Don Antonelli al card. Bagnasco: “Su Berlusconi il silenzio complice e immorale della Chiesa”

Signor Cardinale,

mi rivolgo a Lei come Presidente della Conferenza Episcopale Italiana per esprimerle il mio disagio e porle delle domande.

In questi ultimi tempi si è andata ingrossando la valanga di volgarità e di oscenità che già da tempo investe il paese Italia e che sta cancellando, ogni giorno di più, ogni traccia di pudore, senso del limite, coscienza di dignità e che ha imposto un degrado dell’etica pubblica, insomma tutte quelle virtù che con fatica noi parroci cerchiamo di impiantare e tener vive nell’anima dei nostri fedeli.
Da tempo anche i laici più avvertiti lamentano i pericoli di questa deriva, se già nel lontano 2007 Eugenio Scalfari su Repubblica denunciava il pericolo di un andazzo che “vellica gli istinti peggiori che ci sono in tutti gli esseri umani. Impastando insieme illusorie promesse, munificenza, bugie elette a sistema, tentazioni corruttrici, potere mediatico. Una miscela esplosiva, capace di manipolare e modificare in peggio l’antropologia di un intero paese” (Repubblica, 5.11.2007).
Il disagio di fronte a questo stato di cose è ancor più esacerbato dalle cene allegre del segretario di Stato, dalle parole equivoche di Mons. Fisichella e dal silenzio correo di Lei, presidente della CEI.
Soprattutto le parole di contestualizzazione di mons. Fisichella che mirano a giustificare ciò che invece bisognerebbe condannare e i Suoi silenzi prudenziali che tendono a “coprire” ciò che non si può più tacere, appaiono a noi, parroci di periferia, inequivocabilmente immorali e omicidi.
Noi, cui le bestemmie dei violenti fanno meno paura che il silenzio degli onesti.
Cosa altro deve avvenire perché finalmente si oda il Vostro grido e la Vostra condanna? Quale maledizione perché Voi Vescovi finalmente parliate? Il disagio, alla base, è grande.
E in questo disagio si fa strada lo smarrimento, lo sconcerto, la desertificazione degli orizzonti, il dubbio di non essere più all’altezza delle problematiche che la realtà impone. E sorgono delle domande, grosse e gravi come macigni.
Sinteticamente, per non trattenerla oltre il dovuto, ne enumero tre.

1. Circa le parole di mons. Fisichella, le chiedo: ci possono essere situazioni nelle quali la bestemmia diventa lecita? E, nel caso, quali sono? Noi parroci vorremmo conoscerle queste situazioni, individuare questi contesti, anche per risparmiare ai nostri fedeli inutili rimorsi di coscienza…
2. Sempre in tema di “contestualizzazione” le chiedo: perché questa “accortezza cautelativa” è stata usata per Berlusconi mentre è stata accantonata per casi ben più gravi e drammatici come per Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro? Forse che nell’applicazione della legge morale, anche nella Chiesa esistono corsie preferenziali per l’imperatore ed impraticabili ai comuni mortali?
Ricordo che per i funerali religiosi di Welby, vergognosamente vietati dalla chiesa, fui contattato dai familiari per una benedizione in aperta piazza; declinai l’invito, ricorrendo quel giorno la Domenica della Palme, ma anche per una mancanza di coraggio di cui oggi mi vergogno.
3. Quanto ai suoi silenzi, che sembrano programmati al fine di barattarli con vantaggi corposi circa, per es., il finanziamento delle scuole cattoliche, le chiedo: che differenza c’è tra una prostituta che vende il corpo per danaro ed una chiesa che, sempre per danaro, svende l’anima? Nella mia sensibilità morale una differenza c’è: una donna povera ha comunque il diritto a vivere, mentre la chiesa, per vivere, memore delle parole del suo Maestro, deve pur saper morire.

Questa lettera, signor Cardinale, la invio, per conoscenza, anche al mio Vescovo e resterà fraternamente “riservata”.

Voglio sperare in una sua pronta risposta.

In caso contrario mi sentirò libero di farla conoscere ai miei parrocchiani e a quanti frequentano la chiesa per la quale svolgo servizio.

Antrosano, 4 Novembre 2010

(23 novembre 2010)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/su-berlusconi-il-silenzio-complice-e-immorale-della-chiesa-lettera-aperta-di-don-aldo-antonelli-al-card-bagnasco/

Tre pensierini sul PD

tre_scimmiette-713365.jpgSolo tre pensierini-ini sul PD.

1. Il PD è nato dalla fusione fra DS e DL. C’era chi votava DS (e quindi non votava DL) e chi votava DL (e quindi non votava DS). All’improvviso tutti hanno votato tutti. Gli stessi elettori (e fin qui tutto bene) dovevano votare gli stessi candidati (e qui non tutto va bene). Qualcuno ha inghiottito il rospo, qualcuno non ce l’ha fatta. Non potendo votare i legoidi o i berluscones, avviliti dalla sinistra estrema (meglio, esterna al reale) se ne sono stati a casa. Chi si aspettava la logica: partito nuovo, gente nuova, è rimasto con l’amaro in bocca. Gli altri si sono dovuti fare una ragione dei paradossi della vicenda. Io che non avevo mai votato a.e. Fioroni (e non lo voterei nemmeno con la pistola alla nuca) mi sono ritrovato ad appoggiare quella lista che comprendeva non solo Fioroni, ma la Binetti, D’Alema, LaTorre, etc… Mi stupisco di avercela fatta, sono davvero un uomo di marmo (sfpd) ma anche il marmo prima o poi cede alle ingiurie del tempo..

