Storie d’Italia: pillole per non dimenticare (2). La nascita di una Nazione.

441px-Camillo_Benso_Cavour_di_Ciseri Camillo Benso Conte di Cavour (1810-1861)

Perché tanta fatica nel ricordare i centocinquant’anni dell’Unità?

L’Unità d’Italia fu un percorso accidentato e difficile, che raggiunse i propri obiettivi in tempi lunghi e differenziati e non solo grazie a una serie di vicende internazionali, ma anche in seguito a compromessi fra le diverse anime e forze che lo ispirarono, compromessi che alla fine fecero sì che ben pochi potessero rispecchiarsi nella nuova Italia con convinta soddisfazione.

L’Italia unita ebbe certamente molti padri, ma alla fine nacque orfana e con qualche nemico di troppo. Il Piemonte, convinto di raggiungere con una serie di annessioni una semplice espansione territoriale, si trovò a dover governare una nazione tanto, troppo eterogenea; i democratici alla Garibaldi e Mazzini si accontentarono, a malincuore, di un’unità al di sotto delle loro aspettative politiche e territoriali; il tutto in un Paese a maggioranza cattolica con la Chiesa come grande avversario di quel processo che si stava compiendo.

Che l’Unità nazionale sia stato un evento sottovalutato dagli stessi protagonisti lo conferma l’atteggiamento di Casa Savoia. Vittorio Emanuele II, divenuto re d’Italia, non sentì la necessità di marcare la svolta decisiva cambiando nome (diventando magari Vittorio Emanuele, re d’Italia), le legislature proseguirono la numerazione progressiva del Regno di Sardegna, una volta conquistata Roma non si pensò a costruire un Campidoglio, una sede per il parlamento del nuovo Stato, ripiegando  sull’infelice sede di Montecitorio. Lo stesso Savoia soggiornò solo per brevi periodi a Roma, risiedendo di mala voglia al Quirinale, un palazzo già appartenuto al papa. Conoscendo la sua passione per la caccia, si cercò di invogliarlo acquisendo la tenuta di Castelporziano, ma anche quello servì a poco. A parte il primo re d’Italia, che morì a Roma nel 1878, dei grandi protagonisti dell’unità nessuno morì nella “città eterna”: Cavour a Torino nel 1861, Mazzini a Pisa (da clandestino) nel 1872, Garibaldi a Caprera nel 1882. 

Perché non c’è una festa nazionale che ricordi l’Unità?

Nel 1861 si decise di festeggiare l’avvenuta unità non con una data propria, magari quella della dichiarazione d’unità (il 17 marzo), ma inglobandola nella festa dello Statuto, nata nel 1851 per ricordare la concessione dello Statuto Albertino. In quella ricorrenza si celebrò così anche l’Unità, posta significativamente in una data mobile, la prima domenica di giugno, per confonderla in qualche modo con una giornata già festiva, a evitare un’eccessiva partecipazione popolare che sarebbe potuta essere occasione di proclamazione delle diverse tendenze politiche e degli ideali che l’Unità aveva solo momentaneamente sopito. Dopo i grandi movimenti popolari del 1848-49 e del 1859-60, la folla nelle piazze faceva paura.

Altre nazioni hanno fatto scelte diverse: gli Usa, oltre al 4 luglio ricorrenza della Dichiarazione d’Indipendenza, nel 1868 decretarono il Memorial Day, per ricordare tutti soldati caduti nelle guerre, la Germania la giornata di Sedan (1871) e la Francia elevò il 14 luglio (presa della Bastiglia) al ruolo di festa nazionale nel 1880.

Mancava quella che Mazzini chiamava la «religione della Patria» e faticò a prendere l’avvio la costruzione di una simbologia nazionale. La figura dello stesso Mazzini ne è un esempio concreto: una statua in suo onore fu deliberata dal Parlamento solo nel 1890 e ci vollero altri cinquant’anni perché fosse realizzata.

Storie d’Italia: pillole per non dimenticare (1)

Inizio a pubblicare qualche “pillola” di storia patria, considerato come spesso accada di leggere notizie imprecise, luoghi comuni, banalità inutili. Le “pillole” sono tratte dal mio volume “Question Time. Cos’è l’Italia? Cento domande (e risposte) sulla storia d’Italia, Aliberti Editore 2011” (ormai felicemente esaurito).

ferdinando_iiFerdinando II di Borbone

È vero che il sud della penisola era al momento dell’Unità più sviluppato del nord ed è stato depredato dai conquistatori piemontesi?

