“Papi” a colazione da Ruini. Don Farinella: “Basta complicità con i corrotti”

Lettera aperta di don Paolo Farinella al cardinale Camillo Ruini, ex presidente della Cei, che il 26 gennaio ha invitato Silvio Berlusconi a una colazione di lavoro.

di Paolo Farinella, prete

Sig. Cardinale,

Nel 1991 da una sperduta parrocchia dell’entroterra ligure, le scrissi sullo scandalo che provocò nei miei ragazzi la notizia del «cardinal-party» con un migliaio di invitati del «mondo» che conta, dato da lei in occasione della sua nomina a cardinale. Lei mi risposte che fu un dono di amici e io le risposi che certi doni dovrebbero essere respinti al mittente perché insulto ai poveri e al Cristo che li rappresenta. Le cronache del tempo fotografarono che «la capitale della politica, della finanza, delle banche, delle aziende di Stato è accorsa compatta in ampie schiere. Mai tanta mondanità e tanto ossequio attorno a un cardinale, reduce da due giorni di festeggiamenti ininterrotti» (Laura Laurenzi, la Repubblica, 30 giugno 1991, p. 25).

A distanza di diciannove anni, mai avrei pensato di riscriverle, anche perché sapevo che lei era andato in pensione e quindi si fosse defilato come si conviene alle persone sagge di buon senso. Oggi lei non offre lauti banchetti a 800 persone, ma invita a colazione solo due individui che da soli sono peggio degli 800 barbari. Sono indignato per questo suo invito che i credenti onesti vedono come la negazione del sacramento dell’ordine e la pone sullo stesso piano degli intrallazzatori di professione.

D’altra parte lei per oltre quindici anni ha manovrato papi, parlamenti, governi, accordi elettorali, sanità, scuole e fascisti che, al punto in cui siamo, uno scandalo in più o uno in meno, il peso cambia di poco. A mio modesto parere di prete, il suo operato induce me e molti altri credenti a pensare che lei e noi non crediamo nello stesso Dio e anche che lei usi il suo come strumento di coercizione per fini demoniaci. Lei infatti, ancora una volta, ha contravvenuto al dettato del Codice di Diritto Canonico che stabilisce: «È fatto divieto ai chierici di assumere uffici pubblici, che comportano una partecipazione all’esercizio del potere civile» (CJC, can. 285 §3, sottolineatura mia). Il massimo potere in uno Stato democratico si esercita nella formulazione delle liste elettorali tra cui i cittadini liberi e sovrani «dovrebbero» scegliere i loro governanti, locali e nazionali: qui sta in sommo grado la «partecipazione all’esercizio del potere civile».
Il giorno 20 gennaio 2010, nella sede del Seminario Romano, dove risiede da cardinale in pensione, lei ha invitato, come ospite a colazione, Silvio Berlusconi, accompagnato dal gentiluomo (sic!?) di Sua Santità, nonché sottosegretario alla presidenza del consiglio italiano. Lei ed io sappiamo che Gianni Letta, moderno Richelieu o se vuole in termini giovanili e quasi liturgici, prosseneta, vulgo mezzano, è il tutore garante presso il Vaticano del suo capo, notoriamente inaffidabile oltre che corrotto e corruttore. Dicono le cronache che avete discusso di accordi elettorali, di convergenze tra Pdl di Berlusconi e Udc di Casini e Api di Rutelli; chi deve essere candidato alle regionali e chi no; chi deve perdere e chi deve vincere nel Lazio; cosa fare e cosa disfare in Puglia.
La candidata Emma Bonino alla presidenza del Lazio non deve passare perché, come in una nuova crociata, «Deus ‘el vult», cioè lo ordina Ruini a cui Dio di solito dice ad ogni tornata elettorale cosa vuole e non vuole. Le cronache celiano che Berlusconi abbia tenuto il boccino perché ormai ha il coltello dalla parte del manico. Lo dimostra il fatto che il suo illustre e integerrimo ospite abbia preteso dal suo partito una «quota rosa» a sua totale discrezione per fare eleggere le «pulzelle» compiacenti che non ha potuto varare nelle politiche del 2008, a causa del «ciarpame politico» rovesciato sul tavolo dalla di lui moglie, Veronica Lario che ha sparigliato le candidature. Avete parlato anche di questo? Di quali donnine e prostitute candidare?
Il giorno prima, il 19 gennaio 2010, appena 24 ore prima, il Senato della Repubblica, presieduto dall’autista-picciotto, Renato Schifani, in quota servitù perpetua, ha varato il cosiddetto «processo breve», cioè la 19a legge su misura per i bisogni primari del Silvio Berlusconi e pazienza se si sfascia l’intero sistema della giustizia italiana! Pazienza, se milioni di cittadini non avranno mai giustizia e se tutti i delinquenti, i truffatori, gli spacciatori, i ladri, i corrotti, i concussori, i concussi, i deputati e i senatori insieme ai loro famigli la faranno franca sempre e comunque alla faccia di quel «bene comune» con cui lei da presidente della Cei faceva i gargarismi sei volte al giorno prima e dopo i pasti principali. Lei queste cose le sa, ma è anche «cardinale di mondo» e sa navigare nei meandri del fiume della politica che conta, poco importa se morale o immorale: in fondo il fine ha sempre assolto i mezzi perché noi cattolici non siamo forse per la confessione periodica e cioè per «una botta e via da capo»?


