“Ci hanno rubato il futuro”…

 305f1.jpg“Ci hanno rubato il futuro” è il mantra che sentiamo ripetere da giovani e meno giovani. Se le parole hanno (ancora) un senso, la frase sta a significare che qualcuno (chi?) ha rubato il domani, il dopodomani etc. a diverse categorie di persone (che resteranno, loro malgrado, nel nulla, nel dolore, nella disperazione). Sì, perché ho sentito questa frase pronunciata da giovani neolaureati come da pensionati mancati. Il qualcuno è noto: le multinazionali, gli speculatori, i politici, il capitalismo. Tutti. Quindi nessuno. Così si torna al senso della frase da rimodulare: “Nessuno ci ha rubato il futuro”, avrebbe detto il buon Ulisse al povero Ciclope.

In realtà questa frase è la solita geremiade che trova facile successo in questa Italia riscoperta eternamente piagnona, pronta alla chiacchiera da bar (in questo senso Facebook è anche una sorta di Bar Sport planetario) e alla vuota lamentazione. A prendersela sempre con gli altri, colpevoli di tutto, e mai a cambiare qualche piccola deleteria abitudine.

Il futuro è quello che è, non c’è scampo più per me…” urlava nel sonno il nipotino di Frankestein, come Mel Brooks ci ricordava nel suo genio. Siamo lì?

Come corollario di “Ci hanno rubato il futuro” c’è l’ovvio “I giovani non hanno futuro”. Bene. Bello. Costruttivo e incoraggiante. Io che di figli ne ho tre, ogni giorno a pranzo e cena per incoraggiarli a studiare, impegnarsi a non far cazzate, li guardo negli occhi e ripeto loro “Non avete futuro!” e poi sputazzo loro in faccia per prepararli al domani.

Popolo di corta memoria e di enorme capacità digestiva abbiamo dimenticato tutto. Per noi “giovani d’epoca” invece è stato tutto facile, bello, divertente. Io, ventenne alla metà dei settanta, laureato negli ottanta mi sono divertito un sacco, ho trovato subito lavoro, ho fatto carriera, mi sono fatto i soldi. Io no, sarebbe normale, ma neppure quelli come me allora. Ma non c’era nessun frangigonadi a dirci “I giovani non hanno futuro”, il futuro era il giorno dopo, era studiare e prepararsi perché comunque quello studio sarebbe servito (come serve oggi, non contiamoci fanfaluche). In tempi di disperati sogni rivoluzionari, finiti nel sangue e nella merda, ho sempre pensato che se anche fosse arrivata la rivoluzione comunque era meglio sapere una parola in più che una in meno, aver letto un libro in più che uno in meno e che il mondo era molto più complicato degli slogan che mi passavano accanto nelle strade e nelle piazze. Canticchiavo un pezzetto del buon Faber “certo bisogna farne di strada per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni…”.

Finita l’università, come concordato, i miei chiusero i rubinetti. All’emiliana mi dissero “Va’ mo’…” e io sono andato. E state tranquilli che anche allora c’era la politica opprimente e occupante che distribuiva posti e carriere. Solo che allora i posti e le carriere erano tante e in tanti venivano accontentati. Oggi si accontentano solo i politici e gli altri si incazzano, non per etica ma per delusione.

All’Università pensate fosse un collegio di Orsoline? Il mio prof di tesi mi disse onestamente “vorrei tenerti qui, ma io non ho peso e quindi entreranno gli allievi di A,B,C, bravi o no…se vuoi puoi restare ma gratis…”. No, grazie, agratis non potevo, e così mi detti da fare, feci corsi di specializzazione, per mantenermi feci il fotografo a un buon livello, tale che ancora oggi posso permettermi di sorridere davanti a certe mostre. Poi, intestardito nella pazza idea di fare quello per cui avevo studiato (lo storico) passo a passo ci sono arrivato. Storico di quartiere, di strada, niente a che vedere con quei A,B,C che lasciai allora nei corridoi. Banalmente povero ma felice. Si fa per dire. Ma almeno con la memoria ancora sufficientemente viva per non sopportare boiate come “Ci hanno rubato il futuro”.