2. Il PD ha radici ebraiche? Come noto, l’ebraismo non pratica il proselitismo, in termini cristiani non evangelizza, si nasce ebrei e chi vuol convertirsi lo fa per scelta personale. Al PD interessano nuovi iscritti, militanti, persone interessate a spendersi in un’attività “politica”? Pare di no. Sottoscritto a parte, poco rappresentativo da molti punti punti di vista, conosco decine di amici/elettori ai quali mai nessuno è andato a chiedere: “Perchè non ti iscrivi?”. Chissà perchè? Forse perchè era gente in gamba e non si sarebbe accontentata di portar borse ai soliti noti, mediocri di lungo corso? Mah, scusate il brutto pensiero ma, come sa chi mi conosce, sono cattivo d’animo perchè ho avuto un’infanzia difficile…

3. E’ difficile conoscere il reale, figurarsi cosa pensa il PD su varie questioni, tanto che ci nasce il dubbio di una svolta sartriana incentrata sul programma “Essere e nulla”. Ma la domanda che uno si pone è: la politica culturale del PD a Reggio Emilia coincide con quella dell’amministrazione del Comune capoluogo? Se sì, grazie tanto: alla prossima tornata elettorale vi aspetto tutti a Fortezza Bastiani per una buona grigliata (portate la carne, il vino ce lo metto io), se no: cosa cappero ci sta a fare il PD di fronte allo sfascio in corso? Nisi unum aliud, tertium non datur…

Cronaca di una fine annunciata

romolo_il_grande_una_commedia_storica_che_non_si_attiene_alla_storia.jpgIl vecchio satiro è incerto fra tristezza, disperazione e furore. Dietro le quinte briga, agita minacce e bonifici estero su estero. Ma, forse, e soprattutto, non capisce. Ma come, lui che ha pagato tutti (destra e sinistra), uomini, donne, trans, ninfo, persino lelemora, lui che ha donato gioia e bellezza a questo povero mondo, ora si trova sempre più solo, pur ancora nella folla di servi, nani, puttane e ballerine? Lui, che ha fatto rifare braccia, nasi e piselli alle statue romane così tristi nella loro incompiutezza, lui che ha valorizzato la bellezza (pur secondo canoni da bordello piuttosto che da Louvre), adesso vede sfaldarsi il sogno che ha costruito per sè e per tutti (almeno per quelli che ci hanno creduto gratis o a tariffa). Qualunque psicologo da parrucchiera vi direbbe che dietro al suo furore in fondo c’è solo la disperazione per l’imminente, anzi già ben avviato, crollo, la dissoluzione fisica prima che politica. E’ la Commare secca, per dirla con Pasolini e Bertolucci, che lo guarda, lo aspetta con la pazienza dell’eterno vincitore.

Nella Roma imperiale, al momento del trionfo, sul carro del vincitore che sfilava fra ali di folla entusiasta, dietro a lui a reggere sul suo capo la corona d’alloro c’era un liberto con un compito preciso: sussurargli nell’orecchio il mantra “Ricordati che sei un uomo”. Oggi in trionfo, domani, magari a nutrire vermi e mosche. Ma i dittatori non conoscono incertezze, gli imperatori finirono tutti, chi a fil di spada, chi sistemato da funghi provvidenziali (Claudio) quando la loro presenza era divenuta ormai un ingombro per tutti, servi lanciati a rifarsi una verginità, avversari pronti a prenderne il posto, a scimmiottare, poco dopo, la stessa crudele inutilità.

Ora anche Mara, l’icona del berlusconismo, del sogno che rendeva possibile ogni traguardo, uniche doti: gioventù, bellezza e disponibilità, anche lei è in partenza. con i suoi occhioni spalancati sul mondo, nella sorpresa prima (“io, sono ministro..?”) poi nella rivelazione (“il PdL è dominato da affaristi!..). L’impero romano era finito almeno da un secolo, ci volle Odoacre a deporre Romolo Augustolo (che potè occuparsi delle amate galline) qui chi arriverà, e quando? E dove fuggirà il vecchio imperatore, il cinghialone aveva solo Hammamet (dilettante..), magari passeremo ancora qualche mese a cercarlo nelle sue decine di palazzi, ville, resort, castelli, sparsi per il mondo, in quel mondo che non ha capito il suo grande progetto di bellezza, gioventù e felicità. Solo la Commare secca saprà dove trovarlo quando sarà ora, chissà se gli apparirà come Mara, Ruby, Natascha, Deborah…A dire il vero, come dicono a Roma, “nun ce ne potrebbe fregà de meno..”

p.s. per par condicio: come finiranno i degni epigoni del vecchio satiro, i solerti “oppositori”? In barca a vela verso l’ignoto? O ancora a scannarsi per gli ultimi brandelli di potere, a perdere le ultime primarie del lotto? Dopo Romolo Augustolo arrivarono i barbari, noi lo siamo già diventati grazie a lui, insieme a lui. Intere generazioni tagliate fuori, le più giovani scampate all’estero. Anche noi a raccattare quattro stracci per tirare avanti, fino all’ultimo libro letto, l’ultima giornata vissuta.

