Il patto di Katharine_Capitolo 5_

24 ottobre 1941, venerdì 

 

Quelli che aveva sopra la testa erano i travetti del soffitto di camera sua. I sette travetti di quercia che conosceva quasi come parte del suo corpo. La voce poteva essere di Lilly. Le parole che sentiva ripetere erano chiare, anche se pronunciate a bassa tonalità: «Che vergogna, che vergogna…»

Fece per sollevarsi sui gomiti. Errore. La testa era come infilata in una sfera pesante, trasparente ma pesante, tanto da farlo ricadere sul cuscino con un senso di nausea profonda, quasi un conato di vomito.

«Che vergogna, che vergogna…».

Girò adagio lo sguardo ed ebbe la conferma. La voce di Lilly, che con un fazzoletto in mano piangeva e gemeva, ripetendo quella stupida frase.

La sorella incrociò il suo sguardo e gli si fece appena più vicina, ma senza accostarsi al letto:

«Dario, cos’hai fatto? Che vergogna, che vergogna…»

Il lamento era parte organica di Lilly, da sempre, come le castagne dell’autunno o il cocomero dell’estate, ma la vergogna di cui parlava Dario non sapeva cosa fosse, né tantomeno cosa lui avesse potuto fare. La testa era in condizioni penose, e anche il resto non andava molto meglio. Soprattutto era sorpreso dalla sua inedita capacità di vedere colori che, lo sapeva, non c’erano. Il soffitto era sempre stato bianco panna, con due righine che correvano tutto attorno al perimetro della stanza, quattro dita sotto le travi. Righine fra il blu e il grigio. Ora invece il soffitto aveva ampie macchie di un bel giallo limone, i travetti passavano dal blu all’azzurro cupo e quelle innocenti due righine risaltavano di un rosso acceso. Anche bello, come accostamento, pensò per una frazione di secondo. Poi, di colpo, tutto tornava nel quasi non-colore consueto. Un battito di ciglia e lo spettacolo era finito. Continuava, però, un sottile fischio fra un orecchio e l’altro, ora fisso ora modulato, quasi ad accordarsi a quel «Che vergogna, che vergogna…» in sottofondo.

«Dario! Devi essere impazzito, non capisco…»

«Lilly…» niente male anche quella lingua di quattro chili che si trovava a dover muovere per articolare almeno il nome della sorella.

«Cos’è successo?»

«Cosa? Oh, Dario!» E riprese la lacrimazione.

Si concentrò sulla lingua da controllare e alzando il tono riusci a dire:

«Cosa cazzo è successo? Che ora è?»

«Sono le nove, hanno telefonato stanotte, no stamattina, insomma, che t’eri sentito male… Guido è venuto a prenderti, e ti ha trovato…»

«Lilly, per favore, siediti qui e racconta. Non ricordo niente, mi spieghi per favore?» e pazientemente le fece segno di sedersi sul letto al suo fianco.

La sorella indugiò un attimo, poi, lentamente, non senza una certa eleganza, si accomodò vicino a lui:

«Guido l’ha avvisato uno che conosceva, che era anche lui lì, a quella… festa. De Marchi si chiama, è stato così gentile… Guido poi, è corso subito, saranno state le cinque, era ancora buio pesto e ti ha riportato qui, ma ti ha trovato… oh, Dio, Dario, ma perché, perché, non sapevamo che tu fossi… ammalato, avessi quel vizio…»

Vedere l‘esangue sorellina colorirsi di un arancione corredato dal viola squillante corrispondente al colletto della camicetta poteva anche essere un’esperienza divertente, ma preferì vedersela tornare nell’incolore scala pastello di sempre.

«Di che vizio, io…»

Allora lei gli prese il braccio destro e con un gesto di inaspettata decisione gli sollevò la manica del pigiama.

«Questo!»

Nell’incavo del braccio aveva una macchia violacea, di un paio di centimetri, divisa quasi a metà dalla piega interna della pelle.

Dario osservò il suo braccio e quella macchia che, da violacea che era all’improvviso, s’era messa a virare sul verdolino. Problema. Fece appena per sollevare la testa ma fu attraversato da un sudore gelato:

«Chiama il dottore, chiama Bertelli!» Poi probabilmente svenne, o tornò dov’era stato qualche ora prima.

 

Almeno stavolta non risentì il lamento «Che vergogna, che vergogna…» del primo risveglio, ma vide la facciona da cagnone buono del suo medico, stetoscopio in resta, ad auscultargli il torace gelato di sudore.

«Allora… meglio?»

«Cosa…?»

«Un collasso, niente di serio… bevi» e lo aiutò a sollevarsi appena per bere un‘acqua troppo dolce e densa.

