Monti e la Formula 1

 formula1.jpgDomenica mattina a Fortezza Bastiani ho visto il GP di Malesia. Ebbene sì, faccio un doppio outing: a FB c’è una tv e non perdo un GP dal 1968 (o meglio uno lo persi, era il 1988 ed ero in Istria in viaggio di nozze…). Una volta tanto grande spettacolo, pioggia, sorpassi, vince Alonso con un catenaccio d’auto da far paura. Evviva.

E mi viene in mente che in fondo Monti è come la Safety Car in F1. Qualcuno si schianta, perde pezzi, semina detriti in pista, parcheggia in mezzo alla curva? La Direzione Gara fa entrare la Safety Car che mette tutti in fila, rallenta qualche giro mentre gli addetti ripuliscono, spostano, riordinano e poi la SC spegne le lucine lampeggianti torna ai box e la gara riparte.

Domenica è venuto giù il diluvio (se fai un GP in Malesia nella stagione dei monsoni può capitare..), entra la SC, addirittura escono le bandiere rosse (no, calma, niente nostalgie, è il segnale di interruzione di gara), la gara si ferma, si aspetta che spiova, e si riparte: due giri dietro la SC e poi vera gara e vinca il migliore.

Alla fine del 2011 l’Italia era cotta, decotta, anche (forse) in condizioni peggiori di quanto ci hanno detto. Detriti ovunque, pozze d’acqua e champagne, pali da lap dance divelti, tanga svolazzanti, spread stellare, debitori con i forconi alle porte. Come quando una famiglia è allo sbando e si chiama lo zio serio e noioso è arrivato Monti. La Safety Car che ha messo in riga le vetture per ripulire la pista e ricominciare la gara.

Preciso per gli amici che mi hanno già inserito nella blacklist dei NdP (Nemici del popolo) che anche le SC possono sbagliare: possono andare troppo piano o forte, restare in pista troppo o troppo poco. Ma servono. E tornano utili.

Certo è più divertente vedere la corrida, ruote volare, alettoni carambolare, fiamme scoppiettare, hostess scosciare e sponsor sponsorare, ma questo lo abbiamo già visto. Grazie.

E poi in pista dietro alla SC domenica c’erano 6 campioni del mondo, dietro alla Monti Car chi c’è? Una baraonda di conti-decotti-stracotti-biscotti delle più variopinte scuderie. Piloti del Banana Racing, quelli che truccavano le gara con donne e champagne, usando escort (non Ford, proprio ragazze di gambasvelta) e dollari come giocassero al Monopoli. Piloti del SantaMaria Team che stanno attaccati alle cuffie per sentire gli ordini dai box oltre Tevere. Piloti del RSWGBBY Team (RedStar WhiteFlower Greengrass BlueEconomy BeigeIdeas YellowCab) sempre indecisi se partire con la prima marcia, la seconda o la retromarcia e senza aver capito ancora il senso di marcia del circuito. Piloti del AL (Always Left) Racing che ancora non hanno capito che girando sempre a sinistra si torna al punto di partenza, oltre che, usando ancora Renault Dauphine, Trabant e Daf Variomatic, difficilmente si vincerà mai una gara, fosse anche la gymkana del carciofotto di Abbiategrasso.

Un assaggio lo abbiamo avuto in questi giorni che la SC era su altri circuiti. Sportellate, corna dal finestrino, rutti in diretta, riforme del puffo concordate sapendo che tanto nulla si farà come sempre, scioperolotta già pronti sulla rampa di lancio. Il solito bordello.

Oddio! E quando davvero la SC se ne tornerà ai box e là resterà? Si tornerà all’eterna ricreazione cui abbiamo assistito negli ultimi 15 anni? Sarà servito qualcosa il periodo di sacrifici e difficoltà in cui ci troviamo? In F1 chi sgarra, anche dopo la SC, viene richiamato una volta, la seconda volta gli viene data la bandiera nera e va a casa. Esiste un regolamento. Qui sembra di avere una classe dirigente di senzatetto. Annidati nei palazzi, palazzini, palazzetti come non avessero più una dimora, e famiglie e amici dove tornare, restare e non rompere più i cabasisi. Non c’è nessun regolamento, li hanno infranti tutti e sono ancora lì. Costretti ad accettare la SC non per responsabilità (concetto ignoto) ma perché era quasi finita per tutti e quindi anche per loro. Ora sono appena piegati perché passi la piena, “Aspetta che questo rompico..si tolga dalle scatole e vedrete che ti combino io..”, questo il pensiero silente di questi piloti del nulla, esperti dell’eventuale, artisti del vedremo. Il campionato di F1 dura 20 gare, la Monti Car poco di più. Ma nel 2013 ci sarà sicuramente un altro Campionato di F1. Ci sarà anche l’Italia?

Memorie e identità (intervista a Michel Wieworka)

UNA CITTÀ n. 142 / 2006 Ottobre

Intervista a Michel Wieviorka
realizzata da Francesca Barca

MEMORIA E IDENTITA’
Un nuovo antisemitismo che, pur avendo perso i connotati razzistici tradizionali, si definisce sempre per l’odio verso un particolare gruppo umano. L’identificazione degli ebrei con Israele e degli arabi e musulmani immigrati con la causa palestinese. Il rinnovamento del modello di cittadinanza repubblicano indotto dalla riscoperta dell’identità, e della memoria, da parte di minoranze. Intervista a Michel Wieviorka.

Michel Wieviorka, sociologo, è direttore del Centro di Analisi e d’Intervento Sociologico (Cadis) dell’Ehess di Parigi. E’ fondatore e direttore della rivista Le Monde des Débats.

