Il patto di Katharine_Capitolo 6_

25 ottobre 1941, sabato

  

Più o meno il tempo era di dieci minuti. Dieci minuti sulla schiena, dieci sul fianco destro, dieci su quello sinistro. Provò anche a giacere prono ma quasi si asfissiò, con la testa affondata nel guanciale troppo soffice. Non era dormire, era un continuo esercizio fisico, con precisi, diversi effetti corrispondenti a ogni singola posizione. Sulla schiena una leggera ma crescente nausea, sul fianco sinistro un senso di oppressione, su quello destro l’impressione di ruzzolare dal letto, forse per la rete un po’ infiacchita o per una certa mancanza di senso dell’equilibrio, infida eredità di quella robaccia che qualche figlio di puttana gli aveva messo in corpo.

E poi niente colori, ma buio, buio, al massimo, all’improvviso, parole, musiche, trombe, timpani, musiche, e una musica che amava, adorava, ma così adesso, ne era come schiacciato.

Non più andrai, farfallone amoroso,


Notte e giorno d’intorno girando,


Delle belle turbando il riposo,
 Narcisetto, Adoncino d’amor.


Non più avrai questi bei pennacchini,


Quel cappello leggiero e galante,


Quella chioma, quell’aria brillante,


Quel vermiglio donnesco color!
 Fra guerrieri, poffar Bacco!


Gran mustacchi, stretto sacco,


Schioppo in spalla, sciabola al fianco,

Collo dritto, muso franco. 
Un gran casco, o un gran turbante,


Molto onor, poco contante.
 Ed invece del fandango.

Una marcia per il fango.


Per montagne, per valloni,
 Con le nevi, e i sollioni,


Al concerto di tromboni,


Di bombarde, di cannoni,


Che le palle in tutti i tuoni,


All’orecchio fan fischiar.


 

Cherubino, alla vittoria!
 Alla gloria militar!

 

Una marcia per il fango… Per montagne, per valloni,
 con le nevi, e i solleoni,
 e dieci minuti sul fianco e ancora di schiena.

Poi partì il film, come al cinema. Rivide tutto, da Parma. 23.260. A Giorgia. Lo rivide, ma un film così veloce e convulso che era peggio che averlo scordato, come una comica finale, di quelle che vedeva da ragazzino in parrocchia.McSennet e i poliziotti dietro a saltare sull’auto in corsa.

S’era bevuta tutta la camomilla che Lilly gli aveva lasciato sul comodino con l’esito di farlo alzare un paio di volte per vuotare la vescica ma lasciandolo perfettamente sveglio fino alle quattro. Poi, finalmente, la questione non lo riguardò più.

 

«Sveglia! Dario! Come va?»

L’orologio diceva nove e venti, e lo confermava il sole che entrava dalla finestra accostata. Aria, finalmente. Doveva uscire. Quella giornata chiuso in casa era stata una cosa atroce, pensare a tanti ammalati costretti a passare settimane in quelle condizioni gli fece sperare davvero una bella palla in fronte: «Alla gloria militar!»

Chiuso in casa e indifeso, esposto a tanti amici che ti volevano aiutare, chiedere scusa e ti portavano ogni volta un altro pacchetto di sterco, involontario, ma non per questo meno maleodorante. E tutto senza poter rifiutare nulla, come incastrato in quell’angolino di camera sua. Aria. Aria. Sole. Avesse avuto tempo e forze era la mattina da andare sul Cusna, a camminare, dormire al sole, a sentire l’aria pulita, il profumo delle foglie d’autunno. Com’era una volta con…

 

«Ecco qui, per il nostro malato…» Lilly entrò con il vassoio e lo poggiò sulla scrivania. «Caffelatte, pane, burro e marmellata!»

«Alla faccia della tessera!» Le gambe rispondevano meglio, l’acqua calda della doccia e il sapone fecero un buon lavoro. Si guardò allo specchio e gli tornò in mente quel «Dario, è pallidissimo, sembra un poeta! La barba lunga… è bellissimo!», così rinvio la rasatura, voleva mantenere quell’aria che a Katharine era piaciuta.