Almeno questa volta la testa aveva retto allo sforzo, e anche la nausea non era arrivata come una mazzata.

Il medico si alzò, andò a chiudere la porta della stanza.

«Allora, dobbiamo parlare Dario, non va bene…»

«Dottore, lei pensa che io sia un drogato?»

«Dimmi tu. Ti hanno riportato a casa in queste condizioni… dimmi tu. Comunque ci si cura…»

«Dottore, lei mi ha messo al mondo, mi conosce da sempre: io non non so cosa sia quella roba. Le ultime iniezioni me l’hanno fatte alla visita di leva, e quelle prima me le aveva ordinate lei, ma erano dei ricostituenti e avevo dodici anni. Non mi crede? Glielo giuro su mia madre!»

«Sì, Dario, però…» e ripetè il gesto di Lilly, indicando il segno violaceo sul braccio.

«Non sono stato io, glielo giuro. E poi…», lampo azzurro nella stanza.

«E poi?»

«Si ricorda di quando mi sono rotto il polso sinistro? In bicicletta, giù in cortile? Quando mi hanno tolto il gesso si sono accorti che un osso non era a posto». Sollevò il braccio sinistro, avvicinò la mano all’incavo del destro e mimò il gesto di un’iniezione:

«Vede? Non ci riesco, il polso non gira abbastanza… lo vede? Se fossi un… le punture me le farei nel sinistro, usando la mano destra che funziona!»

«Be’, potresti aver chiesto un favore a qualcuno».

Dario lo guardò senza dire una parola.

Bertelli gli prese le mani, poi i polsi, li girò, sopra, sotto. Poi si alzò, andò a frugare nella sua valigetta:

«Aspetta». E uscì dalla stanza.

I colori stavano un po’ sbiadendo e i lampi erano meno frequenti. Peccato, il colorito di Lilly prima era quasi umano.

Ma cos’era successo? La festa, la signora Lea, De Marchi, la sua Alfa. C’era tutto. E poi Giorgia! In camera, insieme, un‘esplosione, la chiavata più… Le sue gambe, le cosce, lui là… l’ultima impressione che ricordava era stata il suo separarsi dal corpo di lei e poi il sonno, pesante, lungo… Com’era passato dall’incanto a quella merda? Quanto aveva dormito, Giorgia dov’era?

Bertelli tornò dieci minuti dopo, seguito da Lilly che portava su un piatto un contenitore di metallo.

Il medico si chinò su Dario, gli prese il braccio sinistro e gli fissò un laccio emostatico: «Faccio  presto…», poi con la siringa gli prelevò un campione di sangue.

«Bene, adesso riposati. Se hai fame mangia, almeno per oggi stai tranquillo, bevi molto così ti passa prima. Io torno dopo pranzo».

 

Lilly accompagnò Bertelli e poi tornò:

«Dario, hai fame?»

«Mi fai del caffè? E poi un favore, puoi telefonare alla signora Gagliardi e dirle che oggi sono indisposto?»

«La signora Gagliardi? Dario…»

 

Lentamente si sollevò sui gomiti. Prima tappa. Poi si spinse a sedere sul letto, e fece scendere le gambe. Un paio di quintali. Capogiro. Chiuse gli occhi, lampi verdastri. Come ci potesse essere gente che si faceva delle punture per ridursi in quello stato gli parve una bella domanda, alla quale però non gliene fregava nulla dare una risposta. Il problema era lui. Non aveva mai sopportato non avere il controllo di sé stesso. Anche le bevute erano previste,calcolate: sapeva quanto alcool poteva mandar giù per divertirsi ma senza finire a straccio sotto il tavolo, quante volte fare all’amore senza trovarsi come un panno steso. Invece adesso era lì, con un paio di quintali di gambe, due chili di lingua, la testa fra i cinquanta e sessanta chili e quel livido del cazzo nel braccio. No, non andava bene. Per fortuna fra il letto e la sua scrivania c’era sì e no un metro e mezzo, così con un colpo di forza inaspettato riuscì ad alzarsi giusto in tempo per ricadere ma appoggiato alla sedia e, girandola, sedersi.

Lilly lo trovò così quando entrò con il bricco del caffè e i biscotti.

 

Così, ancora alla sua scrivania, lo trovò anche Guido, quando rientrò poco prima dell’una. Si fermò sulla soglia, pettinato, abito scuro, cravatta grigia a puntini (forse rossi? O verdi?Erano gli ultimi lampi della mattina).

«Stai meglio?»

«Sì, meglio, grazie».

