Laicità e Vangelo…

E’ certamente colpa mia ma non capisco. Leggo queste polemichette sul futuro festival della Laicità a Reggio. Da cattolico stanco e affaticato mi chiedo: ma evangelizzare non vuol dire andare da chi non crede e portargli il Vangelo? Cristo andava a cena con pubblicani e prostitute, prendeva l’acqua dalla samaritana, l’unica volta che si incacchiò di brutto fu nel Tempio quando rovesciò i tavoli dello IOR, pardon dei cambiavalute. Noi invece che si fa? Si alza il ditino e si dice che noi no, noi non ci andiamo, perchè ci offendono, perchè sono laicisti. Come essere messo in croce fosse un complimento.

Chi evangelizziamo? I nostri amici già in Chiesa? Mi ricordo di quel medico ortopedico che era bravissimo se il paziente non aveva niente di rotto… Sull’ultima conferenza poi, quella dell’amico Sergio Luzzatto, qualcuno ha letto il suo libro? Qualcuno si chiede perchè siamo l’unico paese occidentale che dispone per legge (meglio con apposite circolari) che debba essere esposto il crocefisso negli edifici pubblici? In Germania si può esporlo in un aula a patto che tutti i genitori degli alunni siano d’accordo, basta uno e non se ne fa niente. In Francia è vietato ogni simbolo religioso. Negli altri paesi il problema non esiste.

Ma davvero qualcuno pensa che esponendo un crocefisso si evangelizzi qualcuno? O che l’ora di religione abbia mai guadagnato 1 conversione? E’ mai successo? Attendo lumi.

Piccola questione linguistica: io sono cattolico ma sono profondamente laico. Credo ancora nel cavouriano “libera Chiesa in libero Stato”. Il termine laico però è passato ormai come sinonimo di non credente. Cavolo, e io che faccio? Già ho abbastanza confusione in testa… In compenso i credenti paiono essere solo quelli che ritengono normale che uno stato debba sussumere (bello eh?) all’interno delle sue leggi precetti religiosi (fine vita, fecondazione, etc..). Allora se cominciassimo a chiamare questi “credenti”, “clericali” non faremmo un attimo di chiarezza? Nomina sunt conseguentia rerum, o no?

Per chiarezza: io andrò alle conferenze delle Giornate sulla laicità, non sarò a quella di Luzzatto ma solo perchè cade di domenica e per me tale giornata è dedicata, come noto, a Fortezza Bastiani. Sarò là, vigile sugli spalti, a leggermi sempre di Luzzatto, oltre che Crocefisso di Stato (Einaudi 2011) anche I popoli felici non hanno storia. Interventi sul nostro passato (Manifestolibri 2009).

Monetine…

noberlusca.gifMonetine lanciate ieri su Ignaziolarissa. Leggo le reazioni di noti commentatori (cerchioBattista, riformistaaa, etc..) di condanna sdegnata. Un po’ come le uova reggiane di poche settimane fa. Sarà.

Devo fare outing! Quel 30 aprile 1993 a Roma c’ero anch’io ma..non ero davanti all’Hotel Raphael! Ero a 200 metri! Quando uno dice che perde gli appuntamenti con la storia! Confesso: avrei voluto esserci! Avrei voluto partecipare anch’io a quel momento: il potere ladrone sputtanato, l’arroganza del cinghialone messa alla berlina!

Rivediamoci il video: http://www.youtube.com/watch?v=_k00U-N73oE.

Lo sberleffo al potere è sempre salutare, certo oggi lanciare euro costa un po’ di più, però, sai che soddisfazione!

Eccidio delle Fosse Ardeatine, 67 anni dopo due nuovi nomi

Dopo mesi di lavoro, i carabinieri del Ris sono riusciti ad identificare i resti di due vittime della strage nazista rimaste finora ignote. Ancora 10 tombe anonime su 335.
LaRosa--140x180.jpgUn fiore per Marco e Salvatore. E presto, forse, anche per qualche altro tra i dieci poveri «ignoti» del grande sterminio delle Ardeatine. Un fiore, una tomba, il nome e cognome, una lapide che finalmente si materializza 67 anni dopo il giorno in cui sono morti con un colpo alla nuca in quella che è stata una delle più buie stragi del nazifascismo. Identificati i resti di Marco Moscati e di Salvatore La Rosa (foto) in due delle dodici tombe rimaste finora senza nome delle Fosse Ardeatine.

