Cara sinistra, per guarire rileggi Turati (Massimo Recalcati)

La Repubblica, 28 novembre 2017

La malattia della sinistra italiana pare cronica e rivela radici antiche. Uno dei suoi sintomi maggiori è la spinta alla frammentazione, alla litigiosità interna che porta le sue diverse componenti a entrare in competizione tra loro e a lottare ottenendo l’esito fatale di indebolire la propria forza. La sua matrice non è tanto psicopatologica, ma pienamente politica: ” Noi siamo spesso contro noi stessi, lavoriamo per i nostri nemici, serviamo le forze della reazione ” . Chi parla così? Da dove provengono queste parole che sembrano scritte da un commentatore della crisi attuale della sinistra? Sono le parole che Filippo Turati pronuncia in occasione del congresso socialista del 1921, svoltosi a Livorno, dove si consumò la scissione dalla quale nacquero i comunisti italiani.
Il discorso di Turati andrebbe oggi riletto per intero e meditato profondamente. Non tanto e non solo per la diagnosi e prognosi che esso formula con vera lucidità anticonformista sul destino fatalmente nefasto della rivoluzione d’ottobre, ma per l’elogio che egli compie dell’anima riformista della sinistra italiana in quel momento storico messa sotto accusa dalla tendenziale prevalenza dell’anima massimalista. Secondo Turati se si sceglie la via del riformismo si deve rinunciare alla violenza della rivoluzione.
Traduco e attualizzo a mio modo: l’opzione riformista per essere tale implica la castrazione di ogni miraggio utopico. Una delle ragioni che impedisce la costituzione di un campo unitario della sinistra non è forse dovuta alla prevalenza di una componente ideologicamente neo-massimalista che non riesce a cogliere il carattere necessariamente imperfetto, provvisorio e sempre migliorabile dell’azione riformista? La critica implacabile delle riforme varate dai governi Renzi e Gentiloni e la necessità di un cambio di rotta radicale e, ovviamente, inconciliabile con la direzione di quelle riforme sostenuta dalla sinistra radicale, ricalcano tutti i limiti politici del massimalismo. La storia è sempre la stessa: essere contro se stessi e lavorare per il nemico. Con l’aggravante, se posso esprimermi così, che il neo-massimalismo appare geneticamente imparentato con un profondo conservatorismo. Essere di sinistra significherebbe coltivare una concezione immobilista della propria identità, ribadire il valore di concetti, categorie, principi che appartengono al secolo scorso.
Il circolo è vizioso: il neo-massimalismo si nutre del conservatorismo e, a sua volta, il conservatorismo diventa una manifestazione estrema del neo-massimalismo. Si tratta, insomma, di un mostro a due teste. La rigidità politica del neo- massimalismo che considera ogni riforma inadeguata, incerta, compromissoria e ambigua deriva direttamente dal conservatorismo ideologico a sua volta combinato, non a caso, con un certo odioso paternalismo. È una combinazione micidiale (conservatorismo=paternalismo=massimalismo) che genera effetti altrettanto micidiali: l’utopia diventa una galera che impedisce di intervenire nella trasformazione effettiva della realtà. L’idealismo neo-massimalista implica sempre e unicamente la testimonianza della sua sconfitta. Non a caso il frazionamento politico a sinistra del Pd rivela il carattere elitario del narcisismo delle piccole differenze; ciascuno rivendica la propria maggiore coerenza ideale senza tener conto che nel frattempo il mondo è cambiato. Perché accade? Perché lo scissionismo è una malattia che affligge sempre più la Sinistra della Destra? Perché, appunto, la sua matrice è l’idealismo o, se si preferisce, la vocazione utopica del massimalismo. Nel nostro caso si tratta di una sinistra che resta agganciata a un paradigma teorico superato, che utilizza categorie che il tempo storico ha svuotato di senso e ha reso simili a carcasse spiaggiate.
La difficoltà per ogni uomo di sinistra – quale io stesso sono – è quella di elaborare un lutto compiuto di quel paradigma. Ma perché è così difficile? Perché la sinistra italiana ha avuto lo straordinario merito nella storia del nostro Paese di elevare la politica alla dignità di un poema collettivo. Esistono una simbologia e un immaginario densissimi che resistono al loro necessario superamento: l’eroismo e l’intelligenza di Gramsci, la bandiera rossa, la lotta di classe, la resistenza, l’antifascismo, le grandi conquiste sindacali, la contestazione del ‘ 68, la battaglia contro il terrorismo e la difesa dello Stato democratico, il volto di Berlinguer e la sua testimonianza morale. Per l’uomo di sinistra questo patrimonio non può essere svenduto, né semplicemente liquidato. Esso mantiene una tale forza attrattiva che però può, purtroppo, far scordare che quella narrazione del mondo si è definitivamente esaurita perché il nostro mondo non è più il mondo del Novecento. Quando Matteo Renzi dichiara che il punto il riferimento ideale della sinistra oggi non è più Gramsci, Togliatti o Berlinguer, ma Obama non ci invita a cancellare il passato ma a incorporarlo per guardare avanti.
Lo strappo è forte: in gioco è la realizzazione di un lavoro compiuto del lutto. Non si tratta di cancellare la memoria di ciò che la sinistra è stata, del suo poema collettivo, ma di incorporare quella memoria senza volgere più il nostro sguardo all’indietro. Bisogna lasciare che i morti seppelliscano i morti. Fintanto che la sinistra non compirà questa operazione simbolica sarà destinata a ripetere la sua antica malattia diagnosticata lucidamente da Turati: ” essere contro se stessi, lavorare per i nemici, alimentare le forze della reazione “.

