20 settembre, il Vaticano riconquista Porta Pia?
Dalla «breccia» alla «beffa». Parlo del 140º anniversario della presa di Roma che verrà oggi celebrato a Porta Pia dove i bersaglieri il 20 settembre 1870 innalzarono il tricolore che costò loro la scomunica, evidentemente ormai venuta meno, vista la presenza del cardinal Bertone, accanto al presidente della Repubblica.
Se parlo di beffa non è, però, per la lodevole compresenza di Stato e Chiesa quanto per la ostentata cancellazione del significato laico della data che coincise con la fine del potere temporale del papato. E cosa altro vuol essere se non un atto di cancellazione la contemporanea orazione in Campidoglio di monsignor Ravasi glorificante Pio IX, «massimo esponente del sovrano potere temporale», nonché papa del Sillabo e responsabile delle ultime condanne alla ghigliottina dei patrioti arrestati dalla polizia pontificia, qualche anno prima del 1870?
Così, una volta ancora, un atto positivo stinge nell’equivoco embrassons nous revisionistico: tutti eguali, divisi al più da qualche equivoco di appartenenza, partigiani e repubblichini di Salò, tutti eguali i piumati fanti di Cadorna e gli zuavi pontifici comandati da un generale tedesco. La Storia si tramuta così in una marmellata dolciastra ove tutto si confonde e amalgama, ed alcun valore ispira.
Chi, ad esempio, può oggi, in questo clima, capire le parole del re sabaudo, subito dopo il plebiscito che univa l’Emilia (marzo 1860) al nascente Regno d’Italia, quale replica della scomunica maggiore lanciata da Pio IX contro gli «usurpatori delle province ecclesiastiche»? Parole che suonavano testualmente: «Se l’autorità ecclesiastica adoperasse armi spirituali per interessi temporali, io nella sicura coscienza e nelle tradizioni degli avi stessi, troverò la forza per mantenere intiera la libertà civile e la mia autorità della quale debbo ragione a Dio ed ai miei popoli».
Ebbene, credo che neanche il più ben disposto fra i cosiddetti liberali di scuola berlusconiana potrebbe oggi raffigurarsi un Cavaliere capace di ispirarsi a Vittorio Emanuele II. Piuttosto non è irriverente immaginarsi che avendo il potere temporale, nella sostanza se non nella forma, frattanto recuperato molti perduti privilegi non costi poi molto al successore di Pio IX plaudire ai bersaglieri.
Ma dietro queste riflessioni estemporanee vi è un fenomeno negativo assai più ampio di cui cominciamo a cogliere il profilo devastante: la cancellazione dalla memoria pubblica e, ancor peggio, individuale, del Risorgimento e dei suoi valori. È appena uscito in proposito un prezioso libretto (poco più di 200 pagine), «Il miracolo del Risorgimento – La formazione dell’Italia unita» di Domenico Fisichella (Carocci ed.).
Vi ho ritrovato il «racconto», ripercorso con la vivacità e l’intelligenza critica che contraddistinguono l’autore, della storia della Penisola divisa in tanti staterelli, soggetti, comprati e venduti dalle grandi potenze, l’influenza della Rivoluzione francese, i moti risorgimentali, le guerre d’indipendenza, il ruolo di Cavour, Garibaldi, Mazzini e dei re sabaudi. Infine il «miracolo» dell’unità di una nazione così a lungo dominata e spartita.
«La tradizione risorgimentale è, dunque, la tradizione della modernità, mentre la tradizione dell’eccesso regionalistico e localistico è la tradizione della vecchiezza». E qui inizia il discorso che non ho neppure lo spazio per riassumere del perché una coltre di oblio stia facilitando una regressione in fondo alla quale si profila di nuovo la frantumazione dell’Italia unita.
Certo è che la mia generazione si sente tra le ultime che hanno studiato il Risorgimento come storia viva e sentita di una patria appena ritrovata. Dopo di allora sembra quasi che la sinistra assieme a Stalin abbia gettato alle ortiche anche Garibaldi, la destra abbia subito un lavacro dei peggiori ricordi del fascismo ma anche dei valori nazionali che l’accompagnavano, gli elettori di Berlusconi siano sempre al «Franza o Spagna purché se magna»: l’Italia è tutt’altro che desta.
di Mario Pirani, da Repubblica, 20 settembre 2010