Laicità e Vangelo…

E’ certamente colpa mia ma non capisco. Leggo queste polemichette sul futuro festival della Laicità a Reggio. Da cattolico stanco e affaticato mi chiedo: ma evangelizzare non vuol dire andare da chi non crede e portargli il Vangelo? Cristo andava a cena con pubblicani e prostitute, prendeva l’acqua dalla samaritana, l’unica volta che si incacchiò di brutto fu nel Tempio quando rovesciò i tavoli dello IOR, pardon dei cambiavalute. Noi invece che si fa? Si alza il ditino e si dice che noi no, noi non ci andiamo, perchè ci offendono, perchè sono laicisti. Come essere messo in croce fosse un complimento.

Chi evangelizziamo? I nostri amici già in Chiesa? Mi ricordo di quel medico ortopedico che era bravissimo se il paziente non aveva niente di rotto… Sull’ultima conferenza poi, quella dell’amico Sergio Luzzatto, qualcuno ha letto il suo libro? Qualcuno si chiede perchè siamo l’unico paese occidentale che dispone per legge (meglio con apposite circolari) che debba essere esposto il crocefisso negli edifici pubblici? In Germania si può esporlo in un aula a patto che tutti i genitori degli alunni siano d’accordo, basta uno e non se ne fa niente. In Francia è vietato ogni simbolo religioso. Negli altri paesi il problema non esiste.

Ma davvero qualcuno pensa che esponendo un crocefisso si evangelizzi qualcuno? O che l’ora di religione abbia mai guadagnato 1 conversione? E’ mai successo? Attendo lumi.

Piccola questione linguistica: io sono cattolico ma sono profondamente laico. Credo ancora nel cavouriano “libera Chiesa in libero Stato”. Il termine laico però è passato ormai come sinonimo di non credente. Cavolo, e io che faccio? Già ho abbastanza confusione in testa… In compenso i credenti paiono essere solo quelli che ritengono normale che uno stato debba sussumere (bello eh?) all’interno delle sue leggi precetti religiosi (fine vita, fecondazione, etc..). Allora se cominciassimo a chiamare questi “credenti”, “clericali” non faremmo un attimo di chiarezza? Nomina sunt conseguentia rerum, o no?

Per chiarezza: io andrò alle conferenze delle Giornate sulla laicità, non sarò a quella di Luzzatto ma solo perchè cade di domenica e per me tale giornata è dedicata, come noto, a Fortezza Bastiani. Sarò là, vigile sugli spalti, a leggermi sempre di Luzzatto, oltre che Crocefisso di Stato (Einaudi 2011) anche I popoli felici non hanno storia. Interventi sul nostro passato (Manifestolibri 2009).

Italo, Alcide e il mito (di Sergio Luzzatto)

Domenica 17 gennaio 1954, un vecchio contadino emiliano entrò nel palazzo del Quirinale per incontrare un vecchio proprietario terriero piemontese che era anche il primo presidente eletto della Repubblica italiana. Il vecchio contadino, Alcide Cervi, portava al petto sette medaglie d’argento, una per ciascuno dei suoi figli caduti nella Resistenza. Il vecchio proprietario e presidente, Luigi Einaudi, teneva a onorare di persona chi aveva pagato un prezzo tanto alto alla liberazione del paese. Poche settimane prima (correva il decimo anniversario della fucilazione dei fratelli Cervi) Einaudi aveva scoperto la figura di Alcide grazie a un articolo pubblicato sulla rivista dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, «Patria indipendente». L’articolo – che sta all’origine di un mito – era stato scritto da Italo Calvino.