«Sarebbe troppo chiederti un po’ di senso di decoro? Non dico responsabilità, ma almeno decoro. Come hai fatto a diventare un malato, così? Ma ti rendi conto? Comunque adesso tu finisci in clinica a disintossicarti, non voglio sapere altro. Anche se sei già maggiorenne, non me ne frega niente… ho le mie responsabilità!»

Guido non cambiava di colore, peccato. Vederlo diventare arancione o viola come Lilly, o rosso come le righine sui muri sarebbe stato un modo di sopportare quella tirata nobile e morigerata. Invece no. Rimaneva anche lui grigino e basta, grigino nella sua cravattina, nei suoi calzini, nelle sue manine. Grigino.

«Vai a cagare. Prenditi il tuo decoro, la tua responsabilità, e usale per pulirtici il culo! Mi sei venuto a prendere stanotte e ti ringrazio, ma la cosa è chiusa lì. Io non mi sono mai drogato in vita mia, non mi sono mai infilato un ago da nessuna parte e quello che è successo stanotte non lo so nemmeno io. Chiaro? Non te lo ripeto. Sei sveglio e l’hai capito. Quindi togliti dai coglioni e va’ a portare la tua carità di merda un po’ più in là, fuori!»

Gli sembrò che Guido cambiasse colore e al grigino si aggiungesse una nuance pisello, ma forse era ancora l’effetto di quello che aveva dentro le vene. Aprì un paio di volte la bocca, scosse la testa e uscì.

 

Dario non tentò nemmeno di andare a tavola:  si sentiva le gambe dimagrite all’improvviso, da un paio di quintali a venticinque grammi. Dorina gli portò le tagliatelle fumanti al ragù, due fette di pane, del salame, una mela e un mezzo bicchiere di vino. Bevve il vino come se niente fosse, a conferma che neppure una supersbronza poteva essere stata la causa di quello sconquasso. Le altre volte, dopo una bevuta eccessiva, il giorno dopo era naturale star lontano dal «sacro liquido», come lo chiamava con i suoi amici. Invece no, tutto a posto. Il lambrusco andava giù liscio e tranquillo come sempre.

 

Il dottor Bertelli tornò verso le tre. Aprì la porta adagio. Dario era ancora alla scrivania, i piedi sul letto, leggeva.

«Bene, ti sei già rimesso in piedi. Bevi molto, eh!»

«Ho riempito tre pitali da stamattina…» rispose, indicando la caraffa dell’acqua mezza vuota.

«Ho fatto analizzare a un collega il tuo sangue, una cosa veloce, tanto per capire… tu mi giuri…?»

«Mai fatta una puntura in vita mia!»

«Avevi residui di oppiacei. Cosa di preciso in così poco tempo non si può sapere, però il fatto rimane. E se tu non fai di queste cose, con chi sei andato a mescolarti ieri sera, per cedere alla tentazione, alla curiosità?»

«Curiosità? Dottore! Io sono stato a una festa, ho incontrato una ragazza… mai vista una così, abbiamo fatto l’amore e mi sono addormentato… Nessuna curiosità, la ragazza me ne aveva già tolte parecchie. Da quel letto mi sono ritrovato nel mio stamattina… tranquillo, ho letto Baudelaire ma non è il mio genere…»

«Vabbè…» Bertelli non sembrava del tutto convinto, «Intanto bevi, mangia e riposati. Ci sentiamo fra un paio di giorni per vedere come va» e, salutandolo, gli spettinò i capelli, come quando lo congedava nel suo ambulatorio, alla fine della visita periodica di controllo.

 

Dorina incrociò nel corridoio il dottore in uscita. Approfittò della porta aperta per entrare subito in camera:

«Signorino, c’è una signora al telefono, chiede se può passare a trovarla…»

 

Katharine veniva lì  e lui era in quelle condizioni, in pigiama e pantofole!?, no non poteva, ma dirle di no era impossibile. Aveva mezz‘ora per recuperare un minimo di decenza e umanità. Scartò l’ipotesi di farsi la barba quando si rese conto che non riusciva ancora a star dritto davanti allo specchio senza sorreggersi. Riuscì a lavarsi sommariamente aggrappandosi al lavandino e a vestirsi da seduto, chiamando però la Dorina per farsi infilare i calzoni. Al primo tentativo, infatti, appena ebbe la pessima idea di chinarsi rischiò di finire a capofitto sulle piastrelle incerate di camera sua. In tutta fretta ordinò a Dorina di rifare, velocemente, la stanza, spalancando le finestre per cambiare aria. Poi si sedette di nuovo alla scrivania, ma stavolta per accendere la pipa che teneva nel cassetto, per profumare l’aria e, anche e soprattutto, per darsi un tono. Solo poche boccate prima che la nausea lo sconsigliasse a proseguire una simile messa in scena.