Esiste l’antisemitismo oggi?
Sulla questione dell’antisemitismo è utile intanto distinguere tra la dimensione Stato nazione e quella invece planetaria. Io penso che il fenomeno sia presente ad entrambi i livelli e che però sia evoluto assumendo caratteristiche diverse. E’ evoluto nei suoi contenuti, ma anche dal punto di vista degli attori; non solo: è diventato appunto un fenomeno globale. Questo significa che l’antisemitismo in Francia ha a che fare con le trasformazioni interne della società, ma allo stesso tempo è la proiezione sul suolo francese di logiche che vengono dall’esterno.
Allora, la prima novità è che l’antisemitismo ha smesso di essere razziale in senso biologico. Non si sente più parlare di sangue, di razza ebraica, di tratti fisici propri agli ebrei. La “biologizzazione” dell’antisemitismo si è indebolita man mano che il fenomeno veniva portato avanti da attori a loro volta vittime del razzismo, più o meno a sfondo biologico. In Francia, per dire, gruppi di origini algerine o marocchine, fanno resistenza a caratterizzare fisicamente gli ebrei perché sanno che il medesimo meccanismo potrebbe avere un effetto boomerang nei loro confronti.
Una seconda caratteristica importante concerne i suoi contenuti: oggi l’antisemitismo dice quasi il contrario di quello che diceva il vecchio antisemitismo. Fino a cento anni fa l’antisemitismo consisteva nel ritenere gli ebrei un pericolo, una minaccia per l’identità nazionale, per l’integrazione, per il corpo sociale, per l’omogeneità del paese… Insomma, gli ebrei incarnavano logiche che minavano il gruppo dominante e quindi l’immagine della propria società, della propria nazione, della Repubblica…
Oggi accade quasi il contrario. Gli ebrei non rappresentano più una minaccia di quel tipo, ma al contrario l’occupazione del centro della nazione, della società, della repubblica. Non si dice più: “Gli ebrei sono un pericolo per la nazione, per la repubblica, per lo Stato, per la società” bensì: “gli ebrei si sono integrati”…
Troppo?
Appunto, sono troppo al cuore della nazione, della società. Insomma quello che viene loro rimproverato non è la minaccia che costituirebbero, ma il fatto che sono “entrati” e che occupano posti di potere. E’ un cambiamento considerevole. Del resto è vero che gli ebrei oggi in Francia non sono vittime né di segregazione né di discriminazione, in alcun modo, mentre fino a un secolo fa lo erano ancora.
L’altro cambiamento, come dicevo, riguarda i nuovi “attori”, coloro che portano avanti i contenuti antisemiti. Beninteso, il vecchio antisemitismo nazionalista, razzista, xenofobo non è sparito, come pure quello cristiano che ritiene appunto che gli ebrei abbiano ucciso Gesù: esiste ancora e lo si incontra oggi nelle aree di destra “dura”, di estrema destra.
Da questo punto di vista il vero spartiacque è dato dal fatto che dopo la seconda guerra mondiale l’antisemitismo è diventato “criminale”, quindi non può più avere un’espressione esplicita, e tuttavia continua ad apparire, casomai in forma velata. In Francia in particolare è stato risvegliato dall’estrema destra, nella persona di Jean-Marie Le Pen, che ha avuto spesso uscite molto infelici, come nel 1998 all’università estiva del partito, in cui se ne uscì con il gioco di parole “Durafour crématoire”, a proposito del ministro ebreo Michel Durafour, o ancora con affermazioni come “la Shoah è un dettaglio della seconda guerra mondiale”, per non parlare dell’interesse che ha sempre manifestato il Fronte Nazionale verso i cosiddetti testi “negazionisti”.
Quindi il vecchio antisemitismo non solo continua ad esistere, ma negli anni ’80 è stato rilanciato.
Un altro elemento, neanche questo nuovo, è la presenza di un certo antisemitismo nell’estrema sinistra, anch’esso erede di una vecchia tradizione, sia marxista che anarchica; sia in Karl Marx che in Proudhon se ne trovano tracce. Il partito comunista è stato anch’esso talvolta antisemita o ha comunque manipolato l’antisemitismo.
Ecco, tutta questa tradizione ha trovato una nuova edizione nell’identificazione politica alla causa palestinese. Il ragionamento è abbastanza semplice: “Israele è il sionismo, un progetto inaccettabile, la dominazione e la distruzione dei palestinesi, la colonizzazione”, cose peraltro, a mio avviso, in parte condivisibili, ma da qui si fa un passaggio ulteriore per cui lo Stato di Israele e le sue politiche vengono a coincidere tout court con gli ebrei, e di conseguenza tutto quello che tocca ai palestinesi rimanda al male assoluto incarnato dagli ebrei.
In sostanza, per alcuni il punto di partenza è l’antisemitismo, per altri l’antisemitismo è piuttosto un punto di arrivo.
Ha parlato dell’estrema destra, e di una certa sinistra terzomondista. Che ruolo rivestono invece le popolazioni immigrate di origine arabo-musulmana in questo fenomeno?
Allora, premesso che si può essere arabi e non musulmani, come si può essere musulmani senza essere arabi, qui direi che di nuovo l’antisemitismo nasce da un’identificazione alla causa palestinese. Molti di questi giovani immigrati vivono nei quartieri popolari, dove alcuni discorsi trovano terreno fertile: “io immigrato in Francia mi sento trattato come i palestinesi in Medio Oriente”, “io sono vittima del razzismo della polizia come loro dell’esercito israeliano”, “io sono escluso socialmente e vivo in condizioni molto dure, come i palestinesi”. E’ un po’ lo stesso meccanismo: chi domina, sfrutta, disprezza, terrorizza i palestinesi sono gli israeliani, gli israeliani sono gli ebrei…
In Francia, l’aspetto interessante è che, a rigore, questo discorso si sviluppa senza alcun riferimento a degli ebrei reali. E tuttavia non si può negare che il discorso comunitario ebraico oggi pone effettivamente un problema. Il Crif (Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche Francesi), attraverso il suo presidente, ha spesso dato l’immagine di una diaspora francese solidale con il governo israeliano, qualunque cosa esso faccia. Da questo punto di vista, almeno nel caso francese, non è così bizzarro equiparare la critica al governo israeliano a quella agli ebrei nel loro insieme.
Una seconda logica, che è molto diversa, è quella alla Samuel Huntington, ovvero lo scontro tra civiltà, o meglio tra religioni: l’Islam e l’Occidente sono in guerra, io sono musulmano quindi sono in guerra contro l’Occidente. L’Occidente sono gli Stati Uniti, gli Stati Uniti sono governati da degli ebrei, o comunque sono a favore di Israele, di qui l’equazione Israele uguale Stati Uniti. Ecco come viene fuori il discorso antisemita. In questo caso non si tratta di identificazione alla causa palestinese.
Va anche detto che a volte abbiamo una logica senza l’altra, a volte le abbiamo entrambe contemporaneamente. Direi che è questo il nuovo paesaggio.
Dati i cambiamenti delineati, ha ancora senso parlare di antisemitismo o sarebbe più opportuno utilizzare un’altra espressione, come quella di “giudeofobia” coniata da Taguieff?
A me pare che le altre espressioni non siano molto felici. Si è tentato di chiamare questa nuova evoluzione con l’antico termine “antigiudaismo” o appunto “giudeofobia”. Antigiudaismo tuttavia significa che si sta parlando di una religione, e quindi si parte da una definizione restrittiva degli ebrei, perché una grossa parte del mondo ebraico non si definisce affatto in termini religiosi. Non si può insomma ridurre il fatto ebraico al giudaismo. C’è chi propone delle altre parole: giudeicità, giudaismo, ebraicità, ecc…
Poi c’è appunto l’espressione giudeofobia, che è più aperta, ma rimanda comunque alla religione.
A mio avviso però è proprio la parola “fobia” che pone il problema, perché fobia è una cosa molto precisa, che non corrisponde a quello che osserviamo. In questo senso il vocabolario disponibile non è il più felice. E poi io credo che bisogna accettare una cosa: è vero che l’antisemitismo di oggi non è quello che c’era tra le due guerre e tuttavia è comunque l’odio per lo stesso gruppo, e la parola che designa maggiormente questa continuità storica della vittima è antisemitismo.
Si può anche ragionare diversamente, in modo più scientifico: per un sociologo l’antisemitismo è un razzismo, per cui andrebbe analizzato con le stesse categorie che si usano per gli altri razzismi. E tuttavia c’è un tale spessore storico nella vicenda dell’antisemitismo che rende quasi improponibile metterlo sullo stesso piano degli altri razzismi. Ecco perché dico che bisogna conservare la parola “antisemitismo”, anche se il contenuto è cambiato, e l’odio verso gli ebrei non si accompagna a ideologie costruite sull’idea di razza semita, o cose del genere.
C’è un fenomeno apparso recentemente, che complica ulteriormente il quadro, anche se non lo modifica: l’emergere di un razzismo in popolazioni che si definiscono loro stesse per il colore della pelle: i neri…
Si tratta di un fenomeno che non è nuovo, né in Francia né negli Stati Uniti, basti pensare alle dichiarazioni di Louis Farrakhan. Come dicevo, in Francia quello che viene rimproverato agli ebrei è appunto di essere al cuore della nazione, della Republique, della società. Ora però sta emergendo una dimensione ulteriore di quell’accusa che recita più o meno così: gli ebrei non solo sono pienamente riusciti nella loro integrazione, ma impediscono agli altri gruppi di compiere lo stesso percorso.
Questa logica, incarnata dalla figura di Dieudonné, sta assumendo forza soprattutto nel mondo antillese francese, ovvero i francesi discendenti dagli schiavi.
La rivendicazione investe due dimensioni: una “memoriale”, che quindi rimanda alla storia, e una sociale. In base alla prima si accusano gli ebrei di avere un vero monopolio della sofferenza storica, che impedisce a tutti gli altri di fare in qualche modo valere il proprio passato: lo schiavismo, la tratta dei neri, la colonizzazione.
In secondo luogo, si accusano gli ebrei di comportarsi in maniera razzista e addirittura di avere avuto un ruolo centrale nella tratta dei neri. Accusa palesemente falsa, dato che tutte le indagini storiche negano che gli ebrei, o anche “degli ebrei”, abbiano avuto un ruolo in quella vicenda, che tuttavia ha un seguito.
Tra le novità ha citato anche la “globalizzazione” dell’antisemitismo. Può parlarne?
