Il vecchio pozzo

Lì, sotto i prunus rossi e gialli, c’è il vecchio pozzo. Una cosa senza pretese, un semplice tubo di cemento con qualche filo d’edera arrampicato. Allora un coperchio rotondo di assi di legno inchiodate, oggi un cappello pesante di metallo, di un verde un po’ stinto.

Nemmeno prima che arrivasse l’acquedotto da quel pozzo si attingeva acqua da bere, lo si usava per raccogliere l’acqua piovana che andava ad integrare quella di una piccola falda poco più a monte della casa. Non serviva per l’acqua ma più modestamente come elementare frigorifero. Il padre d’estate teneva in fresco la sua birra, che faceva arrivare chissà da dove, chiusa in bottiglie con quella cosa a scatto basculante che chiamavano “macchinetta”. La birra e qualche panetto di burro, prodotto a pochi metri da lì, nel caseificio di famiglia.

Fine estate 1944, l’Appennino brucia ancora sotto i colpi dell’Operazione Wallenstein, case bruciate, stalle svuotate, bestiame razziato. I figli più grandi, allora ragazzi poco più che ventenni, erano andati fino a Bibbiano, dove nel campo sportivo, trasformato in lager di passaggio, era stato rinchiuso anche lo zio, don Bonini, il parroco di S.Andrea del Castello di Carpineti che aveva visto la sua chiesa colpita dalle cannonate tedesche sparate da Pantano, dall’altra parte della vallata. Era andata distrutta anche la sua canonica e con essa non solo quei bei mobili antichi, lascito di fedeli devoti, ma soprattutto tutti i suoi risparmi, quel sacchetto di “marenghini” d’oro che aveva accantonato per i suoi poveri, una volta che, ormai vecchio com’era, se ne fosse andato. Erano andati a riprenderlo, lui che aveva voluto seguire a piedi nel caldo e nella polvere i suoi contadini catturati, e lo avevano riportato a casa, per consentirgli almeno da lì a poco di arrivare a quella pace che la sua vita di povertà e dedizione gli aveva ben meritato.

La montagna saccheggiata, i partigiani sbandati, il borgo attraversato da soldataglia carica di bottino. In quella casa arrivarono verso l’imbrunire, una giornata calda. Chissà se davvero erano SS, in fondo bastava anche meno per morire in quelle giornate. Qualche parola smozzicata da un ufficiale che, cosa strana in quelle giornate, bussa prima di entrare. Sudato, i capelli biondi rasati corti e un ciuffo. Si siede a tavola e chiede “aqua..”, altri due si fermano sulla porta, un mitra a tracolla, l’elmetto legato al fianco.

Silenzio in casa, le donne si stringono verso il camino, i figli sono nascosti in solaio. Classe 1915 e 1918. Renitenti. Roba da finire contro il muro, quello mezzo intonacato, lì nella piazzetta vicina al voltone.

Il padre fa un cenno, abbozza un saluto all’ufficiale, poi rivolto alla figlia: “Paolina, vai a prendere la birra..”. La ragazza è giovane, ventun anni ancora da compiere, alta, i capelli ondulati. Si muove, fa qualche passo, poi si ferma: sulla porta i due, quasi appoggiati agli stipiti. Sorridono, una parola, due, fra loro, poi si scostano lo spazio appena per farla passare, per sentire da vicino il profumo di quella ragazza. Paolina esce e corre al pozzo, scosta le assi, le bottiglie sono dentro un secchio di lamiera tenuto da un mattone legato alla corda, come contrappeso. Prende le bottiglie ma c’è un altro secchio. Non quello solito del burro, è più in basso. C’è qualcosa di lungo avvolto in tela da sacco, umida. La scosta appena. Sono due canne di fucile, lucide, scure. Due piccoli occhi che la guardano. Per un attimo non respira. Poi, quasi per automatismo, lascia ricadere il coperchio di legno.

Trovare birra in una casa di italiani, gente infida. Chissà cosa avrà pensato quell’ufficiale, ma in guerra tutto può succedere e chiama gli altri due e riempiono i bicchieri. La madre, intanto ha preso del pane dalla madia. Pane e birra, e lo mangiano di gusto e annuiscono con qualcosa sul viso che assomiglia a un sorriso. Il soldato raccoglie anche le briciole e si prendono le due bottiglie vuote. Possono sempre servire con quella chiusura ermetica.