Sentì la voce di Katharine che conversava educatamente con Lilly, mentre dall’ingresso, attraverso il corridoio e la prima sala, si avvicinavano alla sua camera.

Lilly socchiuse la porta:

«Hai visite…»

Tailleur grigio, tacchi alti, scarpe di camoscio chiare, una spilla d’oro sul bavero.

«Lamberti… Cosa mi combina? Come va?»

«Niente di tragico, come vede».

«Dario è ancora una ragazzo…» soffiò Lilly dalla soglia.

Vattene, vattene. Perché non te ne vai?

«Posso portarvi un tè?»

«Sì, grazie, Lilly, portaci un té, vero?» e girò a Katharine uno sguardo come a dire “Di sì, di sì, ti prego…“

«Grazie, volentieri…»

Così Lilly uscì, finalmente.

 

«Dario, è pallidissimo, sembra un poeta! La barba lunga… è bellissimo!»

Potere taumaturgico del logos! La parola balsamo dell’anima…

«“Gli dei hanno dato agli uomini due orecchie e una bocca per poter ascoltare il doppio e parlare la metà“, così diceva Talete… grazie, ci voleva, oggi, una parola così» riusci miracolosamente a dire.

Katharine sedette sull’unica poltroncina, a sinistra, quella in velluto verde scuro.

«Allora, cosa è successo? Cosa ha combinato?»

«Niente, credo…» e gli raccontò quello che era riuscito a recuperare dalle nebbie nella sua testa. Tradì il patto di sincerità, non le disse cosa era stato fare l’amore con Giorgia. Non mentì, ma trascurò i dettagli, tutti. Tacque anche su quel livido viola nel braccio.

«Così lei ha preferito un invito di De Marchi, quel birichino, alle mie serate».

«Ma ieri sera non ero invitato…»

«Già, così io mi sono annoiata a morte e lei è andato a far bisboccia… bel risultato dell’essere una signora per bene!»

«Ecco il té, vi servite voi?» Lilly, splendente nel suo ruolo migliore, quello di padrona borghese, entrò trionfante con il vassoio di argento, la teiera cinese della nonna e le tazzine del servizio blu, roba da grandi occasioni. Non approvava certo l’intrusione di una signora dal suo indifeso e ammalato fratellino, ma l’educazione e il senso della convenienza avevano avuto la meglio.

Da brava padrona di casa ebbe anche il buon gusto di ritirarsi, socchiudendo appena la porta.

«È lei che ha scelto il ruolo della brava signora per bene…» sorrise  Dario, accennando ad alzarsi per servire l’ospite.

Katharine lo fermò e versò il té a entrambi.

«Perché dice che De Marchi è un birichino?»

«Be’, credo che l’abbia capito, no? Le sue feste non sono cose per brave signore. Si sa, in giro. Poi quello che fa sono affari suoi… ci siamo capiti, no?»

Sì, si erano capiti.

«Comunque una sbronza passa, così domani ci possiamo rivedere…» e gli sorrise accendendosi la prima sigaretta.

«Katharine, abbiamo un patto, vero?»

«Certo…»

Dario sollevò la manica della camicia e le mostrò il livido.

Lei guardò senza reazione.

«Io non ho fatto nulla di simile, mai. Mi crede?»

Sospirò e appoggiò la sigaretta al bordo del piattino.

Si alzò, gli venne contro e, in piedi, gli strinse la testa sul grembo. Lo accarezzò sul collo, sulla nuca. Rimase così qualche secondo. Un sogno, una favola. Non poteva essere un’allucinazione perché i colori ormai erano quelli normali, e poi sentiva la stoffa contro il suo viso e, sotto la stoffa, il suo corpo.

Si staccò e tornò a sedersi. Aveva gli occhi lucidi.

«Mi crede?» e sentì le lacrime scendergli sul viso, cadere sulla camicia, in quella che ai suoi occhi stava diventando una scena penosa, da cretino.

«Dario… sì, ti credo, ti credo». Per la prima volta gli aveva dato del „tu“. Gli prese le mani, senza dir nulla.

In quel momento entrò Lilly, ma Katharine dimostrò chi fosse la vera donna. Non si mosse, continuò a tenere le mani su quelle di Dario. Lilly non esisteva, tanto che l’immobilità della scena la costrinse ad uscire di nuovo.

«Dario, mi dispiace, non pensavo di metterla nei guai, davvero… sono stata una sciocca».

«Ma cosa c’entra lei, sono cose che succedono…»

«No, non devono succedere… sei un ragazzo e guarda cosa t’hanno fatto!»

