Ustica: 31 anni dopo, in Italia esiste la verità? (Stefano Corradino)

ustica.jpgSono le 20:08 del 27 giugno 1980. Si alza in volo da Bologna il DC-9 I-TIGI. Destinazione Palermo. Parte con un ritardo di due ore, il doppio del tempo necessario per completare il viaggio. In un’ora fai giusto in tempo a sederti, allacciare le cinture, buttare un occhio sulle procedure di emergenza mimate dal personale di volo, sfogliare la rivista alloggiata nel retro del sedile davanti e bere un caffè che già inizia il momento della discesa. 69 adulti e 12 bambini aspettano di scendere dall’aereo per tornare a casa o per iniziare una settimana di vacanza. Come la famiglia Diodato. La moglie, la cognata, e i tre figli bambini di Pasquale detto Lino, muratore, muscoli possenti. Lino li ha messi sull’aereo per raggiungerli i giorni successivi. Ad attenderli all’aeroporto di Punta Raisi ci sono i nonni e gli zii ansiosi di stringere i loro cari.

Ma alle 21:04, quando dalla torre di controllo di Palermo parte il contatto radio per autorizzare la discesa sul Dc9 nessuno risponde. Elicotteri, aerei e navi si precipitano nelle ricerche ma il volo è disperso. Solo alle prime luci dell’alba viene individuata ad alcune decine di miglia a nord di Ustica, una chiazza oleosa. Lì ci sono i primi relitti e i primi cadaveri.

Sono trascorsi 31 anni da quella terribile notte. Anni e anni di indagini, migliaia di cartelle di atti per oltre un milione e mezzo di pagine e circa trecento udienze processuali. Inchieste ostacolate e manomesse come affermano gli stessi inquirenti che hanno ripetutamente parlato di depistaggi e inquinamenti delle prove.

A 31 anni di distanza da quella tragedia sappiamo molto e non sappiamo niente.

Sappiamo che nel cielo di Ustica il Dc-9 non era solo ma c’erano ben 21 aerei che circondavano il velivolo precipitato. Lo ha ricordato recentemente Andrea Purgatori, il giornalista che per primo seguì la vicenda sul Corriere della Sera.
Non sappiamo di quale nazionalità fossero questi aerei ma si ipotizza che alcuni fossero libici e che l’intento fosse quello di eliminare il colonnello Gheddafi che si presumeva essere su quel volo.
Sappiamo che oltre 30 anni fa abbiamo contratto un bel debito economico con il governo libico che è forse stato tale da tollerare attraversamenti dei loro aerei nei nostri cieli.
Non sappiamo (ma per le ragioni di cui sopra lo immaginiamo) perché fino a oggi nessuno ha chiesto perentoriamente conto a Gheddafi di quella notte del 27 giugno.
Sappiamo di avere un sottosegretario, Carlo Giovanardi che oltre a quella per i gay ha anche un’ossessione per i missili perchè “Nessun missile abbattè il DC9 dell’Itavia su Ustica” – ripete ossessivamente infischiandosene delle valutazioni della magistratura e dei familiari delle vittime.
Non sappiamo perché dobbiamo essere l’unico paese democratico in cui permane il segreto di stato sulle tante stragi che hanno insanguinato l’Italia.
Sappiamo, come scriveva Pier Paolo Pasolini, anche se non abbiamo né prove né indizi ma perché “cerchiamo di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; di coordinare fatti anche lontani, mettere insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico,  ristabilire la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”.

“In Italia esiste la verità?” c’è scritto in alto a sinistra nel manifesto del film “Il muro di gomma”. L’ho rivisto ieri sera in tv e, per l’ennesima volta, mi si è accapponata la pelle alla straziante scena finale quando il giornalista Rocco dopo il processo detta il suo articolo al Corriere: “Perché chi sapeva è stato zitto? Perché chi poteva scoprire non s’è mosso? Perché questa verità era così inconfessabile da richiedere il silenzio, l’omertà, l’occultamento delle prove? C’era la guerra quella notte del 27 giugno 1980. c’erano 69 adulti e 12 bambini che tornavano a casa, che andavano in vacanza, che leggevano il giornale, che giocavano con una bambola. Quelli che sapevano hanno deciso che i cittadini, la gente, noi, non dovevamo sapere: hanno manomesso le registrazioni, cancellato i tracciati radar, bruciato i registri; hanno inventato esercitazioni che non erano mai avvenute, intimidito i giudici, colpevolizzato i periti e poi hanno fatto la cosa più grave di tutte: hanno costretto i deboli a partecipare alla menzogna, trasformando l’onesta in viltà… Perché?”

http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/06/27/ustica-in-italia-esiste-la-verita/126471/

Perché la sinistra domina cultura, giornali (Marcello Foa)

Tratto da: http://blog.ilgiornale.it/foa/2011/06/26/perche-la-sinistra-domina-cultura-giornali-scuola/

KGB.jpgVisto da est, l’Occidente può apparire molto curioso; soprattutto se incontri personaggi del calibro di Serghei Kara Mourza. Immagino già la faccia del lettore: è chi sarà mai costui? E’ un sociologo che, pur vivendo a Mosca, riesce a capire in che modo e in quale misura le società occidentali sono soggette alla propaganda, soprattutto a quella non dichiarata, che, essendo invisibile, è la più insidiosa. Tema delicato che dovrebbe essere al centro della riflessione pubblica, ma che in realtà viene ignorato non solo dai media più autorevoli, ma anche dal mondo accademico, salvo rare eccezioni.