Oggi bisogna parlare di un fenomeno globale, cioè sostenuto da logiche planetarie, che però si installano sulle dinamiche interne di ciascuno Stato nazione. In realtà nemmeno questa è una novità a tutti gli effetti: l’antisemitismo è globale da molto tempo. Le ricerche che hanno indagato l’odio verso gli ebrei nell’antichità lo registravano già in diverse aree.
La globalizzazione è stata promossa dal cristianesimo: l’accusa mossa agli ebrei di essere un popolo deicida è circolata per una tale quantità di tempo da fornirgli una dimensione globale.
Quello che invece è nuovo, utilizzando una definizione non mia, ma di un marxista americano, David Harvey, è che con l’inizio degli anni ’90 si può parlare della globalizzazione come di una “doppia compressione”, del tempo e dello spazio, che investe anche l’antisemitismo.
Un esempio: nei paesi del Medio Oriente si accusano gli ebrei di ogni sorta di nefandezza: i crimini rituali (le vecchie accuse cristiane), il complotto per prendere il potere sul mondo; si recuperano i Protocolli dei Saggi di Sion (un testo inventato dalla polizia dello zar alla fine del XIX secolo); si riprendono argomentazioni di tipo nazista, quindi razziali, sorte in Europa all’inizio del XX secolo, ma anche tematiche negazioniste, per cui gli ebrei avrebbero inventato la Shoah, o comunque manipolata a loro profitto, per rafforzarsi.
Insomma, si prende quello che arriva da ogni parte del mondo e lo si amalgama e tutto questo circola un po’ dappertutto. E’ in questo senso che il fenomeno dell’antisemitismo è globale e non semplicemente locale. Questa è una novità. La domanda è: queste sono logiche che appartengono a una dimensione planetaria che poi prendono corpo nei vari paesi, oppure sono interne a ogni paese?
In Francia c’è stata una recrudescenza di violenze e aggressioni antisemite all’inizio del 2000, in concomitanza con lo scoppio della seconda Intifada. Molti hanno interpretato questo dato sostenendo che l’antisemitismo francese non sarebbe nulla più che la proiezione sul suolo nazionale di quello che succede in Medio Oriente, quindi logiche planetarie. Gli ultimi eventi però non trovano corrispondenza nell’attualità internazionale. Di qui l’idea che l’antisemitismo sarebbe invece l’esito di un disagio sociale, nello specifico, la crisi nelle banlieues, l’esclusione, la povertà…
Ecco, io credo che una buona analisi sia quella che prova a coniugare i due registri, facendoli giocare insieme.
Meno di un anno fa un giovane ebreo, Ilan Halimi venne sequestrato, torturato e infine ucciso da una banda di criminali. E’ stato subito evidente, per quanto se ne sia discusso, che quest’azione aveva una connotazione antisemita perché la vittima era stata scelta in quanto ebrea. I rapitori avevano sequestrato un ebreo certi di avere il riscatto: gli ebrei sono il denaro -un pregiudizio antisemita. E se la famiglia non paga, la comunità pagherà. E infatti i rapitori alla fine hanno chiesto il denaro a una sinagoga, a un rabbino. Tuttavia quest’azione non ha nulla a che fare con la globalizzazione. Si è trattato di un gesto criminale e barbaro interno alla società francese. Allora, da un lato ci sono questi giovani che vedono alla televisione un bambino palestinese trattato in modo inumano dall’esercito israeliano e che poi cercano di incendiare una sinagoga -una proiezione sulla Francia del conflitto israelo-palestinese, quindi logiche globali, mondiali, planetarie. Dall’altro c’è l’affaire Fofana (dal nome del capo della banda), che è proprio un delitto francese. Quindi, di nuovo, possiamo avere l’una o l’altra, ma spesso le due logiche sono legate.
L’emersione di nuove identità ha investito il rapporto con la memoria, la storia, la stessa nazione…
Facciamo qualche passo indietro. Dalla fine degli anni ’60, la Francia, come molti altri paesi, ha conosciuto un “ethnic revival”, una rinascita delle identità. E’ cominciato con le identità regionali, quella occitana, bretone, più tardi quella corsa, con ricadute anche in ambiti inediti. Gli stessi sordomuti si sono “risvegliati” e hanno chiesto il riconoscimento della lingua dei segni diventando a loro volta un movimento identitario. Anche gli ebrei di Francia in quel periodo si sono conseguentemente allontanati dal modello repubblicano classico, ereditato dall’epoca rivoluzionaria e dall’Illuminismo, fondato sull’idea che si potesse essere ebrei in privato ma non in pubblico. In sostanza possiamo dire che a partire dalla fine degli anni ’60 questo modello inizia a scricchiolare aprendo nuovi spazi a queste emergenti identità che fanno appello in primo luogo alla loro memoria.
Aggiungo che non si può capire il risveglio degli ebrei di Francia se non si tiene in considerazione quanto successo durante la Seconda Guerra Mondiale in questo paese: il ruolo della polizia, dello Stato, del regime di Vichy, quindi la messa in causa dello Stato e della storia nazionale.
Gli stessi occitani del resto hanno messo in primo piano il loro essere stati vittime, così i bretoni. Insomma, c’è l’idea che per esistere collettivamente bisogna rintracciare una propria storia specifica, attraverso la memoria.
Negli anni ’80 il fenomeno identitario ha preso un’altra direzione, sostituendo la memoria con l’appartenenza religiosa: l’Islam.
Negli anni sempre più “identità” hanno chiesto un riconoscimento, anche dal punto di vista della memoria, a partire dall’appartenenza a un gruppo che avesse sofferto storicamente a causa della Francia. Talvolta si è chiesto alla Francia di ammettere questa sofferenza anche se causata da un altro Paese. E’ il caso degli armeni, che hanno chiesto alla Francia di riconoscere il genocidio perpetrato dai turchi contro di loro.
Così arriviamo agli anni ’90 e a oggi, con l’emergere di nuovi appelli a memorie e storie fatte di sofferenza, distruzione, sterminio, fino al passato coloniale e allo schiavismo dei neri di Francia. Di qui il dibattito su Napoleone ad Haiti, la tratta dei neri, lo schiavismo, la colonizzazione, la decolonizzazione… Insomma siamo entrati in una situazione in cui sempre di più le radici nazionali, la storia, sono in discussione. Talvolta le rivendicazioni, le affermazioni, sono portate da gruppi che partono da fatti storici molto contestabili, o comunque presentati in modo discutibile, banale, semplificato. Oggi si sente dire che gli antillesi discendono tutti dagli schiavi, che in parte è vero, ma le cose sono molto più complicate. Dopo tutto la tratta dei neri non è “la” tratta dei neri, ma “le” tratte dei neri, e non c’è alcuna ragione per imputare tutte le colpe alla Francia. Il fenomeno ha interessato anche altri paesi d’Europa, Portogallo, Spagna, Inghilterra, come pure alcuni paesi dell’Africa stessa. Se si vuole parlare seriamente di queste tematiche bisognerebbe affidarsi a indagini storiche serie -alcune, per dire, hanno messo in luce anche il ruolo degli africani nella tratta dei neri. Quindi siamo all’interno di un panorama articolato e a tratti scivoloso, specie quando si appella a memorie false.
Abbiamo parlato di Dieudonné. Allora, è ovvio che c’è stato lo schiavismo. Ma il discorso che lui sta portando avanti è assai strano, non corrisponde che molto lontanamente alla realtà. Nella costruzione di una propria memoria e identità, i vari gruppi si appellano a degli intellettuali o pseudo-tali. Ecco, in Francia, più che altrove, tutto questo ha come contraltare la messa in discussione della storia in quanto radice nazionale. Vengono così interpellati coloro che per professione producono la storia, cioè gli storici, ma anche i politici.
La Francia oggi è così costretta a confrontarsi con l’immagine di un paese tutt’altro che glorioso, che anzi ha perpetrato crimini orribili. In passato le nazioni erano incoraggiate a dimenticare i crimini, in particolare quelli fondativi, su cui appunto si erano costruite. Oggi un’altra idea comincia a farsi strada: una grande nazione è tale perché riconosce i suoi torti. Questo ragionamento ha tuttavia dei limiti perché quando si inizia non si finisce più.
Jacques Chirac comunque è stato molto chiaro a questo proposito: la nazione francese per crescere deve riconoscere i torti del regime di Vichy e dello Stato, e la schiavitù. Una posizione inedita rispetto al XIX secolo, quando la bella e grande nazione francese aveva sempre ragione.
In che senso entra in crisi il modello repubblicano alla francese e qual è la posizione degli ebrei?
Tutti questi gruppi rivendicano il diritto di essere riconosciuti pubblicamente, che i libri di storia ne parlino. Queste identità vogliono esistere anche sul piano pubblico, avere mezzi di espressione, risorse, visibilità; non accettano più di essere confinati alla sfera privata.
E’ questo il nodo critico, perché il modello repubblicano francese consiste sostanzialmente nel dire: nello spazio privato fate quello che volete, ma in quello pubblico non ci sono che individui, quindi non ci sono minoranze, gruppi, né particolarismi culturali. Ecco, un’applicazione dura e pura di questo principio non è più accettabile.
Stiamo cioè assistendo alla nascita di quello che io chiamerei un modello “neo-repubblicano”.
E’ in atto una trasformazione del modello repubblicano: questi gruppi si aspettano molto dalla repubblica, ne rispettano pienamente i valori, ma nello stesso tempo vogliono essere riconosciuti come tali.
Qui l’esperienza degli ebrei francesi è molto interessante. I primi ad avere compreso tutto questo infatti sono stati loro. Nel vecchio modello repubblicano si poteva essere ebrei solo in privato. Addirittura non li si chiamava ebrei, bensì israeliti, la parola era scomparsa dal vocabolario. Col tempo però hanno preso le distanze da questo modello e sono diventati visibili, religiosamente, politicamente, nel loro rapporto con Israele, culturalmente, si sono quasi “etnicizzati”. Di qui una rottura con il modello repubblicano classico. Allo stesso tempo -è diventato evidente soprattutto in questi ultimi anni- hanno dimostrato di aspettarsi molto dalla Repubblica.
Quando c’è stato l’omicidio del giovane ebreo Halimi c’è stata una mobilitazione che ha espresso la richiesta alla Republique di garantire la sicurezza e il rispetto dei valori democratici. Dopo una fase di grande presa di distanza, oggi gli ebrei francesi, appellandosi alla Repubblica, stanno contribuendo ad inventare questo modello neo-repubblicano, facendosi di fatto portavoce anche delle rivendicazioni degli altri gruppi.