«Ma sono in gamba, domani sono da lei…» e si alzò orgogliosamente in piedi asciugandosi le lacrime con un gesto del braccio.

In realtà la posizione eretta non era il suo forte, quel giorno. Fingendo una forza che proprio non si sentiva riuscì ad accompagnare Katharine alla porta, a salutarla, con le loro mani che si incrociarono in un misto di una stretta e di una carezza. Chiuse la porta e si trovò esausto, madido di sudore, tanto da doversi appoggiare allo stipite per non scivolare a terra. Riprese fiato e rifece il percorso a ritroso fino a camera sua. Di nuovo alla scrivania, a bere un tè freddino ma superzuccherato.

Provava a scalare quella parete di vuoto e non riusciva, ricadeva dopo pochi tratti. Lui e Giorgia. L’amore, lei con lui, la stanza. E prima i balli, lo spumante, i dolcetti, il vicefederale che l’aveva assolto dal pugno a Finasi. Tutto fino a quel punto c’era, e poi ancora Giorgia e lo scherzetto a Iotti, al bestione. Poi la pioggia sui capelli di lei, o era stato prima? E la scala, il letto e lui che l’aveva spogliata. Sì, l’aveva spogliata, ecco, sì, perché ricordava che… e i suoi baci e le sue braccia aperte. Braccia bianche, no, non c’erano lividi su quelle braccia. Giorgia non era una drogata… il suo sapore addosso, e poi lasciarsi andare e riprendere. Che ore potevano essere? Non c’erano orologi nella stanza, solo il suo, il suo orologio d’oro, il Longines di babbo, ma non se l’era neppure tolto, quello lo ricordava perché s’era impigliato nella stoffa della sua sottoveste.

Ma come’era il suo orologio quando Guido l’aveva trovato? Lui lo portava sul destro ma girato sul lato interno, abitudine che aveva preso al corso di pilotaggio, per vedere l’ora reggendo la cloche, mentre con il sinistro poteva dare gas. Svegliandosi se l’era trovato al sinistro. Chi glielo aveva rimesso? E chi glielo aveva slacciato? Magari per fargli quella puntura?

No, no, troppa confusione. Lui sapeva solo di aver passato il tempo più incredibile e meraviglioso degli ultimi mesi in quel letto, con Giorgia, e poi il resto era solo un vuoto, non possedeva più quel piccolo frammento della sua vita. E questo non gli andava giù. Per niente.

 

Lilly lo svegliò quasi all’ora di cena, lo scosse appena e Dario sobbalzò. S’era buttato un attimo sul letto, quando aveva iniziato a piovere forte e aveva sentito il vento buttare le gocce contro le sue finestre. Aveva lasciato accesa la luce sulla scrivania ed era tornato a sdraiarsi. Magari fra un sogno e l’altro poteva uscire qualcosa. Invece niente. E oraaveva la faccia di Guido davanti.

Fece un cenno e Lilly uscì. Si sedette sulla poltroncina.

«Ho parlato con il dottor Bertelli».

Ecco, un altro a tradirlo!

«Mi ha informato. Forse…»

«Forse non sono un drogato? Grazie!»

«Questo però non cambia nulla nella gravità del tuo comportamento, una persona responsabile deve sapere prima cosa può succedergli…»

«Ma tu non sbagli mai? Mai fatta una boiata, mai?»

Stava per aggiungere „Mai conosciuta una come Giorgia?“ ma sarebbe stato inutile. Guido non avrebbe mai incontrato una come Giorgia, magari era ancora vergine, si sarebbe sposato e riprodotto  con una come lui. Due colpi, due figli. Grazie, cara, buonasera e via.

«Ascolta, io non ricordo, non ci riesco…»

«Logico, sei ancora sotto shock da stupefacenti, lo ha detto Bertelli, devi passare il momento…»

«Bene, però vorrei sapere una cosa: quando sei venuto a prendermi…»

«Vuoi tornarci sopra?»

«Devo dirti ancora grazie?»

Guido fece per alzarsi, ma Dario lo fermò.

«Ascolta, aiutami, così magari mi torna in mente qualcosa…»

«Dai… cosa vuoi sapere?»

«Tutto».

«Mi è arrivata una telefonata di De Marchi verso le cinque e mezzo, mi diceva che ti eri sentito male e che dovevo andare a prenderti. Mi aspettava sulla strada di Coviolo e siamo arrivati a quella villa. Ti ho trovato a letto incosciente…»

«Ero senza vestiti?»

«Sì».

«Nudo, no…? Ti ricordi se avevo l’orologio al polso?»

«L’orologio?»