Semplicemente oggi molte cose sono diverse, ma per fortuna sono diversi anche i nostri giovani (dei pensionati mancati dichiaro qui e ora che non me ne frega una cippa). Inciso: categorizzare è sempre una fesseria, l’inizio della banalità, ogni categoria è fatta di singoli, persone. Esistono giovani in gamba e giovani coglioni, esattamente come gli elettricisti, i chirurghi o i senatori. Punto.

Io uscii dall’Italia la prima volta a 24 anni, lavorando come ingegnere (ma questa è un’altra storia) con quel po’ d’inglese imparato a scuola o sulle canzoni rock. Mia figlia a 22 anni, sa 3 lingue, vorrebbe vivere a Berlino (dove è già stata un anno) e ha già avuto il triplo di occasioni di crescita e opportunità della nostra generazione allora. I tempi sono difficili, come lo sempre stati. I nostri figli hanno tutte le carte in mano per farcela. E ce la faranno, esattamente come noi. Più fatica? Meno fatica? Comunque sudore.

I nostri genitori cosa avrebbero dovuto dire nel 1945? Loro sì avevano tutto il diritto di esclamare “Ci avete rubato il futuro”. Invece no. Si rimboccarono le maniche e all’emiliana dissero “Va’, mo’..’” e hanno fatto quello che sappiamo. Come sempre il futuro è lì, nessuna Spectre lo può rubare perché non appartiene a nessuno. Appartiene alla voglia di fare, di impegnarsi. Anche fra i miei conoscenti di allora c’erano i fancazzisti, i perditempo, i menabubbole. Qualcuno è schioppato, qualcuno è diventato artista, qualcuno ha fatto i soldi, qualcuno no. Normale, come è dalla notte dei tempi. Il cambiamento lo facciamo tutti, tutti insieme ogni giorno.

Io che di figli ne ho tre, ogni giorno a pranzo e cena per incoraggiarli a studiare, impegnarsi a non far cazzate, li guardo negli occhi e ripeto loro “Non avete futuro!” e poi sputazzo loro in faccia per prepararli al domani. Loro mi guardano, mi compatiscono, e poi in un ottimo dialetto mi rispondono: “Mo’ va a caghèr..!”.

 

 

 

 

 

Uovo di Pasqua

Sotto l’albero di Natale abbiamo trovato il ritiro del vecchio satiro plastificato, nell’uovo di Pasqua la caduta rovinosa del patetico guitto che ha condotto la lega (che, come dice mio figlio, non merita neppure la maiuscola) ha dare il suo contributo allo scassamento del povero paese. Bene. Buona Pasqua. Però. Sono caduti i capi, i vice si stanno scannando, i famigli cercano di salvare l’argenteria e le playstation, ma tutto rimane come prima. Questi satiri, questi buffoni da bar, questi lusi-belsito qualcuno li aveva messi sulle loro poltrone, qualcuno li aveva votati. Loro sono caduti, fuggiti, carcerati ma i milioni di elettori sono ancora a piede libero, pronti al nuovo leader, al nuovo Masaniello, a destra come (purtroppo) a sinistra. Dopo la caduta berlusconiana, riflettendo con i miei 25 lettori, richiamavo tutti alla necessità del rigore, della serietà, dell’autocritica, perchè in quella stagione di guano che si stava concludendo in qualche modo c’eravamo finiti dentro tutti. Invece no. E’ ripresa la solita giostra, ognuno a difesa del suo pitale mezzo vuoto (o pieno cambia poco) a replicare coattivamente parole, riti, concetti che il tempo ha prima logorato e poi resi inutili. Ognuno a volere tutto e a volerlo subito, ognuno in preda alla sindrome del NIMBY (not in my backyard): riforme? Sì, ma prima quella degli altri…Sacrifici? Sì, però prima lui/lei/loro…

Ho preso aspre rampogne anche da quella che considero la mia parte, additato come un “NP” (nemico del popolo), solo perchè ho suggerito che c’era altro nel mondo e in un paese che non funziona che l’art.18, ricordando che in oltre 25 anni di lavoro (onorato, credo) non ho mai sentito una volta vicino ai miei problemi alcuna forza sindacale. Continuiamo ad affrontare problemi del XXI secolo con parole nate nel XIX (riformista/massimalista/padrone), con analoghi strumenti di lotta (sciopero) e con la medesima mentalità (il complotto, il conflitto…). Allora si bloccavano le ferrovie oggi le autostrade ma la mentalità è-ahimè- cambiata ben poco. Ci indignamo per i rimborsi elettorali spaventosi (con cui davvero potremmo fare qualcosa per i giovani) però non ci indignamo se i partiti che ancora votiamo  (non si sa se per abitudine o per masochismo) al massimo propongono la riduzione dei decimali a quegli stessi rimborsi. Parliamo di casta e poi non pretendiamo che almeno i nostri eletti si dimezzino-qui e ora- i loro assurdi stipendi. o che torni un poco di democrazia nella gestione delle nostre città. Come si diceva una volta “Signora..viene la rivoluzione e non ho niente da mettermi…!”.