«Processo breve, legittimo impedimento per sé e famigli», lei lo sa bene, sono eufemismi: trattasi infatti soltanto di «processo impossibile». Un presidente del consiglio scardina lo Stato di Diritto, impone al parlamento di votare leggi individuali e di casta a favore di sé e dei delinquenti che lo attorniano, abolisce di fatto ogni contrappeso al potere esecutivo e di fronte a tanta bulimìa incontenibile, lei lo invita anche a pranzo? Via, cardinale, est modus in rebus! Non pare che durante il pranzo, lei abbia detto una parola sulla condotta scandalosa dell’ospite, ma sappiamo che si è seduto a tavola con un essere spregevole moralmente, eticamente, giuridicamente, democraticamente e con lui contratta seggi e vittorie, costi e benefici, voti e ritorni in privilegi economici e politici. Logicamente in nome dei sacrosanti «principi non negoziabili», of course!

Colui che sedeva a mensa con lei, dal mese di maggio dello scorso anno e fino a novembre 2009 è stato braccato dalla stampa internazionale, rincorso da dieci domande di un giornale italiano e bollato dalla denuncia della moglie per frequentazione di minorenni; uso abituale di prostitute e forse di cocaina (non sappiamo tutto!) in sedi istituzionali (anche le dimore private sono state da lui sottoposte a regime di «segreto di Stato»); spergiuro sulla testa dei figli (del fatto di Casoria, ha dato quattro versioni diverse, dopo avere giurato che la prima era quella buona); promesse di posti in parlamento e al governo a signore e signorine compiacenti in cambio di favori sessuali. Alcune di loro non perdono occasioni per ostentare la loro cattolicità granitica, fondata sui «valori» dell’onestà, della famiglia, del bene comune e dell’indissolubilità del matrimonio.


Negli stessi giorni in cui lo scandalo delle prostitute era al culmine, il suo governo stava varando una legge per punire i clienti delle prostitute: la solerte, cattolicissima ministro Mara Carfagna si è affrettata a ritirare il provvedimento che avrebbe colpito per primo il suo capo e protettore che il suo stesso avvocato ha definito «utilizzatore finale» di carrettate di donne. Soltanto dopo l’indignazione del popolo cattolico arrivata al «calor bianco», finalmente la Cei cominciò a balbettare qualche timiduccio scappellotto, ma tenue e delicato, quasi un buffetto. Il 7 luglio 2009, quando ormai il mondo cattolico era sul filo delle barricate contro la latitanza della gerarchia cattolica, il segretario della Cei, mons. Mariano Crociata, durante una Messa, alludendo al presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, oggi suo ospite, senza mai chiamarlo per nome, sbotta:
«Assistiamo ad un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile che invera la parola lussuria salvo poi, alla prima occasione, servirsi del richiamo alla moralità, prima tanto dileggiata a parole e con i fatti, per altri scopi, di tipo politico, economico o di altro genere. Nessuno deve pensare che in questo campo non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati; soprattutto quando sono implicati minori, cosa la cui gravità grida vendetta al cospetto di Dio» (Omelia per la Messa di Santa Maria Goretti, 15-08.09, Le Ferriere – Latina).