Quanto pesa il vaticano (Bruno Tinti)

FotoVaticano.jpgUna parte del lavoro che faccio adesso consiste nell’andare in giro per partecipare a dibattiti organizzati da associazioni culturali, librerie e, qualche volta, da partiti.
La settimana scorsa sono andato a Trieste, in una libreria fantastica: grandissima, piena di libri insoliti, con un bar fornito di cose buonissime e di vini superlativi. Tra il pubblico c’era un cittadino americano che parlava un ottimo italiano e che, non so per quali ragioni, era molto interessato ai fatti nostri. In particolare aveva un’ottima competenza giudiziaria e, siccome io avevo messo a confronto il nostro sistema con quello statunitense, concludendo che il nostro era comunque assai migliore, mi ha mosso alcune significative obiezioni, molto tecniche. La gente ha partecipato molto, il che in fondo mi ha stupito: ma guarda che fame di informazioni, ho pensato.

Dove la cosa si è fatta interessante è quando questo signore ha spiegato che, secondo lui, il nostro problema sta nel fatto che siamo cattolici e, in particolare, che in Italia c’è il Vaticano, il Papa, una gerarchia ecclesiastica molto attiva politicamente etc. etc. Ha continuato dicendo che noi abbiamo tante leggi, la maggior parte inutili (ho condiviso entusiasticamente), perché è nella nostra formazione culturale quella di farci guidare dall’esterno, da leggi o persone che ci dicano cosa è giusto e cosa è sbagliato. Mentre nei Paesi anglosassoni, che sono a maggioranza protestante, le leggi sono in numero infinitamente minore, i processi si basano su precedenti decisioni da cui ci si discosta solo in casi eccezionali e le regole etero imposte (insomma i casi in cui si dice al cittadino cosa fare e cosa non fare) sono pochissime. E questo perché, ha concluso, i protestanti hanno una cultura diversa, un codice etico e civico di cui si considerano depositari e responsabili; e le cui violazioni costituiscono un’incoerenza verso se stessi, non una trasgressione a comandamenti esterni.

La cosa mi è piaciuta molto e ho cercato di spiegare che proprio questo sostanziava la differenza fondamentale tra il nostro codice di procedura penale e quello americano: noi abbiamo la sentenza, dove il giudice spiega quali leggi ha seguito, come le ha interpretate e dunque perché ha preso quella decisione. Negli Usa hanno il verdetto, cioè la decisione tout court: ti condanno, ti assolvo; ma la giuria non spiega quali ne sono stati i motivi. In effetti, la giuria è il popolo; e il popolo, etico – diciamo così – per natura e non per obbedienza, non ha bisogno di spiegare.

La cosa più divertente per lo sconcerto che ha provocato è arrivata alla fine. Il mio amico (a questo punto così lo consideravo) ha detto: “Il problema vostro è la confessione. Voi vi comportate male ma poi avete il vostro mediatore privato con Dio. Andate da lui, gli raccontate tutto e vi dichiarate pentiti. E lui vi perdona e vi dice: va e non peccare più. Non aggiunge, ma è implicito, però se pecchi torna qui che l’aggiustiamo. Da noi, se uno si comporta male il problema è serio. Che fa, si autoassolve?”.

Mi è piaciuta molto. Chissà che ne pensano i miei 25 lettori?

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/19/quanto-pesail-vaticano-una-parte-del-lavoro-che/77630/

Hellzapopping Italia

HELLZAPOPPIN.jpgHellzapopping era un bel film comico del 1941, anzi non un film, Hellzapopping ma un insieme di gags, di trovate esilaranti, di numeri comici divertentissimi. La trama, piuttosto esile, è infatti la storia di un giovane autore che deve convincere un produttore a finanziare il suo spettacolo. Il pretesto per far succedere tutto e di più, lanciare gags spassose. Insomma l’Italia di fine Impero di questi giorni. Un paio di chicche.

Sport: La Ferrari perde il mondiale, o meglio Vettel e la Red Bull si aggiudicano meritatamente il titolo. alonso arriva solo 7° per un’errore di strategia dei box. Bene (per lo sport), male per i tifosi. Tutto regolare. Così stamattina nei bar ci sarà qualcosa su cui discutere. E invece. Invece quell’incrocio fra un paracarro e un paio di bermuda che sta sotto l’identità del sedicente ministro Calderoli (scusate la parolaccia) che ti fa? Già in serata chiede le immediate dimissioni di Montezemolo! Sublime. E dell’ingegnere che ha deciso ai box che ne facciamo? Impiccagione in Val Brembana? Impalamento sul Monviso? Pare che dietro alla genialata padana ci sia in realtà: a. Mettere fuori gioco il Montezemolo da una possibile successione al vecchio satiro esploso (non in pista ma nell’alcova); b. Stoppare l’operazione immobiliare e miliardesca del GP a Roma, per tutelare il lumbard autodromo di Monza. Insomma, alta politica.