Scavando in questa direzione, si scoprirebbe, ad esempio, per quale ragione in un Paese di consolidata tradizione cattolica, nel dopoguerra tutto il mondo culturale sia diventato comunista, così come gran parte della scuola, dell’università e dell’informazione. Com’è possibile che persone colte, istruite d’un tratto abbiano adottato il pensiero unico bolscevico abiurando valori nazionali e identitari? Si trattò di un fenomeno spontaneo e frutto di tante scelte individuali e consapevoli, per quanto curiosamente simultanee? La risposta è no. Non fu affatto un moto spontaneo, bensì una raffinatissima operazione di condizionamento delle masse, nell’ambito di un tentativo di occupazione dell’Italia attraverso l’occupazione delle istituzioni dall’interno, come prescritto da Gramsci e con la decisiva pianificazione del Kgb, che in quegli anni dedicava a questi scopi addirittura un Dipartimento.

Certo, se oggi si dicesse a uno dei tanti intellettuali ex comunisti, che peraltro ancora dominano buona parte della cultura italiana, di essere stato uno strumento del Kgb, costui si arrabbierebbe moltissimo . E, verosimilmente, non avrebbe torto. La maggior parte degli intellettuali, dei giornalisti, dei docenti nemmeno sospettò di essere manovrata e proprio per questo l’operazione ebbe successo, come si spiega in uno dei libri più intelligenti degli ultimi 40 anni: “Il montaggio”, scritto Vladimir Volkoff, intellettuale francese di origine russa ed esperto di manipolazione delle masse, che nel 1982, avvalendosi dell’artificio romanzesco, descrisse le tecniche usate dagli strateghi sovietici. Libro strepitoso e scomodo, che naturalmente il mondo intellettuale europeo all’epoca ignorò. Ora l’editore Alfredo Guida lo ripropone  in italiano con un’iniziativa altamente  meritoria e che i lettori aperti di spirito apprezzeranno. Il Kgb non esiste più, ma i suoi montaggi continuano a produrre effetti.

Chi lo capisce troverà una chiave di lettura ancora attualissima per capire perché, dopo oltre mezzo secolo, nella cultura, nella scuola, nell’informazione e in parte della magistratura certi clan continuino ad essere prevalenti. Il sistema sopravvive al madante e all’ideologia, continuando a far danni.

E noi che pensavamo che la sinistra avesse conquistato la “egemonia culturale” perchè aveva intellettuali come Gramsci, Vittorini, Pavese, Pasolini, Visconti…Tutto sbagliato: erano/eravamo tutti manovrati dall'”Impero del Male”. Il KGB era dentro (e dietro) di noi e non lo sapevamo. Facile, no?

Resta comunque aperta la domanda “perchè la destra italiana non ha prodotto uno straccio di cultura europea”? Ma il sapido articolo di Foa dà già un’implicita risposta…

 

Antropologia del conformista che fugge dalla libertà (Gustavo Zagrebelsky)

«Che cosa è questa complicità degli oppressi con l’oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?» Dalla lezione che Zagrebelsky terrà questa sera all’Auditorium di Roma nell’ambito de “Le parole della politica”.

Nel 1549 fu pubblicato un libello in cui si studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più, per essere ipso facto liberi. Che cosa è – parole di Etienne de la Boétie, amico di Montaigne – questa complicità degli oppressi con l’oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?. Il nome – apparso allora per la prima volta – è “servitù volontaria”. Un ossimoro: se è volontaria, non è serva e, se è serva, non è volontaria. Eppure, la formula ha una sua forza e una sua ragion d’essere. Indica il caso in cui, in vista di un certo risultato utile, ci s’impone da sé la rinuncia alla libertà del proprio volere o, quantomeno, ci si adatta alla rinuncia. Entrano in scena i tipi umani quali noi siamo: il conformista, l’opportunista, il gretto e il timoroso: materia per antropologi.

a) Il conformista è chi non dà valore a se stesso, se non in quanto ugualizzato agli altri; colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma cosa gli altri si aspettano da lui. L’uomo-massa è l’espressione per indicare chi solo nel “far parte” trova la sua individualità e in tal modo la perde. L’ossessione, che può diventare malattia, è sentirsi “a posto”, “accettato”.Il conformista è arrivista e formalista: vuole approdare in una terra che non è la sua, e non in quanto essere, ma in quanto apparire. Così, il desiderio di imitare si traduce nello spontaneo soggiogarsi alle opinioni, e l’autenticità della vita si sacrifica alla peggiore e più ridicola delle sudditanze: l’affettazione modaiola. La “tirannia della pubblica opinione” è stata denunciata, già a metà dell’Ottocento da John Stuart Mill, e oggi, nella società dell’immagine, è certo più pericolosa di allora. L’individuo si sente come sotto lo sguardo collettivo di una severa censura, se sgarra, o di benevola approvazione, se si conforma.
Questo sguardo è a una sorta di polizia morale. La sua forza, a differenza della “polizia” senza aggettivi, è interiore. Ma il fatto d’essere prodotta da noi stessi è forse libertà? Un uomo così è libero, o non assomiglia piuttosto a una scimmia?