Lei, sig. cardinale Camillo Ruini, ha passato tutto questo tempo sotto silenzio assoluto, dedicandosi al «progetto culturale della Cei e alle massime questioni di alta filosofia e teologia: «L’esistenza di Dio», la sua necessità e via dicendo. Sul resto che travagliava la Chiesa, i credenti, la gerarchia e copriva con un manto di sudiciume l’Italia intera, silenzio tombale.
Nello stesso periodo, il 1 luglio 2009, il governo varò il «decreto sicurezza» che stravolge il diritto internazionale, l’etica cristiana, la dottrina sociale della chiesa e tutti gli insegnamenti pontifici in fatto di migrazione perché definisce reato «lo stato di persona clandestina». Mons. Agostino Marchetto del pontificio consiglio per l’immigrazione dichiara: «La criminalizzazione dei migranti è per me il peccato originale dietro al quale va tutto il resto», riferendosi alle aberranti politiche sociali del governo. A stretto giro di posta arrivò la smentita della Sala Stampa vaticana: Mons, Marchetto parla a titolo personale. Il Vaticano smentisce se stesso. Anche in questa occasione, lei ancora una volta stette zitto e latitante e non difese nemmeno il suo pupillo che preferì sacrificare sull’altare dell’immoralità governativa pur di mantenere un rapporto privilegiato di potere e d’interesse.


Ricevendo Berlusconi e per giunta come ospite in intimità conviviale a casa sua, senza dire una parola su ciò che è avvenuto in questo anno (per non parlare degli ultimi 15 anni), lei ha avallato lo scardinamento costituzionale, istituzionale e lo sfacelo etico di cui l’ospite è stato e continua ad essere protagonista responsabile. Quel giorno Berlusconi era reduce fresco fresco da un attacco micidiale alla Magistratura con parole omicide: «Il tribunale è un plotone di esecuzione». Lei ha così avallato e approvato il suo comportamento immorale e indecoroso, benedicendo l’inverecondia e assolvendo l’insolvibile, diventandone complice «in solido», perché come insegna il diritto, che la saggezza popolare traduce pittorescamente, «è tanto ladro chi ruba quanto chi para il sacco».
Se lei poi con questi figuri tratta posti di governo o gestione della sanità o della scuola o condizioni per fare eleggere questo/a o quella/o in cambio di voti e/o di altro, lei inevitabilmente diventa compare di uno che frequenta la mafia e ha fatto della malavita la norma della sua condotta. Berlusconi non si sentiva perseguitato e non denunciava accanimento giudiziario quando rubava e trasportava denaro degli Italiani all’estero, dichiarava il falso in bilancio, corrompeva i giudici, comprava i testimoni dei processi, sparava alla testa dei giornalisti non a libro paga, imponeva al suo «Il Giornale» agli ordini del falsificatore Feltri di uccidere il direttore di «Avvenire», Dino Boffo. Lei non chiese le dimissioni di Feltri e di Berlusconi per avere inventato «in solido» una trappola di fango per mettere in riga i vescovi della Cei con un avvertimento di stampo mafioso: io vi tengo in pugno. E’ di questi giorni la sentenza in appello, confermata e aggravata, a Totò Cuffaro, cattolico integerrimo per reato di mafia. Costui e il Pierferdi Casini che lei tanto sponsorizza, per cinque anni hanno votato tutte le leggi immorali a servizio esclusivo di Berlusconi, appoggiandolo in ogni nefandezza: tutto con la sua benedizione e il silenzio della gerarchia cattolica. Sempre e comunque in nome del santo bene comune. Ah! «i valori non negoziabili».