I diversi silenzi della storia

…La sto­ria non è poi
la deva­stante ruspa che si dice.
Lascia sot­to­pas­saggi, cripte, buche
e nascon­di­gli. C’è chi soprav­vive.
La sto­ria è anche bene­vola: distrugge
quanto più può: se esa­ge­rasse, certo
sarebbe meglio, ma vendette la sto­ria è a corto
di noti­zie, non com­pie tutte le sue vendette.

La sto­ria gratta il fondo
come una rete a stra­scico
con qual­che strappo e più di un pesce sfugge.
Qual­che volta s’incontra l’ectoplasma
d’uno scam­pato e non sem­bra par­ti­co­lar­mente felice.
Ignora d’essere fuori, nes­suno glie n’ha par­lato.
Gli altri, nel sacco, si cre­dono
più liberi di lui. (
E.Montale, Satura)

Nella storia ci sono tanti silenzi, silenzi interessati, silenzi obbligati (dalla mancanza di fonti), silenzi di stato, silenzi di parte/partito/chiesa, ma ci sono anche i silenzi pietosi, quelli necessari a lasciare che la storia vada avanti, oltre quelle “cripte, buche e nascondigli” che Montale ci ricorda.

Di questi silenzi mi sono ricordato nei giorni seguenti dopo la giusta sentenza di non luogo a procedere nei confronti di Giacomo Notari. Chiusa la tragica vicenda dei 20 mesi di occupazione, quando una guerra che ebbe anche caratteri di guerra civile sconvolse il nostro territorio, le comunità locali dovettero ricominciare a vivere, a ricostruire una convivenza che la guerra fascista aveva lacerato. “La storia è a corto di notizie, non compie tutte le sue vendette”. E così fu: la violenza, le uccisioni, le vendette furono l’eccezione. La regola fu la ripresa della vita quotidiana. Il cimitero come luogo comune di dolore. Il lavoro come obiettivo e mezzo di rinascita. Le fratture, gli odi, furono sanati dal bisogno quotidiano di vita, dalla voglia prepotente dei giovani che quella guerra avevano fatto, loro malgrado, ad avere finalmente una vita vera, un futuro. E così è stato. Ma quel percorso è stato reso possibile anche dalla pietà amministrata attraverso il silenzio. I figli dei caduti sono cresciuti insieme agli altri, le solidarietà hanno coperto il dolore. In questo modo le comunità, i paesi hanno ripreso la loro vita, con la consapevolezza e la memoria dell’accaduto ma con quella pietas che ha consentito a tutti un futuro. Così anche i fascisti e i loro figli hanno avuto, com’era giusto, un loro futuro, hanno dato il loro contributo alla crescita collettiva. La pacificazione è stata così realizzata concretamente, ben rappresentata dall’art.3 della Costituzione che faceva di tutti gli italiani cittadini veri e reali, indipendentemente dalle loro idee (e dal loro passato).