L’identificazione portata a termine dai carabinieri del Ris che per molti mesi, dopo aver ricevuto da Onorcaduti l’incarico di occuparsi dei resti dei caduti senza nome, hanno indagato sul dna di ciò che rimane nei sepolcri anonimi del sacrario romano. Erano dodici ignoti su 335 caduti, ora sono ridotti a dieci. Poi ieri la comunicazione alle due famiglie, che hanno ringraziato i militari dell’Arma. Il nipote di Moscati, Israel Cesare, si è anche precipitato al sacrario ma quando è arrivato era ormai chiuso. Questa mattina è corso di nuovo lì con suo padre Angelo, domani leggerà durante la cerimonia una lettera della sua famiglia.
IL RICORDO – Ogni anno il Capo dello Stato entra alle Fosse Ardeatine e dopo essere passato di fronte al palco che riunisce autorità e rappresentanti delle famiglie delle vittime sosta in raccoglimento di fronte alla lapide che ricorda le 335 vittime. Così inizia la cerimonia del 24 marzo per ricordare la strage. Poi come ogni anno il profondo silenzio viene rotto dalla lettura del lunghissimo elenco dei morti, una lista in ordine alfabetico da Ferdinando Agnini ad Augusto Zironi a cui segue, in conclusione, un’ultima gelida notazione: «Ignoti 12». Così anno dopo anno, per sessantasei anni.

Ma stavolta, il 24 marzo del 2011, ecco questa grande novità: dopo Emanuele Moscati risuonerà anche il nome di suo fratello Marco Moscati, ebreo partigiano. E dopo quello di Boris Landesman ci sarà quello di Salvatore La Rosa, un soldato siciliano sbandato dopo l’8 settembre e poi tradito a Roma da una spiata che lo aveva fatto rinchiudere a Regina Coeli. Marco Moscati, Salvatore La Rosa: la notizia del riconoscimento coglie di sorpresa, i carabinieri del Ris sono riusciti dove non si era riusciti prima, dopo aver riesumato però resti di tutti i dodici sarcofagi rimasti senza nome e cioè il 3, 52, 98, 122, 155, 264, 272, 273, 276, 283, 284 e 329. Avevano a disposizione cinque dna di familiari delle vittime. Marco Moscati era nel sarcofago 283 e Salvatore La Rosa nel 273. Il dna delle ossa del 283 ha combaciato con quello fornito da Angelo Moscati, fratello della vittima, e quello dei resti del 273 è lo stesso di quello fornito dalla figlia di Salvatore La Rosa, la signora Angela Alaimo La Rosa di Aragona, un paese dell’agrigentino in Sicilia. La genetica ha finalmente avuto ragione della barbarie che imponeva per queste vittime un lutto senza un luogo preciso.

Marco Moscati, giovane piazzista, aveva solo 24 anni quando era stato ucciso. L’avevano arrestato per una spiata il 15 febbraio del ’44, sulla scalinata di Trinità dei Monti. Era andato nei pressi di piazza di Spagna a rilevare un piccolo carico di armi che doveva portare a un gruppo partigiano dei Castelli. Mentre stava pagando erano arrivati i fascisti, lo avevano inseguito sparandogli dietro, l’avevano acciuffato sulle scale. Alle Ardeatine si era ritrovato col fratello Emanuele, trent’anni ancora da compiere. Un altro degli otto fratelli Moscati, David, è uno dei morti di Auschwitz, aveva solo 17 anni. Ci sono voluti tanti, troppi anni. Ma ora il grande mistero delle Fosse Ardeatine ha iniziato a sgretolarsi. Restano ancora dieci tombe a cui dare un nome. I carabinieri del Ris non disperano di poter aggiungere altre identificazioni. Prima del risultato di oggi ci sono state le docce fredde del passato: due anni fa un primo tentativo era andato a vuoto, lo avevano finanziato di tasca propria i parenti di Marco Moscati. Avevano puntato tutto su un’unica tomba, la 329, l’unica contrassegnata da una stella di David. Speravano di potervi trovare i resti di Marco Moscati, ebreo, partigiano, attivo ai Castelli. A chiederlo era soprattutto l’anziano Angelo che alle Fosse Ardeatine sa di avere due fratelli: Emanuele, nel sarcofago 245, e Marco che non si sapeva dove fosse esattamente. E con Angelo a cercare la verità c’era tutta la famiglia Moscati. Poi però un anno fa ecco arrivare il responso. Il genetista di Tor Vergata Giuseppe Novelli, affiancato dal medico legale Giovanni Arcudi e da Liana Veneziano del Cnr, non è riuscito a far combaciare i dna. Sono diversi. Il partigiano Marco Moscati infatti non era in quel sarcofago 329. Novelli, uno specialista del dna, non aveva potuto fare di più.