Successione al vecchio satiro 2: il destino batte alle porte (e anche i carabinieri), l’imperatore azzurro (con perchè venga da Pandora/Avatar ma per l’uso smodato di pilloline azzurre) forse dovrà lasciare il trono e allora che ti propone Sallustj (scusate l’oscenità), quello che sembra il cugino cattivo di Heydrich? Semplice, come in tutte le buone vecchie monarchie: il sovrano abdica? C’è l’erede al trono, anzi l’ereda: Marina I berlusconi! Domanda: ma a Sallustj le battute chi gliele scrive? Bombolo?

Colleghi: Rocco Siffredi, noto per le sue prestazioni virili (almeno lui ci ha sempre messo …la faccia) lancia in un messaggio su Youtube un apello al vecchio satiro: “Siamo colleghi, sei sessuomane? Posso aiutarti!” Quando si dice la carità cristiana..Altro che il buon samaritano, qui siamo al buon sibarita, roba fina insomma!

Bufale e falsità, arrivano i diari del Duce

Il Duce Benito Mussolini (3).jpgdi Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2010

Una postilla. Una frase laconica che tanto spiega e con voluta ambiguità, molto altro lascia intendere. Neanche il tempo di arrivare a riga cinque della Nota editoriale non firmata sui diari di Mussolini editi da Bompiani, che già le braccia, in un movimento inconsulto, toccano terra. L’autenticità delle cinque agende, precisa l’anonimo estensore, “rimane, ad oggi, controversa”. Elisabetta Sgarbi e Marcello Dell’Utri ce l’hanno fatta. Le patacche che nessuno voleva, i fogli dattiloscritti che mezza Europa ha valutato, per poi cestinare dandosi di gomito, arrivano in libreria. E sono subito pile in bella vista, poster in vetrina, strenne natalizie per ingenui e nostalgici. Qui la ricerca storiografica non c’entra nulla. È una campagna di cinismo, delirio d’onnipotenza, calcolo. Nello sforzo editoriale, Ely e Marcy hanno però smarrito la barbarica baldanza che, appena qualche mese fa, aveva portato entrambi a eccellere nelle Olimpiadi dell’equilibrismo dialettico. Benito Mussolini in copertina, una fotografia sfuocata che è la sintesi di un’operazione maldestra. Sotto il titolo, tra parentesi (forse per la vergogna) un inedito assoluto per la letteratura italiana. “Veri o presunti” si legge. Il tutto e il niente, con prevalenza evidente per la seconda ipotesi in cui la bufala, da sola, non basta a spiegare un sogno di scoperta diventato in fretta incubo. A pagina sette, infatti, invece della minuziosa grafia del Duce, prende il via un lungo capitolo scisso in tre parti. L’introduzione non firmata (un vizio) si allunga e si distende per quasi settanta pagine. Più in là dell’ossessione del giornalista inglese del Sunday Telegraph Nicholas Farrel (firma di Libero, come l’ineffabile Francesco Borgonovo, i due progettano un’operazioncina pseudoletteraria, furba e chirurgica, da dare alle stampe con il quotidiano di Belpietro entro un mese), piovono smentite.

Un’epidemia. Smentisce Edda Ciano, nel 1994, qualche mese prima di morire: “Soltanto parole buttate al vento come molte altre cose che si sono dette su mio padre”. Nega risolutamente Luciano Canfora, picchia duramente Emilio Gentile, al termine di un’indagine durata due mesi e non poche ore al tavolo di un ristorante di confine, come accadde a Denis Mack Smith anni prima. Gentile mette in fila omissioni, elementi mancanti che nell’esistenza di Mussolini assunsero un ruolo chiave. Nota l’assenza di giudizi sui gerarchi del partito e di commenti sui libri letti : “Mentre è certo che le note di lettura erano una caratteristica dei diari di Mussolini”. Ma perdersi nelle minuzie non renderebbe giustizia al vero cuore dell’impresa. Non riscrivere i diari, in qualche soffitta per poi venderli a bibliofili colti il cui mecenatismo confina con l’ego, ma riscrivere la Storia. Riabilitare Mussolini, lavarne le colpe, mondarne le responsabilità. Hitler?, lo sterminio del popolo ebraico? l’entrata in guerra? Eventi e determinazioni che avrebbero trovato Mussolini in opposizione. Ed è qui, in passaggi che se non fossero tragici, farebbero sorridere, che il grottesco si fonda con lo straniamento. 13 novembre 1938, si vota la legge per la difesa della razza. Nei falsi diari, Benito ha la pietas di Madre Teresa: “Si vorrebbero espellere gli ebrei dal Partito. No-non approvo”. O ancora, nelle riflessioni dell’11 febbraio 1939: “Io sono contro le leggi razziali. Gli ebrei vivano come hanno sempre vissuto. La razza ariana o no, per me è la stessa cosa”. E se l’intento autoassolutorio, potrebbe far propendere qualche esegeta sull’autenticità delle pagine ripensate all’uopo, in attesa di processi che il corso degli eventi renderanno inevitabili, sono le spudorate copie dei resoconti dei giornali dell’epoca, le date di compleanno sbagliate di Mussolini stesso (notevole deviazione nel non-sense), gli errori ortografici: “Il movimento popolare iniziato da Marx ed Hegel (sic)”, i nomi delle persone che il Duce conosceva bene da alcuni anni, riportati come se Mussolini li incontrasse per la prima volta, gli elogi a D’Annunzio (in realtà detestato) a dare davvero la cifra dell’inganno.