Si tratta di una forzatura che si basa su una visione parziale della realtà economica del Regno delle Due Sicilie. Esistevano certamente manifatture di un certo livello, concentrate in poche zone e difese da una politica economica protezionista. Tuttavia la ricchezza di un paese non è data dalla ricchezza di una singola città o di una singola zona ma dal complesso della sua produzione e delle sue risorse.

In effetti Napoli era una capitale molto più grande e lussuosa di Torino ma era anche la capitale di uno Stato molto più grande del Piemonte sabaudo. Si trattava di uno Stato organizzato in maniera fortemente centralizzata e che tendeva a drenare risorse dall’intero territorio continentale per dirottarle alla capitale. Insomma il Regno delle Due Sicilie era certamente Napoli ed i suoi tanti e ricchi teatri e palazzi ma anche e soprattutto la Lucania, le zone interne dell’Abruzzo, le plaghe lunari e desolate della Calabria, le pianure malariche del Volturno etc.

La situazione dell’Istruzione, della Sanità, delle infrastrutture del Regno delle Due Sicilie era tale che, ancora oggi, alcune delle situazioni più svantaggiate non hanno trovato rimedio. A ciò va aggiunto che, al momento della Spedizione dei Mille, il Regno delle Due Sicilie viveva una gravissima crisi politica e istituzionale alimentata anche dall’indipendentismo siciliano. La crisi fu talmente repentina da sconvolgere gli stessi progetti politici di Cavour che non s’aspettava un crollo dell’intera struttura statale borbonica.

Possiamo dire che l’unificazione fu come un matrimonio, portò benefici (la gran parte) ma anche difficoltà e problemi. Resta comunque in fatto che in un’Europa già dominata dai grandi stati nazionali come Francia Germania e Gran Bretagna i sette piccoli stati italiani preunitari non avrebbero avuto avuto nessuna prospettiva futura se non quella di rimanere protettorati di qualche potenza più moderna e sviluppata. All’influenza austriaca si sarebbe sostituita quella francese (come forse Napoleone III aspirava) o quella inglese al sud, ma senza nessun peso sugli equilibri politici e l’economia continentale, moltiplicando ancora una volta il ritardo già storico nel percorso della modernità.

Ma il sud era davvero così arretrato?

Il ritardo non era solo del sud verso il nord ma anche, e soprattutto nei confronti dell’Europa. Se valutiamo lo sviluppo delle ferrovie, un parametro efficace visto che quantificava la capacità dell’industria pesante, al 1860 il Regno di Sardegna aveva attivato circa un migliaio di chilometri di linee ferroviarie, più di tutti gli altri stati italiani insieme, ma la produzione di ferro e ghisa italiana a quel momento era di sole 60.000 tonn.\anno contro gli oltre 3 milioni della Gran Bretagna, dove già alla metà dell’800 la metà della popolazione attiva era impiegata nell’industria.

Una crescita industriale italiana, possibile solo grazie all’unificazione, prese l’avvio solo a fine secolo con quasi un secolo di ritardo nei confronti dei paesi leader europei (Francia, Germania, Gran Bretagna) e con l’intervento, frequente, proprio di capitale straniero.

Gli stati italiani avevano sviluppato, in vari settori, un numero limitato di imprese che però per dimensioni non potevano competere in alcun modo con quelle francesi o tedesche. Erano imprese protette dai dazi dei singoli stati, il loro mercato era limitato. Avevano buone potenzialità che, quasi sempre, l’unità, per come venne condotta, non valorizzò, anzi  portò al fallimento. Così nel Regno delle Due Sicilie, il primo a costruire una ferrovia (la Napoli-Portici nel 1839) o a istituire un servizio di illuminazione pubblica a gas, era stata aperta una fabbrica metalmeccanica a Pietrarsa con annessa scuola per ferrovieri. E da cantieri borbonici era uscita la prima nave a vapore in servizio nel Mediterraneo. Contemporaneamente però già dal 1816 era stata data in concessione alla Gran Bretagna lo sfruttamento delle miniere di zolfo che rappresentavano il 90% della produzione mondiale (e all’epoca lo zolfo era una risorsa strategica, vista il suo impiego nella produzione di polvere da sparo).