Ora arrivano le elezioni regionali. Nel Lazio, regione del papa, cortile del Vaticano e prolungamento del Laterano, si candida alla presidenza della regione Emma Bonino, radicale e anticlericale. La paura fa novanta, signor cardinale, e lei da «vero animale politico» ha fiutato che la «Emmaccia» potrebbe farcela agevolmente e se arriva, potrebbe mettere ordine nella sanità e nella scuola laziale, due feudi della malavita «cattolica» laziale. Horribili dictu! Pur di contrastare, con ogni mezzo la sua candidatura, lecita e rispettabile in una democrazia compiuta, lei preferisce la deriva morale, lo sconquasso della Costituzione, la distruzione della Democrazia, l’annientamento dello Stato, alleandosi con un potente degenere che ha portato la corruzione e il malaffare al rango della politica e della presidenza del consiglio. Personalmente sono convinto che, in queste condizioni, lei non possa celebrare l’Eucaristia con tranquilla coscienza perché come prete non ha ricevuto il mandato di eleggere e fare eleggere presidenti e parlamentari, magari mafiosi, ladri e corrotti. Lei può solo andare per le strade del mondo e annunciare il vangelo della liberazione: ai prigionieri, ai poveri, agli immigrati torturati e uccisi dal presidente del consiglio che lei riceve a pranzo, diventando complice di assassinio collettivo, cioè di genocidio.
La congregazione del clero insieme ad altri quaranta preti, mi ha messo sotto inchiesta per avere scritto che la «vita umana deve essere umana», ma su di lei e sugli altri vescovi e sul Vaticano che appoggiate la forza omicida del governo Berlusconi, nessuna inchiesta per oltraggio palese alla vita di adulti, donne e bambini. Il suo invito a colui che si paragona a Dio e al Messia, che si vanta di essere il «miglior presidente del consiglio degli ultimi 150 anni», è la fine dei saldi della morale, dell’etica, del dottrina sociale, della dignità, del concetto di peccato e grazia: il saldo della religione che lei vende, anzi svende senza neppure esserne il proprietario.


Lei non ha autorità per intervenire in questioni che il Codice vieta ai preti come le alleanze partitiche, le elezioni, le candidature perché è una manomissione della democrazia del Paese Italia, vincolante anche in forza di un concordato che pone paletti alle interferenze e offre garanzie e lauti sussidi. Su queste materie poi lei né la Cei, né tantomeno il Vaticano, Stato estero, potete parlare in nome del mondo cattolico. Lei sa bene che sono questi comportamenti che allontano ancora di più i non credenti, mentre i credenti si avvicinano a passo svelto all’uscio d’uscita della Chiesa. Ho detto al cardinale Bagnasco che deve tenere un occhio al metro di misura che è l’8xmille, in caduta libera, segno della disaffezione sempre maggiore della gente da una gerarchia che si è trasformata da segno di contraddizione in lobby di pressione e di potere, patteggiando con personaggi immondi e immorali.
Il papa invita i preti ad accedere alla rete web. Beh, sappia che uso il computer dal 1982 e la rete dal suo sorgere: se avessi aspettato il consiglio del papa, alla mia et, sarei ancora al lapis e al pennino. Provi ad accedere alla rete, unico strumento di democrazia diretta ancora in vita, e si accorgerà, anzi sentirà l’odore corposo del disprezzo che circonda tutto ciò che sa di «ecclesiastico». Il nostro popolo è saturo di vedere l’autorità ecclesiale che dovrebbe servire il bene e combattere il male, fare comunella con i corrotti e i corruttori, con i delinquenti abituali travestiti da finti religiosi e sempre di più si allarga il fossato tra voi e noi: voi state andando per la vostra strada che vi porta a «mammona iniquitatis» noi, da soli cerchiamo con fatica la strada che ci porti agli uomini e alle donne del nostro tempo e insieme tendere: chi crede all’ incontro con il Dio di Gesù Cristo, chi non crede all’incontro con la propria coscienza e il rispetto degli altri.

Sig. Cardinale, credo che lei ed io non abbiamo molto da spartire, se non l’appartenenza formale alla stessa Chiesa in quanto «struttura», di cui però abbiamo due visioni non solo diverse, ma opposte: lei appartiene al sistema del potere clericale che io combatto con tutte le mie forze, mentre io mi sforzo di appartenere alla «Chiesa dei poveri» con la coscienza di essere una minoranza che sa di avere un solo mandato: il ministero e il magistero della propria testimonianza di vita che nessuno potrà mai rapirmi perché è il segno della Shekinàh/Dimora di Dio tra di noi.
In conclusione, alla luce di quanto sopra descritto e per le ragioni addotte, io, Paolo prete, ripudio anche lei e quello che rappresenta, come il 7 luglio ripudiai con lettera il suo ospite e commensale. Preferisco essere orfano di mercenari piuttosto che avere padrini. «Non ne abbiamo bisogno». Sappia però che con il suo agire e le sue scelte, lei ha autorizzato me e chiunque altro ad operare e agire in maniera esattamente opposta alla sua e mi creda lo farò con onore e con orgoglio, dall’interno della Chiesa di cui sono onorevolmente figlio fedele.