Un mistero inquietante, quello dei dodici sarcofagi senza nome. Si sapeva infatti che dal carcere di Regina Coeli erano usciti in 335, caricati su camion diretti alle cave ardeatine in quel primo pomeriggio del 24 marzo del 1944 per andare alla morte. Unico testimone dell’eccidio un porcaro che da una collinetta vicina aveva assistito sgomento alla strage senza poter far nulla. Poi sulla città che s’interrogava era calato quel drammatico comunicato del Comando tedesco: «L’ordine è stato eseguito…». Era marzo e solo in giugno, dopo l’ingresso in Roma degli Alleati, era stato scoperto il luogo dell’eccidio. Nel luglio del ’44 il professor Ascarelli aveva riesumato le vittime, estraendole una ad una dall’orribile mucchio che i tedeschi avevano fatto in fondo alle gallerie delle cave. Un parallelepideo di corpi largo cinque metri, lungo altrettanto e alto un metro e mezzo. Corpi macerati, che i nazisti di Kappler e Priebke avevano cercato di nascondere invano minando le entrate delle cave ma fallendo nel proposito.

LA RIESUMAZIONE – Il riconoscimento delle vittime in quell’estate terribile del ’44 era andato avanti a lungo, in mezzo a enormi difficoltà, affidato ai poveri familiari in cerca di qualche segno, un vecchio orologio, un brandello di vestito, montature di occhiali, cifre di ricami, fatture, anelli, penne stilografiche, fazzoletti. I corpi, no, quelli dopo quattro mesi erano purtroppo irriconoscibili. Alla fine il conto degli identificati si era fermato a 323 vittime. E così era rimasto da allora. Dodici i non identificati. Eppure si sapevano i nomi di parecchie delle vittime rimaste senza una tomba certa. Cinque i nomi di ebrei come Marco Moscati: Cesare Calò, Marian Reicher, Bernard Soike, Hein Eric Tuchmann. E poi i nomi di Salvatore La Rosa, Alfredo Maggini, Remo Monti, Michele Partiti, Cosimo Di Micco. Per anni alcune famiglie, dai De Micco a La Rosa ai Moscati, hanno chiesto, invano, un aiuto. Qualcuno di loro, come Angela La Rosa, ha scritto a molti presidenti della Repubblica e ad autorità varie. Forse non ci sperava più. Sembrava che la riesumazione e la ricerca delle identità con le nuove tecniche fosse infatti un’impresa impossibile. «La riesumazione? Se la paghino le famiglie. E poi bisogna che tutte e dieci siano d’ accordo…»: così la sostanza della risposta che Onorcaduti, struttura del Ministero della Difesa, aveva dato a una lettera di Walter Veltroni tempo fa. Nel 2008 la famiglia di Marco Moscati aveva autonomamente raccolto la somma necessaria per tentare quel riconoscimento poi fallito.

IL LAVORO DEL RIS – «Presidente Napolitano, ci aiuti lei – era stata infine alla cerimonia del 2010 l’esortazione di Rosetta Stame, presidente dell’ Anfim -. Dobbiamo finalmente dare un nome a tutti i nostri caduti…». E così finalmente qualcosa è cambiato, Onorcaduti ha mutato indirizzo, è stato chiamato in causa il Ris dei carabinieri. A effettuare la lunga e meticolosa ricerca è stata la struttura guidata dal tenente colonnello Luigi Ripani, l’incarico specifico è stato assunto dal maggiore Andrea Berti. Un lavoro difficile, meticoloso, complicato, possibile solo con l’aiuto di congiunti diretti. E che sta dando ora i suoi primi frutti. «Abbiamo potuto lavorare su tutti e dodici i resti – spiegano al Ris -, questo è stato decisivo per raggiungere il risultato di oggi. I dna forniti dalle famiglie sono stati finora solo cinque». Un appello infine dal comandante di Onorcaduti, il generale Vittorio Barbato: «Mi rivolgo alle famiglie che non hanno ancora fatto avere il loro dna come congiunti delle vittime di cui non abbiamo identificato i resti. Si mettano in contatto con noi, il Ris è pronto a fare tutti i confronti necessari».

