Silenzio su Fortezza Bastiani

 

invasione-degli-ultracorpi-201x300.jpgSilenzio su Fortezza Bastiani in queste settimane passate, sotto la pioggia e il vento, dall’alto degli spalti, a guardare le poche carovane in fondo alla valle mentre risuonavano suoni di urla lontane, di gridi scomposti, echi di rutti e peti dalla pianura di un paese ormai perduto. Quindici mesi fa quando cadde il governo del vecchio maiale e si era sull’orlo del baratro, ebbi il banale buon senso di scrivere che quello che ci voleva era “rigore”, prima di tutto verso noi stessi. Una bella rilettura interiore, prima ancora che politica, per capire come tutto era potuto accadere, come un paese in vent’anni era stato divorato, macchiato, sporcato. Noi eravamo lì, certo non tutti con le stesse responsabilità, ma anche noi eravamo lì, a prendere bricioline, ad annidarci nella broda, a conservare tutti i nostri diritti, divenuti privilegi insostenibili. Rigore per tutti e per ciascuno. Nessun tribunale, nessuna spada fiammeggiante o giustizieri da avanspettacolo. Solo un esame interiore, serio.

Ma, come noto, in Italia l’unico rigore che può interessare è quello del calcio. Caduto il porco partì la giostra dei desideri, tutti volevano tutto e subito. E a nulla serviva dire che ci eravamo fermati sull’orlo del baratro e che bisognava mandar giù rospi grossi e viscidi. Ma soprattutto che il maiale non era stato trasformato in salsicce ma grufolava ancora nella fanga a condizionare ancora il paese. Un paese dove anziché rigore dilagava di nuovo l’eterno italico senso dell’arrangiarsi, di farsi i propri, schivare i doveri per urlare i propri diritti che poi fossero diventati rovesci a carico di altri, cosa importava?

Un paese bloccato, immobile, in cui nulla funziona ma in cui non si può cambiare nulla. Riforme, riformisti del nulla. Riformisti tutti purché tutto rimanga come sempre. Una destra impresentabile e orribile e una sinistra incapace di qualunque innovazione, diventata paladina di ogni privilegio, chiusa nelle sue liturgie, nei suoi apparati.

E poi fuori, confusi, urlanti, maleducati eccoli i barbari. Li abbiamo visti crescere su quel nulla che gli altri hanno lasciato, contro quelle stanze chiuse, quei walzer di seggiole e poltrone, oltre quel linguaggio vuoto e insopportabile che parlava solo a sè stesso e ai suoi adepti. Hanno trovato il nulla e sul nulla si può fare tutto, a parole, a urla, a vaffanculo. Hanno radunato ostrogoti autostradali, vandali cibernetici, calmucchi ecologisti, garagisti teosofici, hanno raccolto, come Cola di Rienzo e Masaniello, il grido della folla confusa, che come la mosca d’inverno sbatte sul vetro a casaccio cercando l’uscita, hanno raccolto i giovani usciti dalle scuole dove il sapere è divenuto un optional poco richiesto, tanto basta il diploma, la triennale e wikipedia. Hanno raccolto il rancore e la paura dei deboli travolti dalla crisi. Le fila si sono ingrossate, le abbiamo viste dall’alto degli spalti passare là in fondo come un fiume in piena a spazzare via tutto.

E come ai tempi di Romolo Augustolo buon anima mentre le mura crollavano ognuno reiterava autisticamente il proprio copione. Chi a fuggire dai giudici, chi a parlare di innovazione senza cambiarsi nemmeno i calzini di cachemire, chi ad aspettare la rivoluzione fra un mojito e un weekend nelle città d’arte.

Rigore? Nemmeno il calcio. Un paese perduto, una folla ubriaca a sbevazzare sulla tolda del Titanic, a questionare su tutto mentre la disoccupazione è aumentata del 22% e lo spread è lì a minacciare tutti. Un paese scoperto nella realtà di quello che è, un paese che sceglie al 50% o ancora il vecchio maiale o la tribù dei barbari urlanti. Un paese dove la sinistra si condanna alla futura irrilevanza, nella onanistica purezza di una conservazione dell’inesistente.

Andate sul web o in videoteca e guardatevi la miglior rappresentazione del nostro oggi: L’invasione degli ultracorpi, film del 1956 di Don Siegel, la terra invasa dagli alieni che, in silenzio, si sono presi tutti i terrestri, senza dolore, senza raggi laser, semplicemente entrando nei loro corpi e nelle loro menti.

“Sentinella a che punto è la notte?”. La notte è appena iniziata.