Profondamente inorridito,
Paolo Farinella, prete

http://temi.repubblica.it/micromega-online/papi-a-colazione-da-ruini-don-farinella-basta-complicita-con-i-corrotti/

I discorsi di Mussolini sull’iPhone

MILANO – Bastano 79 centesimi per leggere e vedere i discorsi di Benito Mussolini sul proprio iPhone. Grazie all’applicazione “iMussolini. L’uomo che ha cambiato la storia d’Italia”, creata da un programmatore italiano e caricata sul negozio virtuale della Apple. Con tanto di spiegazione preventiva: «Gli sviluppatori tengono a precisare che l’applicazione non è assolutamente a sfondo politico e non inneggia al fascismo, ma tende a portare su iPhone un documento storico su un personaggio che ha comunque scritto una pagina importante nella nostra storia». Con un invito agli utenti: «Evitare commenti non opportuni che inneggiano al fascismo e che costituiscono apologia di reato».
LE RECENSIONI – Fatto sta che – come ci segnala un lettore, M.G. – l’applicazione è schizzata nella classifica di quelle più acquistate (fino al 2° posto) e tra le recensioni lasciate dagli utenti ci sono commenti più che entusiastici. Sul sito Iphoneitalia.com si legge: «Finalmente si legge qualcosa di italiano», «In fin dei conti il Duce è la nostra storia nel bene o nel male», «Santo subito», «Finalmente un’applicazione seria», «Duce! Duce! Duce!», «Molti nemici molto onore», «Boia chi molla» ecc. Ma ce ne sono altrettanti parecchio critici: «Mi viene da vomitare», «Se fosse storia allora perché confinarla solo a questo personaggio?», «Si raccolgono i discorsi di un dittatore che ha rovinato l’Italia siamo impazziti?», «Si inneggia al fascismo (dittatura) usando internet, ossia l’apoteosi della libertà di pensiero», «Caro sviluppatore crea subito iRepubblica, iCostituzione e iPartigiani gratis!». L’applicazione contiene oltre 120 testi relativi ai principali discorsi di Mussolini, corredati da audio e video. Sono – viene spiegato – documenti storici reperibili negli archivi nazionali, nelle biblioteche, nelle librerie e su internet.
FILTRO AUTOMATICO – In ogni caso viene il dubbio che un giochino del genere, seppur creato con tutte le buone intenzioni, possa dare adito a reazioni che portano all’apologia di fascismo, che in Italia è un reato grazie alla legge Scelba del ’52. Il nostro lettore, indignato, ha deciso di entrare in azione contattando il servizio che offre AppStore (“Segnala un problema: l’applicazione ha un contenuto offensivo”). Il link lo ha portato a un sito di sviluppatori, DevApp.it, i cui gestori hanno risposto prontamente di non essere responsabili dell’applicazione iMussolini, realizzata da un loro collaboratore (Luigi Marino) che dunque avrebbe inserito erroneamente il riferimento al sito per cui lavora nel campo delle segnalazioni per gli utenti. Lo stesso Marino, contattato dal Corriere.it, ha ribadito che l’applicazione ha soltanto valore storico e ha invitato gli utenti ad «evitare commenti non opportuni che inneggino al fascismo e che costituiscano apologia di reato». Marino ha inviato una segnalazione alla Apple chiedendo di rimuovere le frasi non accettabili e auspica: «Evitiamo di trasformare un’applicazione storica in un’occasione per il solito e inutile scontro ideologico completamente fuori luogo».
130MILA APPLICAZIONI – Dall’AppStore spiegano che la società statunitense non controlla le applicazioni una ad una, ma che queste vengono filtrate da un sistema automatico in grado di bloccare quelle contenenti delle keyword elencate in una “lista nera”. Evidentemente nessuna delle parole contenute nel programma iMussolini è prevista. In certi casi la Apple procede anche con la cancellazione a posteriori, ma solo nel caso riceva molte segnalazioni negative dagli utenti. E comunque, si legge nel paragrafo “Termini e condizioni”, «iTunes non si assume alcuna responsabilità per materiali o siti web di terzi» e «per il materiale che si potrebbe considerare offensivo, indecente o sgradevole». Non va dimenticato che al momento le applicazioni per iPhone sono circa 130mila, con 3 miliardi di download in un anno e mezzo. E che alla Apple va il 30% del ricavato dalla vendita di ciascuna di esse, mentre il 70% va allo sviluppatore. Un grosso business, che supera addirittura quello della vendita dei telefonini.