Anche il capo s’è alzato, si riaggiusta il ciuffo e bofonchia qualcosa che sembra un ” ‘giorno”. Sono usciti da qualche minuto prima che qualcuno in casa riesca ad aprire bocca. Passa mezz’ora buona prima che scendano i figli dal solaio. Paolina è ancora nell’angolo dove era tornata, la sorella le stringe un braccio e piange in silenzio.

La madre si muove verso il tavolo, raccoglie i bicchieri e dice al padre che si è quasi accasciato su una sedia: ” Iusfin (Giuseppe), stasera farai a meno della birra..”.

Le ore della notte

Le ore della notte sono tutte diverse, si schierano in bell’ordine ad aspettarci e, di solito, non le degniamo di uno sguardo, tutti persi nel sonno che, dicono, sia indispensabile.

Invece le ore della notte sono tutte diverse, non solo minuto dopo minuto, ma anche stagione dopo stagione: le due di gennaio non sono quelle di aprile o di luglio quando nella campagna rimane solo qualche verso e gridio di animali sconosciuti. Le quattro di agosto con il cielo che inizia appena ad essere meno scuro, impercettibilmente, non sono quelle di febbraio, con il gelo che ferma tutto e le gocce d’acqua delle pozze bloccate nel lucido oscuro del ghiaccio nel buio.

Ore diverse che di solito trascuriamo, e che conosciamo nostro malgrado quando il sonno non ci incontra o, peggio, ci abbandona all’improvviso lasciandoci sudati e con quel senso di svuotamento che ci ribalta sul cuscino. Ci vuole tempo e un pizzico di coraggio per trovare a strada giusta. I più, normale e logico, si arrotolano e tentano di riprendere quel sonno impossibile. Tattica suicida, come consegnarsi mani e piedi legati al nemico e sperare nella sua clemenza. Che non ci sarà mai.

Invece si deve avere il coraggio, quel piccolo coraggio che abbiamo imparato da tanto tempo, più per disperazione che per convinzione, ed uscire, accettare lo scontro (o l’incontro?) stando dritti, in piedi. Si accettano anche posizioni sedute. Ma non supini, mai.

E allora ci sei tu e loro, le ore della notte, e le puoi conoscere. Il sussurrìo delle tre in campagna, con la farfalla che ti viene vicina e ti gira attorno, nella luce della lampadina alle tue spalle, il lontano sibilo delle cinque di dicembre che non sai se di un auto o di una freccia scagliata tanto tempo prima. La sirena smorzata che temi s’avvicini e invece svanisce poco a poco nelle quattro di aprile.

Ma non basta ascoltare, apri anche la finestra (o la socchiudi nell’inverno padano) e cerchi un odore, un sapore che spesso non trovi. Certe ore sono senza profumo e senza suono, ma ci sono, esistono e non solo perché le vedi scritte là sul quadrante dell’orologio.

Le ore ci sono e sono lì con te, alcune ti riconoscono e ti vengono più vicine, altre sono quasi indifferenti, poche ti arrivano a pochi passi, come un cane che ti riconosce e si siede, guardandoti, in attesa. In attesa di un tuo cenno che non verrà, lo sapete entrambi. La tua testa così piena di luci, immagini e pezzetti di cose e persone, loro ferme, disciplinate, scansite dai secondi che passano, basta un niente e cedi, anche se per poco, al sonno che vorrebbe ripigliarti. Ma in piedi (o seduto) sei più difeso. Chiudi gli occhi e li riapri e già hai perso dieci minuti di quell’ora e vorresti chiedere scusa per essere stato cosi debole e inutile. Dieci minuti. Uno scampolo prezioso che  non ritroverai più.

Perché le ore della notte sono tutte diverse e sono uniche.

Elegia per i dittatori

a1945d.jpgUrlavano impettiti nelle loro divise inventate e la gente sotto ad ascoltare, urlare, applaudire, sognare i loro incubi. Le donne pronte, a disposizione, gli altri potenti alla porta in attesa. Abbracci, i baci, le strette di mano, il sorriso a uso della foto, del video, del ricordo storico.

I dittatori forse sanno vivere, di certo non sanno morire. Abituati a far morire gli altri, negli ultimi cinque minuti fanno tutti pena. I proclami eroici sono lontani, baratterebbero un’altra mezzora per tutti i loro conti bancari, per i gioielli, le piscine, la loro pistola d’oro.