b) L’opportunista è un carrierista, disposto a “mettersi al traino”. Il potere altrui è la sua occasione, quando gli passa vicino e riesce ad agganciarlo. Per ottenere favori e protezione, che cosa può dare in cambio? Piaggeria e fedeltà, cioè rinuncia alla libertà. Messosi nella disponibilità del protettore, cessa d’essere libero e si trasforma in materiale di costruzione di sistemi di potere. Così, a partire dalla libertà, si creano catene soffocanti che legano gli uni agli altri. Si può illudersi d’essere liberi. Lo capisci quando chi ti sta sopra ti chiede di pagare il prezzo dei favori che hai ricevuto. Allora, t’accorgi d’essere prigioniero d’una struttura di potere basata su favori e ricatti, che ti prende dal basso e ti solleva in alto, a misura del tuo servilismo. Quel de la Boétie, già nominato, ha descritto questo meccanismo. Il segreto del dominio sta in un sistema a scatole cinesi: un capo, circondato da pochi sodali che, distribuendo favori e cariche, a loro volta ne assoldano altri come complici in prevaricazioni e nefandezze, e questi altri a loro volta. Così la rete si estende, da poche unità, a centinaia, a migliaia, a milioni. Alla fine, il numero degli oppressori è quasi uguale a quello degli oppressi, perché appena compare una cricca, tutto il peggio, tutta la feccia degli ambiziosi fa gruppo attorno a lui per aver parte al bottino. Il tiranno genera tirannelli. Ma questi sono uomini liberi o parassiti come quelli che infestano il regno animale e vegetale?

c) L’uomo gretto è interessato solo a ciò che tocca la piccola sfera dei suoi interessi privati, indifferente o sospettoso verso la vita che si svolge al di là, che chiama spregiativamente “la politica”. Rispetto alle questioni comuni, il suo atteggiamento l’ipocrita superiorità: “certo gli uni hanno torto, ma nemmeno gli altri hanno ragione”, dunque è meglio non immischiarsi. La grettezza è incapace di pensieri generali. Al più, in comune si coltivano piccoli interessi, hobby, manie, peccatucci privati, unitamente a rancori verso la società nel suo insieme. Nell’ambiente ristretto dove si alimentano queste attività e questi umori, ci si sente sicuri di sé e aggressivi ma, appena se ne esce, si è come storditi, spersi, impotenti. La grettezza si accompagna al narcisismo e alla finta ricerca della cosiddetta “autenticità” personale che si traduce in astenia politica accompagnata dal desiderio d’esibirsi. In apparenza, è profondità esistenziale; in realtà è la vuotaggine della società dell’immagine. Il profeta della società gretta è Alexis de Tocqueville, nella sua analisi della “uguaglianza solitaria”: vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è estraneo al destino degli altri: se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia più patria. Su questa massa solitaria s’innesta la grande, terribile e celebre visione del dispotismo democratico: “al di sopra di costoro s’innalza un potere immenso e tutelare, che s’incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Ama che i cittadini siano contenti, purché non pensino che a stare contenti”. Ora, chi invoca su di sé un potere di tal genere, “immenso e tutelare”, è un uomo libero o è un bambino fissato nell’età infantile?

d) La libertà può fare paura ai timorosi. Siamo sicuri di reggere le conseguenze della libertà? Bisogna fare i conti con la nostra “costituzione psichica”, dice Freud: l’uomo civile ha barattato una parte della sua libertà per un po’ di sicurezza. Chi più di tutti e magistralmente ha descritto il conflitto tra libertà e sicurezza è Fëdor Dostoevskij, nel celebre dialogo del Grande Inquisitore. A dispetto dei discorsi degli idealisti, l’essere umano aspira solo a liberarsi della libertà e a deporla ai piedi degli inquisitori, in cambio della sicurezza del “pane terreno”, simbolo della mercificazione dell’esistenza. Il “pane terreno” che l’uomo del nostro tempo considera indispensabile si è allargato illimitatamente, fino a dare ragione al motto di spirito di Voltaire, tanto brillante quanto beffardo: “il superfluo, cosa molto necessaria”. E’ libero un uomo così ossessionato dalle cose materiali, o non assomiglia piuttosto alla pecora che fa gregge sotto la guida del pastore?

Conformismo, opportunismo, grettezza e debolezza: ecco dunque, della libertà, i nemici che l’insidiano “liberamente”, dall’interno del carattere degli esseri umani. Il conformista la sacrifica all’apparenza; l’opportunista, alla carriera; il gretto, all’egoismo; il debole, alla sicurezza. La libertà, oggi, più che dal controllo dei corpi e delle azioni, è insidiata da queste ragioni d’omologazione delle anime. Potrebbe perfino sospettarsi che la lunga guerra contro le arbitrarie costrizioni esterne, condotte per mezzo delle costituzioni e dei diritti umani, sia stata alla fine funzionale non alla libertà, ma alla libertà di cedere liberamente la nostra libertà. La libertà ha bisogno che ci liberiamo dei nemici che portiamo dentro di noi. Il conformismo, si combatte con l’amore per la diversità; l’opportunismo, con la legalità e l’uguaglianza; la grettezza, con la cultura; la debolezza, con la sobrietà. Diversità, legalità e uguaglianza, cultura e sobrietà: ecco il necessario nutrimento della libertà.

(da Repubblica, 16 giugno 2011)

Intanto, grazie Reggio!