Cambiare giacca è facile, partito anche, ma cambiare mentalità e morale è quasi impossibile. Abituati al tifo da curva sud, alla difesa eterna del nostro “particulare”, risulta difficile sederci a un tavolo e ragionare, ripartire da noi, applicare una sano e diverso  NIMBY (NOW in my back yard), almeno per salvare noi stessi perchè gli altri e il mondo è tutta un’altra questione. Non ci riuscirono i partigiani scesi dalle montagne un aprile di tanti anni fa. Anzichè ragionare su cosa avrebbe dovuto cambiare (e sul perchè non è cambiato), sul fatto che quei 20 mesi portavano in sè i germi di una rivoluzione morale che non ci fu,  stiamo ancora a perdere tempo a discutere con i fascisti se ci fu qualche morto in più o in meno, dedichiamo il 25 aprile alla lotta contro la mafia anzichè ricordare che quel 25 aprile avrebbe comportato anche la sconfitta della mafia se fosse andato avanti. Tranne poi, ovviamente, dimenticarci del 25 aprile e della mafia il giorno dopo.

Buona Pasqua, comunque, a Fortezza Bastiani tira il vento e le gocce di pioggi battono sui vetri, ierisera ho mangiato la cena di Pessach, ho bevuto i quattro calici di vino, ho mangiato il “maror”, le erbe amare. Una lattuga, le prime foglie sono dolci poi mentre si procede all’interno il gusto è sempre più amaro. Come la schiavitù che all’inizio può essere anche rassicurante, con tutte le responsabilità nelle mani del “padrone”, ma poi diviene insopportabile. Buona Pasqua.

Un paio di cose su Sanremo (Luca Sofri)

18232760_sanremo-tutto-il-festival-minuto-per-minuto-0.jpgLa prima serata di Sanremo ha fatto i record di ascolti, e mi permetto di dire che me l’ero immaginato. Ieri sera, vedendone pochi sprazzi e leggendo i feedback su Twitter, capivo sì che era uno spettacolo straordinariamente deprimente e imbarazzante, ma capivo anche che lo stavano guardando quasi tutti. E mi veniva da pensare, dei miei amici quelli con l’alibi “Sanremo fa così schifo che va visto”, e che ora twittavano che non ci potevano credere, a quanto faceva schifo; mi veniva da pensare: ma non guardiamo la tv praticamente mai, l’abbiamo abbandonata con soddisfazione a un pubblico poco esigente o senza possibilità di scelta, o disabituato a qualunque qualità, e poi quando la accendiamo ci meravigliamo che quel che troviamo sia di totale mediocrità? Che vi aspettavate, Sorkin? Nanni Moretti?

Questo è il disastro dei contenuti editoriali italiani, dall’informazione all’”intrattenimento”: tutti si sono dedicati per anni a battaglie politiche sull’”indipendenza”, sulla “libertà”, sul “pluralismo”, come se ci fossero i cattivi da una parte e i buoni sconfitti dall’altro.

Protestavamo contro l’eliminazione di Santoro e accettavamo le trasmissioni pomeridiane, Miss Italia e la povertà di Porta a porta. Protestavamo contro gli editoriali di Minzolini ma ci limitavamo a sorridere dei servizi sui cagnolini o i banchetti di natale al telegiornale. E intanto infatti il disastro vero era lo scadimento della qualità delle cose da ogni parte, compresa quella dei “buoni”, il fine che giustificava i mezzi, l’informazione fatta male da ogni parte e l’intrattenimento idem, con poche eccezioni.