«Sì, nudo con l’orologio al polso…»

Scosse la testa: «Ma cosa c’entra, eri lì, svenuto, in quel posto, con quella gente, cosa vuoi…»

«Chi c’era? Esattamente, lì con me».

«De Marchi, una signora bionda e un omone, ti ha preso su quasi di peso dopo che ti avevamo rivestito, senza di lui non ci saremmo riusciti. È venuto a Reggio con noi e ti ha riportato qui».

«Lui è entrato qui?»

«Come ti riportavo su? Chiamavo il nonno, o Lilly?»

Dario superò il brivido che aveva provato.

«Avevo l’orologio?»

«E dai con l’orologio! Ce l’hai al polso, no?» e glielo indicò.

«L’avevo anche là, in quel posto?» chiese ancora, la voce più acuta.

«Allora… quando ti abbiamo rivestito, e ho visto…» e abbassò lo sguardo.

«Vai avanti…»

Guido muoveva lo sguardo attorno, come a raccogliere le idee e superare l’evidente disgusto per il racconto cui Dario lo costringeva.

«Ecco, no, non l’avevi, sono sicuro… anzi, è stata proprio cortese quella signora bionda, l’omone ti aveva già preso su e stavamo per andare quando lei mi ha richiamato per darmelo. Poteva tenerselo, è di valore. Una persona corretta. Mi ha richiamato e me l’ha consegnato. Te l’ho allacciato io stamattina quando ti abbiamo messo a letto. Ecco, contento? Ti serve?»

«Sì, mi serve». E quasi gli sorrise. «Quindi quell’uomo grosso mi ha riportato qui, stamattina?»

«Sì, saranno state le sette, sette e un quarto…»

«De Marchi?»

«Gli ho telefonato per ringraziarlo, ovviamente».

«Lo conosci bene?»

«Affari, rapporti di lavoro, cosa faccia nella sua vita privata non mi interessa…»

Dario si era messo a sedere sul letto, rivolto al fratello.

«Tu cosa pensi sia successo?»

«Mi giuri che…» e si allentò appena il colletto della camicia. Si era tolto la giacca e teneva solo il gilè antracite a piccole righe grigie.

«Anche se mi credi un totale idiota, non sono un maniaco… né un pervertito!»

«Quasi quasi era meglio…»

«Fanculo!» e fece per saltare in piedi, ma le gambe non collaborarono. Appena un sussulto e poi ricadde a sedere.

«Stai calmo, sei debole, calmati!»

«Non volevo offenderti, ma stavo ragionando…»

Gli stava tornando quel sudore freddo e non voleva cedere ora, davanti al fratello. Si alzò adagio, tornò alla scrivania e prese due biscotti, poi tornò a sedersi sul letto.

«Non sbriciolare! Ti ricordi?» Da piccolo venivi nel lettone della mamma con i biscotti e trovavamo le briciole dappertutto».

«Già…»

Un ricordo tenero anche per Guido. Doveva proprio drogarsi per meritare tanto?

«Allora, se le cose sono andate come dici, e ci credo, forse è peggio… se tu non hai ceduto alla tentazione di…»

«No».

«Allora qualcuno ti ha voluto fare un brutto scherzo».

«A me? Perché?»

«A te… o a me».

«A te?». Cosa c’entrava il grande, integerrimo Guido con quella storia di nausea, colori sballati e fanciulle meravigliose?

«Dario! Da stamattina qualcuno può andare in giro a dire che ho un fratello depravato… lo capisci? Nella mia posizione?»

Ecco, perfetto. Finalmente tutto tornava a posto. La posizione! Il decoro dei Lamberti! Dai tempi di Napoleone e anche prima. Figurarsi!

«Scusami! Chi se ne frega di questo scemotto! È il fratello, il cane grosso che conta. E ti mettono su questo scherzo per cosa, per poterti sputtanare? Con quello che fai ogni giorno, sai quanti potrebbero…»

«Dario, per favore, pensaci. Il lavoro è lavoro, ma questo…»

«Ma questo non è consentito. Potevano farla anche migliore, potevano farmi trovare a letto con un bel soldatino… drogato e pederasta: due piccioni con una fava, no?»

Guido si alzò: «Vedo che non capisci… comunque non prendere sottogamba questa cosa». Si rimise la giacca e uscì.

 

A cena dovette affrontare una delle cose più pesanti della sua esperienza familiare: il silenzio del nonno. Il silenzio e le sue occhiate. Guido poteva dirgliene su e si divertiva, anzi quasi era puro piacere sentire il bigotto fratello tirar fuori le sue reprimende. Ma il nonno era diverso. Il silenzio del nonno era la dichiarazione della tua inesistenza, della tua scomparsa dal novero del persone esistenti, almeno per lui. Una cerchia ristretta, ma alla quale Dario era stato orgoglioso di appartenere. L’atmosfera imbarazzata di tutti lo fece concentrare sul brodo della Dorina, il lesso con il purè e l’insalata di radicchio con le uova sode, tutta roba da malato più che da giovane in ripresa. Ma cosa poteva dire?