Scrivo ad urne ancora aperte. Vedremo. Noto però due cose: una buona, l’altra un po’ meno.

La prima: Reggio ieri è stata la prima per affluenza (54,6%), come a dire: quando ci si deve muovere noi ci siamo. Saranno i comunisti, saranno i temporali ma siamo andati a votare in maniera compatta. Sarebbe bello che chi ci amministra anche in sede locale si ricordasse più spesso del patrimonio umano-politico costituito dai nostri concittadini e, anzichè continuare a menarsela con giochi, giochini e giochetti, desse spazio alle “risorse umane” disponibili, ascoltando, lasciando perdere l’atteggiamento di superiorità spocchiosa che spesso ci troviamo di fronte in tante cose della nostra vita di cittadini.

La seconda (ma è una bubboletta in una giornata come questa): conosciamo bene la “sindrome del convertito”, che spinge a trasformare il soggetto in uno scatenato promoter dell’idea che aveva avversato fino a due settimane prima. Succede. Però. Devo dire che Magdi Cristiano Allam sta superando la resistenza alla frantumazione dei miei poveri cabasisi: passi che si sia voluto ribattezzare Cristiano, passi che sia diventato più silviano di Silvio ma che ci ammannisca lezioncine su tutto e di più…Oggi su Il Giornale (un quotidiano che deve aver scelto quel titolo per convincerci di cosa sia..) rimprovera il povero Napo perchè, dando l’esempio, ha confermato che il voto sia un “dovere” morale come la Costituzione sancisce. Il pezzullo si salda con articolini dei giorni scorsi contro i rom e il buonismo dei cattolici (quelli antichi, un po’ comunisti, mica buoni elucide come lui..) e cosette simili. Ci vuol pazienza, che dire?

Per arrabbiarsi un po’ (ma non troppo)

Da povero cristiano sofferente ogni tanto mi infliggo qualche punizione. Tranquilli, lascio il cilicio alla Binetti e le camicie a fiori a Formigoni. Io mi limito ad andare su qualche sito “veramente” cattolico per capire cosa pensano altri credenti. Vi risparmio, per il momento, siti lefebreviani e simili delizia.

Vi segnalo “La Bussola quotidiana”, che è di qualche attualità visto che uno dei suoi animatori, Andrea Tornielli, è un noto vaticanista e sarà a Reggio nei prossimi giorni nell’ambito del Festincontro. In occasione del GayPride di domani segnalo l’articolo «L’Omofobia? Una grande bufala» Parola di ex gay militante di Raffaella Frullone, da cui traggo l’ultima domanda/risposta a Luca Di Tolve, gay “convertito”.

http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-lomofobia-una-grande-bufalaparola-di-ex-gay-militante–2112.htm

Quale è stata la molla che Le ha fatto pensare che qualcosa non andava nel mondo gay?

«Ad un certo punto, dopo anni di ricerca sfrenata, non solo non avevo trovato nulla, ma non avevo nemmeno capito bene cosa stavo cercando, e nemmeno se lo avrei trovato mai. Esausto, mi sono fermato, ho staccato. Poi ho scoperto che c’erano altre possibilità:  con grandissimo stupore e altrettanta sofferenza ho scoperto una cosa che nessuno, in 20 anni di Arcigay mi aveva mai detto, e cioè che potevo diventare eterosessuale. Perchè non me lo avevano detto? Mi hanno rubato 20 anni di vita. Ho cominciato a leggere i libri di Nicolosi, psicoterapeuta americano, che da anni negli Stati Uniti si occupava di terapia riparativa. Non sono stato convinto da subito, ma ho voluto tentare anche quella strada. Ho capito che la mia vita era cambiata quando ho cominciato a percepire la profondità del mistero della complementarità, e ho sentito dentro di me un desiderio, che nessuno mi aveva detto che avrei potuto sentire: quello di essere padre. Fino ad allora nessuno mi aveva mai detto che avrei potuto generare una vita».

Capisco che ci inoltriamo in territori di grande delicatezza ma mi chiedo: bisogna aspettare che qualcuno ci dica che esistono varie opzioni per la sessualità di ognuno di noi? Che la ricerca della nostra identità è un libero percorso, a volte semplice, a volte accidentato, ma che attiene la sfera dell’individualità più assoluta? Che frequentare associazioni come Arcigay è una libera scelta, non una chiamata alle armi o alla vocazione? Di Tolve è stato fortunato perchè ha trovato qualcuno che gli ha detto che poteva anche scegliere l’eterosessualità se quella era la sua strada? E tutti noi, tapini, che non abbiamo mai trovato nessuno che ci ha spiegato simile sconvolgente verità, come abbiamo fatto? Ci siamo aggirati inutilmente nei meandri della lussuria, singola o collettiva? Ma soprattutto in questa rivelazione sconvolgente quanto spazio si lascia alla libera scelta dell’individuo? E quanto emerge della solita tragica mania sessuofobica che tanto ha improntato la storia della Chiesa?