Là fuori è pieno di combattivi difensori della democrazia e della libertà che fanno le cose male, con metodi e risultati pessimi e diseducazione di tutti. Con la straordinaria sanzione di ieri sera: quando i temi presunti della difesa della libertà, dell’indipendenza e della democrazia popolare sono diventati oggetto del peggiore prodotto di intrattenimento televisivo mai visto: scopa. Nel senso del gioco di carte. E noi tutti lì a guardare e dire che schifo.

http://www.wittgenstein.it/2012/02/15/un-paio-di-cose-su-sanremo/

 

Dove va oggi l’istruzione? (Martha Nussbaum)

di Martha C. Nussbaum (la Repubblica,15.04.2011)

cop.aspx.jpegDove va oggi l’istruzione? Non si tratta di una domanda da poco. Una democrazia si regge o cade grazie al suo popolo e al suo atteggiamento mentale e l’istruzione è ciò che crea quell’atteggiamento mentale. Malgrado ciò, assistiamo a cambiamenti radicali nella pedagogia e nei programmi scolastici, sia nelle scuole che nelle università, cambiamenti sui quali non si è riflettuto a sufficienza.

La maggior parte dei Paesi moderni, ansiosi di crescere economicamente, hanno cominciato a pensare all’istruzione in termini grettamente strumentali, come ad una serie di utili competenze capaci di produrre un vantaggio a breve termine per l’industria. Ciò che nel fermento competitivo è stato perso di vista è il futuro dell’autogoverno democratico.
Come Socrate sapeva molti secoli fa, la democrazia è «un cavallo nobile ma indolente». Per tenerla sveglia occorre un pensiero vigile. Ciò significa che i cittadini devono coltivare la capacità per la quale Socrate diede la vita: quella di criticare la tradizione e l’autorità, di continuare ad analizzare se stessi e gli altri, di non accettare discorsi o proposte senza averli sottoposti al vaglio del proprio ragionamento.

Oggi la ricerca psicologica conferma la diagnosi di Socrate: la gente ha la preoccupante tendenza a sottomettersi all’autorità e alle pressioni sociali. La democrazia non può sopravvivere se non poniamo un limite a questi pericolosi atteggiamenti, coltivando l’attitudine a pensare in modo curioso e critico. Fin dal tempo in cui Socrate esortava gli ateniesi a non «vivere una vita senza indagine», sono soprattutto gli studi umanistici, e in particolare la filosofia, a permettere di coltivare tali capacità.
Coltivare l’argomentazione di Socrate favorisce inoltre un sano rapporto tra i cittadini nel momento in cui essi discutono di importanti questioni all’ordine del giorno. I mezzi di comunicazione moderni amano le frasi lapidarie e la sostituzione di un’autentica discussione con l’invettiva. Ciò crea una cultura politica degradata.

In un corso di filosofia, invece, gli studenti imparano a sviscerare l’argomentazione dell’avversario e a chiedere quali sono gli assunti sui quali essa si basa. Nel fare ciò, spesso gli studenti scoprono che le due parti, in realtà, hanno molto in comune e sorge in loro la curiosità di vedere in cosa realmente essi divergono, anziché considerare la discussione politica semplicemente un mezzo per segnare punti a favore della propria squadra e di umiliare l’avversario. La filosofia contribuisce così a creare uno spazio realmente deliberativo e questo è ciò di cui abbiamo bisogno, se vogliamo risolvere gli enormi problemi che affliggono tutte le democrazie moderne.

Ai cittadini occorre anche la conoscenza della storia, i fondamentali delle principali religioni e del modo in cui funziona l’economia globale. Ancora una volta, gli studi umanistici sono essenziali a questo sforzo di comprensione globale: lo studio della storia del mondo e delle principali religioni, lo studio comparato della cultura e la comprensione di almeno una lingua straniera, sono tutti elementi essenziali nel favorire una sana discussione circa i pressanti problemi del mondo. Inoltre, questo insegnamento storico deve includere un elemento socratico: gli studenti devono imparare a valutare l’evidenza, a pensare da soli sui diversi modo in cui essa può essere collocata e messa in atto nella realtà attuale. Perciò, per realizzare un’idea soddisfacente di cittadinanza globale, abbiamo bisogno anche della filosofia. Infine, i cittadini devono essere in grado di immaginare come appare il mondo agli occhi di coloro che si trovano in una situazione diversa dalla loro. Gli elettori che prendono in esame una proposta che interessa gruppi diversi (razziali, religiosi, ecc.) all’interno della loro società, devono essere in grado di immaginare le conseguenze che tali proposte hanno sulla vita delle persone reali e ciò richiede un’immaginazione coltivata. In che modo si coltiva l’immaginazione? Tutti noi veniamo al mondo muniti di una rudimentale capacità di positional thinking, di pensare dal punto di vista degli altri, ma tale capacità, solitamente, opera in un ambito limitato, nella sfera familiare, e richiede un ampliamento e un perfezionamento intenzionali. Questo significa che abbiamo bisogno della letteratura e dell’arte, attraverso le quali raffiniamo quello che il grande romanziere afro-americano Ralph Ellison definiva il nostro “occhio interiore”, imparare a vedere coloro che sono diversi da noi non soltanto come un minaccioso “altro” ma come esseri umani totalmente eguali, con aspirazioni e obiettivi propri.