http://www.corriere.it/cronache/10_gennaio_22/iphone-discorsi-mussolini-applicazione_c643bfd8-0761-11df-8946-00144f02aabe.shtml?fr=correlati

Sulle tracce degli orchi: 1946-1994

Finita la guerra una parte dei protagonisti del massacro di Bullenhuser Damm sedettero sul banco degli imputati.
Il tribunale militare inglese nel cosiddetto “processo della Curiohaus” condannò a morte il comandante del campo Max Pauly. Il dottor Alfred Trzebinski e Wilhelm Dreimann salirono al patibolo l’8 ottobre 1946. Johann Frahm ed Ewald Jauch furono impiccati il 10 ottobre successivo.
Durante il processo emersero le responsabilità di Kurt Heissmeyer, di Arnold Strippel e di Hans Klein ma ci sarebbero voluti molti anni per ritrovare le loro tracce.

Heissmeyer era ritornato nella sua città natale di Magdeburgo ed aveva ripreso tranquillamente la sua attività di medico senza neppure cambiare il proprio nome.
Fu soltanto per caso che ci si ricordò di lui.
Il 21 maggio 1959 il settimanale Stern pubblicò una serie di articoli tra i quali uno di Jurgen von Kornatzsky che accennava al massacro di Bullenhuser Damm.
Il giornalista nominava Heissmeyer come responsabile degli assassinii. Un lettore della rivista segnalò di conoscere un dottor Heissmeyer che lavorava a Magdeburgo nella allora Repubblica Democratica Tedesca.
La notizia si rivelò esatta. Kurt Heissmeyer lavorava tranquillamente, aveva cresciuto i suoi figli e godeva di un discreto tenore di vita. Occorsero anni prima che le autorità l’arrestassero.
Soltanto il 13 dicembre 1963 la polizia si presentò nella sua casa di Gallertstrasse 12 per condurlo in carcere.
Durante gli interrogatori che seguirono Heissmeyer non manifestò alcun pentimento.
Il processo contro di lui si concluse il 30 giugno 1966 con la condanna all’ergastolo. Gli venne risparmiata la pena di morte (ancora in vigore nella DDR sino al 1987) perché l’accusa non riuscì a dimostrare che fu lui ad ordinare l’uccisione dei bambini e dei testimoni. Heissmeyer aveva allora 60 anni.
Venne incarcerato nella prigione di Bautzen. L’anno successivo la moglie presentò domanda di grazia in considerazione del fatto che il marito era gravemente malato di cuore. Prima di un pronunciamento della corte Heissmeyer morì di infarto il 29 agosto 1967.

