascisti oggi, sulle prospettive di vivere nell’Europa futura, sulla nostra complicata e contraddittoria identità nazionale, sull’atavica tendenza italiana all’oblio. L’agenda è ricca e complicata, sarebbe bello iniziare a lavorarci su.

 * la locuzione pare nata da un episodio tramandato dalla tradizione popolare: un cavaliere, piccolo di statura, cercava a ripetizione di salire in sella al suo destriero. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto, pensò bene di invocare l’aiuto del Santo. Forza ritrovata o aiuto celeste, accadde che il tapino non solo riuscì a salire il groppa all’animale ma, per l’eccessivo slancio ricadde addirittura dalla parte opposta ruzzolando a terra. Rialzandosi avrebbe appunto esclamato “Troppa grazia, S.Antonio!”.