Paolo Brogi
23 marzo 2011

http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/11_marzo_23/fosse-ardeatine-nuovi-riconoscimenti-paolo-brogi-190287449871.shtml

Cohn-Bendit: “Chi scende in piazza sta col dittatore. Vendola si ricordi della Spagna del ´36″

Intervista a Daniel Cohn-Bendit di Andrea Tarquini, la Repubblica, 22 marzo 2011

«Attenti, ragazzi, chi scende in piazza contro la missione internazionale cerca magari una terza via ma di fatto non è neutrale, bensì con Gheddafi. Perché niente cortei quando Gheddafi massacrava il suo popolo? Ricordate Francia e Gran Bretagna del ‘36, che lasciarono sola la Repubblica spagnola contro Franco, Hitler e Mussolini». Daniel Cohn-Bendit, leader verde europeo, è durissimo.

In piazza per la pace: solo in Italia o anche altrove?
«In Germania si va in piazza contro l’atomo. Vedo appelli anti-raid aerei solo in Italia, o in Grecia dai neostalinisti. Finiscono per schierarsi con la Cina, Putin e Chavez. Sono prigionieri delle categorie degli anni ‘50».

Insomma, la ricerca di una “terza via” non la convince?
«In Italia vedo appelli a protestare mossi dall’ossessione assoluta e accecante della mitica lotta contro l’imperialismo americano. Come fa Vendola a dire né con Gheddafi né con le bombe? Non faccio paragoni col triste slogan “né con lo Stato né con le Br”, ma mi ricordo del 1936. Madrid democratica fu lasciata sola contro Franco, la Legion Condor di Hitler e i reparti di Mussolini. Risultato: stragi, 50 anni di franchismo, e nel ‘39 la seconda guerra mondiale».

Scusi, ma la voglia di pace, di un’altra via tra la guerra e il tiranno, non è importante?
«Arriva il momento in cui bisogna fare scelte. La Resistenza italiana, francese o jugoslava fu giusta, ma sanguinosa. Gli Alleati non la lasciarono sola. Che lo voglia o no, chi vuol lasciare soli i rivoluzionari libici è con Gheddafi, non è neutrale. E schiavo di miti come l’ossessione della pace a ogni costo che a Monaco 1938 portò Londra e Parigi a cedere a Hitler. O il mito del patto Molotov-Ribbentrop, giustificato dall’Urss perché anti-imperialista».

E la nonviolenza alla Gandhi?
«Gandhi vinse contro un imperialismo democratico, non contro un tiranno sanguinario pronto a sterminare il suo popolo. Gandhi poté trovare una terza via, per i rivoluzionari libici la terza via non esiste sul campo. È triste che non lo si capisca. Agire è giusto, come lo fu contro Milosevic e i suoi massacri in Bosnia e in Kosovo. La guerra è sanguinosa, lo fu anche la Resistenza nell’Europa occupata dall’Asse. Ma allora gli italiani dovrebbero rinnegare la Resistenza? I jet occidentali hanno fermato i Panzer di Gheddafi che puntavano su Bengasi per un bagno di sangue. E in Tunisia ed Egitto la rivoluzione ha vinto perché gli Usa, influenti sulle forze armate locali, le hanno convinte a non fare stragi. In Libia è diverso».

La voglia della “terza via” però è forte in una parte dell’opinione pubblica? Perché, secondo lei?
«Per i precedenti della guerra in Iraq, dove non c’era un movimento rivoluzionario da appoggiare, e perché in Afghanistan la situazione è difficile. Ma ricordiamo che dopo la prima guerra alleata in Iraq (contro l’occupazione irachena del Kuwait-ndr), prima ci fu la no-fly zone, poi Saddam massacrò 500mila sciiti e sterminò col gas un’intera città curda. Spesso chi protesta nel mondo del benessere non s’immagina cosa sia vivere sotto dittatori come Gheddafi. Ciò ha a che fare con ideologie marxiste-leniniste: il mondo diviso in cattivi e buoni, l’imperialismo cattivo e tutti i suoi nemici buoni».

Come giudica la non partecipazione della Germania alla coalizione anti-Gheddafi?
«Merkel e Westerwelle sono opportunisti, fiutano aria di pacifismo e temono per le elezioni di domenica. Potrei capirli solo se criticassero l’amicizia passata di Berlusconi e Sarkozy con Gheddafi, ma non lo fanno. In troppi amano solo le rivolte che vengono sconfitte, facile poi chiudere gli occhi davanti alla repressione, come con la Spagna lasciata a Franco».