La Regia Aeronautica non risparmiava sul vitto, ma quella colazione l’avrebbe ricordata per un bel pezzo. Il pane fresco, il burro, la marmellata di amarena con i pezzetti dentro, il caffè (vero) forte nel latte. Era la colazione da „Dario sei stato bravo“ di tanti anni prima, insieme al pane, burro e zucchero delle merende pomeridiane, magari in campagna, con la mamma e Lilly.

Il sole, l’aria, la pancia piena. Fanculo il resto, 23.260, quella villa. Lui era ancora lì, s’era tirato su, in piedi, a gridare che era lui, l’unico su cui contare, ancora e sempre. La testa ogni tanto sembrava leggera, quasi svolazzante, ma poteva andare. Erano le dieci, il tempo di fare una telefonata a Celso e di essere alle undici da Katharine.

 

Troppo bello. Il mondo non poteva aspettare lui, il mondo andava avanti, mai dimenticarsene. Sarebbe bastato il tempo di arrivare davanti al cancello della villa-con- l’edera per capire. Katharine era lì ad aspettarlo. Dario parcheggiò la Balilla e scese.

«Sta bene con la barba, davvero…», aveva le braccia conserte come a evitare ogni possibile contatto «Oggi non faremo la nostra lezione. Fra poco arriva mio marito…»

Perfetto, fine. Torna il marito. Regolare. Giusto, il fine settimana. L’uomo d’affari rientra a casa, al nido famigliare. Giusto. Lui soltanto un elemento superfluo, il divertimento dei giorni feriali. Poi arriva la festa e tutto torna nella buona norma.

«Capisco».

«Non faccia quel muso, non mi tenga il broncio… magari ci vediamo oggi, che ne dice?»

«Non voglio turbare la sua quiete familiare».

«Questi sono capricci, lo sa».

Sì, lo sapeva. Si era appena rialzato e, di nuovo, qualcosa, gli arrivava contro. Era il solito bimbo viziato, quello del tutto subito. Fanculo.

«Va bene, magari la saluto prima di partire…», buttiamola sul patetico.

«Parte lunedì mattina, no?»

«Prima dell’alba, devo essere in aeroporto alle 8».

«Ci vedremo, stia tranquillo, spero anche prima…» rise. «Cioè, non mi chieda d’accompagnarlo alle quattro del mattino!»

«Non chiedo tanto…»

Risalì in auto. Aveva mezzo serbatoio da smaltire e c’era un bel sole.

 

Arrivò fino a Castelnuovo Monti, comprò del pane fresco e delle noci. Una telefonata a casa alla preoccupata Lilly, «Stai attento, sei ancora debole, a che ora torni?», poi arrivò fino al piazzale in alto e si incamminò sul sentiero per arrivare in cima alla Pietra. Non era ancora in forma, doveva fermarsi ogni cinque o sei passi, sudato, ma non gli dispiaceva, così guardava con calma la vallata del Secchia aprirsi sotto, i colori caldi della sua montagna, la calma di quei prati verde scuro, e quelli arati, quasi neri in lontananza, e poi i piccoli rilievi spogli fra un borgo e l’altro. Per qualche mese aveva visto vallate e montagne dall’alto, passandoci sopra, preoccupato di tenere la quota, di guardare la bussola, per riuscire a rientrare, controllando gli strumenti, con il cielo sopra e il sole che lo scaldava anche troppo attraverso i vetri opachi di quei trabiccoli che gli avevano insegnato a pilotare.

Ora invece era sceso, ed era lì, vedeva ancora dall’alto ma nell’aria fresca, senza puzzo di benzina e olio. Quelle montagne dove era stato felice, così come lo era anche in quel momento. Il fiume là sotto, la casa di famiglia a Montelaccio, il taglio bianco della parete con i gessi.

Pan e nòs, magner da spòs, pane e noci roba da sposi, era il detto. E poi lassù, a sedere su un sasso, al sole. Matrimonio solitario, ma con tutti i crismi.

Lo aveva anche detto, «sposiamoci». Poi, per fortuna, no. Del resto non c’erano pane e noci quel giorno, e così s’era salvato. Sposarsi a ventun anni, che idea!