Un fragile antifascismo.

Periodicamente riemergono gesti, comportamenti, affermazioni che testimoniano quanto l’antifascismo sia un fragile e indifeso fiore nelle italiche praterie. Saluti romani, mausolei per generali felloni, magliette saloine e quant’altro provocano brevi fiammate di indignazione e accorate chiamata alle armi di schiere sempre più disperse e divise, piuttosto impegnate a preparare la nuova, inevitabile, vittoria delle destra o del dilettantismo politico stellato.

Antifascismo fragile. Perché. Propongo qualche elemento di riflessione che, spero, sia di qualche utilità.

Il primo è quasi banale. L’antifascismo in Italia è fragile perché…l’Italia è stata fascista.

Fascista per opportunistica convenienza, certo (Longanesi diceva che “Essere fascisti è obbligatorio, ma non è impegnativo”), ma anche per convinzione, perché il fascismo era stato espressione dei tanti difetti e limiti di una nazione ancora giovane e nata su tante contraddizioni (frattura nord-sud, distacco fra Stato e Nazione, una monarchia certo non all’altezza del compito storico di costruire uno Stato moderno, la presenza ostile della Chiesa).

Un’Italia (fascista) che ha vissuto la transizione verso la democrazia sulla base di una sostanziale continuità di apparati dello Stato, istituzioni e uomini.

Un secondo elemento investe direttamente il fenomeno Resistenza. Defunto l’antifascismo degli anni anni trenta, con la firma del Patto Molotov-Ribbentrop, l’antifascismo che è alla base della lotta degli anni 1943-45 viene in qualche modo “reinventato” dagli alleati e facilitato, nello scenario italiano, dall’atteggiamento di collaborazione dell’Urss tradotto nella cosiddetta “svolta di Salerno”. Antifascismo per la prima volta unitario, il contributo degli italiani allo sforzo alleato contro il III Reich.

Ma la Resistenza non fu un fenomeno nazionale, l’avanzata degli alleati nella penisola, se evitò le tragedie dell’occupazione nazista, paradossalmente ebbe un effetto negativo sulla costruzione democratica in quelle zone del paese dove non si ebbe nessuna rottura fascismo\democrazia ma una quasi completa continuità di classi dirigenti, inclusi i rapporti fra Stato-chiesa e criminalità organizzata.