(22 marzo 2011)

Parlare con gli atei (Paolo Flores d’Arcais)

Stimato cardinal Ravasi, ho letto con crescente interesse l’intervista – impegnata e soprattutto impegnativa – che ha concesso a Marco Politi per questo giornale. Le sue parole mi hanno colpito, tra l’altro, per un tono appassionato di autenticità che non sempre si avverte in altri uomini di Chiesa del suo altissimo livello gerarchico. Lei enuncia come obiettivo delle sue iniziative “il dia-logo” con gli atei, dunque un parlarsi-fra che non aggiri la controversia, anzi, visto che lo intende come “il confronto tra due Logoi, tra visioni del mondo che si misurano sulle questioni alte dell’esistenza”. E perché non ci siano dubbi che tali “Logoi” debbano essere anche quelli più radicalmente conflittuali con la fede cattolica, esemplifica con gli ateismi di stampo nicciano, marxista, scientista: insomma tutto il “vade retro” del moderno relativismo (condannato dagli ultimi due Pontefici come incubatore di nichilismo). Ateismi radicali che, aggiunge, “io ascolto, rispetto, valuto”.

DI PIÙ. Marco Politi molto opportunamente insiste: “Superando l’atteggiamento classico secondo cui il non-credente è un’anatra zoppa?”. Bella metafora, in effetti, per stigmatizzare l’atteggiamento paternalistico che spinge ancora troppo spesso la Chiesa a scegliere come interlocutori solo quei “gentili” (“Cortile dei gentili” si intitola la sua iniziativa) che sembrano soffrire la condizione della mancanza di fede come un’amputazione ontologica o esistenziale. “Atei” sì, ma “alla ricerca di Dio”. Sembra proprio che invece lei questa volta voglia promuovere il confronto con l’intera costellazione dell’ateismo hard: “non interessano incontri o scontri generici, né di accordarsi su una vaga spiritualità” perché “quel che conta è mettere a confronto visioni di vita alternative” smettendola di “essere evasivi” rispetto alle “profonde domande che ci vengono rivolte dal mondo laico”. Apprezzo “toto corde”. Del resto dirigo da un quarto di secolo una rivista di adamantina laicità (tanto che viene spesso tacciata di “laicismo” proprio perché non è laicità “rispettosa”, da anatre zoppe) che del confronto senza diplomatismi con uomini di fede, anche della Chiesa gerarchica, si è fatta un punto d’onore. Praticandolo.

Spero perciò sinceramente che alle sue parole seguano i fatti. Non solo a Parigi, anche in Italia. Negli ultimi anni l’atteggiamento è stato però di segno opposto. Il dia-logo con l’ateismo è stato sistematicamente rifiutato dalla Chiesa gerarchica e anche da lei personalmente. Si tratta di una verità inoppugnabile, di cui purtroppo posso dare testimonianza diretta.

Quando nell’anno del giubileo MicroMega pubblicò un almanacco di filosofia dedicato a Dio, con saggi in maggioranza di ispirazione atea, l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cardinal Ratzinger, non solo accettò di collaborare con un suo testo, ma anche di presentare il numero in una controversia pubblica con me al teatro Quirino di Roma, gremito all’inverosimile e con duemila persone che seguirono il dibattito sulla strada attraverso altoparlanti di fortuna. Se guardo ai due o tre anni successivi, posso constatare che accettarono pubbliche controversie i cardinali Schönborn, Tettamanzi, Piovanelli, Caffarra, Herranz e infine nel 2007, presso la Scuola normale superiore di Pisa, il patriarca di Venezia Angelo Scola.

Da allora l’atteggiamento della Chiesa gerarchica si è rovesciato. MicroMega ha proseguito nella volontà di un confronto franco, “ragionando in ultima istanza su alcune domande capitali”, secondo quanto lei dice di auspicare. Ma ci siamo trovati di fronte al muro di un sistematico rifiuto. Sia chiaro, un Principe della Chiesa ha tutto il diritto di rifiutare il confronto se non ritiene l’interlocutore all’altezza, senza con ciò smentire la sua volontà di dialogo. Pretende solo atei più autorevoli. Ma visti i precedenti fin troppo lusinghieri in fatto di porporati che hanno accettato la discussione con MicroMega e con me, non è certo questo il motivo del rifiuto.