Come abbiamo fatto a sopravvivere? (P.Coehlo)

Pur non apprezzando granchè l’autore brasiliano riconosco che queste considerazioni su noi, bambini di qualche decennio fa, hanno una loro efficacia..

1.- Da bambini andavamo in auto che non avevano cinture di sicurezza né
airbag…
2.- Viaggiare nella parte posteriore di un furgone aperto era una passeggiata
speciale e ancora ne serbiamo il ricordo.,,
3.- Le nostre culle erano dipinte con colori vivacissimi, con vernici a base di
piombo.
4.- Non avevamo chiusure di sicurezza per i bambini nelle confezioni dei
medicinali, nei bagni, alle porte.
5.- Quando andavamo in bicicletta non portavamo il casco.
6.- Bevevamo l’acqua dal tubo del giardino invece che dalla
bottiglia dell’acqua minerale…
7.- Trascorrevamo ore ed ore costruendoci carretti a rotelle ed i fortunati che
avevano strade in discesa si lanciavano e, a metà corsa, ricordavano di non
avere freni. Dopo vari scontri contro i cespugli, imparammo a risolvere il
problema. Sì, noi ci scontravamo con cespugli, non con auto!
8.- Uscivamo a giocare con l’unico obbligo di rientrare prima
del tramonto. Non avevamo cellulari… cosicché nessuno poteva
rintracciarci. Impensabile….

9.- La scuola durava fino alla mezza, poi andavamo a casa per il
pranzo con tutta la famiglia (si, anche con il papà).
10.- Ci tagliavamo, ci rompevamo un osso, perdevamo un dente, e nessuno faceva una denuncia per questi incidenti. La colpa non era di
nessuno, se non di noi stessi.
11.- Mangiavamo biscotti, pane olio e sale, pane e burro, bevevamo bibite zuccherate e non avevamo mai problemi di sovrappeso, perché stavamo sempre in giro a giocare…
12.- Condividevamo una bibita in quattro… bevendo dalla stessa bottiglia
e nessuno moriva per questo.
13.- Non avevamo Playstation, Nintendo 64, X box, Videogiochi ,
televisione via cavo con 99 canali, videoregistratori, dolby
surround, cellulari personali, computer, chatroom su Internet
… Avevamo invece tanti AMICI.
14.- Uscivamo, montavamo in bicicletta o camminavamo fino a casa
dell’amico, suonavamo il campanello o semplicemente entravamo senza
bussare e lui era lì e uscivamo a giocare.
15.- Si! Lì fuori! Nel mondo crudele! Senza un guardiano! Come abbiamo fatto?
Facevamo giochi con bastoni e palline da tennis, si formavano
delle squadre per giocare una partita; non tutti venivano scelti
per giocare e gli scartati dopo non andavano dallo psicologo per il trauma.
16.- Alcuni studenti non erano brillanti come altri e quando perdevano un anno lo ripetevano. Nessuno andava dallo psicologo, dallo psicopedagogo, nessuno soffriva di dislessia né di problemi di attenzione né d’iperattività; semplicemente prendeva qualche scapaccione e ripeteva l’anno.
17.- Avevamo libertà, fallimenti, successi, responsabilità … e imparavamo a gestirli.

La grande domanda allora è questa:
Come abbiamo fatto a sopravvivere?

E a crescere e diventare grandi?

(Paulo Coelho)

Un paese conservatore che, pur di non spostarsi vota i Berlusconi e i Grillo

Curzio Maltese (Venerdì Repubblica, 7 febbraio 2014)

Nelle celebrazioni dei vent’anni dall discesa in campo si è tralasciato un po’ ovunque, non solo nella stampa servile, un aspetto centrale. L’Italia è un paese di destra. La grande intuizione politica, ma in realtà commerciale di Berlusconi è stata questa: colmare il vuoto a destra creato dalle conseguenze di Tangentopoli. Con tutto quel che si è detto in questi anni sul genio comunicativo del Cavaliere, il potere delle sue televisioni, la sua astuzia di venditore, la verità banale è che se un altro avesse avuto la stessa intuizione probabilmente ce lo saremmo beccato comunque per un ventennio e oltre.