Questo patto ha tenuto per oltre mezzo secolo, poi la crisi della Repubblica fondata dai partiti usciti dalla Resistenza ha incrinato l’equilibrio e si sono aperti strappi in quella rete che è la storia. Strappi necessari in certi casi, dolorosi e inutili in altri.

Dopo la vicenda giudiziaria appena conclusa non ho potuto non pensare alla famiglia che quella causa aveva promosso. Spinta da sentimenti pur comprensibili, mal consigliata e peggio assistita, ha ottenuto esattamente l’opposto di quanto sperato e cercato. Il silenzio aveva coperto pietosamente le vicende di quegli anni, lasciandole all’analisi degli storici. Nessuno si sarebbe sognato di riaprire le ferite, pagina chiusa, roba da archivi, fogli poco letti. Invece no. Ora chiunque potrà unire verità storica e verità giudiziaria e ricordare, riprendere, descrivere. L’ideologia che ha guidato questa sterile operazione di rivalsa ha travolto quella pietà, per rialzare bandiere sporche e impresentabili ha strumentalizzato il dolore privato. Forse da quella parte non ci si poteva aspettare altro ma lascia un sapore amaro verificare come, ancora una volta, la strada da percorrere per arrivare ad un paese maturo e “normale” sia ancora tanta.

 

 

Nazisti in Europa, anche in Italia (Stefano Nazzi)

naziisrael.jpgOggi Jena su La Stampa si chiede Perché i nazisti non muoiono mai? La domanda è anche Come possono esistere nazisti in Europa, nel 2012? Eppure ci sono, eccome. Anche in Italia.
Andate a vedere il sito www.holywar.org. Superate il disgusto. Io mi chiedo, e spero di non essere il solo, come fa a restare aperto un sito italiano che pubblica una foto di Elsa Fornero e la definisce “razzista ebrea”. Fini, Bersani, Draghi, Vendola vengono definiti “100 per cento ebrei”. Si parla di “mafia giudaico massonica”, sulla cartina dell’Italia viene disegnata una piovra con la stella di David e disegni che sembrano riportare agli anni Trenta descrivono individui con le bocche insanguinate e naturalmente il naso adunco. Il sito propaganda il Movimento di Resistenza Popolare che, tra l’altro, illustra il suo programma così: «Dovrebbe essere chiaro a tutti i cristiani che se la nostra gente deve essere felice e prospera sarà necessario mettere fine agli esperimenti razzisti-sionisti e ristabilire l’ordine originario cristiano delle cose». Proprio ieri il sito ha pubblicato i nomi di cinque professori universitari toscani accusati di essere “sayanim” cioè, secondo Holywar.org, agenti dormienti al servizio di Israele.
Certo, è probabile che dietro a Holywar.org ci siano solo quattro fanatici semifolli. Sono un po’ più di quattro gatti gli aderenti italiani al gruppo mondiale degli hammerskin. Sono filonazisti, non ci sono dubbi, basta guardare la gallery fotografica del loro sito. È una sorta di setta, i suoi membri si considerano l’élite del movimento naziskin mondiale. Per entrare a farne parte devi essere presentato da qualcuno che è già membro e poi essere sottoposto a un lungo periodo di prova. Solo dopo, se accettato, il nuovo membro avrà il diritto di tatuarsi sul braccio il simbolo dei due martelli.
Di Forza Nuova si è già parlato tanto, loro non diranno mai di essere fascisti né tantomento nazisti. Però si ispirano apertamente al nazista rumeno Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro. Altro punto di riferimento di Forza Nuova è Leon Degrelle, il belga fondatore del movimento Rex che combatté nel contingente vallone della Waffern Ss. Nell’ottobre scorso, per celebrare l’anniversario della marcia su Roma, il movimento Lealtà e Azione aveva indetto a Milano proprio un convegno su Degrelle. Lealtà e Azione fa capo agli hammerskin e aveva una sede in viale Brianza in un locale gestito dall’Aler. Lo spazio era stato concesso dalla ex giunta Moratti al prezzo di 3.300 euro lordi all’anno. Con trattativa privata. Insomma, chi gestiva l’Aler, aveva scelto di fare un bel regalo a un gruppo di nazisti.
Si potrebbe andare avanti a lungo, gli esempi non mancano. I nazisti esistono in Europa, in Francia come in Italia. La cosa grave è che c’è chi li sopporta. E c’è anche chi li aiuta.

http://www.ilpost.it/stefanonazzi/2012/03/20/nazisti-in-europa-anche-in-italia/

Un secolo affondato: quel difficile ‘900

ghiara.jpgPochi giorni fa, discutendo con un rappresentante del Comune, mi è stato detto che le mie critiche erano “superficiali” e “qualunquiste”. Avevo obiettato che nel 2012 il Comune non aveva partecipato ai Viaggi della Memoria e che, Dio non voglia, anche quando andasse in porto il progetto Rota sui Civici Musei, la nostra città non avrebbe un centimetro quadrato di spazio museale dedicato alla storia reggiana nel ‘900. Faccio fatica a capire come dei fatti, reali, verificabili da chiunque, possano essere superficiali o qualunquistici; tali possono esserlo le mie considerazioni al riguardo (per questo chiedo scusa: la prossima volta studierò di più) ma i fatti restano fatti.

Come già scritto su queste pagine il problema è la difficoltà, se non il rifiuto, di confrontarsi con la storia del secolo scorso. Certamente non è questa una novità e non appartiene solo a questa amministrazione che paradossalmente, ma non tanto, condivide questa difficoltà con le precedenti. Parlo di paradosso ma il termine è inadeguato. Partendo da problemi, situazioni, culture opposte ci si è ritrovati-amministrazioni precedenti e attuali- ad avere lo stesso problema di rapporto con quello che la città e il territorio hanno espresso e rappresentato nel ‘900.

Ancora una volta lo spartiacque è il 1989. In una faticosa e affannata riconversione dopo il crollo dell’impero sovietico, con cui i rapporti-seppur indeboliti e sempre più esili-si erano mantenuti almeno fino a pochi anni prima, quelli che erano stati “i comunisti”, per sfuggire all’ingrato ruolo di ex hanno impegnato energie degne di miglior causa nel tentativo di far dimenticare il passato recente e non. Sfumato per motivi giudiziari il fascinoso approdo craxiano agli inizi degli anni ’90 ci si è ridotti alla rincorsa di ogni “novità”, scandita dal periodico mutamento della ragione sociale del “nuovo partito” in cui si agitava qualunque nuova idea di importazione. Si è stati così, stagione dopo stagione, “clintoniani”, “blairiani, “zapateriani”, cercando “terze vie” spesso collocate anche oltre le porte di Tannhauser. Nessuna riflessione, nessuno stop sul mondo nuovo in cui ci si trovava ma solo necessità di andare comunque avanti nella gestione di un potere che, comunque, era rimasto più o meno immutato. A forza di voler essere “qualcos’altro” si è finito per non essere più nulla.