Sul quale non provo neppure ad avanzare ipotesi. Mi interessa il futuro. Vorrei prenderla in parola, nella sua volontà di “dialogo”, e organizzare con lei occasioni di confronto proprio con il metodo e sui temi che lei illustra nell’intervista. Discutere tra atei-atei e Chiesa gerarchica per “ricercare senza pretendere di sapere a priori”, su questioni che spaziano dal “senso dell’esistenza ” alla “oltrevita, la morte, la categoria della verità” o “su ciò che significa Natura e legge naturale”, visto che da qui nascono le questioni eticamente sensibili che sempre più affollano l’agenda politica non solo italiana.

Si tratta, del resto, di temi previsti nel confronto con il cardinal Ratzinger, che non fu possibile affrontare per mancanza di tempo (vi era anche quello del Gesù storico, che certamente a lei, biblista di fama, interesserà). La invito dunque alle “Giornate della laicità” che si svolgeranno a Reggio Emilia dal 15 al 17 aprile, a cui hanno rifiutato di partecipare i quindici cardinali che abbiamo invitato, e nelle quali potrà discutere con atei non “anatre zoppe” come Savater, Hack, Odifreddi, Giorello, Pievani, Luzzatto, e buon ultimo il sottoscritto. Se poi la sua agenda non le consentisse di accogliere questo invito, le propongo di organizzare insieme, lei ed io, una serie di confronti nei tempi e luoghi che riterrà opportuni. Devo però dirle, in tutta franchezza, che non riesco a liberarmi dalla sensazione – negli ultimi anni empiricamente suffragata – che il “dialogo” che lei teorizza voglia invece eludere il confronto proprio con l’ateismo italiano più conseguente. Con la speranza che i fatti mi smentiscano e che lei possa accettare la mia proposta, le invio intanto i miei più sinceri auguri di buon lavoro.

il Fatto quotidiano, 22 marzo 2011

Risorgimento tra storia e metafora (Alessandro Portelli)

Molti anni fa, in un’intervista in cui si parlava d’altro, una signora mi raccontò la seguente storia. Il giorno del suo matrimonio, mi disse, dopo essere andato a casa con la sposa, mio bisnonno uscì per andare a comprare da mangiare. Mentre era in strada, passò di lì Garibaldi con la sua truppa. Mio bisnonno si scordò della spesa e della sposa, si aggregò a loro, andò a liberare l’Italia e tornò a casa solo quattro anni dopo.
Il 17 marzo, in una trasmissione radiofonica sull’unità d’Italia, si parlava del rapporto fra storia e metafora, e a me è venuto in mente che tutta la narrazione di questi giorni si regge su una metafora: Risorgimento – qualcosa che torna a vivere. E allora ho pensato anche a quello che dice Toni Morrison: ogni cosa morta che torna a vivere duole. Non capiamo il significato stesso della parola “risorgimento” se non ci domandiamo dov’è che questa cosa, tornando a vivere, duole.
In questo ci può aiutare la memoria – non tanto quella consolidata di libri, celebrazioni e musei (che vanno benissimo) ma quella più sotterranea e inafferrabile che passa per le famiglie, per le narrazioni private e familiari. Un’altra signora, anche lei discendente di garibaldini: mio nonno si doveva fare prete, e venne via dal convento. Si dette alla macchia, stava nel bosco e per il bosco passò Garibaldi, e andò con Garibaldi”. In ogni “nascita di una nazione” c’è un momento di rottura e un momento di ricomposizione – è la dinamica americana di rivoluzionecostituzione, e forse anche la nostra, risorgimentounità.
In tutte le narrazioni familiari che ho ascoltato, andare con Garibaldi comincia con una rottura – con la famiglia (due fratelli ternani “si arruolarono con Garibaldi di nascosto dai genitori: lasciarono una lettera e andarono tutti con Garibaldi”), con la chiesa (la figlia di un partigiano ucciso alle Ardeatine raccontava di un nonno anche lui scappato dal seminario per andare con Garibaldi), con l’ordine costituito: il parroco che mi fece la prima comunione mi disse anni dopo che i garibaldini erano “gente un pochino esaltata, senza regolarità di cose”, seguaci di “un brigante fortunato”. Una pronipote mi spiegava che in famiglia sono molto fieri delle amicizie del bisnonno con Mazzini e Garibaldi, ma tendono a minimizzare il fatto che per queste amicizie fece anni di galera. Un antenato eroe va bene, un antenato galeotto un po’ meno; ma – ed è questa la dialettica della nascita delle nazioni – si è galeotti e briganti prima di essere eroi.
Ogni nascita di nazione è costituzione di un nuovo ordine ma anche traumatica rottura e violazione di un ordine precedente; e come spesso nei traumi, la coscienza si organizza per esorcizzarlo. Qui ci aiuta anche quella forma speciale di memoria che è la letteratura. Il vero racconto della rivoluzione americana è “Rip Van Winkle” di Washington Irving, in cui il protagonista si addormenta prima della rivoluzione e si sveglia vent’anni dopo, a cose fatte. Ma una storia del genere c’è anche nella letteratura italiana: si chiama “Mastro Domenico” (1871), dello scrittore toscano di Narciso Feliciano Pelosini, e racconta di un personaggio che si addormenta del Granducato di Toscana e si sveglia anni dopo nel Regno d’Italia. Da un ordine a un ordine, esorcizzando il trauma del doloroso e disordinato risorgimento.
In tanti di questi racconti familiari Garibaldi “passa di lì”. E’ stato ascoltandoli che ho capito perché non c’è luogo dove non ci sia una lapide con scritto “qui ha dormito Garibaldi”: perché Garibaldi l’Italia se l’è fatta davvero tutta, da Quarto al Volturno, da Roma a Ravenna, dall’Aspromonte a Bezzecca. Quest’eroe brigante in viaggio che aggrega seguaci estemporanei è davvero un personaggio “on the road”, e pure coi capelli lunghi (ha scritto Omar Calabrese che la figura letteraria che più gli somiglia è Sandokan – un pirata, appunto, e un combattente antimperialista). Poi gli fanno il monumento, ma varrà pure la pena di ricordarci che “Garibaldi fu ferito”. E da chi.
Delle tre R maiuscole che scandiscono la nostra storia – Rinascimento, Risorgimento, Resistenza – solo la resistenza, non è una metafora (anche se hanno provato a negarla con un’altra metafora, quella della “morte della patria” l’8 settembre), perché i partigiani hanno resistito letteralmente. E infatti in questi giorni dovremmo tenere ben presente che quelli che a riempirsi la bocca di Patria sono stati proprio quelli che nel 1943 l’hanno spaccata in due, fra Brindisi e Salò. Per rimettere insieme l’Italia ci sono voluti i partigiani: li chiamavano banditi (“siamo i briganti della montagna”); ma tanti di loro si chiamarono “garibaldini”.