La durata della Resistenza fu quindi, com’era logico attendersi, vincolata all’andamento della campagna d’Italia combattuta dagli alleati. La cronologia rende bene questo dato di fatto. Napoli è liberata alla fine del settembre 1943, Roma il 4 giugno 1944, Firenze nell’agosto, Milano il 25 aprile 1945.

Ampie zone d’Italia che erano state fasciste fino al giorno prima non ebbero la Resistenza a sovvertire l’ordine sociale e politico pre-esistente, a fornire una nuova classe dirigente. L’Italia del “prima” si riversò nel “dopo” come i risultati del referendum del 2 giugno 1946 confermarono, con l’Italia spaccata in due, con un sud ancora monarchico e il nord repubblicano. Per questa parte d’Italia l’antifascismo rimase un fenomeno di minoranze politicizzate, un’eco lontana di fronte al potere reale e presente sul territorio.

Quando poi, nell’Italia della ricostruzione e della guerra fredda, l’antifascismo fu preso-e a buon diritto- come collante identitario dal solo partito comunista (la DC che avrebbe avuto altrettanto diritto di rivendicare la sua attiva partecipazione alla Resistenza scelse la via dell’atlantismo e dell’anticomunismo) si innescò il processo che vediamo oggi giungere alle estreme conseguenze.

Antifascismo come ideologia di parte, geograficamente vincolata e limitata.

Il post 1989 ha poi fatto il resto, la sinistra post-comunista trasformista e incapace di arrivare alla sua Bad Godesberg per ridefinire, finalmente, l’antifascismo nella categoria dell’antitotalitarismo, rialzava bandiere sempre più stanche e sfilacciate di fronte alle vecchie correnti sotterranee che potevano riemergere nel berlusconismo prima e nella polverizzazione degli schieramenti che stiamo vivendo.

Avrebbe potuto essere diversa questa storia dell’antifascismo nazionale? Senza entrare in narrazioni distopiche penso siano state perse varie occasioni per dare qualche possibilità a qualche migliaia di italiani (se non milioni) di sentirsi parte della vicenda storica che ha liberato l’Italia dal fascismo.

Dopo l’8 settembre oltre 600.000 militari italiani finirono prigionieri nei lager in Germania come IMI (Internati militari italiani). Di essi meno del 15% accettò di rientrare in patria aderendo alla RSI (e di questi una percentuale non trascurabile disertò per unirsi ai partigiani). Gli altri rimasero prigionieri. Dissero no. Almeno un 15% di loro morì per le condizioni durissime dell’internamento.

Furono partigiani? No, ma furono resistenti, i primi resistenti. Preferirono la fame, l’odio (per essere nella prospettiva dei tedeschi dei “traditori”) e le botte a proseguire a combattere coi nazisti e fascisti.

Dissero “no” come potevano fare. E lo fecero. Erano ragazzi di tutta Italia, soldati di un esercito nazionale. Quando tornarono in Puglia, Sicilia, Sardegna, Calabria dopo la fine del conflitto, non furono riconosciuti per quello che avevano fatto. Non furono considerati anche loro parte attiva di quella costruzione di una democrazia. Tornarono da sconfitti, vissero in pieno quella “solitudine del sopravissuto nel mondo del ritorno” descritta da Anna Bravo, reduci in un’Italia che voleva dimenticare e ripartire. E il loro fu il silenzio, per quasi tutti durato fino alla loro morte. Storie ritrovate da figli e nipoti, recuperate in solaio dentro a zaini e valigie abbandonate per 60 anni. Ognuno di loro avrebbe potuto essere un elemento attivo di democrazia in tanti parti d’Italia che, oggi lo vediamo, mostrano tutti i loro limiti di consapevolezza culturale ed etica, prima ancora che democratica in senso ampio. Una grande occasione perduta.

La Resistenza armata, l’icona del partigiano armato che scende a liberare le città (tutto vero ma non sufficiente) negli anni della guerra fredda e della monumentalizzazione della guerra di Liberazione poi, ha schiacciato la feconda complessità del fenomeno Resistenza (anzi delle tante Resistenze) che furono il nostro contributo alla vittoria alleata in Italia. Ha relegato sullo sfondo il ruolo femminile, l’azione di salvataggio degli ebrei dalla Shoah, le tante azioni singole e collettive di resistenza civile senza le quali proprio la celebrata resistenza armata non avrebbe potuto attecchire così in profondità in tante zone dell’Italia occupata.