In questo affannoso rincorrere un mondo in tanto  rapido cambiamento come confrontarsi con il ‘900, secolo di sogni e di incubi, di speranza e tragedie, ma soprattutto di costruzione di quel modello emiliano da parte di un partito/chiesa/stato che il 1989 aveva definitivamente cancellato? Si poteva riutilizzare quello che il mondo aveva riconosciuto, come il sistema educativo reggiano (bastava solo tralasciare il fatto che Malaguzzi fosse stato, come tanti, comunista) o si potevano utilizzare i modelli trascorsi nei comizi del 25 aprile ma non andare oltre: si preferì rispolverare miti più tranquillizzanti come il Tricolore e la contessa Matilde. E infatti il Museo della Resistenza sciolto in silenzio alla metà degli anni ’80 venne avvicendato dal nuovo (si fa per dire) Museo del Tricolore. Si metteva in soffitta il novecento per rispolverare parte del secolo dei lumi, tanto preoccupati delle scansioni temporali da far coincidere il termine del nuovo allestimento con la scadenza del primo centenario (1897) e il discorso del buon Giosuè Carducci, giusto alle soglie del tanto preoccupante ‘900.

Missione compiuta, evoluzione terminata, il novecento restava buono per qualche celebrazione, qualche intitolazione di strade e tangenziali mentre la Reggio di Calatrava era lanciata verso il futuro, una città sul modello Pistorius, veloce ma senza gambe, senza memoria.

Dall’altra parte il cambio di amministrazione nel 2004 completa il mosaico di assenze. L’arrivo del primo sindaco cattolico alla guida di una città dove la storia dell’ultimo secolo aveva relegato a ruoli secondari (seppur di altissimo livello come testimonia la breve esperienza dossettiana) quella componente culturale e politica non poteva non avere conseguenze rilevanti ai fini di queste superficiali considerazioni.

Da un lato i nuovi amministratori hanno interpretato il loro arrivo come una “svolta” epocale capace di portare finalmente la città fuori da una situazione cristallizzata operando così un’azione fortemente ideologica e in buona parte controproducente nella costruzione/consolidamento di un consenso in rapida decrescita. Dall’altro, di fronte ad una eredità storica e memoriale che non apparteneva -se non in minima parte-alla loro storia culturale e politica si sono limitati ad assumerne il minimo indispensabile per conservare l’immagine ancora spendibile di città “democratica e resistente” sul piano della comunicazione pubblica (25 aprile, 2 giugno) e per poter gestire i rapporti con una realtà al contrario vitale quale quella espressa dalle tante realtà (Istoreco, Istituto Cervi, associazioni partigiane) attive e radicate proprio in quella storia.

Colpito su entrambi i versanti il ‘900 a Reggio è rapidamente colato a picco e con essa buona parte della nostra storia contemporanea e non, sostituita da una generica attenzione alla “contemporaneità” che ha progressivamente espunto ogni elemento storico e storiografico a favore di una concatenazione di eventi culturali di vario tipo e livello, in bilico fra intellettualismo e provincialismo, che nulla hanno consolidato a livello di strutture.

Con un’espressione superficiale vorrei ricordare che realizzare un luogo di memoria della città richiede una profonda riflessione sul nostro senso di “città”, mancando con tutta evidenza il quale, si è cercato il sotterfugio dell’affidamento all’archistar nel caso dei civici Musei o del totale silenzio/rimozione nel caso della nostra storia nel secolo scorso.

Reggio è forse una delle poche città di medie dimensioni nella quale, per scelta precisa, il Museo della città non si occupa-che in minima parte-della storia della città stesso. Perché, è opportuno ricordarlo, non è solo il ‘900 ad essere assente ma anche gran parte della vicenda storica della città e del suo territorio, almeno dal Medioevo alla fine dell’Ancient Règime. E’ stato questo un progressivo slittamento, un’ “assenza” progressiva realizzatasi nel corso almeno degli ultimi trenta anni nel silenzio generale. E’ questo un elemento degno di qualche riflessione nel momento in cui, al contrario, altre realtà si muovono in altra direzione: è recente l’apertura a Bologna del Museo della città che, per quanto discutibile per più aspetti, segnala un interesse forte alla vicenda storica complessiva di quella comunità. Su altro piano, ma ugualmente da segnalare, è la quasi contemporanea inaugurazione del nuovo Museo Ferrari a Modena mentre si annuncia, proprio nella nostra vicina ex capitale ducale, l’apertura del Centro Immagine e Fotografia che ospiterà le collezioni di Fondazione Fotografia aperta nel 2007.

A Reggio nulla di tutto questo, l’operazione-Reggiane rimane in alto mare, i luoghi di memoria sono (per fortuna) abbandonati al loro destino, sono stati salvati gli archivi più importanti sul territorio ma non c’è nessuna programmazione sul futuro per la loro gestione e valorizzazione. Ci siamo auto-proclamati capitale della fotografia europea ma per un qualunque visitatore che si trovi a passare a Reggio al di fuori del mese di esposizione non esiste alcun luogo che sostanzi quella fantasiosa attribuzione. Come pensare allora a un luogo dedicato alla “Memoria della città”? Utopia o per dirla con Violetta Valery “follia, follia!!”.

Musei in Europa. Il ‘900 a Reggio: chi l’ha visto?

Fino a un paio d’anni fa era la Germania a stupirmi ogni volta, bastava tornarci un anno dopo l’altro ed ecco nuovi luoghi di memoria, musei, centri di documentazione. Tornavi a Reggio e tutto era l’avevi lasciato 3, 5, 10 anni prima. Ora anche la Polonia sta seguendo la stessa strada, nel giro di cinque anni ecco due nuovi musei a Cracovia (ma mi dicono che anche Danziva, Varsavia e altre città siano sulla stessa linea).

Poi torno a Reggio e mi avvilisco. Ma torniamo a Cracovia e a come si può lavorare sulla memoria.

Chair_Square.jpgGià da qualche anno è stata inaugurata una installazione nella piazza del Ghetto di Podgorze, quella piazza che in “Schindler’s list” ospitava le fila degli ebrei costretti a registrarsi presso lo Judenrat e dove avvenivano le selezioni per Auschwitz. 68.000 erano gli ebrei di Cracovia nel 1939. Scomparsi, pochissimi i salvati nella marea dei sommersi. In quella piazza 68 grandi sedie metalliche a ricordare quegli scomparsi. Semplice, efficace. Luogo di memoria salvato e parlante.

Nel quartiere ebraico di Kazimierz è attivo da pochi anni il Galician Jewish Museum (vi faccio grazie del nome in polacco) per ricordare la scomparsa presenza ebraica in quella regione. Ricavato dentro una preesistente struttura industriale (http://www.en.galiciajewishmuseum.org/).