Ciononostante, in tutto il mondo, gli studi umanistici, l’arte e persino la storia vengono eliminati per lasciare spazio a competenze che producono profitti, che mirano a vantaggi a breve termine. Quando ciò avviene, le stesse attività economiche ne risentono, perché una sana cultura economica ha bisogno di creatività e di pensiero critico, come autorevoli economisti hanno sottolineato. Di recente, la Cina e Singapore, Paesi che certamente non hanno a cuore lo stato di salute della democrazia, vedendone l’importanza ai fini dell’innovazione e della creazione di un ambiente di lavoro non corrotto, hanno attuato vaste riforme dell’istruzione, tali da conferire maggiore centralità agli studi umanistici e all’arte, sia nei programmi scolastici che in quelli universitari. Dunque, nel lungo termine, la contrazione dell’istruzione in realtà nuoce al benessere economico.

Anche laddove ciò non accade, gli studi umanistici e l’arte sono essenziali per il genere di governo democratico che le nazioni hanno scelto e per il tipo di società che esse desiderano essere. Dobbiamo opporci con forza ai tagli agli studi umanistici, sia nell’istruzione scolastica che in quella superiore, affermando con fermezza che tali discipline apportano elementi senza i quali le democrazie moderne, come quella ateniese prima di Socrate, sarebbero ancora una volta dominate da una mentalità gregaria e dalla deferenza verso i capi carismatici. Questo sarebbe uno scenario terribile per il nostro futuro.

Zygmunt Bauman: “Rom, eterni stranieri. Quindi colpevoli”

Intervista di Maria Serena Natale, Corriere della Sera, 20 ottobre 2010

Precarietà esistenziale, migrazioni incrociate, paura dello straniero. Zygmunt Bauman, l’eminente sociologo polacco teorico della «modernità liquida» nata dalla fine delle «grandi narrazioni», inquadra il caso rom nella riflessione sull’«età delle diaspore e il sentimento d’incertezza che caratterizza le nostre società, diventato fonte di legittimazione alternativa per lo Stato contemporaneo».

Professor Bauman, quali meccanismi vede dietro la linea dura di Sarkozy?
«Additare lo straniero come responsabile del malessere sociale sta diventando un’abitudine globale. Nel caso delle espulsioni è in gioco il conflitto inseriti-outsider esaminato mezzo secolo fa da Norbert Elias: più di amici e nemici, gli outsider sono imprevedibili, il senso d’impotenza che deriva dall’incapacità di intuire le loro risposte ci umilia».

Con i rom la dinamica è amplificata?
«Sì, perché sono percepiti come perpetui stranieri, colpevoli fino a prova contraria, preceduti da storie di criminalità più o meno accertate ma assenti dai luoghi deputati alla formazione delle opinioni, privi di élite capaci di promuovere le ragioni delle comunità».

Le ansie legate ai flussi migratori sono un tratto dominante di quella che lei descrive come una diaspora universale.
«Oggi assistiamo a ondate migratorie organizzate per arcipelaghi planetari e interconnessi di insediamenti etnici, religiosi, linguistici. Ogni Paese è virtualmente bacino di emigrazione e meta di immigrazione, le rotte non sono più determinate da legami imperial-coloniali: queste diaspore frammentate e trasversali ci impongono di ridefinire il rapporto tra identità e cittadinanza, individuo e luogo fisico, vicinato e appartenenza».