Del resto, prima della nascita di Forza Italia, la Lega aveva superato il 40 per cento a Milano e in Lombardia e i post fascisti avevano sfondato in molte aree del Centro e del Sud. In Italia il rapporto tra conservatori e progressisti è fermo da sessant’anni in una proporzione 60 a 40. Con la sola eccezione dei referendum radicali degli anni settanta, nel periodo di massimo spostamento a sinistra dell’opinione pubblica, le conquista progressiste nel Paese sono sempre state imposte da minoranze alla maggioranza conservatrice. La Costituzione è figlia di una classe dirigente antifascista, le riforme degli anni sessanta varate dai governi di centrosinistra erano invise all’elettorato democristiano, in larga parte assai più reazionario dei propri dirigenti.

Strano dunque non è che Berlusconi abbia vinto tre volte le elezioni, ma che sia riuscito a perderne due contro i progressisti, sia pure guidati da un ex democristiano e per fattori sfortunati. Fra il 2008 e il 2013 ha perso dieci milioni di voti e questo basterebbe per decretare la fine politica di un leader. Non fosse che la grande astuzia del Cavaliere è sempre stata quella di crearsi molti alibi e delle finte alternative in casa. Ieri Fini o Alfano, domani Toti o magari la figlia Marina. Creando in questo modo il falso mito della propria insostituibilità.

In realtà se domani nascesse a destra un leader più consistente e credibile, vincerebbe a mani basse. Due terzi dei voti di Grillo sono in realtà voti strappati al qualunquismo di destra e ha ragione Casaleggio a preoccuparsi per il voto dei militanti contro il reato di immigrazione clandestina. La cagnara dei deputati grillini in Parlamento è a distrarre l’attenzione degli elettori anti-immigrati, la schiacciante maggioranza dei 5S.

Questo siamo, un paese di conservatori ad ogni costo, perfino al costo di doversi sorbire un clown al governo per un ventennio.

Per dirla con Crainz: “La destra in Italia è il problema ma (questa) sinistra non è la soluzione”…

 

 

E online tutti diventano storici

Vincenzo Grienti (Avvenire, 19.12.2013

bbb

Nell’era digitale fatta di computer senza fili, tablet e smartphone intelligenti il binomio storia e web potrebbe sembrare anacronistico. Basta invece andare sui principali motori di ricerca e su centinaia di siti per capire che non è così. Il primo viaggio di Cristoforo Colombo alla scoperta dell’America del 1492, la Rivoluzione francese del 1789, la Rivoluzione industriale in Inghilterra così come l’epopea di Napoleone, l’Unità d’Italia e i due conflitti mondiali possono essere riletti, approfonditi e condivisi grazie ai nuovi strumenti del web 2.0 e ai social network.

Dall’enciclopedia online Wikipedia, che ha fatto della partecipazione collaborativa la sua bandiera, ai siti come cronologia.leonardo.it/storia, Dizionario di storia moderna e contemporanea (www.pbmstoria.it), Ars Bellica (www.arsbellica.it) alle centinaia di riviste specializzate pubblicate solo in Rete c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Su YouTube, la principale piattaforma di video sharing, è possibile inoltre visualizzare migliaia di clip, film, documentari in bianco e nero caricati da singoli utenti o da centri studi, enti, istituzioni, testate giornalistiche impegnate nella divulgazione storica. In Italia un’esperienza originale è quella dell’Istituto Luce Cinecittà (www.youtube.com/cinecittaluce) che ha stretto un accordo con Google per rendere accessibile e condivisibile l’immenso patrimonio audiovisivo mentre su www.archivioluce.it viene offerta la possibilità di consultare 200mila schede catalografiche, 4mila ore di filmati, 400mila fotografie, in libera consultazione. Una risorsa indispensabile per studiosi e cultori di storia sono poi gli archivi digitali e le riviste online.

Ne è un esempio il The National Security Archive della George Washington University fondato nel 1985 che, oltre ad essere centro di giornalismo investigativo e istituto di ricerca sulle questioni internazionali, raccoglie e pubblica documenti declassificati degli Stati Uniti. Digitando www2.gwu.edu/~nsarchiv è possibile entrare in una tra le più grandi e aggiornate collezioni non governative del mondo.