GJM.jpgOspita mostre temporanee, come quella di questo periodo sull’emigrazione in Palestina di ebrei polacchi negli anni venti oltre che la mostra permanente sulle tracce degli ebrei in Galizia. Una struttura già industriale recuperata nel centro storico della città. Nel 2011 il Museo ha avuto oltre 30.000 visitatori paganti.

Per restare al recupero di strutture industriali veniamo al Museo Storico di Cracovia nella sua sezione collocata nella recuperata “Fabryka Emalia Oskara Schindlera”, sì, proprio la fabbrica di Oskar Schindler. La prima volta riuscii a sbirciare, allungando 5 euro al custode, perchè mi facesse entrare dal vecchio cancello. Era il 2005.

_MG_8654.jpgLa fabbrica aveva funzionato fino a un paio di anni prima ma ormai era tutto in abbandono. Nel giugno 2010 è stata inaugurata, non solo la parte dedicata alla vita a Cracovia nel periodo dell’occupazione nazista (1939-1945), ospitata nella parte degli uffici ma anche una nuova galleria di Arte Contemporanea che occupa parte degli spazi industriali. Il Museo fa parte dei Musei di Cracovia, qui è allestita una mostra multimediale permanente di grande impatto e coinvolgimento che fa ripercorrere con immagini, suoni, sensazioni tattili e olfattive la vita (e la morte) del periodo bellico. http://mhk.pl/oddzialy/fabryka_schindlera

Ho detto che torno a Reggio e mi avvilisco. Mi avvilisco perchè mi devo confrontare con una realtà drammaticamente diversa dove, da parte della nostra Amministrazione Comunale, (di una città Medaglia d’oro al v.m. per la sua partecipazione alla Resistenza) non c’è nessuna sensibilità sui temi legati alla memoria. Non solo nella promozione di attività rivolte ai giovani (il Comune NON ha partecipato nè sostenuto in alcun modo il Viaggio della Memoria 2012) ma anche nella progettazione di luoghi di memoria. In questi anni sono stati distrutti segni importanti del nostro passato e non esiste alcuna progettualità futura. Da anni Istoreco propone il progetto “La memoria della città” senza nessun riscontro. A Reggio il ‘900 sembra non essere esistito. Non esiste un luogo, un Museo, una stanza, dove le migliaia di ospiti che visitano la nostra città interessati alla nostra vicenda storica possano trovare notizie, informazioni, suggestioni. Nulla. E nulla sarà anche nel futuro più o meno prosssimo. Luoghi come l’ex Carcere di S.Tommaso o il Poligono di tiro sono destinati a un lento declino, sempre preferibile del resto a una loro “valorizzazione” urbanistica.

Le “Reggiane” sono divenute una ghost factory, si discute, si tratta, ma non esiste nessuna idea su come inserire in quel luogo storico uno spazio dedicato alla storia della città dl ‘900. Non è una priorità. Del resto cosa è stata Reggio nel ‘900? Robetta: Prampolini, la cooperazione, Dossetti, Jotti, Ruini, i migliori aerei del mondo, la Resistenza, la meccanica, l’agroalimentare, il 7 luglio, fino a Prodi e Ruini (il card.). Robetta. Che bisogno c’è di ricordare questa roba vecchia e polverosa? Noi siamo nuovi e moderni, noi siamo “avanti”…

In compenso finalmente si discute sul nuovo mirabolante Museo. Ho già abbozzato qualche opinione. In questo momento voglio sottolineare solo un particolare: si dovesse anche realizzare il fantaprogetto di Rota (e Dio non voglia), comunque i reggiani avrebbero speso alcuni milioni di euro per avere sì umanoidi pecorini e gambe nuotanti, funghi luccicanti e tappeti ricamati, ma non avranno comunque nulla sulla nostra storia e memoria del secolo scorso. Nulla. Il ‘900 ancora come grande assente.

Ecco perchè mi avvilisco, nel constatare la sordità di una classe dirigente che, fino a prova contraria, tutti noi abbiamo eletto e che, mi rendo conto con tristezza, ci rappresenta ogni giorno un po’ di meno.

 

Europa centrale e miserie di casa nostra

In questi anni la discussione pubblica a Reggio e in Italia si è spesso incentrata sulla violenza partigiana sia nel corso della Resistenza che nelle fasi finali del conflitto. Una discussione che non ha mai sfiorato un livello minimo di fondatezza e di decenza morale, prima ancora che storica. Discussioni in cui lo storico sta(va) alla finestra, un po’ triste e sgomento, ad osservare lo svolgersi degli eventi che, pur se incentrati su avvenimenti del passato, avevano ben poco a che fare con la storiografia. Così, per restare alle nostre terre, abbiamo visto avviarsi un marketing territoriale della “violenza dei rossi” con un mini parco tematico sulle colline di Trinità, un’indecente presenza annuale di fascisti a Fabbrico, croci piantate a Ventoso e altre tristi vicende. Vari esponenti del nostro post-fascismo locale si sono spartiti ognuno un “caso” (uno alle foibe, uno a Scandiano, uno a Vetto, uno a Cernaieto), a tener vivo, indipendentemente dalla vicenda storica, una fiammella tricolore di anacronistico risentimento e rivendicazione dell’impossibile. A ciascuno il suo.

Dopo essermi confrontato volenterosamente per anni su questi tempi credo sia opportuno e corretto il documento proposto dall’Anpi alle amministrazioni locali sulla necessità di non concedere spazi pubblici a chi non si riconosca nei valori della Costituzione. Spero che questo possa essere di aiuto anche a quegli amministratori incerti fra quieto vivere e opportunismo che in questi anni hanno concesso, in nome della solita “pacificazione” opportunità ai neofascisti di ripetere le loro tristi litanie.

Certamente il tema della violenza è un tema centrale quando si vuole parlare di una guerra, anzi, è IL tema. Ne sono ben coscio, visto che la mia attività di ricerca gravita da vent’anni proprio su questo problema. Ma l’unica strada da percorrere è quella della ricerca storiografica, dell’analisi e del confronto. Proprio dal confronto, dalla contestualizzazione degli eventi all’interno della situazione che li hanno prodotti ci consente di delineare un quadro di riferimento, di rendere la complessità delle situazioni, proporre letture fondate che aiutino non a giustificare ma a capire.

Jew_GJM.jpgIl confronto, soprattutto, può aprirci lo sguardo ad una prospettiva reale, quella di una guerra mondiale che in Europa ebbe i tratti della massima ferocia. Uscire dall’autoreferenzialità, dall’assolutizzazione delle nostre vicende. Nei giorni scorsi a Cracovia ho visitato un nuovo Museo, il Galician Jewish Museum, inaugurato nel quartiere ebraico di Kazimierz nel 2010. E’ incentrato sulla secolare presenza ebraica in Galizia, cancellata dallo sterminio nazista. Solo a Cracovia vivevano 68.000 ebrei nel 1939 (in una città di 250.000 ab.). Oggi superano di poco le 100 unità (la città oggi supera gli 800.000 ab.). Scomparsi. Cancellati.