Per qualche riflessione vi segnalo: Piero Cappelli, Lo scisma silenzioso. Dalla casta clericale alla profezia della fede, Gabrielli Editore 2009. Segue schedina IBS:

La missione dei cristiani in un mondo laico è quella di ricordare che la finalità della storia, la finalità della vita e la finalità della politica è sempre la stessa: operare per la riconciliazione”. Su queste premesse, tratte dalla prefazione di Arturo Paoli, il libro analizza le contraddizioni e i conflitti, spesso duri e profondi, in atto da tempo all’interno della Chiesa Cattolica, tra la gerarchia, con il mondo clericale che la sostiene, e il variegato “popolo cattolico” – fedeli, sacerdoti e religiosi – che nella pratica e nel pensiero hanno posizioni diverse e contrastanti rispetto alla dottrina ufficiale. Si tratta di un vero e proprio “scisma”, seppur silente, non dichiarato, perché non è dato spazio alla sana controversia e al dialogo. I I dissidenti, soprattutto teologi e sacerdoti, pagano con l’emarginazione e l’esclusione. L’autore analizza i fondamenti teologici/biblici/comunicativi e i processi che sostengono questo tipo di Chiesa, e conclude indicando piste di lavoro e di comunicazione ecclesiale per una nuova comunità-chiesa dove il dialogo e la profezia permettano un rinnovamento nel segno della Fede, della Speranza e della Carità.

Famolo strano (Enrico Maria Davoli)

Nel numero di marzo-aprile 2011 di Reggio Comune, il periodico dell’Amministrazione Comunale di Reggio Emilia, è riprodotto il bozzetto con cui l’architetto Italo Rota  ridisegna l’ingresso dei Musei cittadini. Nessun commento, solo una didascalia che recita I Civici Musei secondo Italo Rota. Da ricordare che nel 2010 una proposta di riordino delle collezioni dei Musei Civici di Reggio Emilia era già stata commissionata a Rota in forma di mostra temporanea. Titolo: L’amore ci dividerà. Prove generali di un Museo, Reggio Emilia, Musei Civici, 15 maggio – 13 giugno 2010.

Italo Rota (Milano 1953) è una delle firme più note dell’architettura italiana d’oggi. Suo è il progetto del Museo del Novecento di piazza Duomo a Milano, inaugurato alla fine del 2010 negli spazi completamente sventrati di uno dei due palazzi gemelli dell’Arengario, il complesso costruito fra il 1939 e il 1956 su progetto di Griffini, Magistretti, Muzio e Portaluppi. Se l’Arengario fosse stato ultimato solo qualche anno prima, i cinquant’anni necessari per legge a scongiurarne lo sventramento sarebbero scattati in tempo utile. Ma di solito chi sventra è più tempista di chi costruisce.

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A tutt’oggi, poco o nulla si sa dei dettagli tecnici del progetto Civici Musei. Difficile dire se tanto silenzio sia da interpretare come segno di approvazione (“Chi tace acconsente”), di sgomento (“Oddio, che roba è?”), di entusiasmo (“Questa è l’architettura contemporanea, bellezza!”), o di uno starsene alla finestra cercando di sondare gli umori della popolazione (“Tiriamo il sasso e vediamo un po’ cosa succede”).

Proviamo a descrivere cosa si vede nel bozzetto pubblicato da Reggio Comune. Il cortile situato nell’angolo nord-ovest del Palazzo del Musei viene lastricato a somiglianza del tratto stradale antistante e piantumato di giganteschi funghi metallici (elementi ombreggianti di giorno e lampioni di notte?). Sotto ciascun fungo si vede l’immagine di un animale: rapace, trampoliere, pesce, rettile eccetera. Le due pareti che fanno da sfondo vengono ricoperte di un manto vegetale, un rettangolo verde grande come un campo da tennis.

Sineddoche è la figura retorica che serve a indicare una cosa nominando una sua parte (esempio: albero al posto di nave), o la materia di cui è fatta (ferro al posto di spada), o con altre sostituzioni (il felino al posto de il gatto). Ebbene, se si dovesse giudicare l’operazione di Rota in termini di eloquio, di Retorica appunto, si dovrebbe dire che l’architetto milanese ha forgiato una gigantesca sineddoche. Cioè ha usato il nesso vegetazione-animali per rappresentare la vasta gamma di forme viventi raccolte nelle stanze del Museo.

Brillante intuizione? Non esageriamo. L’architettura è sempre stata il luogo della Retorica, delle tessiture, delle polifonie. Gli elementi costitutivi degli ordini classici – colonna, capitello, architrave, timpano – le marmorizzazioni, le tinteggiature, le cornici, le mensole, i marcapiani, le balaustre, sono sempre serviti a produrre poemi figurati, spartiti musicali ricchi di variazioni. Non avendo né tempo né voglia di scrivere qualcosa che somigliasse a un poema o anche solo a una canzonetta, Rota ha pensato bene di accontentarsi di un cartello con su scritto Vietato dar da mangiare agli animali / Vietato calpestare le aiuole. Forse per questo il manto vegetale si arrampica sui muri. Per estrinsecare il divieto. La sua manutenzione in verticale sarebbe molto più costosa di quella del campo centrale di Wimbledon, e non lo si potrebbe calpestare nemmeno per le due canoniche settimane l’anno.

Siamo nel campo del copia-e-incolla, del famolo strano alla Carlo Verdone spacciato per il colpo d’ala di un artista spericolato. E’ l’architettura dei giochi di prestigio che si sostituisce all’architettura del decoro, della durata, del giusto rapporto costi-benefici. E’ l’architettura delle riletture che riletture non sono, non foss’altro perché denotano una condizione di analfabetismo, una totale incapacità di interrogarsi sul perché un edificio sia quello che è – nella fattispecie un Museo – anziché un Ospedale o una Centrale del Latte o un Autogrill.