Riprese l’auto verso le due, si fermò alla Bettola a bere un bicchiere di vino toscano e poi giù verso Reggio. Aveva ancora un pomeriggio a disposizione, magari poteva cercare Alberto per quattro chiacchiere, da Celso aveva avuto la conferma che sperava. Come neo orfano avrebbe avuto diritto al congedo immediato: si liberava così un posto per il corso di caccia d’assalto, di volontario ne avrebbero ben accettato un altro. Cherubino, alla vittoria!
 Alla gloria militar! Basta fare l’imboscato, s’era rotto le scatole di starsene nascosto e di finire preso in mezzo ai guai. Non era un pollo, uno da usare, da mettere in mezzo, da tradire. Come sarebbe tornato a casa quando quella merda fosse finita e avesse incontrato il padre di Luciano? „Eh be’, un Lamberti…“ avrebbe pensato, „quelli si salvano sempre, c’è sempre qualcuno che li tira fuori“. Certo, a lui del re e del testone non gliene fregava niente. Meno che meno della patria, un pretesto per Guido e altri per fare affari. Magari ci fosse stata una patria per cui valesse la pena morire. Gli vennero in mente i versi del poeta greco Archiloco:

Cuore, mio cuore, turbato da affanni senza rimedio,
 sorgi, difenditi, opponendo agli avversari
 il petto; e negli scontri coi nemici poniti, saldo,
 di fronte a loro; e non ti vantare davanti a tutti, se vinci;
 vinto, non gemere, prostrato nella tua casa.
 Ma gioisci delle gioie e soffri dei dolori 
non troppo: apprendi la regola che gli uomini governa.

 Opponi agli avversari il petto, prima che ti arrivi qualcuno a darti una coltellata alle spalle o a infilarti una siringa in un braccio. Senza pensare poi alle persone, a tutti i sogni che uno si costruisce e che mette in fila, come i giocattoli sul ripiano quando sei piccolo, e vai a letto tranquillo perché li guardi allineati, ben messi, ordinati. E ti addormenti insieme a loro. Spazzata via l’armonia, tornato il caos, l’unica restava proprio opporre agli avversari il petto, senza vanto se vincitore, senza lacrime se sconfitto.

 

Tornare a casa con quel sole non ancora sceso gli era sembrata una piccola violenza, un’ennesima rinuncia a un pezzetto di libertà. Avrebbe voluto girare ancora un bel po’, sarebbe andato a Montelaccio a rivedere la casa dei nonni, ora lasciata ai contadini, magari sarebbe tornato sul ponte di Cadignano a guardar giù, sputando nell’acqua del Dolo che schiumava fra i grandi sassi lisci.

Invece Puianello, Rivalta, un altro bicchiere di vino lì alla Cooperativa e poi giù al Ponte di San Pellegrino. Il sanatorio, porta Castello, verso casa. Entrò nel cortile, ma il portone era chiuso. Lilly lo salutò dal terrazzo già mentre tirava il catenaccio del garage:

«Ciao! Tutto bene?»

Le fece un cenno che significava «Tutto bene, sono qui…»

«Sei arrivato in tempo!» La sorella stava sulla porta.

«Novità?»

«L’avvocato Bottazzi ti passa a prendere alle cinque e mezzo, fai in tempo…»

 

Aveva un’ora, si buttò sul letto. Travi normali, righine attorno come sempre. Solo, in alto, una lama di luce arancione, ma stavolta era vera. Il sole che stava tramontando si rispecchiava su una finestra della casa di fronte. Un taglio trapezoidale, come uno scudo sbilenco, quattro parti di luce attraversate dall’ombra, una luce che svaniva poco a poco mentre la stanza scendeva nella penombra.

In quella luce incerta e morbida si guardò di nuovo il braccio destro. Slacciò il polsino, sollevò la manica per vedere quella macchia livida. Quel qualcuno era stato maldestro. O forse no: l’aveva voluto segnare, marchiarlo, indicare con quel segno un prima e un dopo. Senza lasciargli capire, era un’avviso. Le cose succedono e basta.

 

«Ragazzaccio, sali!» L’Ardea di Bottazzi era appena arrivata davanti al portone. L’avvocato era elegante: giacca di tweed inglese, sciarpa cammello. Per un istante, Dario temette che si trattasse di una nuova festa; poi vide anche la borsa di cuoio, posata sul sedile, e la spostò dietro per salire.