Calvino era allora un tipico interprete del “lavoro culturale” svolto per conto del Partito comunista: autore e funzionario della casa editrice Einaudi, fondata vent’anni prima dal figlio del futuro presidente della Repubblica; collaboratore fisso dell’«Unità». Sul giornale di partito Calvino aveva pubblicato, negli ultimi giorni del 1953, un secondo articolo sui Cervi. Per scrivere quei pezzi il trentenne ex partigiano si era recato di persona a Gattatico, nella “bassa” emiliana fra Parma e Reggio. Aveva visitato la fattoria dove i sette fratelli resistenti (e il padre stesso) erano stati catturati dagli uomini di Salò il 25 novembre 1943, un mese prima di essere messi al muro senza processo, per rappresaglia dopo un attentato. Aveva incontrato papà Alcide, «basso e solido e nodoso come un ceppo d’albero»: «il padre scampato al terrore e al dolore», rimasto vedovo subito dopo la morte dei figli. Aveva parlato con almeno una delle vedove dei fratelli, e con la maggiore degli undici orfani, «la ragazza coi capelli rossi che quando i fascisti assediarono la casa aveva nove anni, e adesso ne ha diciannove».

Calvino era rimasto folgorato dalla visita a casa Cervi. Lo si capisce dal tono insieme complice e solenne, familiare e fiabesco, che impronta i suoi articoli del dicembre ’53. Articoli così eloquenti da folgorare – di riflesso – un “padre della patria” che si era imposto all’attenzione dell’opinione pubblica, dopo gli anni della Costituente, come il massimo cantore della Resistenza: il giurista fiorentino Piero Calamandrei. Sulle orme di Calvino, anche Calamandrei aveva visitato casa Cervi. E sulla falsariga degli articoli di Calvino, Calamandrei aveva preparato un discorso in onore di Alcide ch’egli tenne al teatro Eliseo di Roma il 17 gennaio 1954: lo stesso giorno in cui, al Quirinale, il contadino emiliano era stato ricevuto dal presidente piemontese.

Le fondamenta del mito dei fratelli Cervi furono gettate allora, nel mese scarso che separò la pubblicazione degli articoli di Calvino dall’orazione di Calamandrei. Allora prese corpo una sorta di tacita intesa fra il giovane narratore e il maturo giurista, per rappresentare i sette fratelli emiliani come il simbolo uno e plurimo dell’epos resistenziale: eroi degni della voce di Omero, o della penna di Ariosto. Il 12 gennaio 1954, su un cartoncino augurale della casa editrice Einaudi, Calvino si rivolse a Calamandrei come un discepolo al maestro, ma anche come un capostipite all’erede: «Caro professore, le cose che mi scrive sui miei articoli sui Cervi mi fanno molto piacere, soprattutto perché mi sta a cuore che la loro storia sia divulgata e sentita e intesa. Mi dispiace non poterLa sentire, domenica, a Roma. Chissà che cose belle saprà dirne, Lei, che sa ancora parlare di queste cose con parole non logore».

Quanto magnificamente sapesse parlare di queste cose Calamandrei avrebbe dimostrato l’anno successivo, quando celebrò il decimo anniversario della Liberazione raccogliendo in volume i suoi maggiori discorsi e le sue migliori epigrafi di argomento partigiano: Uomini e città della Resistenza valeva da cartaceo monumento ai caduti, e portava al centro il testo dell’orazione romana di Calamandrei. Ma più importanti ancora si rivelarono gli effetti del “lavoro culturale” di Calvino. L’eloquenza dei suoi due articoli sui fratelli Cervi fu infatti tale da spingere i dirigenti nazionali del Pci a lanciare una vera e propria campagna di propaganda, per trasformare i sette figli del cattolicissimo Alcide nella quintessenza del martirologio resistenziale comunista.