Non è solo la storiografia di sinistra a dubitare, ma anche profondi studiosi del periodo di destra come Giordano Bruno Guerri: “La mia impressione che si tratti di un falso è nettissima” e docenti alla Cattolica di nome Marino Viganò: “Questi diari si devono smascherare (…) è pressoché inutile una perizia di carta, inchiostro e grafia”. A Bompiani che si è prestata alla farsa sostenendo di non dover dare un giudizio di veridicità a un sedicente libro storico (perché una prova regina, in un senso o nell’altro non esiste sostengono, e quindi, di corsa in stampa a monetizzare), è riuscito il miracolo che lo stesso Duce non realizzò se non a prezzo della dittatura: unire mondi inconciliabili, far parlare, con la stessa opinione, gente delle più diverse estrazioni. Dell’Utri si lamenta di chi, illiberalmente, gli impedisce di fare apologia di fascismo in pubblico presentando il volume. Ha ragione. Non si è mai ridicoli per le proprie qualità, ma per quelle che si fa finta di possedere. La Rochefoucauld, quello vero, dovrebbe averlo letto.

Mussolini, in arte Gino
di Marco Travaglio

La casa editrice Bompiani, fondata da un quivis de populo chiamato Valentino Bompiani, che ha in catalogo oscuri autori di dubbia fama quali un certo Umberto Eco, conosce finalmente il suo momento di gloria. Merito di Elisabetta Sgarbi, che rende finalmente giustizia al noto bibliofilo Marcello Dell’Utri (a Palermo il problema è il traffico) dando alle stampe – citiamo testualmente dal titolo di copertina – “I diari di Mussolini [veri o presunti]. 1939”. L’opera, davvero imperdibile, è preceduta da una nota editoriale anonima, da un’introduzione anonima e da una raffica di “perizie e pareri (prevalentemente negativi) dal punto di vista storico” anche quelli anonimi, e da un’avvertenza redazionale ovviamente anonima. Non s’è trovato un cane che volesse lasciar traccia di sé. L’unica parte firmata sono i diari del Duce che non sono del Duce. Ma questi son dettagli. Il Duce dei falsi diari del Duce è un antesignano del “ma anche” veltroniano: mentre approva le leggi razziali, si dice contrario alle leggi razziali. Perché lui perseguita gli ebrei, però li ama. L’apoteosi però la raggiunge quando festeggia il compleanno un mese dopo il suo compleanno: essendo nato il 29 luglio, spegne le candeline il 29 agosto. Mica scemo: doppia festa, doppi regali. Oppure, più semplicemente, Mussolini si era scordato la sua data di nascita: capita, alle volte. Del resto l’ex socialista Mussolini confonde Engels con Hegel. A volte, lento di riflessi, posticipa di un giorno un bel po’ di date cruciali, come se copiasse dai quotidiani dell’indomani. Altre volte, dotato di notevoli virtù divinatorie, cita nel 1939 i carri armati tedeschi “Tigre” introdotti nel 1942. L’ipotesi che il falsario si sia un po’ confuso con tutte quelle date viene scartata a priori. Manca soltanto che il Duce si firmi Gino Mussolini. Prossimamente in libreria da Bompiani: “Il seguito dei Promessi Sposi, di Alessandro Manzoni [o chi per lui]”, “Il Gattopardo-2 la vendetta, di Tomasi di Lampedusa [ma anche no]”, “La Divina Tragedia, di Dante Alighieri [boh]”, “Il Principe cerca moglie, di Niccolò Machiavelli [ci siete cascati, eh?]”.

La destra che non c’era (Riccardo Chiaberge)

Invece di citare Saint Exupéry (copiando incautamente e, voglio sperare, inconsapevolmente il compianto Veltroni) e di dialogare a distanza con Pigi Battista, nel suo storico discorso di domenica a Perugia, Gianfranco Fini avrebbe fatto meglio a citare Piero Gobetti: “Un partito conservatore poteva compiere in Italia una funzione moderna, indirettamente liberale, in quanto facesse sentire la dignità del rispetto della legge, l’esigenza di difendere scrupolosamente la sicurezza pubblica, e l’efficacia del culto delle tradizioni per fondare nel paese una coesione morale”.

Questa sì sarebbe stata una degna epigrafe all’atto di nascita di Futuro e Libertà. Non a caso un grande intellettuale di destra, Giuseppe Prezzolini, l’aveva posta all’inizio del suo “Manifesto dei conservatori” (1972). Forse davvero dopo la lunga notte della destra fascista e lo sgangherato carnevale della destra sfascista, in Italia sta finalmente per vedere la luce la destra moderna ed europea cara a Prezzolini? E’ quello che tutti i democratici si augurano. Ma questo presuppone due condizioni: la prima, che nelle file del partito di Fini non si riaffaccino certi residuati della vecchia politica, inquisiti e voltagabbana di lungo corso.