«Tutto bene… ti sei ripreso? Alla tua età si saltano i fossi per il lungo…»

«Sì, grazie, sto meglio. Ma dove andiamo?»

«Da Margherita… ma non esultare, per favore!»

Katharine? Allora aveva mantenuto la promessa, nonostante il marito! Forse era ripartito e voleva salutarlo, ma Bottazzi? Magari lei avrebbe preteso il pagamento della scommessa, persa, e l’avvocato avrebbe dovuto ammettere la sconfitta.

«Andiamo da Margherita, ma devo premettere che io non ero d’accordo…ti hanno già messo abbastanza in mezzo.Ma lei ha voluto…»

Frenò bruscamente per evitare una bicicletta: «Scemo!» inveì.

Bottazzi era nervoso e a Dario non piaceva, ancora una volta si sentiva un pacco, preso e portato da un cliente all’altro.

«Comunque mi ha detto che voi avete un patto…» disse, e lo guardò con un qualcosa che poteva sembrare invidia, «e così ti vuole là. Io le ho detto che sei appena maggiorenne e che dovevo esserci anch’io, come tuo… avvocato. Lo sapesse Guido!»

«Preferirei come amico, avvocato, posso dirlo?»

Bottazzi rallentò l’auto. Guidava molto disinvoltamente, anche troppo:

«Sei come… un figlio, come Corrado, lo devo a tua madre…»

Il cancello della villa era spalancato. Bottazzi spense il motore.

«Ascolta… non c’è solo Margherita, c’è anche Gagliardi. Tu parla il meno possibile, va bene? Lascia fare a me».

Gagliardi, il marito? Non era ripartito? E Katharine allora? Non capiva più nulla. Era sempre più come un pacco, spostato qui e là. Zitto, poi, come diceva Bottazzi.

 

Seguirono la cameriera che li aveva accolti all’ingresso e arrivarono nel salotto, quello con la grande finestra ad arco sul giardino. Il fuoco era acceso ed era un bell‘ambiente, tranquillo, elegante, con il segno preciso di Katharine. Un luogo che aveva anche qualcosa di nuovo rispetto all‘altra volta. Si guardò intorno e capì subito cosa: la padrona di casa aveva messo lì nell’angolo, vicino alla finestra, un cavalletto, uno di quelli che teneva su nella torretta, e su quel cavalletto il quadro che Dario aveva tanto apprezzato. Era un segnale, un segnale per lui, un modo per dire “fidati”. O soltanto un’idea scema e un po’ romantica? Magari aveva voluto solo coprire uno spazio vuoto nella stanza, chissà.

«Dario! Avvocato!» Katharine li accolse con un sorriso ma Dario vide in quella espressione un qualcosa di nuovo, di triste e teso.

«Voi vi conoscete già» alluse a Bottazzi, «Dario… questo è mio marito».

Gagliardi era seduto sulla poltrona più vicina al camino. Dario l’aveva notato subito e ne era rimasto impressionato. Doppiopetto grigio, alto forse un filo meno della moglie, aveva un’età indefinibile. Era giovane, ma completamente glabro e calvo. Niente sopracciglia, ciglia, barba, nulla. Liscio, completamente. Dario, a paragone, sembrava un lupo di mare, con quella barba un po’ ridicola e i capelli corti alla militare. Anche la stretta di mano gli diede un senso di disagio: liscia, poco robusta. Immaginò per un attimo Gagliardi nell’intimità e provò un senso di fastidio.

Si sedettero tutti davanti al camino, intorno a un tavolino basso. Due portacenere mezzi pieni. La cameriera portò un vassoio con due piccoli vassoi di pasticcini, due bottiglie di vermouth, i bicchieri. La donna uscì e chiuse la porta.

Ora erano lì e Katharine era al centro:

«Bene… so che l’avvocato disapprova questa mia iniziativa, ma per correttezza, soprattutto nei suoi confronti, Lamberti, credo sia l’unico modo di uscire da questa situazione. Lei, senza colpa, se non diciamo… un po’ di giovanile incoscienza, ha rischiato… di questo me ne sento in parte responsabile, quindi…»

«Margherita…» cercò di intervenire il marito a voce bassa e con un certo tono di sofferenza.