Anche il segretario generale del Pci, Palmiro Togliatti, compì (non era la sua prima volta) il pellegrinaggio a Gattatico: incontrò Alcide Cervi il 17 settembre 1954. E la Commissione stampa e propaganda del Pci – dove lavorava un giovane cronista dell’«Unità» che sarebbe divenuto, decenni dopo, un celebre “volto” televisivo: Sandro Curzi – decise di mobilitarsi per allestire un libro di memorie firmato da “papà Cervi”. L’onore toccò a un altro giornalista del quotidiano di partito, Renato Nicolai. Il quale, ricamando ad abundantiam sugli articoli di Calvino, su conversazioni col vecchio Alcide, su interviste con parenti o compaesani, e soprattutto sulle direttive della Commissione stampa e propaganda, produsse per gli Editori Riuniti un volumetto che l’Einaudi rimanda adesso in libreria, corredato da un’introduzione dello storico Luciano Casali. Pubblicato per la prima volta nell’autunno 1955, I miei sette figli fu uno straordinario bestseller. Venne promosso capillarmente presso le sezioni del Pci, fu messo in vendita attraverso un sistema di pagamento rateale, diventò un must nella bibliotechina di ogni buona famiglia comunista. Entro un anno dall’uscita, si calcola che ne fossero state diffuse quasi un milione di copie.

La storia dei fratelli Cervi – aveva detto Calamandrei nel discorso del teatro Eliseo – era talmente meravigliosa da non richiedere alcuna toilette: «Non c’è bisogno di abbellirla. I fatti parlano da sé». In realtà, da Italo Calvino in giù, l’intellighenzia comunista fece di tutto per abbellire una storia certo eroica, ma parecchio complicata. Perché nei due o tre mesi intercorsi fra l’inizio della Resistenza e la loro morte, i sette fratelli Cervi erano stati tutto fuorché altrettante incarnazioni del «rivoluzionario disciplinato», consapevole avanguardia di un «popolo alla macchia». Quando, all’indomani dell’8 settembre 1943, il movimento partigiano si presentava ancora informe, spontaneistico, velleitario, i Cervi si erano dati all’attività di renitenza e di sabotaggio con una convinzione ai limiti dell’incoscienza. Né erano mancate le frizioni fra loro e i dirigenti locali del Partito comunista clandestino, che accusavano i fratelli Cervi di comportarsi da «anarcoidi».

Fu per fare «leggenda» (com’ebbe a dire Calamandrei stesso) che i cantori dell’epos resistenziale trasformarono i fratelli Cervi in icone, quasi in santini. Riconoscendo un massimo di coerenza entro un percorso che era stato, dal cattolicesimo all’antifascismo e dall’antifascismo alla Resistenza, più appassionato che lucido, più coraggioso che accorto. E sottacendo le difficoltà ambientali, gli inciampi militari, l’isolamento politico dei sette fratelli durante la loro breve stagione da partigiani sull’Appennino. Fu per fare leggenda, e fu inoltre per segnalare agli italiani del dopoguerra come la storia della Resistenza nella “bassa” emiliana non fosse affatto riconducibile alla caricatura infamante che andava veicolandone la propaganda anticomunista, tutta impegnata a denunciare i crimini del cosiddetto «triangolo della morte».

Nei dintorni di Reggio Emilia, durante la guerra civile del 1943-45, i partigiani “rossi” erano stati vittime delle belve nazifasciste molto più che carnefici di agnelli innocenti. Era questa la lezione che veniva (e che ancora viene) dalla storia dei fratelli Cervi, fucilati senza processo senza che avessero, loro, mai ucciso nessuno. Era questa la «storia familiare» che per diventare «storia d’Italia» – teorizzò allora Calvino – aveva bisogno di farsi mito.

Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2010

Sergio Luzzatto insegna Storia Moderna all’Università di Torino

Un consiglio: un libro

Oggi consiglio un libro di un amico e ottimo storico, Sergio Luzzatto: esce in questi giorni presso Manifestolibri. “I popoli felici non hanno storia”. E’ la raccolta di articoli che Luzzatto ha pubblicato sul Corriere della Sera.

Che cosa ha significato e cosa significa, per noi italiani, avere il papa in casa? Qual’è il rapporto fra passato e presente nella storia, ormai lunga, dei terroristi e del terrore? In che senso le discussioni dell’oggi sulle nuove frontiere della vita e della morte giadagnano a essere illuminate da vicende di ieri  o dell’altroieri?. Perchè l’interminabile conflitto fra israeleiani e palestinesi ci riguarda tutti, più di ogni altra guerra al mondo?