Secondo, che spunti da qualche parte nel paese una borghesia degna di questo nome, che sappia anteporre il bene delle aziende e della società al proprio tornaconto personale. Su questo secondo punto nutro forti dubbi. Ammesso che sia mai esistita, una classe di questo tipo, sedici anni di sultanato berlusconiano l’hanno geneticamente modificata fino a stravolgerla. Non e’ vero, come sostiene Beppe Severgnini, che il Cav rappresenta la pancia del Paese. Semmai e’ vero il contrario. Questa pancia, lui e’ riuscito a scalpellarla come un chirurgo plastico (avrà preso ripetizioni dall’ex marito della Santanche’?) a propria immagine e somiglianza. Ha corrotto così in profondità la società civile (sinistra inclusa) che la bonifica richiederà anni e anni, sempre che mai si riesca a portarla a termine. Berlusconi finirà o prima o poi, ma il  berlusconismo sopravvivrà a Berlusconi. E la destra vagheggiata dai Gobetti, dai Prezzolini e dai Montanelli resterà, temo, ancora a lungo un bell’ideale letterario.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/09/la-destra-che-non-cera/76031/

La sindrome di Salò e l’ultima legione del capo (Luca Telese)

rsi.jpgEcco una notizia. A Il Fatto, in questi giorni siamo seriamente preoccupati per Silvio Berlusconi. Povero Silvio: solo, abbandonato nel momento del bisogno, non più difeso dal plotone dei fedelissimi che un tempo assaltavano lieti i canali televisivi per propagandare il Verbo. Gli stessi che nelle fiere della libertà si commuovevano fino alle lacrime quando i giovani fanciulli azzurri recitavano il credo Berlusconiano, che oggi tirano la gamba indietro, e che ti dicono, con vincolo di riservatezza: “Non si può morire per Ruby….”.

Solo un anno fa nei salotti televisivi i lottatori del Cavaliere facevano a gara per mostrare il petto ed ergere il proprio corpo a difesa del Capo. Oggi Libero si chiede se valga ancora la pena di difendere B., i ministri (e le ministre) non vanno in televisione (“Se si parla di politica”), il soldato Sandro Bondi viene abbandonato sotto il fuoco nemico, e ogni tanto – nella sorpresa generale – un disertore si strappa le mostrine e agita bandiera bianca consegnandosi al nemico. Orrore. A Salò il vero appello non è quello di chi c’è, ma quello di chi si defila.

Mesi fa Giuliano Ferrara, per descrivere la situazione del centrodestra cesellò una provocazione metastorica: “Siamo al 24 luglio?”. Cioè alla vigilia della Riunione del Gran consiglio del fascismo che detronizzò Mussolini. La settimana scorsa, il direttore de Il Foglio ha aperto un dibattito chiedendo ai suoi opinionisti se si stia verificando un nuovo 25 luglio. Si sbaglia. Il governo del fare è già a Salò, con le ausiliarie che sparano raffiche e i “badoglisti” infami che corrono verso Brindisi. Il primo caso sorprendente è quello del comandante Massimo Teodori, colto dal dubbio sul campo di battaglia di Linea notte. Teodori – politologo di professione, una lunghissima biografia radicale alle spalle, editorialista de Il Giornale – è stato arrestato dai carabinieri del suo (ex?) quotidiano, dopo essersi lasciato sfuggire queste compromettenti affermazioni: “Ormai Berlusconi non risponde a nessuna logica che non sia la sua…. Non c’è razionalità in lui, se non quella dell’autocrate!”. Mentre infuria la battaglia pensavate che queste frasi potevano essere ignorate? Macché, il giorno dopo il quotidiano di Alessandro Sallusti lo ha subito passato per le armi, ratta-ta-ta-tà: “Il Teodori tirato fuori dai cassetti e riproposto in tv con la scusa di parlare di Obama, a patto che in realtà parli (male) di Berlusconi è lo stesso Teodori che fino a poco tempo fa telefonava un giorno sì e l’altro pure a Il Giornale, più che disposto a scrivere (bene) di Berlusconi purché lo si facesse scrivere, ovviamente non gratis?”. Già. Se avanzo seguitemi, se indietreggio sparatemi!

Nel codice della guerra l’onore, la fellonìa, e il sospetto dell’essersi venduto al nemico prevale su tutto. Ai tempi della guerra di Noemi Sandro Bondi ululò contro Ezio Mauro, e Stefania Prestigiacomo si conquistò l’imitazione toreando nell’arena di Santoro. Ora le ministre disertano gli inviti di Ballarò, e così Il Fatto non può che tessere un commosso elogio di Claretta-Petacci-in Santanchè, che difende l’hombre orizzontal con le unghie e i denti. Curioso paradosso: quelle elette da lui si scansano, mentre lei che lo combatteva adesso si è acquartierata negli studi de La7 notte e dì con la baionetta fra i denti: la sera si scalda a In Onda sparando contro Sofia Ventura, in prime time compie azioni di guerriglia sulla corazzata di Annozero per colpire Luigi De Magistris, la mattina si sveglia a Omnibus lanciando granate contro Adolfo Urso. Maledetti Traditori Futuristi, non mi avrete viva! L’altro combattente è Sallusti, che ha dimesso giacca e cravatta per indossare la divisa tattica: maglioni a girocollo e tuta mimetica. E quando incontra Oliviero Toscani, dà fuoco alle polveri: “Probabilmente lei è un fallito che soffre per il fatto che non si parla più di lui”, Rattattatà, sistemato. E che dire del povero Bill Emmott, milite della perfida albione? Scrive un libro contro il Cav., e si permette di girare con un fiore rosso all’occhiello? “Ora mi rendo conto che ha dei gusti bizzarri, che è molto gaio, capisco perché si è innamorato di Vendola!”. Bang, bang!, onore all’eroico combattente Sallusti (quel fiore era il simbolo del Remembrance day dei martiri di guerra ma è solo un’aggravante).

