Una storia d’inverno

Eccoci alla quarta avventura di Dario Lamberti.

L’inizio del racconto.

Il volume lo trovate a:

https://www.amazon.it/Una-storia-dinverno-strani-Lamberti/dp/B09NRBS8MN/ref=sr_1_4?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&crid=3B0PEH4SEIYGT&keywords=massimo+storchi&qid=1640096062&sprefix=massimo+storchi%2Caps%2C74&sr=8-4

 

Copertina

12 dicembre 1956, mercoledì
Il fumo della pipa saliva piano e spariva nella luce della lampada
da tavolo. La radio mandava musica classica. Era chiuso,
dentro. Al sicuro. E stava bene, senza neppure troppa angoscia.
Fuori l’inizio di un pomeriggio quasi d’inverno, freddo
dappertutto e gocce di pioggia scura ferme sui vetri.
Un rumore dal piano di sotto, e poi voci, tutte femminili,
filtrate dalla porta chiusa. Poi silenzio e di nuovo voci. Voci
che conosceva, Franci, Lilly e poi un’altra. Una voce che
assomigliava a un ricordo. Chi poteva essere con una voce così
simile a quella voce? Quella voce. Si alzò, appoggiò la pipa, si
mosse lentamente. Andare a origliare? E perché no, era a casa
sua, erano gli altri, quelle altre, a essere venute lì. Ne aveva il
diritto. Non gli passò neppure per un istante l’idea di aprire
quella porta e scendere a vedere. No, se ne stava lassù, nel suo
studio, tranquillo, quasi felice. Gli bastava sapere, conoscere
quelle voci…
Socchiuse la porta e rimase fermo, immobile, una spalla
appoggiata allo stipite, l’orecchio verso il piano di sotto a
raccogliere i suoni. Il chiacchiericcio ora era più debole, forse
avevano chiuso la porta della sala, distingueva appena Lilly e i
suoi toni più acuti, ma niente altro. Passavano i minuti e
rimaneva lì, si accorse di avere le mani sudate, le sfregò sulla
stoffa dei calzoni, se le infilò in tasca a stringere il fazzoletto,
preso e portato a turno prima nella destra e poi nella sinistra.
Anche Franci adesso parlava insieme al rumore di una sedia
spostata e forse di una che si soffiava il naso. Qualcuno
piangeva, forse, lì sotto.
«Dario, ora mi ascolti» era il tono deciso di Franci, quello
che non ammetteva repliche. Si mise a sedere. Doveva
ascoltare.
«Con te è tutto così difficile… qualche volta mi sembra di
non aver sposato un uomo, ma un monumento, un romanzo…
forse anche questo fa parte del tuo fascino, forse anche per
questo mi sono innamorata, ma qualche volta sapessi come
diventa tutto pesante! Abbiamo due figli, una vita normale. Hai
una famiglia, non puoi continuare a vivere come un
sopravvissuto, come uno sempre in fuga. Bisogna crescere,
Dario, crescere e vorrei che lo facessimo insieme, capisci?»
Gli venne davanti e gli si accucciò prendendogli le mani:
«Oggi sono venute qui Lilly e Giovanna, sì Giovanna, la tua
Giò, quella lì che adesso è tua cognata. Sono venute qui per
sfogarsi, per chiederci aiuto. A me e a te. Io un po’ le ho tenute
giù, ho fatto finta che tu fossi uscito, ho ascoltato e ho
raccontato che tu eri fuori e che appena tornavi… Non è
possibile, capisci?»
«Perché?»
«Perché? Mi chiedi perché? Perché tu eri qui e non sei sceso,
avrei dovuto chiamarti e sputtanarti, e poi vedere cosa
succedeva, tu e Giò, eh?»
«Non te l’avrei perdonata…»
«Ma tu scherzi! Tu stai scherzando!» Franci si alzò di colpo
e la gonna a pieghe quasi fece un mezzo giro. Dario sentì il suo
profumo e per un attimo si sentì sollevare lontano.
«Dai, non fare così!»
Franci si girò verso la finestra, le braccia incrociate, vicina ai
vetri freddi su quel cielo grigio.
Ci fu un silenzio lungo. Poi Franci si voltò: «Almeno vuoi
sapere perché erano venute? Forse c’era un perché importante,
no?»
In realtà a Dario non interessava molto il perché, quello che
contava era che Giò fosse entrata in quella casa, era già
qualcosa, anzi molto.
Franci fece per uscire, sapeva che lasciare le cose in sospeso
era il modo per far scivolare fuori Dario da quella chiusura
insopportabile, quell’abulia ferma e decisa. Abulico ma curioso,
una strana miscela.
«Cosa è successo?» Dario la fermò quasi sulla porta.
Aveva funzionato ancora una volta: «Erano preoccupate per
tuo fratello, Guido forse è nei guai».
«Finalmente una buona notizia, ci voleva tanto?!» Dario
saltò in piedi, la pipa stretta in mano.
«Scemo…»
«L’hanno sorpreso mentre rubava i soldi della questua, no,
aspetta, mentre beveva il vino santo della messa».