È del 4 dicembre la più recente pubblicazione della Relazione sugli archivi di polizia guatemaltechi disponibili in inglese. Scribd.com, invece, è un servizio per la condivisione di documenti e libri in vari formati (Pdf, word, txt). Basta registrarsi e accedere al suo patrimonio digitale scaricabile che mensilmente fa incontrare oltre 50 milioni di utenti per più di 50mila tra libri, relazioni, saggi di storia, articoli, sintesi storiche. Frequentato dal mondo accademico è Academia.edu, dove è possibile trovare pubblicazioni scientifiche. Lanciato nel settembre 2008, conta più di un milione di utenti registrati.

In Italia, tra le poche realtà non governative o statali a rendere disponibili libri, saggi di storia e redirect ad altre biblioteche digitalizzate è la Sism, la Società italiana di storia militare: «Tra i nostri fini statutari – dice il presidente, Virgilio Ilari – c’è quello di promuovere lo studio della storia militare e offrire ai propri soci la pubblicazione gratuita online, sia sul nostro sito sia nei siti open come Scribd, Archive, Academia di articoli e libri approvati da specialisti della materia trattata».

Su www.societaitalianadistoriamilitare.it sono anche scaricabili gratuitamente saggi, relazioni e numerosi volumi di non facile reperimento, perfino risalenti al Cinquecento. Sul fronte universitario meno di un anno fa è nata la rivista Polo Sud di recente è nato un semestrale online redatto da storici del dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania «con l’intenzione di fare incontrare la grande storia con quella locale per cogliere meglio la complessità dei processi storici». spiega Giancarlo Poidomani, docente di storia contemporanea presso l’ateneo catanese. Diretta da Rosario Mangiameli, la rivista può essere sfogliata su www.editpres.it/cms/book/polo-sud-1.
Un’iniziativa nata attorno a uno dei molti periodici di storia specializzati è quella di Storia Doc (www.storiadoc.com), il primo sito italiano dedicato esclusivamente ai documentari di storia. «In streaming sono disponibili biografie, retroscena della storia dell’arte, enigmi storici e processi controversi», sottolinea Fabio Andriola, direttore del mensile Storia in Rete (www.storiainrete.com).

Sulla stessa scia ma con obiettivi più divulgativi è la rivista online InStoria(www.instoria.it), «un progetto editoriale nato per offrire ai suoi lettori alcuni approfondimenti su rilevanti tematiche del nostro presente e del nostro passato», spiega il direttore Matteo Liberti. Storia in Network (www.storiain.net) ha appena rinnovato il proprio sito. Si tratta di un mensile diretto da Alessandro Frigerio giunto al suo 203° numero e rivolto a studenti e appassionati del Novecento e dei secoli passati. Su Facebook e Twitter digitando la parola “storia” nella sezione “cerca” il risultato sono centinaia di pagine fan e microblog di mensili, riviste, canali e trasmissioni televisive e radiofoniche.
È il caso di RaiStoria e History Channel oppure di programmi come La Storia siamo noi della Rai o Quando l’Italia e I militi ignoti della fede di Tv2000.

 

Vincenzo Grienti

Operazione deresponsabilizzazione. A proposito della miniserie “Generation War”

Venerdì 7 e sabato 8 è andata in onda su Rai Tre la miniserie intitolata Generation War sulla Germania nazista.