A presidiare la linea gotica nello studio amico del cinegiornale Tg4 Luce c’è il bollettino di guerra di Daniele Capezzone: “Caro direttore, accusano Berlusconi, ma non sanno che i consensi per lui stanno crescendo…”. Bravo, bene: Vincere, e vinceremo! Giorgio Stracquadanio viene dai movimenti, è stato radicale, e ha lavorato persino a Rifondazione, non può essere che un novello Nicola Bombacci, che fondò Il Pci, e se ne andò a morire a Salò gridando: “Viva il socialismo!!”. Anche il mitico comandante “Stracqua”, brigata Predellino, non tentenna: “Questa guerra la vinceremo noi!”. Anche Maurizio Gaspari, e soprattutto Ignazio La Russa – onore a loro – non depongono le armi e calzano il basco effigiato con il teschio e il fiore in bocca come il mitico Junio Valerio Borghese, memento audere sempre! (ricordati di osare sempre). Sallusti dirige la Stefani come già l’intrepido Pavolini (e senza i sospetti tentennamenti di Vittorio Feltri!). Beppe Pisanu trama come Dino Grandi, Giampaolo Pansa difende la ridotta su Libero, pugnando con egual vigore contro i partigiani della Garibaldi ed Eugenio Scalfari. Per tutti gli eroici combattenti che non tradiscono un solo grido: Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio!!

Ps. Ultimora. Al vaglio del magistrato della Militar Pol alleata – Henry Woodcock – è una intercettazione (di certo in codice) tra il gauleiter Sandro Bondi e il capo di stato maggiore B.: “Presidente! È successa una cosa incredibile. I tedeschi si sono alleati con gli americani e ci sparano addosso!”.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/09/ecco-una-notizia-a-il-fatto-in-questi-giorni/75881/

Le colpe di Pierpaolo (Massimo Fini)

phpThumb_generated_thumbnailjpg.jpegHo incontrato per la prima volta, nel settembre del 1974, Pier Paolo Pasolini, di cui ricorre in questi giorni, mi pare senza particolari celebrazioni, il 35° anno dalla tragica morte, una morte molto pasoliniana. Lo andai a trovare nella sua casa romana, all’Eur, per intervistarlo sul “Fiore delle Mille e una notte” uscito da poco. Non c’era intorno a lui alcun odore di zolfo. Normale, piccolo borghese, era il quartiere dove abitava, così come la sua casa, con i centrini sotto i vasi di fiori, i ninnoli, i comodini e tutto quanto. Una casa piccolo borghese. Mentre parlavamo sulla terrazza, in un dolce mattino di fine estate, lo osservavo con attenzione. Non aveva, Pasolini, a differenza di tanti altri intellettuali italiani (parlo di quelli di allora, s’intende), la conversazione spumeggiante, il linguaggio pirotecnico, la citazione seducente, ma il modo di parlare piano, pacato, rettilineo, modesto di chi è profondamente consapevole della propria cultura e perciò non la esibisce. E in questa atmosfera anche le cose che diceva, le stesse che scritte suscitavano scandalo, irritavano o entusiasmavano, parevano cose normali, elementari e quasi banali. I gesti erano misurati, tranquilli. Solo il volto di Pasolini era un po’ diverso, un volto profondamente segnato, un volto quasi da Cristo, ma un Cristo molto diverso dal terribile “Cristo putrefatto” di Matias Grünewald o, tanto meno, dal Cristo oleografico dell’iconografia cattolica. Insomma, anch’esso, un Cristo molto normale, un Cristo piccolo borghese.

Pasolini non aveva, nei gesti, nel parlare, nel modo di porgersi, nulla della “checca”. Era anzi piuttosto virile. La scena cambiò quando sulla terrazza entrò la madre e vidi quest’uomo infantilizzarsi, sdilinquirsi in bacini e bacetti, in un puci-puci imbarazzante. Era lì, come sempre, l’origine della sua omosessualità. Mi invitò a pranzo. Per Pasolini infatti l’intervista non era, come di solito, una partita burocratica in cui l’intervistato cerca di stendere sul tappeto le proprie bellurie, disinteressandosi completamente dell’interlocutore. Era un incontro. Mi fece molte domande, su di me, sul mio lavoro, sulla mia vita. Nel pomeriggio arrivò Ninetto Davoli e cominciò a manifestarsi il Pasolini sulfureo. La sera mi caricò sulla sua Bmw e mi portò, come sarebbe accaduto un altro paio di volte, a cena in una bettola di un quartiere periferico, mi pare la Magliana. Ogni tanto si avvicinavano dei ragazzi, le classiche “marchette”, e ci scambiava due chiacchiere. Uno di questi lo avrebbe ucciso. L’intellighentia di sinistra italiana, nella sua ipocrisia, non ha mai accettato che Pasolini fosse morto com’è morto. Come minimo doveva essere stato un complotto dei “fascisti”, fantasticheria cui diede voce per prima la Fallaci che aveva orecchiato qualcosa dal parrucchiere. E invece andò proprio così. “Pino la rana” si ribellò a una richiesta sessuale particolarmente umiliante di Pier Paolo e contando sui suoi diciassette anni, nonostante Pasolini fosse ancora un uomo atletico (giocava a calcio, che gli piaceva moltissimo) lo ha ammazzato. Così come questa intellighenzia non ha mai capito che il fondo oscuro di Pasolini era proprio l’humus necessario al suo essere artista e, soprattutto, un grande, un grandissimo intellettuale.