La cena finì nello stesso silenzio in cui era iniziata. E nello stesso silenzio tutti si alzarono, il nonno per i due passi serali intorno a casa con Guido, Lilly per il suo ricamo in preparazione del corredo, anche se ormai aveva finito di preparare tutto il necessario da qualche mese.

Dario si sedette in poltrona, accese la radio. Da quando se n’era andato non aveva più aperto «Il Solco» e non ne aveva grandi rimpianti. Ma un paio di copie del «Corriere» se l’era già lette nel pomeriggio e la scelta era quella obbligata. Piuttosto la musica… almeno ci fosse qualcosa di accettabile, oltre quelle canzoncine sceme. Girò la manopola della sintonia finché uscì qualcosa di piacevole, anzi proprio bello: un pezzo di Gershwin. L’aveva anche ballato, una sera a Roma, d’estate. Someone to watch over me. Già, una sera d’estate.

«Ma sei matto?» Lilly riusciva ad essere drammatica anche nelle cose più banali.

«Cos’ho fatto?»

«Cosa ascolti? Non si può! È roba nemica! Radio Londra!»

«Radio Londra? Ma è Gershwin, chi se ne frega che radio è! Ma sei diventata fascista? Cos’è, il fidanzato che ti ha convertita?»

«Sciocco, non ti rendi conto, eppure sei militare, dovresti capire!»

«Dovrei capire cosa? Che stiamo diventando pazzi, che stiamo massacrando gente che non ci ha fatto nulla, che finiremo tutti morti, come in Russia?»

«Dario, cosa dici… non stai ancora bene?»

«Sto bene! Non tanto, ma comunque non abbastanza da non ricordare. In Russia i tedeschi uccidono tutti: donne, bambini, vecchi, ebrei. Tutti… Ti ricordi Landini? Rino? Era al liceo con me, siamo rimasti in contatto e ci siamo scritti. Lui è nei granatieri, l’hanno spedito in Ucraina… uccidono tutti, ha visto dei boschi pieni di donne e bambini… uccisi, tutti, tutti. E tu fai una questione su Gershwin, Lilly, ma cosa sei diventata? Come Guido? Come gli altri?»

Come nella migliore delle tradizioni, Lilly chinò il capo e tornò al suo corredo.

Ecco, almeno fosse rimasto qualche giorno in più avrebbe potuto godersi la Butterfly con la Simionato e Gavazzeni al Municipale, come anticipava «Il Solco», insieme a un paio di belle notiziole: l’elenco dei forni autorizzati a fornire il pane razionato, quello per i poveretti, ovvio, in casa Lamberti le tessere annonarie erano rimaste dentro qualche cassetto. Business as usual, vero Guido? E poi un’altra cosina che proprio gli era sfuggita e che segnava, in qualche modo, il tempo che passava. Avevano aperto il Liceo scientifico! Il vecchio Classico aveva perso l’esclusiva del sapere. Ci volevano tecnici, ingegneri, scienziati. Altro che letterati, filosofi e professori, residuati come lui. Un giovane residuato di ventun anni. È il mondo nuovo che avanza, la guerra salvezza del mondo. La tecnica che risolve tutto.

Magari un po’ di tecnica, però, non sarebbe stata male, dovette ammettere. Magari gli avrebbe consentito di volare su qualcosa di più simile a un aereo che il Caproni del corso, sempre incerto se alzarsi da terra o afflosciarsi come un sacco vuoto. E poi la tecnica aveva dei lati affascinanti: l’Alfa 2600 di De Marchi, quei sei cilindri, quel cambio con i suoi click precisi. No, la tecnica aveva i suoi lati buoni, ma ci voleva cervello per gestirla, ci voleva logica, rigore, anche fantasia. E come aspettarselo da chi non avrebbe più studiato una riga di greco?

 

Che fosse una serata speciale in una giornata altrettanto particolare lo capì venti minuti dopo, quando la Dorina annunciò una visita. In realtà l’avvocato Bottazzi fu quasi più veloce di lei, la cameriera non aveva finito la frase di rito „Signorino, c’è…“ che il piccolo avvocato era già lì davanti a lui.

«Ragazzaccio! Allora, come va?»

«Bene… eccomi qua, ma quale onore?»

Bottazzi si tolse il soprabito e la sciarpa e li passò a Dorina, poi si sedette di fronte a Dario. In mezzo a loro il mobile radio, il vecchio buon Telefunken.