Occasioni perdute in un’Italia che ha dovuto attendere il 24 aprile 1964 perché “Se questo è un uomo” fosse trasmesso per la prima volta alla Radio nazionale, mentre già nel 1957 Gaetano Azzariti (che era stato presidente del cosiddetto “tribunale della razza”, istituita presso il dipartimento di Demografia e razza del ministero dell’Interno nel 1938) diventava presidente della Corte Costituzionale.

E oggi siamo a raccogliere i pezzi, ad accorgerci di quanto sia diventato brutto un paese dove, scomparsi i partiti (che facevano azione se non di educazione almeno di limitazione dei danni) ci attacchiamo a ritornelli un po’ logori, seppur in buona fede.

La scuola…”, vero, bene. Da anni parliamo con gli studenti, ma che fatica qualche decennio fa convincere il partigiano che quello che doveva raccontare in classe non era la storia della seconda guerra mondiale (lui che era arrivato, non per colpa, alla terza elementare) ma la sua vita di ragazzo di 20 in montagna, con la paura, la fame, le speranze di allora. Svolgere a pieno il proprio ruolo di testimone e non di inadeguato insegnante.

E che fatica convincere tanti che “se uno cosa era successa bisognava raccontarla” per superare i silenzi sulla violenza agìta nella resistenza, silenzi che tanto sono costati in termini di percezione diffusa della lotta partigiana.

La scuola. Vero, bene. Ma la famiglia? Che ruolo ha avuto nel formare questa diffusa mancanza di coscienza antitotalitaria? Chi ha formato i genitori ad evitare ragionamenti e pensieri razzisti poi trasferiti sui figli? Paradossalmente sono più “formati” i giovani di vent’anni che i loro padri e madri di quaranta o cinquanta. In oltre quindici anni abbiamo lavorato con migliaia di giovani portandoli nei “Viaggi della memoria” sui luoghi della Shoah e della Resistenza europea. Sono diventati spesso loro i formatori dei loro genitori, spesso consapevoli di quanto non fosse stato loro trasmesso negli anni.

Abbiamo detto della scomparsa dei partiti, o meglio della loro nebulizzazione, conseguenza diretta di non-scelte compiute quando il novecento, “secolo breve”, si concluse con la caduta del muro di Berlino.

Né in mondo dell’associazionismo gode di migliore salute. La stessa Anpi da depositaria di valori con la progressiva scomparsa dei protagonisti si è avviata a divenire una “normale” associazione politico-culturale dove trovano spazio istanze antagoniste, residui di anacronismi storici (come dirsi antifascisti e comunisti oggi?), assumendo ruoli politici nel dibattito nazionale, anziché rimanere la casa di tutti coloro che credono nell’antitotalitarismo di dimensioni almeno europee.

Nessuna conquista è per sempre” si ricorda tante volte e anche l’antifascismo, leggibile oggi solo come antitotalitarismo, deve ritrovare la sua strada, in una foresta sempre più oscura.

Il PCI a Reggio: un partito “speciale”

Il PCI a Reggio: un partito “speciale”

M.Storchi

Il socialismo si prospettava come soluzione di qualsiasi problema e ci sembrava talmente vicino che non ci preoccupavamo di stipendio pensione, mutua..si lavorava alla garibaldina perché il socialismo, panacea di tutti i mali, era dietro l’angolo, non avrebbe tardato ad apparire”, nel ricordo di Ermes Grappi, giovane partigiano e poi funzionario di partito (uscito bruscamente nel 1958) c’è la sintesi di tante vite spese per il “partito”. Un partito vissuto quasi 70 anni esatti che ha dato un contributo decisivo alla democrazia italiana, in un paese che ebbe la fortuna “di avere i comunisti senza avere il comunismo”.