La mossa del Colle per prendere tempo (F.Bei)

“Abbiamo guadagnato un po’ di tempo”. Arrivato a un passo dal precipizio, con le sue dimissioni pronte per essere firmate, Giorgio Napolitano ci ha ripensato. E l’aver trovato una soluzione, quella dei dieci saggi, per “guadagnare un po’ di tempo “, serve soprattutto a dare all’estero “un segnale di tranquillità ” e di “continuità istituzionale”. Altrimenti da martedì, senza un governo con i pieni poteri, senza più un capo dello Stato, con le tre principali forze politiche incapaci di formare una maggioranza, davvero l’Italia avrebbe rischiato grosso sui mercati. È stata questa la motivazione principale che ha convinto Napolitano, dopo una notte insonne, a resistere qualche altro giorno al suo posto, pur nello scoramento per la trattativa fallita per arrivare a un “governo di scopo”. Nei colloqui riservati con importanti esponenti della comunità d’affari interna e internazionale, nei contatti con la Banca d’Italia, il capo dello Stato ha trovato infatti la conferma dei suoi timori: le sue dimissioni, per quanto giustificate dallo stallo politico e dalla volontà di accelerare l’elezione di un successore “con i pieni poteri”, sarebbero state lette sui mercati come il suggello finale di un paese allo sbando. Senza timone e senza timonieri. “Lei è l’unico punto di riferimento rimasto in Italia”, gli hanno ripetuto in molti. Una telefonata ci sarebbe stata ieri anche con Mario Draghi, il presidente della Bce, che gli avrebbe appunto ribadito i rischi seri sui mercati per l’incertezza della situazione politica. Con le agenzie di rating pronte a un ulteriore declassamento del Paese. Una situazione insostenibile, che ha consigliato prudenza al Presidente. Anche il rapporto con Monti si ricostituito, dopo le tensioni dei giorni scorsi legate alla vicenda incresciosa delle dimissioni del ministro Terzi. Ieri il capo dello Stato si è sentito al telefono con il premier (anche per chiedergli il “permesso” di inserire Moavero nella squadra) e a Monti ha fatto molto piacere constatare che il Presidente lo avesse nuovamente investito di fiducia, definendo il governo ancora “operativo “, “in carica” e “non sfiduciato dal Parlamento”. Ma certo Napolitano è il primo a sapere che le due commissioni di saggi serviranno a futura memoria. Egli stesso lo ha fatto capire, spiegando che i testi prodotti dagli esperti “potranno costituire comunque materiale utile: voglio dire anche per i compiti che spetteranno al nuovo presidente della Repubblica nella pienezza dei suoi poteri”. Napolitano è infatti consapevole che spetterà al successore nominare il nuovo capo del governo. Il programma uscito dalla commissione di sherpa faciliterà il lavoro. E gli stessi componenti della squadra, i dieci saggi, potrebbero diventare i futuri ministri del governo del Presidente. Di fatto la loro indicazione consente di congelare la crisi, proiettando in avanti l’ora della decisione. “Guadagnare tempo ” quindi, per i mercati e per lasciare al prossimo inquilino del Colle la scelta. Già, il nuovo capo dello Stato. Di fatto è questa la partita che si è aperta ieri, lasciando sullo sfondo il tentativo di formare il governo. Nelle consultazioni con i presidenti delle Camere, Napolitano si è sincerato che venga fatto ogni sforzo per accelerare le procedure di convocazione del Parlamento in seduta comune. E se prima si parlava di lunedì 22 aprile come inizio delle votazioni, adesso sembra che si riuscirà ad anticipare a giovedì 18. In modo che già all’inizio della settimana successiva, forse già lunedì 22, potrebbe saltar fuori il nuovo capo dello Stato. L’obiezione di attendere le elezioni in Friuli non vale più, dato che il Consiglio regionale ha provveduto a nominare la scorsa settimana i rappresentanti da mandare a Roma per partecipare all’elezione del presidente della Repubblica. Per stringere ulteriormente i tempi, Napolitano starebbe valutando anche l’ipotesi di lasciare anzitempo (la fine del mandato è fissata al 15 maggio) – ma solo ad elezione avvenuta – in modo da evitare la coabitazione e passare subito le consegne. Se la gara per il Colle è di fatto aperta, opposti sono gli scenari e gli identikit dei possibili pretendenti. “L’elezione del capo dello Stato  –  ragiona Lorenzo Dellai, uno di quelli che ha suggerito a Napolitano l’idea dei saggi  –  sarà il banco di prova per vedere se i partiti vogliono un Presidente da combattimento oppure una figura di garanzia e di equilibrio. È chiaro che se il clima si deteriora, l’elezione sarà una prova muscolare e si avvicinerà la fine anticipata della legislatura “. Presidenti diversi per scenari diversi. Un Presidente “di combattimento” potrebbe essere Romano Prodi se il centrosinistra rompesse ogni dialogo con Berlusconi. E non a caso ieri Grillo ha citato come possibile presidente proprio il fondatore dell’Ulivo, uno che “cancellerebbe Berlusconi dalle carte geografiche”. E che potrebbe uscire fuori grazie ai voti di Pd e cinquestelle. Ma certo è possibile che il lavoro dei saggi porti a un cambiamento del clima e che si arriva a un capo dello Stato frutto dell’intesa tra centrodestra e centrosinistra. Sono tre i nomi che circolano in questa cornice. Nell’ordine: Giuliano Amato, Franco Marini e Massimo D’Alema. Se uno dei tre riuscirà a salire al Quirinale vorrà dire che si sarà formata una maggioranza politica Pd-Pdl, capace anche di dar vita a un governo del Presidente o persino di Grande Coalizione. La terza ipotesi è quella più caldeggiata da Scelta Civica e dal centrodestra: la riconferma di Napolitano. Nonostante la netta contrarietà dell’interessato, sia Berlusconi che i montiani ancora ci sperano. Perché a un Napolitano nella pienezza dei suoi poteri difficilmente il Pd potrebbe dire di no.

(La Repubblica, 31.3.2013)