aaaaa

di pubblicato sabato, 8 febbraio 2014 ·

Quando nel 2010 si è aperta a Berlino la mostra su Hitler e i tedeschi (HitlerunddieDeutschen) sono andata a vederla: era la prima volta che in Germania si organizzava una cosa del genere. I giornali ne avevano parlato un sacco: “i tedeschi fanno i conti con il consenso”, avevano scritto, e io pensavo “alla buon’ora”. Avevo da poco scritto un documentario per Rai Tre sulla medicina nazista e mi aveva colpito notare come, a differenza dell’Italia, gli archivi audiovisivi tedeschi fossero male organizzati, sintomo anch’esso, pensavo, di una rimozione collettiva oscurata, nella consapevolezza pubblica, da decine di serie Tv autoprodotte sul Terzo Reich. Non mi aspettavo dunque granché da questa mostra ma quello che ho trovato era davvero al di qua di ogni mia aspettativa: su Unter der Linden non c’erano indicazioni esterne, il viale delle parate di Hitler doveva rimanere spoglio di ogni simbolo nazista, seppure funzionale alla mostra, che era nascosta nel seminterrato del DeutschesHistorischesMuseum. Per trovarla bisognava davvero cercarla, non c’era la possibilità di entrare nel museo per un’altra cosa e dire “toh adesso me la guardo”. Solo chi sapeva, chi aveva letto i giornali, poteva decidere di andare a vederla. La mostra era povera, quaderni, lettere, che denunciavano l’amore dei tedeschi per Hitler: bella scoperta, e in più una premessa, Hitler era amato anche perché mentiva e i tedeschi non sapevano quello che faceva, soprattutto dopo l’inizio della guerra quando le peggiori atrocità si erano spostate sul fronte orientale. Una mostra sul consenso con queste premesse, il consenso estorto con l’inganno, bel punto di arrivo dopo sessant’anni di pedagogia antinazista e ricerca storiografica, una mostra inutile dunque? Ripenso a questa domanda che mi ero fatta allora guardando le tre puntate di Generation War, in onda stasera su Rai Tre: miniserie tedesca prodotta da ZDF, diffusa in Germania nel marzo 2013 e negli Stati Uniti pochigiornifa.

Perché Generation war arriva alla stessa conclusione: Hitler ha tradito il popolo tedesco, che ha creduto in lui in buona fede; Unsere Mutter, unsere Vater, le nostre madri, i nostri padri richiamati dal titolo originale della miniserie, hanno avuto colpe, sembrano dirci gli autori, ma sono colpe che hanno espiato, e la vicenda dei cinque giovani protagonisti della serie è, in questo senso, paradigmatica.

La trama. Estate 1941. La Germania ha appena l’invaso l’Unione Sovietica, e cinque amici si incontrano per l’ultima volta in un locale di Berlino, sono Wilhelm (Volker Bruch) patriottico e convinto che la guerra finirà in un lampo; suo fratello Friedhelm (Tom Schilling), intellettuale e pacifista ma costretto a partire per il fronte. Charlotte (Miriam Stein) che non vede l’ora di raggiungere l’Unione Sovietica per prendere servizio come infermiera, rappresentando in questo suo slancio tutte le donne tedesche, come lei stessa dichiara; Greta (Katherina Schüttler) vuole diventare la nuova Marlene Dietrich, è innamorata di Viktor (Ludwig Trepte) ebreo, e per salvarlo diventerà l’amante di un nazista. Ma la storia ancora è agli inizi, e tutti sperano di ritrovarsi a Berlino per Natale. Non andrà così.

Wilhelm, Friedhelm e Charlotte sono la quintessenza di quello che per gli autori doveva essere la gioventù nazista: cresciuta a pane e Hitler eppure in grado di provare sentimenti, sono i padri e le madri richiamati nel titolo. Hanno un cuore al punto tale da avere nella loro cerchia ristrettissima un ebreo: Viktor Goldstein, figlio di un sarto reduce della prima mondiale, ancora convinto, nel 1941, che cucirsi la stella gialla sulla giacca sarà per gli ebrei un bene e non la fine.

I tre giovani “ariani” partono per il fronte, Greta e Viktor rimangono insieme a Berlino, ma per poco, la stretta antisemita si fa più feroce e Goldstein decide di fuggire negli Stati Uniti: per aiutarlo Greta diventa l’amante di un nazista che a sua volta le promette di farla diventare una cantante famosa. Ma le vite dei cinque amici continuano a incrociarsi per tutta la durata della guerra: si incontrano ogni tre per due, negli ospedali militari in Unione Sovietica, sui campi di battaglia, perfino nei boschi, come ha notato anche David Demby sul New Yorker “The Germans invaded the Soviet Union in June, 1941, with more than three million men, yet these five people keep bumping into one another on the Eastern Front as if they were crisscrossing a large fairground”. Comunque, malgrado questo ottimismo psicogeografico, niente andrà come da loro previsto o sperato, e le tre puntate (due nella versione distribuita negli Usa e in Italia) sono una lenta discesa agli inferi, da dove non c’è ritorno. Solo tre sopravviveranno, fantasmi, in una Germania distrutta, nella quale i nazisti si ricicleranno senza problemi anche grazie all’aiuto degli americani (non dimentichiamo questo punto).