«No, Germano… ci vuole aria, pulizia, o non ne usciremo mai. Dario e Bottazzi sono amici, e di amici abbiamo bisogno se vogliamo…»

Gagliardi chinò la testa.

«Allora, non so se ciò che Germano vi potrà dire servirà per capire quello che è successo, ma certamente è servito a me» disse prendendo la mano del marito, «e sono contenta che lui abbia voluto…»

Per un attimo Dario invidiò quell‘uomo. Di un’invidia pura, instintiva, quasi infantile.

«Allora, iniziamo dal principio, come si dice… ovviamente, è banale sottolinearlo, tutto quello che ci diciamo oggi non dovrà mai…» Bottazzi e Dario confermarono con un cenno quasi contemporaneo.

Gagliardi alzò la testa e li guardò. Aveva occhi azzurri, belli, appena rovinati da quella mancanza di ciglia. Batteva le palpebre in un modo che sembrava strano, troppo forte e improvviso.

«Come Margherita vi avrà detto la mia attività di varie rappresentanze industriali mi porta abbastanza in giro per il mondo. Ora purtroppo con la guerra le cose sono difficili ma… comunque, dal ‘37 al ‘39 sono stato per periodi abbastanza lunghi in colonia, e ad Addis Abeba all’epoca ho avuto occasione di conoscere alcune persone di Reggio. In particolare De Marchi e Fontana, poi anche Pigozzi e Iotti. Erano conosciuti come i “quattro di Reggio”: persone come tante, sapete com’è fra connazionali… ci si vedeva, c’era molta attività. Verso i primi del ‘38 ero in contatto di affari più diretto con De Marchi, lui aveva alcuni cantieri di costruzione strade e opere pubbliche, un acquedotto, gli fornivo materiali e attrezzature… Fontana invece era nel settore commerciale, frutta e generi coloniali; Pigozzi era il capocantiere di De Marchi, Iotti il suo autista, il tuttofare, insomma».

«Vieni al fatto…» Katharine gli teneva ancora la mano ed era come se lo guidasse.

«Allora… la situazione si era stabilizzata e in un certo modo si stava tranquilli. Insomma, come italiani avevamo molte opportunità, libertà, ma era normale, in quella terra le cose… vorrei capiste…»

«La ragazza…»

«Per chi stava là c’erano molte comodità, c’erano anche famiglie che s’erano trasferite. Avevamo case comode, servitù… normale. Chi poi non aveva la famiglia magari si prendeva quasi come una…»

«Moglie…»

«Sì, qualcuna del luogo. Era tollerato, solo dopo vennero fuori le regole, alla fine del ‘38, ma prima si poteva».

«De Marchi…»

«Sì, De Marchi aveva vari servitori ma anche questa ragazza in casa, Zenìa, ci teneva molto… poi successe che… non so, magari… ma si poteva fare, si chiamava “madamato”… in tanti c’erano, sa, senza le famiglie, meglio così…»

«Poi…» Katharine continuava a voce bassa, gli occhi verso il marito.

«Zenìa morì… non so come, davvero. Però poteva succedere uno scandalo, De Marchi aveva relazioni importanti, non era l’ultimo arrivato. Così la cosa… si cercò di chiuderla in breve».

«La ragazza quanti anni aveva…»

Gagliardi chinò la testa.

«Germano…»

«Là è diverso… i negri, si sa, crescono prima…»

«Germano…»

«Dodici, tredici anni…»

Si sentiva solo lo sfrigolio della legna nel camino, Katharine continuava a tenerlo per mano, Dario e Bottazzi rimanevano fermi. Poi la donna lo scosse:

«Germano».

«Be’… si riuscì a chiudere la cosa, almeno con le nostre autorità. Ma era solo l’inizio, perché lì le cose erano diverse, là non ci sono sono le famiglie, ci sono delle… tribù, ecco, sì, tribù, e la ragazza era di una di quelle… sa come sono, prima l’avevano venduta… insomma, poi dopo, con quello che è successo i soldi non bastavano, quelli volevano altro. Sono selvaggi, quelli, occhio per occhio, roba così… Così quando i fratelli di Zenìa chiesero di incontrare De Marchi per mettersi d’accordo, per regolare la cosa, lui capì che era una trappola».