Si guardarono e scoppiarono a ridere.
Franci si buttò fra le braccia di lui e si baciarono. Dario sentì
le sue labbra e la sua lingua e il suo corpo stretto a lui. Non
poteva succedergli niente di male, ne era certo. Continuarono
a baciarsi e le sue mani scesero sul suo sedere.
«Dai, lasciami dire…»
«Cosa vuoi dirmi… Guido nei guai è una notizia da
festeggiare» e le infilò una mano sotto la camicetta.
«No, ascolta…» Franci si staccò e lo fissò con uno sguardo
deciso.
«Hai letto di quella polacca che hanno trovato morta?»
«Certo, era sul “Carlino” di ieri. E Guido…?»
«Beh, quando l’hanno trovata Guido era lì e lui non sa dire
perché».
Silenzio.
«No, calma, muore una tizia che era una… e Guido era lì?
Ma dai!»
Dario non sapeva se ridere o cosa. Si rimise in poltrona,
pronto ad ascoltare.
«Guido era lì, in questa stanza del Campana, con questa tizia
morta. Suicidata? Chi lo sa? C’era solo un trafiletto sul giornale.
Nessuno dice niente e lui sembra rincoglionito. Giò l’hanno
chiamata perché l’andasse a prendere, tanto era sconvolto.
L’hanno rintracciata con i documenti che lui aveva in tasca. La
padrona dell’albergo s’è accorta di chi fosse e, mentre arrivava
la questura, l’ha messo in un’altra stanza e ha chiamato la
moglie».
La sola cosa che gli venne in mente era Giò che entrava in
una camera d’albergo e trovava l’intemerato Guido sconvolto
in quel casino. Troppo bello!
«Ma questa polacca che ci faceva a Reggio e come è morta?»
«E chi lo sa? Guido da ieri s’è messo a letto e non risponde,
ogni tanto piange e si tira le coperte sulla testa, Giovanna è
disperata».
Giò disperata? Perfetto! Il mondo allora aveva una sua
armonia! Guido a letto a piangere! Era il mondo che riprendeva
il suo corso, la vita che tornava a scorrere secondo i suoi ritmi
fisiologici.
Era felice. E non provava nessuna vergogna. Rimorso? E di
cosa? Che quella merda di suo fratello fosse finito nei guai? No,
la sua era pura felicità.
«Vabbè – finse un po’ di partecipazione – ma noi cosa
c’entriamo?»
«Luigi è via, è a Roma e non torna prima di sabato. Lilly non
ha voluto dirgli niente e allora sono venute qui».
«A far cosa?»
Franci rimase in silenzio guardandolo. Dario conosceva
quello sguardo, era quello che significava “adesso-ti chiedo-una
cosa-e non puoi-dire-no”. Era incastrato nella sua poltrona, la
pipa, ormai fredda, in mano, impossibile fuggire.
«Ci chiedevano se tu potessi, visto che conosci quel
commissario, sondare… sentire cosa sanno, cosa credono in
questura».
La guardò come se gli avesse chiesto di passeggiare nudo in
via Emilia.
Furlani? Da due anni almeno non lo vedeva, da quando si
era sposato con Teresa, due anni senza Teresa, altro che
Furlani. Anche se non riusciva a detestarlo, anzi, nonostante in
fondo fosse solo un questurino e si fosse sposato con lei.
«Scusa la domanda: ma voi pensate che io sia scemo? Che io
possa andare in questura a chiedere a Furlani che mi dia
informazioni, magari riservate, su una indagine in corso? Ah,
certo, magari mi dà il fascicolo a casa da leggere!»
Franci si era inginocchiata davanti a lui, ma non stava
supplicando. Semplicemente chiedeva, con fermezza e
dolcezza. Chiedeva l’impossibile. L’impossibile o quasi.
E fu il quasi, ma soprattutto l’idea che si fosse rimesso in
gioco un possibile punto di contatto con Giò. Giò, che
neppure aveva visto, ma che era venuta lì a casa sua a chiedere
aiuto. A lui. Fu quell’insieme irragionevole che lo fece alzare
dalla poltrona, appoggiare la pipa, chinarsi su Franci, sollevarla
e baciarla: «Lo faccio solo per te, non per quella merda di
Guido».
Erano le tre e mezzo del pomeriggio, il cielo grigio di
dicembre, quando Dario prese il telefono e chiamò Furlani.
La voce napoletana del piantone lo fece aspettare in linea:
«Chi devo dire al dottore?»
«Professore! Come sta?» Eccolo il commissario e subito per
analogia gli venne in mente il sedere di Teresa che sfumò in un
flash di memoria.
«Non c’è male, mi dispiace di disturbarla, ma dovevo
parlarle, in privato».
«Se è per altri buchi di talpa…»
«No, non si preoccupi, spero che stavolta…»
«Ma no, non si scusi, in fondo è stato bene che allora… Se
vuole passare anche oggi, fino alle cinque sono qui, anzi,
vediamoci al solito caffè, si ricorda?»
«Certo, fra mezz’ora?»

segue