Le reazioni. In Germania la serie è stata accolta con entusiasmo: i quotidiani sono tornati a discutere delle “persone normali” coinvolte, loro malgrado, nella guerra e nello sterminio degli ebrei. Il quotidiano DerSpiegel ha scritto che Unsere Mutter, unsere Vater è un punto di svolta nella rappresentazione audiovisiva della guerra poiché mostra senza alcuna reticenza scene di violenza tradizionalmente censurate dai media tedeschi: e in effetti la ferocia del conflitto sul fronte orientale è resa molto bene da un punto di vista televisivo, anche grazie al fatto che la fiction è costata 14 milioni di euro, ed è un esplicito omaggio a Spielberg e al suo Saving Private Ryan. La fattura è stata elogiata anche dalla stampa anglosassone, ma se gli inglesi sono stati per lo più entusiasti della miniserie, gli americani hanno espresso maggiori perplessità che si riassumono perfettamente nella frase di Adam Kirsch “The manipulation of sympathy, the defiance of historical realities, the insistence on showing the exception rather than the rule: these are practically requirements when it comes to making a middlebrow war movie. America has made plenty of them; but when the Germans do it, the rest of the world has a right to be concerned” (il resto dell’articolo qui). E qui sta il primo punto critico, percepito anche da molti osservatori sui social network, ovvero: possono i tedeschi romanzare il proprio passato, possono portare sullo schermo l’eccezione e non la regola? Sicuramente ci saranno stati uomini e donne simili a quelli raccontati nel film, ma narrare la loro storia insegna qualcosa, è giusto?.

LaurenceZuckerman, sul New York Times, ha scritto una lunga riflessione sulla serie tedesca GenerationWarShowsNaziMassKillersWithLoveinTheirHearts mettendo in rilievo come i personaggi protagonisti siano assolutamente poco realistici, mentre, afferma Zuckerman, ormai le ricerche hanno dimostrato che “Were there any good Germans during WWII? Over the past two decades, the odds have narrowed. “No serious scholar has attempted to argue that ordinary German men did not become mass killers,” Holocaust historian Christopher R. Browning wroterecently, “or that the Wehrmacht—the institution shaping the experience and behavior of by far the largest groups of Germans in World War II—was not heavily implicated in Nazi criminality.” Ma, aggiunge, a lui Generation war è piaciuta: “Which makes the following fact deeply uncomfortable: I enjoyed watching the series immensely. As entertainment, it is at turns enthralling, horrifying, and moving. The acting is first-rate, and the work has a very strong antiwar message. I even found myself tearing up at times”. In effetti ha ragione, anche se io non mi sono mai commossa.

Perché farla?. A questa domanda risponde la Suddeutsche Zeitung quando, all’uscita del film, nel marzo del 2013, scrive: “la fiction offre la prima e ultima possibilità per la generazione che ha oggi sui trent’anni di chiedere conto ai propri nonni delle proprie biografie reali, i loro compromessi immorali, le possibilità mancate di agire per il bene, insomma ogni singolo comportamente che, moltiplicato per milioni di persone, ha portato il paese alla catastrofe”. Il regista Philipp Kadelbach, e lo sceneggiatore, Stefan Kolditz, hanno dichiarato che loro intenzione era quella di stimolare un dibattito fra generazioni e infatti dopo la messa in onda i talk show sono stati popolati per giorni da vecchissimi sopravvissuti che hanno condiviso le loro memorie personali. Un fenomeno, questo, che l’Italia ha conosciuto nel 1994, con la messa in onda della controversa serie Combat Film: allora come oggi dare la voce a chi aveva aderito al totalitarismo suscita indignazione da un lato, pone nuovi problemi rispetto al ruolo giocato dai media nella costruzione di un senso del passato che risponde più alle esigenze del presente che non a quelle della ricerca storica, per cui in Generation war, come in Combat film, si sdogana in modo definitivo l’idea che i morti, alla fine, sono tutti uguali. Così, tornando alle intenzioni del regista e dello sceneggiatore, questo bisogno di domandare ai propri padri, ai propri nonni, è lo specchio entro il quale leggiamo oggi quel passato che non passa di cui in Germania si discute almeno dai tardi anni Settanta: e infatti era dai tempi di Holocaust e poi di Heimat che un prodotto per la Tv non suscitava un dibattito simile. E dunque come nel caso di Heimat e di ogni prodotto culturale, ci parla molto di più del tempo in cui viene prodotto che del periodo di cui parla: come ha scritto A. Scott su The New York Times: “As the Second World War slips from living memory, as Germany asserts its dominant role in Europe with increasing confidence, and as long-suppressed information emerges from the archives of former Eastern bloc countries, the war’s cultural significance for Germans has shifted” (qui)