E’ un’architettura che ha ormai così bene assimilato la nozione di “non-luogo” da non avere più alcun ritegno nel farsene scudo. E nel dire che, in fondo, il mondo intero è un unico, grande “non-luogo”. E che dove ancora non lo è, occorre dargli una mano a diventarlo.

http://www.enricomariadavoli.it/?p=1398

Alberi (e film) incomprensibili?

14655_big.jpgPer nove giorni presso il prestigioso Cinema Lumière di Bologna (presso l’ottima Cineteca) il film vincitore di Cannes “Tree of life” di Terrence Malick è stato proiettato a rulli invertiti. Nove giorni. Centinaia di spettatori hanno pagato, sono entrati, si sono gustati lo spettacolo e sono usciti. Soddisfatti? Immaginiamo i commenti “Però, questo Mallick, sempre un genio!”, “Difficile ma poetico!”, “Questo è cinema!”, “Sono commosso…”, “la Palma se l’è meritata tutta!”. E purtroppo non era un’esperimento situazionista della Cineteca ma un semplice, disgraziato infortunio. (le scuse dell’ente sono in: http://www.cinetecadibologna.it/news/n_121)

E’ pur vero che l’opera d’arte, in quanto tale, travalica i banali concetti di spazio, tempo e ordine (dei rulli) però che in nove giorni nessuno abbia obiettato, chiesto, suggerito…temo la dica lunga sul conformismo diffuso anche negli strati colti (e/o coltivati) del nostro paese. Perchè andare a vedere Malick ci vuole pazienza, preparazione, tempo e voglia. Lo dice chi si beccò ancora giovane al mitico Cineforum Capitol “La rabbia giovane” (1973), e ha gustato in tempi più recenti “La sottile linea rossa”. Nulla. Nessuno si è accorto? Si è posto una domanda?

300px-Bronenosets.jpgLo snobismo culturale provoca disastri. Viene  in mente la classica, tragica, battuta di Fantozzi: “La corazzata Potemkin è…”, sulla quale tutti abbiamo riso. Sbagliando. Primo perchè quel film è un grandissimo film e l’abbiamo visto sempre a rulli filanti. In secondo luogo perchè così abbiamo allontanato da quell’opera intere generazioni, regalandole alla orrenda filmografia  che ha portato i nostri ragazzi a seppellirsi nelle multisale a vedere quello che capita, incapaci di distinguere il (poco) accettabile dallla (tanta) paccottiglia.

Il linguaggio cinematografico necessita di educazione, formazione, delle Corazzate Potemkin come di “A qualcuno piace caldo” o “Paris Texas”, insultando allora un’opera d’arte non abbiamo fatto capire che era l’uso, perverso e snob, da condannare. Abbiamo buttato via, come al solito, bambino, acqua e bacinella e ci siamo sorbiti, soddisfatti e beoti, i Vanzina e Virzì.

Benigni e “Fratelli d’Italia”, dubbi su una lezione di storia (A.M.Banti)

 
Abbracciare la soluzione di un neo-nazionalismo italiano vorrebbe dire infilarsi dritti dritti nella più perniciosa delle culture politiche che hanno popolato la storia dell’Italia dal Risorgimento al fascismo.