Come risponde la politica?
«Lo Stato contemporaneo proclama come primo compito del potere la rimozione dei vincoli alle attività orientate al profitto. Diventa così prioritario per i governi trovare al senso di vulnerabilità dei cittadini cause non riconducibili al libero mercato ma a rischi di altra natura. La priorità è la sicurezza, minacciata da pericoli per la persona fisica, la proprietà e l’ambiente che possono venire da pandemie, attività criminali, condotte anti-sociali di sottoclassi, terrorismo globale ma anche da gang giovanili, pedofili, stalker, mendicanti, regimi alimentari insani».

Uno stato d’allerta permanente.
«Nel quale è impossibile sapere dove e quando le parole diventeranno carne. La mancata materializzazione di una catastrofe paventata è presentata come il trionfo della ragione governativa su un fato ostile, risultato di vigilanza e cura delle autorità».

Come va ridefinito il patto sociale?
«La migrazione universale porta in primo piano e per la prima volta nella storia l’arte del convivere con la differenza. Un’alterità non più concepita come transitoria richiede un ripensamento delle reti sociali, più tolleranza e solidarietà, nuove abilità e competenze».

E come s’innesta questa differenza radicale sul terreno del multiculturalismo?
«Forme di vita antagoniste si fondono e separano in una generale assenza di gerarchie: non valgono più ordini di valori consolidati né il principio di evoluzione culturale ma si sviluppano battaglie per il riconoscimento interminabili e non dirimenti».

In che modo risponde la democrazia?
«Ha abdicato alla funzione di scoraggiare il ritrarsi dei singoli nella sfera privata, rinunciato a proteggere il diritto delle minoranze a una vita dignitosa. La democrazia non può fondarsi sulla promessa dell’arricchimento. Il suo tratto distintivo è rendere servizio alla libertà di tutti. Ha di fronte una sfida senza precedenti: elevare i principi della coesistenza democratica dal livello degli Stati-nazione a quello dell’umanità planetaria».

(20 ottobre 2010)

Antipatico 2

La sinistra impose in tv la sottocultura
di Marcello Veneziani

La sinistra continua a raccontare la favola di un’Italia imbarbarita dalle tv di Berlusconi. Ma l’egemonia della volgarità parte da più lontano. Prima di Amici c’era Carramba. E prima di Zelig vennero i film di Franco e Ciccio

C’era una volta un’Italia bella che viveva all’ombra dell’egemonia culturale della sinistra. Poi arrivò la destra neoliberista e il popolo passò da Gramsci al gossip, e si abbruttì sotto l’egemonia sottoculturale del berlusconismo. Dall’intellettuale collettivo la bella Italia degradò al regno delle veline, dei tronisti, delle iene, dei grandi fratelli. Questa è la favola che ci viene raccontata ogni giorno dai piangenti cantori della barbarie italiana, di cui è uscita di recente anche una summa intitolata appunto L’egemonia sottoculturale di Massimiliano Panarari, edito da Einaudi (che, guarda un po’, è di proprietà berlusconiana).