il manifesto, 18 marzo 2011

Erfurt-Reggio: tutto uguale

topf.jpgPiove anche se l’aria mite promette primavera. Almeno dal punto di vista meteorologico perchè lo scenario rimane quello di sempre, un misto fra il rutto e il pianto, coperto da un ostinato silenzio. Ormai sembra quasi inutile anche scrivere, è troppo facile sbeffeggiare le comparse sulla scena. Se anche Giò Vanardi (il cui cranio veniva usato nei manuali UNI come unità di misura per la durezza delle punte da trapano a uso industriale) lascia la nave corsara, vuol dire che anche i topi stanno nuotando verso riva. Eppure il galeone (ormai) fantasma è ancora lì.

Chi mi conosce sa che sono-a parte la cattiveria d’animo, frutto di un’infanzia difficile-una persona mite e conciliante. Eppure alla Enterogelmina di domenica sera da Fazio avrei scatarrato sugli occhialetti da insegnante stile pornosoft anni 70. Lo so, non va bene, ma il troppo è troppo.

E che dire della Ministra dell’ambiente che cinguetta che le centrali le faremo comunque, a prescindere? E per fortuna lo sappiamo che le centrali non le avremo mai, ma avremo dilapidato, in doni, buste, auto e conti esteri alcuni miliardi per amici e sodali. Per informazioni rivolgersi al sig.Testa (nooo, non il poeta-cantautore, quell’altro..).

Piove ed è troppo facile prendersela con questa gentaglia. Ma nella bella Regium Lepidi? Tengo famiglia e quindi mi astengo. Vi basti il solito apologo germanico: nel 2003 con i Viaggi della Memoria visitammo Buchenwald, Dora, Dresda. Avevamo base a Erfurt e andammo a visitare la fabbrica-ormai abbandonata-Topf&Sohne, costruttori dei forni crematori di Auschwitz/Brikenau. Roba da archeologia industriale, ci parlarono di un comitato, di storici che volevano salvare quel luogo etc. Ora basta andare all’indirizzo: http://www.topfundsoehne.de/cms-www/index.php e godersi le immagini del luogo di memoria aperto nel 2010. Tutto come da noi.