Roberto Benigni a Sanremo: ma certo, quello che voleva bene a Berlinguer! Quello che –con gentile soavità – insieme a Troisi scherzava su Fratelli d’Italia … Che trasformazione! Sorprendente! Eh sì, giacché giovedì 17 febbraio «sul palco dell’Ariston», come si dice in queste circostanze, non ha fatto solo l’esegesi dell’Inno di Mameli. Ha fatto di più. Ha fatto un’apologia appassionata dei valori politici e morali proposti dall’Inno. E – come ha detto qualcuno – ci ha anche impartito una lezione di storia. Una «memorabile» lezione di storia, se volessimo usare il lessico del comico. Bene. E che cosa abbiamo imparato da questa lezione di storia? Che noi italiani e italiane del 2011 discendiamo addirittura dai Romani, i quali si sono distinti per aver posseduto un esercito bellissimo, che incuteva paura a tutti. Che discendiamo anche dai combattenti della Lega lombarda (1176); dai palermitani che si sono ribellati agli angioini nel Vespro del lunedì di Pasqua del 1282; da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; e da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci. Interessante. Da storico, francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt’altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell’Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l’infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po’ che si va a scoprire in una sola serata televisiva. Ma c’è dell’altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori – stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli. E anche questa è una nozione interessante, una di quelle che cancellano in un colpo solo i sentimenti di apertura all’Europa e al mondo che hanno positivamente caratterizzato l’azione politica degli ultimi quarant’anni. Poi abbiamo anche capito che dobbiamo sentire un brivido di emozione speciale quando, passeggiando per il Louvre o per qualche altro museo straniero, ci troviamo di fronte a un quadro, che so, di Tiziano o di Tintoretto: e questo perché quelli sono pittori «italiani» e noi, in qualche modo, discendiamo da loro. Che strano: questa mi è sembrata una nozione veramente curiosa: io mi emoziono anche di fronte alle tele di altri, di Dürer, di Goya o di Manet, per dire: che sia irriducibilmente anti-patriottico? E infine abbiamo capito qual è il valore fondamentale che ci rende italiani e italiane, e che ci deve far amare i combattenti del Risorgimento: la mistica del sacrificio eroico, la morte data ai nemici, la morte di se stessi sull’altare della madre-patria, la militarizzazione bellicista della politica. Ecco. Da tempo sostengo che il recupero acritico del Risorgimento come mito fondativo della Repubblica italiana fa correre il rischio di rimettere in circuito valori pericolosi come sono quelli incorporati dal nazionalismo ottocentesco: l’idea della nazione come comunità di discendenza; una nazione che esiste se non ab aeterno, almeno dalla notte dei tempi; l’idea della guerra come valore fondamentale della maschilità patriottica; l’idea della comunità politica come sistema di differenze: «noi» siamo «noi» e siamo uniti, perché contrapposti a «quegli altri», gli stranieri, che sono diversi da noi, e per questo sono pericolosi per l’integrità della nostra comunità.
Ciascuna di queste idee messa nel circuito di una società com’è la nostra, attraversata da intensi processi migratori, può diventare veramente tossica: può indurre a pensare che difendere l’identità italiana implichi difendersi dagli «altri», che – in quanto diversi – sono anche pericolosi; può indurre a fantasticare di una speciale peculiarità, se non di una superiorità, della cultura italiana; invita ad avere una visione chiusa ed esclusiva della comunità politica alla quale apparteniamo; e soprattutto induce a valorizzare ideali bellici che, nel contesto attuale, mi sembrano quanto meno fuori luogo. Ecco, con la performance di Benigni mi sembra che il rischio di una riattualizzazione del peggior nazionalismo stia diventando reale: tanto più in considerazione della reazione entusiastica che ha accolto l’esibizione del comico, quasi come se Benigni avesse detto cose che tutti avevano nel cuore da chissà quanto tempo. Ora se questi qualcuno sono i ministri La Russa o Meloni, la cosa non può sorprendere, venendo questi due politici da una militanza che ha sempre coltivato i valori nazionalisti. Ma quando a costoro si uniscono anche innumerevoli politici e commentatori di sinistra, molti dei quali anche ex comunisti, ebbene c’è da restare veramente stupefatti. Verrebbe da chieder loro: ma che ne è stato dell’internazionalismo, del pacifismo, dell’europeismo, dell’apertura solidale che ha caratterizzato la migliore cultura democratica dei decenni passati? Perché non credo proprio che un simile bagaglio di valori sia conciliabile con queste forme di neo-nazionalismo. Con il suo lunghissimo monologo, infatti, Benigni – pur essendosi dichiarato contrario al nazionalismo – sembra in sostanza averci invitato a contrastare il nazionalismo padano rispolverando un nazionalismo italiano uguale a quello leghista nel sistema dei valori e contrario a quello solo per ciò che concerne l’area geopolitica di riferimento. Beh, speriamo che il successo di Benigni sia il successo di una sera. Perché abbracciare la soluzione di un neo-nazionalismo italiano vorrebbe dire infilarsi dritti dritti nella più perniciosa delle culture politiche che hanno popolato la storia dell’Italia dal Risorgimento al fascismo.

Alberto Mario Banti – il Manifesto
20 Febbraio 2011

Mladic, Eichmann e i mostri della storia (Emilio Carnevali)

Il 12 ottobre 2010 è in programma a Genova la partita Italia-Serbia, valida per le qualificazioni ai campionati europei di calcio. Fin dal pomeriggio i tifosi serbi si scontrano con le forze dell’ordine nel centro della città. La sera, dentro lo stadio, si scatenano. Il capitano della Serbia, il giocatore dell’Inter Dejan Stankovic, corre insieme ad altri compagni di squadra sotto gli spalti dei suoi tifosi e cerca di “calmarli” applaudendoli e esibendo tre dita da entrambe le mani (il gesto dei cetnici, simbolo del nazionalismo serbo). Il telecronista Rai Marco Mazzocchi spiega ai telespettatori italiani (cito a memoria): “Sta facendo il gesto del 3. Gli sta dicendo: se continuate così ci fanno perdere 3 a 0 a tavolino”. Ovviamente i tifosi serbi continueranno nella loro opera di devastazione e la partita verrà sospesa.

_41629000_mladicapok.jpgD’altra parte quelle erano probabilmente le stesse persone che pochi giorni prima avevano attaccato i manifestanti del Gay Pride in corso a Belgrado e probabilmente ancora le stesse che qualche giorno fa sono scese in strada a migliaia per protestare contro l’arresto dell’ex generale Ratko Mladic. L’intreccio fra il calcio e le vicende politiche e belliche della ex Jugoslavia rimanda a un capitolo di quel conflitto che non possiamo affrontare nemmeno sommariamente. Ci limitiamo a ricordare che Zeljio Raznatovic, più noto con il famigerato soprannome di Arkan, era un capo ultras della Stella Rossa, la più blasonata squadra di Belgrado, prima di dar vita al gruppo paramilitare delle Tigri, i cui componenti vennero in gran parte reclutati proprio fra gli ultras e che si rese protagonista di alcuni dei peggiori massacri perpetratati durante la guerra di Bosnia. Quando Arkan fu assassinato – nel 2000, a guerra ormai finita – fu salutato a Belgrado da una folla di 20.000 persone; anche in Italia, nella curva dei tifosi della Lazio (notoriamente infarcita di gruppi di estrema destra), fu issato uno striscione che recitava “Onore alla tigre Arkan”.