È una favola reazionaria per nostalgici progressisti che vagheggiano un mondo che non c’è mai stato. Perché l’egemonia culturale della sinistra c’è stata e c’è ancora, ma non è mai stata egemonia della cultura popolare. È stata ed è un’egemonia che esercita il suo dominio nell’ambito delle minoranze intellettuali e dei poteri culturali; ma non ha mai pervaso il sentire comune. E quando dominava il gramscismo nella cultura, al potere c’era la Democrazia cristiana, il capitalismo degli Agnelli e dei Cuccia, la protezione della Nato. Quando Gramsci andava forte, la cultura popolare del nostro Paese era nelle mani di Mamma Rai di Ettore Bernabei, dei suoi sceneggiati e del suo intrattenimento, di Santa Madre Chiesa con le sue parrocchie e i suoi oratori, e del fantastico mondo di Sanremo, un disco per l’estate, Canzonissima, Miss Italia, tutto il calcio minuto per minuto, la Lotteria e il Lotto. Quando non c’era ancora la De Filippi con la tv berlusconiana c’era la Carrà sulla tv di stato, nel suo viaggio dal tuca tuca a Carramba che sorpresa. Se la tv è oggi quella corrida a cui l’avrebbe ridotta il berlusconismo, secondo Umberto Eco, è perché c’era in Rai la Corrida di Corrado che coglionava i dilettanti allo sbaraglio, alimentando narcisismo e derisione. Quando in tv non c’era Zelig berlusconiano, in Rai c’erano Franco e Ciccio; erano forse più colti e gramsciani? Se la De Filippi evoca in Panarari addirittura Nietzsche, allora Fantozzi è l’erede di Marx. E poi che senso ha attribuire questo mondo alla destra neoliberista: il Gramsci dell’egemonia sottoculturale è stato Maurizio Costanzo, nato e cresciuto in Rai e sdoganatore di opinioni, vizi e gusti «de sinistra», salvo l’ossequio all’editore. Simona Ventura, «la protovelina» per eccellenza secondo Panarari, veicola una sottoideologia antiberlusconiana, vagamente sinistrese. E molti comici e cineasti dell’era volgare berlusconiana sono succedanei gramsciani da sballo.
Alberto Asor Rosa scorge nel Grande Fratello l’ideologia dominante dell’Italia berlusconiana: chi glielo dice al Professore che il format è stato importato dalla progressista Olanda e ha fatto il giro del mondo? Chi glielo dice ai predicatori dell’Italia perduta che Amici, il becero format di Maria De Filippi, non nasce dalle viscere del berlusconismo ma è un format inglese, Pop Idol, importato in tutto il mondo, che va forte anche nell’ex sovietico Kazakistan? O che le telenovelas, la tv dei palestrati e delle rifatte, non vengono fuori dal lifting berlusconiano ma dalla tv sudamericana, colombiana e brasiliana in particolare? E quanto viene attribuito al berlusconismo, da Drive in alle sit com e ai reality, è in realtà made in Usa, cioè figlio dell’internazional-popolare?

Ma poi vi ricordate quante canzoni stupide, quanti filmazzi idioti, quanta comicità demente c’erano nell’Italia «gramsciana» degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta? Non era anche quella egemonia sottoculturale di massa? E quando Pier Paolo Pasolini voleva spegnere la stupida tv e piangeva le macerie morali e spirituali non c’era ancora la tv commerciale e Berlusconi andava ancora per crociere. E quando Eco scriveva la fenomenologia di Mike Bongiorno non c’era ancora il biscione ma la sua tv era la Rai di Stato. Quanto al gossip il nome è nuovo ma la molla è antica: si chiamava pettegolezzo e una volta si applicava al condominio o al villaggio locale. Ora si applica a internet e al villaggio globale. C’è un degrado? Sì, lo credo anch’io, ma perché discendiamo da quei presupposti e in discesa tutto acquista velocità.

Allora riassumiamo: l’egemonia sottoculturale accompagna la società consumistica di massa dal suo nascere e non è un frutto dell’anomalìa italiana e del berlusconismo. È piuttosto legata al sorgere e allo svilupparsi della tv, all’americanizzazione del mondo, al primato assoluto del vivere e del piacere, del divertirsi e dell’apparire. Sul caso italiano sono anch’io convinto che le tv commerciali abbiano contribuito a involgarire i gusti e i linguaggi, in una gara al ribasso. Ma l’egemonia sottoculturale della volgarità è descritta da Ortega y Gasset, già nel 1930, ne La ribellione delle masse.

Sul caso italiano vorrei infine che fossero considerate tre cose. Uno: quanto ha contato in questa trivializzazione di gusti e linguaggi, l’orda liberatoria del Sessantotto, e il passaggio dalla società inibita e pudica alla società esibizionista e volgare? Due, il Panarari rimpiange il Pci che «teneva sveglia la ragione»; ma quanto ha contato sull’edonismo degli anni Ottanta la voglia di fuggire dagli anni di piombo, dai totalitarismi, i gulag e le persecuzioni, il manicheismo cupo e intollerante degli anni settanta? Non fu una liberazione Drive in, Quelli della notte e loro succedanei, dal peso funesto della storia? E infine: parlate di egemonia sottoculturale; ma la cultura dov’è, come reagisce a questa egemonia, che opere sforna, come sa parlare alla gente, cosa indica di positivo oltre la dissoluzione, il nichilismo, la morte di Dio, della filosofia, della tradizione, della famiglia e della comunità? Non offre nulla. E poi non lamentatevi se qualcuno quel nulla poi lo vuole perlomeno divertente.

http://www.ilgiornale.it/cultura/la_sinistra_impose_tv_sottocultura/05-08-2010/articolo-id=465427-page=1-comments=1