Muoiono come topi, infilati in un buco o appesi a una corda, chiedono pietà, piagnucolano, tutti dicono sempre la solita frase “non ho fatto niente”. L’uomo della Provvidenza, l’eroico difensore del ridotto della Valtellina lo trovarono in fondo a un camion tedesco, un pastrano addosso, un elmetto calato sugli occhi. Fuggito così male da non aver fatto neppure in tempo a cambiarsi i calzoni. L’eroico.

Quasi quasi quel tizio infilato nel bunker di Berlino può dare qualche lezione. Cianuro e un colpo di pistola. Questione di stile, non aveva creato il Reich millenario ma almeno non ha piagnucolato nell’ultimo istante.

I dittatori si uccidono, vanno uccisi e fanno pena e ridicolo i buoni samaritani aperti per turno che chiedono il processo, le garanzie. Le storie iniziate vanno chiuse e chiuse bene. Da sessantacinque anni qualcuno continua a indagare sulla morte del Cavaliere: Dongo? Non Dongo? Valerio? Non Valerio? Ognuno perde tempo come vuole, quel che conta è che qualcuno quel grilletto l’abbia tirato, abbia chiuso quella storia. Chi ha sparato ha fatto il suo dovere, magari l’avessero fatto anche gli altri dopo. Disperdere le ceneri nel Mediterraneo (non è il mare nostrum?) o farci concime. No, abbiamo Predappio per il caro estinto. Povero estinto, meritava di meglio, italiani ingrati, dice la nipotina che abbiamo conosciuta sulle copertine di Playboy. Ogni albero dà i frutti che sa e può. Vergogna, ripetono i pietosi pietisti di ogni parte, si sa, bisogna essere moderni, innovativi, amnesty e mojito. Piazzale Loreto: che vergogna, che insulto! Come se la guerra fosse una partita con la Wii o la playstation. Cosa meritava chi aveva sulla coscienza centinaia di migliaia di ragazzi morti, bruciati, congelati? Certo, un bel processo, una pacca sulla spalla e via, è stato brutto ma adesso è finita, tutti a casa, business as usual?

I dittatori vanno uccisi e dittatori ce ne saranno sempre, alcuni comodi  anche a noi, altri scomodi, ma dittatori sono e restano, finiti in un tubo di cemento o appesi a testa in giù. Non voglio neppure provare pietà ma solo voltare pagina e non ascoltare i pietisti di giornata, senza memoria e vergogna, a commentare le foto oscene di quello che avevano taciuto e onorato poco prima.

“Sic transit gloria mundi” ha detto un vecchio maniaco, il suo amico se n’è andato, niente più affari, donne e cavalli berberi. Basta aspettare e un tubo di cemento o la risata (o il rutto?) finale prima o poi arriva per tutti.

Il telefono..la tua vita

cell_Gno.jpgDa bravo pendolare, consumo benzina e osservo. Alla faccia delle regole, la gente che guida sta al telefono, spesso senza cintura. A questo penseranno, forse, le forze dell’ordine. Ma sono quelle telefonate che mi destabilizzano, mi scombussolano, mi spingono all’orlo della depressione. Tutta quella gente al telefono ovunque, in curva, alla rotonda, allo svincolo, ha qualcuno con cui parlare, qualcuno li ha chiamati, hanno cose importanti da dirsi. Dichiarazioni forse decisive, svolte esistenziali, alle otto del mattino come alle due del pomeriggio, sotto il sole che picchia senza ritegno, in questa fine estate da forno del pane (o di Hansel e Gretel?). Perché quelle telefonate, mi convinco, devono essere decisive se uno/a sta attaccata al cellulare, contorcendosi per tenerlo in mano e/o al momento di cambiare marcia infilandolo fra spalla e orecchio, assumendo quella simpatica posizione da gobbo di Notre Dame. In quel cellulare c’è la loro vita, forse stanno lasciando la famiglia, hanno un nuovo amore, stanno pianificando vite splendide, accettando incarichi prestigiosi.

E io? Perché non mi chiama mai nessuno? O se talvolta succede, tre/quattro volte all’anno, perché non colgo quell’occasione e chiudo la chiamata o, al massimo, accosto a destra e mi fermo? Non si fa così. Non si interrompe un’emozione, diceva quello. È che forse la mia vita non è interessante, nessuno mi propone l’occasione storica, non mi comunica la botta di c.. che cambia tutto. Oppure io non ho nulla da dire. Devo rassegnarmi alla dura realtà.