Un partito che dal primo segretario, Angelo Curti, all’ultimo, Fausto Giovannelli ha segnato la storia del novecento nel reggiano, qualcosa di più di un’organizzazione politica: una chiesa laica, una speranza, un’utopia, un ricordo.

Un partito “speciale” soprattutto a Reggio Emilia, già dagli anni trenta quando, una incredula Teresa Noce, inviata dalla direzione estera del PCI a verificare forza e strutture del partito clandestino nel reggiano, si trovò di fronte non solo oltre 1000 iscritti (più di Torino), ma un movimento dove i contadini (e non gli operai come previsto dall’ortodossia comunista) erano la maggioranza e ancora con forti legami con la  predicazione di Prampolini, in anni in cui il >socialfascismo> era uno dei principali avversari del movimento comunista internazionale.

Un partito “speciale” per il prezzo pagato prima con 1200 anni di carcere inflitti dal Tribunale speciale a 190 militanti reggiani e poi, dopo l’8 settembre, con le decine di caduti nelle fila partigiane, non solo i Cervi e i Manfredi, ma i tanti giovani uccisi da tedeschi e fascisti (uno per tutti: Marcello Bigliardi, massacrato a Villa Cucchi il 13 aprile 1945 a diciotto anni). Una Resistenza pagata anche a caro prezzo dai dirigenti: il segretario “Toti” Saltini, Paolo Davoli, Angelo Zanti e Sante Vincenzi cadono prima della Liberazione e la loro assenza avrà un grande peso nei mesi difficili del post-liberazione fino a quando dovette intervenire direttamente Togliatti nel settembre 1946 -non solo con il famoso discorso “Ceti medi ed Emilia Rossa” che rilancia le basi della via italiana al socialismo con una visione interclassista dell’azione politica- ma anche con un severo richiamo al rispetto delle direttive politiche nazionali al di fuori di smanie giustizialiste  e rivoluzionarie.

Un partito “speciale” per il terremoto provocato da Valdo Magnani nel gennaio 1951, un partito meno “speciale” negli anni successivi, gli anni della chiusura della segreteria Boni che ritardò l’avvio della destalinizzazione fino al 1959 (ultima federazione emiliana a giungere alla svolta) nonostante l’annus terribilis 1956.

E poi un partito capace di portare alla democrazie masse operaie e contadine e a progettare e pianificare la ricostruzione non solo economica ma anche etica e culturale, contribuendo in buona misura a realizzare quel modello emiliano fatto di “comunismo ideale e socialdemocrazia reale”.

Un partito “speciale” a Reggio dove il PCI era il potere, e dovette gestire la nascita interna di un estremismo che rivendicava, proprio contro quello stesso partito, ancora più purezza e ortodossia rivoluzionaria.

Che cosa rimane di quel “partito “speciale” 26 anni dopo la sua morte?

Rimangono “orfani e vedove” inconsolabili che raccontano, proprio come nel caso del caro estinto, solo i suoi lati positivi, rimuovendo tutti quegli aspetti conflittuali e problematici (ma che erano parte della ricchezza di quell’esperienza) per non dovere confrontare il loro agire di oggi con quello che l’appartenenza a quella chiesa laica allora non avrebbe mai consentito.

Rimangono sempre più sparute schiere di quel personale politico che è stato capace di attraversare le varie fasi di evoluzione di quel partito (se non di semplice cambiamento nominale della ragione sociale) più per umana autoconservazione che per capacità di pensiero politico.

Rimane il vuoto di riflessione e di approfondimento che caratterizza ormai ogni struttura-partito dopo che, come è stato detto, “si sono chiusi gli uffici-studi e si sono aperti gli uffici-stampa”.

Rimane l’occasione persa di una Bad Godesberg italiana che, impossibile nel 1959 (considerato ancora il radicamento stalinista nella base e in parte della dirigenza), poteva essere colta almeno nel 1989 quando il mondo davvero iniziò a cambiare.

Si riuscì solo a convocare alla Bolognina una riunione di ex-partigiani e militanti, era il 12 novembre 1989, tre giorni dopo la caduta del muro di Berlino. Troppo tardi e troppo poco.