Si fermò di nuovo. Nuova stretta di Katharine.

«E mandò all’incontro Pigozzi. Poveretto, l’hanno massacrato… l’hanno ritrovato a pezzi, fatto a pezzi…»

E stavolta Gagliardi non ce la fece più e si mise a piangere.

Bottazzi si versò un mezzo bicchiere di liquore e lo mandò giù, poi ne riempì un altro per Dario che lo prese, ma solo per assaggiarlo appena.

A voce bassissima, Gagliardi riprese:

«A quel punto De Marchi sparì dalla circolazione e in un paio di giorni lasciò l’Etiopia, insieme a Iotti».

«E Fontana?» Bottazzi intervenne per la prima volta.

«Poveretto, era quello meno esperto. S’era andato a mettere contro i vari trafficanti locali, mezzo in combutta con gli inglesi. In due mesi gli andarono a fuoco un paio di capannoni e magazzini, poi ebbe anche l’incidente e fu veramente nei guai, per farlo tornare facemmo una colletta».

Katharine strinse forte il marito.

«Posso fare io qualche domanda?» riprese Bottazzi.

Gagliardi fece un gesto con le mani, come per dire „ormai…“

«Quando De Marchi fuggì lasciò i suoi affari là, all’improvviso, ma a differenza di Fontana che tornò rovinato, lui è tornato in condizioni molto, molto floride, come sappiamo bene. Qualcuno rimase là a sistemargli le cose?»

«No, no, non pensi che io… avevamo affari in corso, sì, qualcosa, ma non c’era bisogno di molto. De Marchi non aveva molto da perdere laggiù».

«Non aveva molto da perdere. Dottor Gagliardi, mi dica se mi sbaglio…»

L’uomo annuì.

«Nelle belle colonie c’è bisogno di uomini attivi e svegli, vero? Allora ci si organizza così: si fonda una società, una ditta, tramite “amici” si prendono gli appalti per una strada, ad esempio, il cui prezzo è cento, diciamo. Il costo vero è venticinque, ma poco conta, c’è urgenza. Strada da dieci chilometri. Si fanno i primi cinquecento metri di scavo e, perbacco, si scopre che sotto c’è roccia, allora si chiama un tecnico, amico anche questo, che fa la perizia. C’è la roccia? Il prezzo diventa centotrenta, anticipo del cinquanta e si fanno altri cento metri. Alt ancora, stavolta c’è fango, il prezzo sale a centocinquanta, altro anticipo e via di nuovo. Il lavoro non va avanti ma gli anticipi sì, che però non restano nelle casse della dittà, in mezzo al deserto, ma passano dalle banche di Addis Abeba e tornano qui, a casetta loro, in patria. Così quando un certo imprenditore deve levare le tende velocemente per salvare la ghirba, perde un po’ del giochino in corso, ma il grosso già se l’era riportato a casa… sbaglio?»

Gagliardi confermò: «Sì, ma lo fanno tutti, è normale… anche qui» e si volse verso la moglie a cercare una conferma.

«Certo, anche qui, ma là è tutto più rapido… in un paio d’anni si fanno i milioni, vero? Là si paga tutto, anche le bambine».

Dario ascoltava e faceva fatica a capire ogni passaggio, ma si ripeteva le cose che ascoltava, anche se non riusciva ancora a trovare un filo completo che le unisse.

«Un’altra domanda…» e Dario vide un lampo di cattiveria, negli occhi di Bottazzi, che non aveva mai sospettato.

«E come mai lei e la sua signora siete arrivati a Reggio, nella nostra bella e tranquilla cittadina?»

Katharine ricambiò lo sguardo, prese una sigaretta e l’accese. Aveva lasciato le mani del marito.