E se invece tutta ‘stà gente non stesse altro che cazzeggiando allegramente con altri cazzeggiatori, cazzeggiando del nulla assoluto e totale, ad esclusivo vantaggio delle società telefoniche? Un vaniloquio come momentaneo sollievo al vuoto imperante delle loro vite? Abbiamo vissuto quarant’anni senza cellulari: eravamo meno felici o incasinati di questi nostri semoventi contemporanei? Eppure ci siamo sposati, fatto figli, trovato un lavoro, come è stato possibile farlo senza neppure un sms? La questione mi tormenta in queste notti, calde anche a FB, poi, in un istante di lucidità (raro, è vero, ma possibile) penso quasi con simpatia a tutti questi cazzeggiatori semoventi e li capisco (sfpd). Tutti siamo caduti, almeno una volta, nella trappola/speranza che una chiamata potesse cambiare qualcosa, tutti abbiamo avuto l’illusione/assuefazione che comperando, spendendo, la nostra vita migliorasse, che una voce ci togliesse dalla fanghiglia quotidiana. Tutti poveracci in cerca di una piccola soddisfazione che ci allontani dalle domande vere, dal guardarci allo specchio ogni mattina senza riconoscerci, o, al contrario, incontrando sempre quella persona che non ci piace più.

500 parole: Elogio della noia

Elogio della noia
“Adesso cosa faccio?” è la frase che, ogni tanto, mi sento rivolgere dai miei figli. Dopo, o invece, dei compiti e prima di cadere nel buco nero del pc o del video. E’ lì si gioca la partita, su quella domanda, che non può essere ignorata salvo cedere al quieto vivere di un figlio incollato, anesteticamente, ad un video, qualunque esso sia, qualunque cosa dica, faccia o proponga. Un figlio promessa di una decerebrazione progressiva e ineluttabile.
Invece è la noia che va incentivata, fatta crescere, non combattuta ma resa produttiva. La noia è, per chi può contare ancora i propri neuroni, una risorsa. Nella noia crescono le idee, i desideri. La noia non è ozio. La noia è accorgersi di esistere e di aver bisogno di coinvolgersi, la noia è vedere il mondo in torno a te che in quel momento sembra non suggerirti nulla. E allora è il tuo turno di proporre qualcosa al mondo.
La  noia è stata una grande amica. Figlio unico, madre iperprotettiva, ho passato molto tempo ad “annoiarmi”, poco incline ai rapporti umani, senza neppure un cortile di un condominio da giocare con altri simili (in centro non c’erano e non ci sono ancora, i cortili per giocare), me ne stavo per conto mio. Ogni tanto dall’altra stanza la domanda: “Cosa fai?”. “Gioco”. A posto. E magari non era vero. O forse sì, per un bambino il confine fra gioco e realtà può essere un muro invalicabile o non esistere un istante dopo. Ma ogni nuovo gioco nasceva da quella “noia”, ogni idea, accettabile e non stupida, mi veniva da quell’inizio, da quel “vuoto” fra un’ora e l’altra. Allora, quando non si passava da karaté, basket, scherma, lingua turca e corso di cucina come i nostri fanciulli fanno abitualmente. Al mattino, soprattutto nei periodi di vacanza in città, al mattino mi svegliavo presto e sapevo che dovevo gestire la mia giornata, proprio partendo da quella noia che mi trovavo dentro. Una giornata tutta per me, una lotta contro quel rischio, di trovarsi  non annoiato, ma in ozio, che come tutti sanno, altro non è che il padre di ogni fesseria umana.
Oggi è facile cadere nel rimpianto: anni felici senza scatole magiche, videogiochi, quando le uniche consolle erano quelle in legno nell’ingresso di casa, in finto stile maggiolini. Ma ogni essere umano si gioca la sua vita dove il Padreterno gliel’ha data e a lui tocca rimboccarsi le maniche o diventare un fan del Grande Fardello televisivo.
Sono stato fortunato, in casa avevo librerie colme e così ho risalito, crescendo di statura, i ripiani, leggendo, metodicamente libro dopo libro, senza mai aver capito l’ordine in cui mio padre li avesse disposti. Ricordo benissimo quando arrivai ai volumi bianchi, intonsi, della Mondadori, Churchill, Storia della seconda Guerra mondiale. Noia? Avercene di quella noia e il tempo per farsela passare! Forse la mia perversione per le vicende umane e il mio stesso lavoro sono nate lì, ma questa, ovviamente, è un’altra “storia”.