Noi abbiamo avuto la sorte di avere la guerra in casa per 20 mesi, là la guerra ha colpito per cinque anni e mezzo. Noi abbiamo avuto un Montesole, un S.Anna di Stazzema. Là le stragi come Montesole sono centinaia. La regione è boschiva, collinare. Cammini per un sentiero, vedi un cippo: qui sono stati fucilati 450 ebrei. Un boschetto di betulle: una pietra quasi nascosta ti ricorda che lì furono massacrati 342 bambini. Prima di Birkenau, quando la morte era ancora un procedimento artigianale.

Percorrendo l’Europa centro-orientale si è colpiti dalla dimensione della tragedia, i numeri perdono senso, le nostre decine, centinaia di vittime che ci sono costate tanto dolore qui diventano migliaia, centinaia di migliaia, milioni. Abbiamo appaltato a Reggio la celebrazione del Giorno del ricordo ai neofascisti. A coloro-ricordiamolo-che innescarono e fecero deflagrare la questione dei nostri confini orientali. Gli ultimi che potrebbero avere la voce, almeno per decenza, a commemorare quei caduti, quei profughi. Commiseriamo i 300.000 italiani costretti a lasciare l’Istria e Dalmazia fra il 1945 e il 1947 e ci dimentichiamo che furono 11 milioni le persone costrette a fuggire nel 1945 al termine del conflitto, lasciando la loro casa in poche ore.

Costruiamo lapidi per ricordare 24 militari fascisti fucilati nel corso della guerra e dimentichiamo che a Katyn e dintorni i sovietici massacrarono 22.000 militari polacchi. Nell’orrido vespaio di “Porta a Porta” abbiamo compianto gli uccisi nei boschi sloveni dai partigiani jugoslavi dimenticando che si trattava di ustascia, domobranci, cetnici, il peggio del peggio della feroce guerra nel Balcani. Consegnatisi agli inglesi e da questi riconsegnati a Tito.

Girare per l’Europa nord-orientale consente di capire fino in fondo la complessità della tragedia europea. La rivolta di Varsavia dell’agosto 1944: i sovietici sono a pochi chilometri, la città insorge per affrettare la liberazione. Ma la Resistenza è quella sbagliata (per i sovietici), sono in gran parte polacchi fedeli al governo in esilio a Londra. L’Armata Rossa assiste al massacro compiuto dai nazisti. Impedisce addirittura che gli inglesi riforniscano di armi gli insorti. Lasciano che i nazi facciano il lavoro per loro: hanno già sterminato parte della classe dirigente polacca a Katyn nel 1940 il resto si svolge lì. Non vogliono polacchi liberi per la Polonia comunista. L’avanzata riprende a cose fatte.

Complessità, alzare gli occhi e confrontarsi con la difficile memoria europea che è la nostra memoria, ma è una memoria diversa e divisa, anche sulle parole. Per noi antifascismo è un valore di libertà, per un polacco, un ceco o un ungherese antifascismo era l’ideologia di una dittatura che si è dissolta solo nel 1989. Eppure “Noi siamo lì” (questa era la frase centrale del Viaggio della memoria di quest’anno) piantati in questa storia con la quale fare i conti se vogliamo andare avanti.

Lasciando i mercatini neofascisti al loro ruolo, di tristi venditori di cianfrusaglie ideologiche inutili e dannose.

Fuori e dentro Auschwitz

Sono stato una settimana a Cracovia per l’edizione 2012 dei Viaggi della Memoria. 900 studenti in tre viaggi, 18 pullman. Un progetto cresciuto anno dopo anno e che coinvolge tutte le scuole superiori della Provincia (o quasi, quest’anno mancava l’Ariosto/Spallanzani). Per far toccare ai ragazzi i luoghi del ‘900, i luoghi dell’orrore ma anche quelli della speranza e della rivolta. Come ad Auschwitz e Birkenau, il buco nero dell’umanità, ma anche il luogo dobe un sacerdote (Padre Kolbe) impose lo scambio di una vita al nemico, offrendosi alle celle del Block 11 e alla morte di fame. O la rivolta dei Sonderkommando dell’ottobre 1944: caddero quasi tutti ma fecero esplodere il Crematorio n.4 rallentando l’ultima corsa verso lo sterminio totale. Davanti a quel crematorio distrutto si sono conclusi i tre Viaggi, lasciando liberi i ragazzi di parlare, di dare il via ai loro sentimenti. Ad ascoltarli altri ragazzi e le betulle che hanno visto i roghi dei cadaveri dell’estate 1944 e le fila di donne e bambini nudi in attesa di entrare nelle camere a gas.

Birkenau_290212.jpgEra la quarta volta che ero a Birkenau e ancora ho rinnovato il mio piccolo rito di omaggio e di saluto, leggo il Kaddish (la preghiera dei morti, non sono ebreo ma credo che Jahvè non si offenderà) e divido con altri il pane secco del primo giorno a Cracovia. Dividere il pane a Birkenau ha un senso profondo di condivisione, era la cosa più preziosa, insieme alle scarpe. Ci si addormentava con le scarpe e il pezzetto di pane sotto il cuscino, pronti a difenderlo se qualcuno, nella notte, avesse provato a rubarlo. Noi il pane lo buttiamo, allora era la differenza fra la vita e la morte. Riacquistare il senso delle cose.

Certo la cosa più difficile da gestire è l’emozione, soprattutto per chi entra nel campo la prima volta. Il campo di sterminio più grande, tanto da poter contenere tutto il centro storico di Reggio, e già erano pronti i piani per il suo raddoppio, per Birkenau 1946. Ma la testa, la lucidità, devono restare svegli. Non c’era nulla di casuale in quella macchina di morte, tutto era pianificato, la migliore tecnologia dell’epoca al servizio della “soluzione finale”. I prodotti chimici più adatti, i forni crematori di ultima generazione, un’amministrazione precisa e puntuale che già utilizzava le prime schede perforate dell’IBM. Era un problema tecnico eliminare tot pezzi al giorno, e la tecnica aiutava.

Zdenka.jpgZdenka aveva 25 anni, non so nulla di lei. Entrata, fotografata, vestita, numerata. Morta. Ha resistito 33 giorni ad Auschwitz 1. Esaurito un pezzo, avanti un altro.

Da Auschwitz non si esce mai, anche chi è sopravissuto è rimasto dentro quell’incubo fino alla morte o al suicidio. Marian Kolodzej aveva 19 anni quando è entrato, ne è uscito dopo cinque anni  nel 1945. Si è salvato perchè era giovane, perchè ha avuto fortuna, perchè sapeva disegnare. Ha vissuto la sua vita, dopo, è diventato un famoso scenografo nella Polonia comunista. Poi a 65 anni un ictus lo paralizza su un lato, la rieducazione lo spinge a disegnare, la mano aiutata dalla moglie. Inizia a disegnare, e non si ferma più. Fino al 2003 produce ogni giorno tavole grafiche in biancoe  nero.

ko.jpgMigliaia di tavole che poi monta in un ciclo collocato nella cripta della Chiesa di S.Francesco a Hermese, tre chilometri da Birkenau. Da Auschwitz non si esce mai, lui lo ha fatto dopo 40 anni di silenzio con la sua arte.

p.s. A Cracovia o visto anche dei Musei. Perchè quando sono all’estero e vedo dei nuovi Musei e penso a Reggio devo vergognarmi? E questa volta ancora di più. Ma, come si dice, questa è un’altra storia….