Madri e padri. Eppure il cinema tedesco non è nuovo a questo tipo di analisi, e la “scoperta” del rapporto padri figli, la necessità di fare domande, l’urgenza di farle prima che tutta la generazione coinvolta nel nazismo scompaia per sempre, appare tristemente retorica e fuori tempo massimo se si pensa a episodi come il dialogo con la madre di Fassbinder in Germania in autunno (Deutschland im Herbst 1978), o quella di Von Trotta in Anni di piombo (Die bleierne Zeit, 1981) per citare soltanto i più eclatanti. E’ stata Renate Siebert, fra gli altri, a tematizzare il rapporto fra generazioni da un punto di vista storiografico in un’ottica soggettiva. Nei suoi racconti autobiografici racconta delle sue esperienze di militanza e di studio all’Università di Francoforte, presso l’Istituto diretto da Adorno. “La tragicità della situazione che vivevano i ragazzi e gli adolescenti in Germania negli anni ’50 e ’60, a pochi anni dalla sconfitta del nazismo, quando non c’erano punti di riferimento tra gli adulti, non si parlava degli orrori del nazismo e dell’olocausto (ci si limitava a sussurrare: “noi non lo sapevamo”). Le violentissime discussioni con gli adulti, il vergognarsi di essere tedeschi”. Tutte questioni che dovrebbero essere dunque, ormai, superate, sia dal cinema che nel dibattito pubblico. Ma evidentemente non è così. Generation War fa tabula rasa di tutto questo lavoro critico e rovescia i termini della questione: la soggettività in crisi è quella dei padri, non dei figli per i quali “comprendere” ad ogni costo diventa un imperativo categorico. La pietà che si prova verso di loro dunque, finisce per essere (quasi) la stessa che si prova verso i cittadini ebrei dell’Unione Sovietica, se non maggiore: loro infatti, i cinque protagonisti, i padri, li conosciamo bene e pure se uno di loro è ebreo la sua guerra sembra una passeggiata in confronto a quella degli amici che combattono nella Wermacht. Prevale dunque un sentimento di cristiana pietà, un universale pacifismo, che nasconde ogni specifica responsabilità nella notte in cui tutte le vacche sono nere.
La fine. Sopravvivono in tre. Uno di loro riconosce in un ufficio alleato, nella Berlino occupata del 1945, un ex comandante nazista: lavora per gli Americani. Anche il futuro, dunque, è ipotecato. Forse il momento più sincero dell’intera narrazione, quello nel quale, al bisogno di comprendere i padri, subentra l’impossibilità di giustificarli. L’unico, ma anche solo per questo la fiction merita di essere guardata e discussa, perché nelle pieghe della burocrazia statale, in Germania come in Italia, rimangono nel dopoguerra le tracce più importanti dei regimi dittatoriali. Una storia ancora troppo poco raccontata, che Generation War ha il merito di ricordare.

in: http://www.minimaetmoralia.it/wp/operazione-deresponsabilizzazione-a-proposito-della-miniserie-generazion-war/

Porta Castello, anni venti

Porta Castello

Porta Castello, anni venti. Foto aerea. A destra di Viale Umberto I è ancora visibile lo Stallo del Bagno, con la grande vasca semicircolare. La campagna arrivava ancora alle porte della città e sui viali di circonvallazione non erano ancora state costruite le villette di Viale Timavo. Campo Tocci era ancora un prato, residuo degli spazi erbosi fuori le mura. Visibili le due gabelle daziarie, abbattute negli anni sessanta. Via Mameli era solo uno stradello che partiva all’angolo di casa Largader (ancor oggi esistente). Sulla circonvallazione verso S.Pietro è ben visibile il superstite baluardo cinquecentesco.