«Alla fine del ‘39, in novembre, decisi di rientrare. Ci eravamo appena sposati, per procura, era scoppiata la guerra e si rischiava di finire intrappolati, si sapeva… così in gennaio abbiamo fatto la cerimonia, dai miei a Genova. Margherita, ricordi che mare quel giorno? Poi dovevamo decidere dove andare a stare. Lontano dai suoi… ma in modo che fosse comodo per i miei viaggi di lavoro. A Milano avevo un ufficio, ce l’ho ancora, e allora avevo interessi nel bolognese, così pensammo che qui, a metà strada…»

«E siete venuti qui, guarda un po’, proprio nella città dei quattro di Addis Abeba, pardon, rimasti in tre. E, fortunati, avete trovato questa bella villa che, altra fortuna, era in vendita».

Ci fu qualche secondo di silenzio. Poi Gagliardi prese un bicchiere e lo riempì, lo bevve tutto, lo rimise sul tavolo. Prese una sigaretta e senza accenderla disse:

«De Marchi, per sdebitarsi forse, mi fece sapere che il proprietario doveva realizzare velocemente, a prezzo molto conveniente. Era un buon affare… cosa c’era di male?»

«Nulla. Si figuri, gli affari si fanno anche sapendo le cose. Così il buon Vannucci, quello dei pellami e della conceria,per salvare qualcosa dal fallimento le cedette la villa per quattro soldi, a porte chiuse, vero?»

«Sì».

«Capisce perché, avvocato, ho venduto quasi tutto quello che ho trovato? Volevo una casa mia, finalmente, e lei mi ha aiutato… ricorda quante visite ai rigattieri?» Katharine si era alzata e rimaneva in piedi fra il marito e il caminetto che aveva appena riattizzato.

«Cara Margherita, mi permetta… il suo gusto meritava di meglio che trovarsi…»

«Lo so».

«Dario…» la donna lo guardò con quegli occhi che lo facevano avvampare «io queste cose le ho sapute oggi, stamattina… mi crede?»

«Sì…» le credeva, avevano il loro patto.

«Glielo dovevo, volevo che lei sapesse la verità, non so perché ma qualcuno, De Marchi credo, voleva farle del male e questo è il mio modo…» Magari avesse finito con „di volerle bene“. Ma era chiedere troppo.

Tutta roba strana per Dario: affari, soldi… solo le porcherie di De Marchi le aveva capite, le aveva già sentite. Era quell’“anarchia morale“ cui il fratone a Scandiano aveva accennato. Katharine doveva avere un’idea, un sospetto. Magari si sarebbe fermata a quel punto, ma poi la nottata e il disastro successo, forse, l’avevano convinta a spingersi più in là, a quella confessione pubblica forzata del marito. Ma non era, e questo faceva sussultare Dario, un modo per dimostrare che teneva a lui, che lui non era uno qualunque, un ragazzino finito nei guai solo per la leggerezza di una signora per bene?

 

Gagliardi si alzò, chiese scusa e salì nella sua stanza. Dario provava pena per quell’uomo strano, che aveva accettato di umiliarsi fino a quel punto davanti a degli estranei, forse per non perdere una donna come Katharine. E in questo, all’improvviso, se lo sentiva più vicino.

«Margherita, la ringrazio, so quanto le è costato tutto ciò… e questo le fa onore, conferma la mia opinione su di lei».

«Io ho fatto quello che potevo, ma soprattutto dovevo…»

«Le cose che suo marito ci ha detto sono state utili, molto utili. Poco alla volta magari riusciremo a capirci qualcosa».

L’incontro era finito. Katharine chiamò la cameriera, che apparve già con i soprabiti di Dario e di Bottazzi.

 

«Che donna! Che temperamento!» fu l’unica cosa che l’avvocato disse, appena salito in auto. Ripartì veloce senza direpiù nulla, si fermò solo davanti a casa di Dario:

«Buona cena, salutami il nonno…»

«Ma davvero lei pensa che… le cose che ci hanno detto siano utili? Per capire?»

Bottazzi lo guardò con aria tranquilla:

«Vedi, è un po’ il mio lavoro: rimestare nello sterco per tirar fuori quello che si può, per rimettere ordine e far trionfare la verità».  Rise quasi di buon umore. «Tranquillo, come diceva quello, la verità è in marcia e nessuno la fermerà…»

 

Il patto di Katharine_Capitolo 6_ultima modifica: 2020-03-18T16:11:59+01:00da pelikan-55
Reposta per primo quest’articolo