Non si può trattare qui, in poche righe, l’opera di Pier Paolo Pasolini, mi piace solo ricordarne una frase che scrisse nel 1962 inserita ne “Le belle bandiere”: «Noi ci troviamo alle origini di quella che sarà probabilmente la più brutta epoca della storia dell’uomo: l’epoca dell’alienazione industriale».

Da Il Fatto Quotidiano del 6 novembre 2010

Ricordando Mario Rigoni Stern

Mario_Rigoni_Stern.jpgRicordando Mario Rigoni Stern Il 1° novembre del 1921 nasceva Mario Rigoni Stern. Ieri 1° novembre 2010 siamo stati in tanti a ricordarlo e a sentirne la mancanza. Mi piace pensare ancora al Mario attraverso un romanzo a me molto caro: “Storia di Tönle”. Un profondo e umano no a ogni guerra.

Ho sempre trovato inspiegabile come la follia di pochi riesca a incidere sulla vita e sulla quotidianità di molti. E ancora più inspiegabile è come i molti, si sottomettano con fervore a questa follia.
Durante la guerra nei territori della ex Jugoslavia vidi una scena: un pastore che costruiva, mattone su mattone, la sua nuova e povera casa affianco alla precedente abbattuta da un bombardamento. Quell’uomo poco aveva prima della guerra e ancora meno aveva al termine. Che senso aveva per quel pastore essere sotto la Jugoslavia o sotto la Croazia? Pecore portava al pascolo prima e pecore porterà al pascolo poi.
E’ questo l’enigma che si perpetua da sempre: perché i poveri ubbidiscono a chi comanda loro di uccidere altri poveri?
In questo insolubile stato delle cose il romanzo “Storia di Tönle” di Mario Rigoni Stern è da leggere.
Tönle, il protagonista del romanzo, è l’ultimo baluardo di speranza. Il suo attaccamento alla propria terra è meraviglioso. Tönle rappresenta la vera anima di un’Italia contadina che ha resistito contro la guerra e contro la barbarie in generale. Tönle muore, sconfitto non tanto dagli eventi della prima guerra mondiale, quanto dall’età che lo fa stanco di lottare. Ma da questa sconfitta esce a testa alta. Tönle è un nobile perdente come certi personaggi di Mutis. La guerra travolge tutto: la vita degli uomini e quella della natura. Non ha resistito alle bombe il ciliegio sul tetto della sua casa e non ha resistito il suo orto sconvolto da profonde buche che in superficie al posto della terra nera e grassa hanno riportato i sassi bianchi come ossa.
Perché morire per gli interessi del potente di turno?
“Se per le strade del mondo qualcuno moriva sul lavoro non era come sul campo di battaglia: si lavorava per necessità proprie e dei famigliari mentre sui campi di battaglia ora si moriva per niente.”
E ancora: “Per i generali, pensava, fare la guerra è il loro mestiere, anche se fare ammazzare la gente è il mestiere più brutto, ma sparare per ammazzarsi tra povera gente. E poi per chi? Questo pensava Tönle guardando le sue pecore, tirando nella pipa e ascoltando il cannone oltre il monte.”
E mentre la Storia con la “S” maiuscola fa il suo corso, i pensieri di Tönle suonano alti nello splendore di una natura violata ma non sconfitta. Le meditazioni sulle stagioni, sul lavoro, sul bosco, sugli animali del “Nostro Tönle”, immergono la sua storia tra mille ruscelli, tra larici fioriti e canti di urogalli.
Tönle è l’amore per il proprio luogo di nascita, per le proprie radici. E’ come se, per una volta almeno, la grande Storia cedesse il palcoscenico alla piccola storia lasciando intravedere ciò che resta dopo la barbarie. Non volti o dichiarazioni di generali vinti o vincitori, ma la quotidianità devastata dei piccoli uomini, di quelle briciole rimaste sul tavolo dopo che tanti hanno banchettato. I morti di una guerra, visti dai tavoli della politica, sono “statistiche”, visti da vicino sono il male che l’uomo compie sull’uomo.
E così la “memoria” per Mario Rigoni Stern diventa uno sguardo su un futuro migliore. Una visione utopica, direbbe qualcuno, ma se non speriamo o sogniamo nemmeno un mondo migliore, perché continuare a vivere?
E in questa ricerca di rinascita dell’Uomo la Storia, così trionfalmente presentata nei libri, è smascherata e restituita a quel che realmente è: la morte dell’uomo.

Pino Petruzzelli

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/02/ricordando-mario-rigoni-stern/74813/