Tuttavia il collegamento fra un elemento ordinario della nostra esperienza quotidiana come il calcio ed un evento assai lontano, di difficile comprensione almeno per le generazioni più giovani, come la guerra – la guerra nella sua stra-ordinaria atrocità – può forse essere utile per riflettere sul pericolo che un certo tipo di pratica della memoria possa scivolare paradossalmente nel suo opposto, ovvero in una Grande Rimozione. E’ il pericolo che corriamo quando separiamo certi fenomeni dall’orizzonte delle nostre possibilità, dei nostri destini collettivi, appiccicandogli addosso l’etichetta della mostruosità dis-umana. Siamo di fronte a una problematica ben al di là del dilemma – anch’esso presente in casi come questi – di una giustizia che opera sempre e solo nei confronti degli sconfitti, ovvero del terribile ammonimento che ci ha lasciato Joseph Goebbels quando nel 1943 dichiarò: “Passeremo alla storia come i più grandi statisti di tutti i tempi, o come i più grandi criminali” (ai giorni nostri George W. Bush non è celebrato come un grande statista, ma c’è da esser certi che non sarà mai condotto alla sbarra per rispondere di crimini contro l’umanità).

Lo scorso 3 giugno l’ex generale Mladic, il cosiddetto “boia di Srebrenica”, è comparso – vecchio e traballante – in un aula del Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia. Contro di lui ci sono undici capi di imputazione: genocidio, sterminio, omicidio, deportazioni, torture, crimini contro l’umanità, violazione delle leggi di guerra, presa di ostaggi (i soldati delle Nazioni Unite), attacchi contro civili inermi. Di fronte al giudice Mladic ha dichiarato: “Non sono né colpevole né innocente”.

Eichmann.GIFSignificativa l’assonanza fra questa dichiarazione e quella fornita nel 1961 dall’ex gerarca nazista Adolf Eichmann al giudice del tribunale di Gerusalemme che lo processava per crimini contro l’umanità e contro il popolo ebraico: “Non colpevole nel senso dell’atto d’accusa”. Mladic ha detto di aver aver semplicemente difeso il suo popolo, Eichmann dichiarò di aver operato in osservanza delle leggi del suo paese (e su questo punto è difficile eccepire).
E’ probabilmente vero che per esercitare il ruolo che Mladic rivestì nel corso della guerra è necessaria anche una buona dose di personale efferatezza. Come è sensata l’obiezione che Timothy Garton Ash – in un articolo pubblicato su Repubblica lo scorso 4 giugno – muove ai critici che domandano: “Perchè vi limitate a mettere sulla graticola i pesci grossi e lasciate nuotare via i pesci piccoli?”. “Questo è vero”, ha risposto Garton Ash, “ma è inevitabile. Non è immaginabile processare tutte le decine di migliaia di colpevoli, con diverse responsabilità, delle atrocità commesse da una qualsiasi dittatura. O si crede che sia forse meglio il contrario: catturare i pesciolini e lasciare liberi i pesci grossi?”. Se però questo è vero dal punto di vista del diritto, non può essere valido dal punto di vista della storia, della memoria e della costruzione di una lettura dei fatti utile a poter almeno tentare di fare in modo che certe cose non accadano più.

Il “mostro disumano” può infatti essere un modo comodo – e pericoloso – per attuare quella cancellazione della responsabilità collettiva che sola può spiegare l’odio come prodotto di complesse dinamiche culturali, sociali ed economiche e non semplicemente come risultato dell’esaltazione di un pugno di individui.

E’ forse un meccanismo simile a quello che sta anche alla base della morbosa attenzione dedicata dalle nostre televisioni e da certa stampa ai numerosi casi di cronaca di nera con i relativi “mostri” da prima pagina: che sia in fondo un modo per esorcizzare gli spettri più spaventosi e inconfessabili che si aggirano anche fra i pensieri e le fantasie delle persone più “normali”? Che tutta questa nostra passione per i vari plastici della villetta di Cogne e della casa di Garlasco sia un modo per marcare comunque la distanza fra noi e loro (i mostri), per rassicurarci sul fatto che noi non potremo mai essere come loro?

Sono tutti interrogativi le cui risposte non sono davvero alla nostra portata. Più modestamente – tornado al tema iniziale – ci vorremmo limitare a mandare un applauso simbolico al signor Andy Newman, segretario del sindacato Gmb Union. Ogni anno la sua organizzazione versava 4000 sterline alla squadra dello Swindon Town (quarta divisione inglese), ma da quando è stato chiamato a dirigerla l’ex calciatore italiano Paolo Di Canio ha deciso di interrompere la sponsorizzazione: «Siamo un sindacato di lavoratori e non possiamo avere rapporti commerciali con un club che ha un allenatore fascista. Non abbiamo scelta. E’ un peccato, ma non possiamo fare altro». Cose che possono accadere solo in Inghilterra. Da noi i saluti romani di Paolo Di Canio sono considerati inoffensiva goliardia. Sarà questa la “banalità del male”?

(6 giugno 2011)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/mladic-eichmann-e-i-mostri-della-storia/

Una scheda completa sulla strage di Sebrenica è in: http://news.bbc.co.uk/2/hi/europe/675945.stm