Fece il gesto di spegnere, ma l’avvocato lo fermò:

«No, la musica serve, e poi questa è roba sovversiva… bene, ci vuole».

Per un istante Dario si chiese se l’antifascismo di Bottazzi fosse genuino o semplice gusto di essere, sempre, un bastian contrario. Ma in fondo poco contava.

«Stai meglio? Davvero?»

«Sì, sto meglio, una buona dormita e sono a posto…»

Bottazzi si tolse gli occhiali, li ripulì appena con la punta della cravatta, li rinforcò:

«Devo chiederti scusa, sono stato un cretino. Mi sento responsabile di quello che è successo… Scusami».

«Avvocato, scuse? Ma lei cosa c’entra… la cosa… non vedo…»

«Non si dovrebbe giocare con le persone, in buona fede, eh… per aiutare, così pensavo… sono stato uno sciocco, un presuntuoso. E tu ne hai pagato le conseguenze. Volevo vedere come stavi, non mi sarei mai perdonato…»

«Avvocato, mi scusi, forse sono ancora un po’ rintronato, ma faccio fatica… anzi non capisco nulla».

Bottazzi unì le mani davanti a sé, accostando lentamente dito a dito sussurrò: «Sì, Dario, hai ragione, allora diciamocela tutta. Va bene?»

«Certo».

«Io volevo, come dire, darti una mano, sapevo che saresti tornato in licenza e che… avresti saputo. E immaginavo, temevo… così ho pensato, imbecille: „Gli presento Margherita, magari si distrae, non ci pensa“. E poi, mi vergogno un po’, ma con Margherita…»

«C’era una scommessa e sperava che gliela facessi vincere…»

«Ah, te l’ha detto?»

«Sì, è una donna molto particolare…»

«Sì, splendida, vero?»

«Sì… ma cosa avrei dovuto sapere?»

Bottazzi lo guardò da sopra gli occhiali:

«Anch’io vado a Parma, sai, qualche volta?»

«Ah. Quindi la cosa era… nota».

«Be’, diciamo così. Anche perché l’altro non ne faceva mistero in giro, anzi, andava a dirlo che lui stava con una ragazza di buona famiglia. E sai che a Reggio i Messori non sono gli ultimi arrivati…»

«Ah».

Perché adesso non poteva contare sui colori virati? Magari qualche bel violetto, azzurrino, giallo canarino o rosa avrebbe aiutato, o anche un bel grigio o verdolino, a coprire quella storia di merda.

«Be’, lei voleva darmi una mano e c’è riuscito…»

«Ah, sì, bel risultato! Ancora un po’ ci lasciavi le penne».

«Ma no, ho conosciuto Katharine e il resto passerà…»

«Katharine? Chi è? Un’altra ancora?»

Dario rise e ci voleva:

«No, scusi… Non s’è mai accorto di come Margherita assomigli a Katharine Hepburn? Io la chiamo così e lei accetta volentieri…»

«Dario! Dario! Ma così ho quasi vinto la mia scommessa! Nessuno era mai arrivato tanto avanti con Margherita! Sei già arrivato a questa complicità…»

Poi si accorse di essere andato sopra le righe.

«No, comunque scusa… è che purtroppo, forse, attraverso lei hai incontrato persone che era meglio lasciar stare».

«De Marchi? Iotti?»

«Dario, ascolta. Raccontami quello che è successo da quando ci siamo visti l’altro giorno, vuoi?»

 

Il racconto durò una buona mezz’ora, intervallato da qualche sorso di cognac sorbito lentamente dall’avvocato, ma soprattutto dai suoi frequenti interventi, domande degne del bravo penalista al testimone portato alla sbarra nell’aula di giustizia.

Terminato l’interrogatorio, Bottazzi si abbandonò sullo schienale. Chiuse gli occhi, rimase un attimo in quello stato di quiete, poi si pronunciò:

«Credo di aver capito come siano andate le cose, e se l’ho azzeccata, allora sei stato fortunato…»

«Addirittura?»

Sorrise:

«Sei un ragazzaccio, ma sei pulito. E sei finito, senza accorgertene, in un lurido pantano, peggio dello Stige del padre Dante… ma ne sei venuto fuori! E questo è quel che conta».

L’avvocato vuotò il bicchiere e si alzò.

«Vado, domani ci risentiamo…»

«Sì, grazie… ma da quando andava avanti la cosa, a Parma?»

«Riposati e dormici su, non ci pensare…»

 

Il patto di Katharine_Capitolo 5_ultima modifica: 2020-03-17T16:03:28+01:00da pelikan-55
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