Come non pensare alle nostre Reggiane? Quale migliore luogo di memoria sulla storia del Novecento? Un luogo capace di attrarre visitatori da tutto il mondo. Anche a Erfurt le autorità locali hanno alienato parte dell’area (imponendo vincoli) per finanziare la realizzazione della struttura, aggiungendo 600.000 euro. Noi abbiamo speso una simile cifra per goderci dei file digitali e pagare uffici stampa. Da noi si fa così. Tutto bene (sfpd). Good night and good luck!

Berlinale…

peccato.jpgBanalità: in Germania basta aver copiato il proprio dottorato di ricerca per veder sfumare una carriera destinata ai massimi vertici (infatti la Merkel ha annunciato che si ricandiderà, visto che il suo delfino è “saltato”). Increduli abbiamo chiesto ad amici tedeschi cosa pensassero delle dimissioni di Karl Theodor zu Guttemberg, se non fossero “eccessive”. “Eccessive?-mi rispondevano- Ma come fidarsi di un uomo che copia il compito per guadagnarci su?”.

Tutto come da noi. Ma perchè stupirci. Le nostre “radici” cattoliche trasfigurano il reato in peccato e, come noto, trovi sempre qualcuno che dal peccato ti assolve, basta una donazione, un pateravegloria, una leggina e tutto è fatto. Basta “contestualizzare”. E una volta assolto dal peccato, volete anche che uno si faccia processare e magari finire al “gabbio”, per dirla con Trilussa? Assolto dai peccati, libero di ri-peccare, tanto, si sa, la carne è debole (figurarsi lo spirito) e se tutti siamo peccatori che diritto abbiamo di prendercela con quello che ha avuto la sfortuna di “farsi beccare”? Il reato è pubblico ma il peccato è cosa privata, appaltato a chi assolve e lucra sul perdono, decidendo cosa sia grave e no, ma sempre viso a viso, nel silenzio. Del resto cosa attendersi da un paese (reale) che digerisce tutto, ingoia tutto, meglio che un caimano affamato? Come è noto sotto la stella e la ruota dentata, simboli della Repubblica, andrebbe scritto nel cartiglio “Arrangiatevi”.

Per sua disgrazia zu Guttemberg è nato nella patria di Lutero, della Riforma, del senso etico della cosa pubblica. Peggio per lui, la prossima volta nasce a Casoria o a Varese.

Tornato…

Sono tornato. Una settimana a Berlino con i Viaggi della memoria per riprendere fiato. Per vedere come altrove le cose vadano in altro modo. Ma devo confessare di non avere ancora superato il “jet lag” culturale, ripiombato in questo povero paese dove tutto continua ad andare a ramengo, nell’indifferenza beota dei più.

logo8-ohne-text.gifNel 2003 incontrai Cord, uno storico berlinese, che ci parlò del suo progetto. Aveva scoperto, alla periferia di Berlino, nel quartiere di Schoneweide un piccolo campo di prigionia sopravissuto a 50 anni dalla fine della guerra. In quel campo erano stati tanti prigionieri italiani, tanto da farlo conoscere come “Italiener lager”. Un campo in mezzo alle case, scampato alla distruzione perchè le baracche erano state costruite in muratura per evitare il rischio-visto proprio la minima distanza dalle abitazioni tedesche-di incendi. Quel campo rischiava di andare distrutto dalla speculazione immobiliare. Ci parlò della mobilitazione di cittadini e di un comitato nato ad hoc. Gli feci i miei complimenti per l’impegno, ma-confesso-con un retropensiero: “Bella idea, ma figurati se questi qua riusciranno a far qualcosa…”.

2011 la cerimonia finale dei Viaggi della Memoria, che hanno portato a Berlino oltre 1000 studenti reggiani si è svolta nel nuovo Luogo di memoria di Schoneweide, aperto da un anno e destinato a ricordare proprio i tanti IMI (Internati militari italiani) e prigionieri di altri paesi finiti in quel luogo dal 1943 al 1945. Cord ce l’aveva fatta. Certo aveva tenuto duro, il Comitato di cittadini si era dato da fare, ma avevano trovato, alla fine del loro impegno un Comune, un Land, uno Stato che avevano deciso di intervenire, di investire, non in eventi para-artistici ma in una struttura di memoria, di fare, insomma, un investimento culturale in senso ampio.

Tutto come da noi…

http://www.zwangsarbeit-in-berlin.de/schoeneweide/ziele-i.htm

http://www.topographie.de/dz-ns-zwangsarbeit/