strippel3.jpgL’altro orco, Arnold Strippel, era stato processato nel 1948 per la sua attività criminale nei campi di concentramento a 21 ergastoli e 10 anni di detenzione.
I capi di accusa si riferirono all’uccisione di ventuno ebrei nel campo di Buchenwald e ad altre atrocità.
Il tribunale di Francoforte che emise la sentenza non svolse alcuna indagine sui fatti di Bullenhuser Damm anche se il nome di Strippel era emerso al processo contro Trzebinski due anni prima.
Soltanto nel 1965, a seguito del processo a Heissmeyer Strippel venne nuovamente indagato ma, incredibilmente, il fascicolo venne chiuso nel giugno 1967 dal pubblico ministero di Amburgo Munzberg per insufficienza di prove.
Il 21 aprile 1969 venne rilasciato dal carcere di Butzbach. Nel 1970 chiese ed ottenne un processo di revisione della condanna del 1948: i 21 ergastoli vennero ridotti a 6 anni di carcere già scontati.
A seguito di questa decisione il ministero della Giustizia riconobbe a Strippel più di 120.000 marchi a titolo di riparazione per “l’ingiusta condanna”. Nessun ex prigioniero dei campi di concentramento ottenne mai un risarcimento così cospicuo.
Nel 1979 il giornalista tedesco Gunther Schwarberg iniziò ad occuparsi di Strippel, una campagna stampa sulla rivista “Stern” fece conoscere in Germania la storia dei bambini di Bullenhuser Damm. La scuola venne dichiarata “Luogo del Ricordo” dalla città di Amburgo il 20 aprile 1980. Pochi giorni dopo un gruppo neonazista faceva esplodere una bomba davanti all’edificio.
Grazie all’impegno di Schwarberg vennero trovati i testimoni, i parenti dei bambini e i documenti necessari per riaprire un procedimento contro Strippel.
Il processo si concluse il 20 gennaio 1987 quando il Tribunale regionale di Amburgo impose la cessazione del processo per l’impossibilità fisica di Strippel di sostenerlo. Strippel morì il 10 maggio 1994.
Petersen, l’autista del camion invecchiò tranquillamente senza alcun fastidio da parte della giustizia.
Hans Klein il patologo di Hohenlychen che studiò le ghiandole dei bambini inviate da Heissmeyer non soltanto non ebbe problemi con la giustizia ma, anzi, divenne professore universitario all’Università di Heidelberg.

“Ma chi te lo fa fare?”

“Ma chi te lo fa fare?” E’ la domanda ricorrente, ormai è diventato quasi un mantra. Ma oggi è una di quelle giornate in cui le risposte si trovano facilmente. Basta ascoltare, come stamattina al Teatro Ariosto, la testimonianza di  Andrée Geulen Herscovi, una dei Giusti fra le Nazioni. Aveva 19 anni e salvò centinaia di bambini ebrei nel Belgio occupato. Oggi ha 96 anni ma è ancora lucida, chiara, a rivendicare di aver fatto la cosa giusta. Insieme a lei uno di quei ragazzi che l’ha considerata da allora la sua “seconda mamma”. Il Teatro era pieno, centinaia di giovani, quei giovani partiranno fra poche settimane per il “Viaggio della Memoria” verso Auschwitz-Birkenau. Quasi mille giovani. Si chiama investimento sul nostro futuro, si chiama istruzione democratica, si chiama credere nel valore dell’umanità.

“Ma chi te lo fa fare?”, la risposta oggi è più facile per i tanti che lavorano perchè questo progetto vada in porto. Ma oggi è un giorno speciale. Poi viene la normalità. La fatica di lavorare sulla memoria, sulla costruzione di una cittadinanza repubblicana antifascista per gli altri 364 giorni. Fatica. Sì, a Reggio Emilia, medaglia d’oro per il suo contributo alla Resistenza. La terra dei Cervi, di don Pasquino e di altri mille ragazzi e ragazze che decisero che valeva la pena rischiare a propria vita. Facile ricordare una volta all’anno, ma l’educazione si costruisce giorno per giorno, con quell’opera di “manovalanza democratica” che coinvolge tanti amici, operatori, ricercatori. Fatica, di fronte all’indifferenza, talvolta all’educata sopportazione di amministratori e uomini di potere che ti guardano con un misto di benevolenza e noia, come a dire: “ancora ‘sta roba?”, senza rendersi conto che loro hanno quello che hanno perchè qualcun’altro ha fatto quelle scelte, ha costruito quella democrazia di cui loro stanno godendo gli aspetti migliori.

Fatica. Perchè qui a Reggio, nella quotidianità degli altri 364 giorni le cose sono difficili, quasi si tratta di ripartire ogni giorno in un’opera di convincimento che si infrange il più delle volte nell’arroganza, nella supponenza, nella vanità. Reggio è una città che non ha un luogo dove viva la Memoria della città, un luogo dove chi viene a trovarci possa capire il perchè della nostra storia, di come abbiamo costruito la nostra identità democratica e antifascista, oggi così traballante. Reggio ha condotto, in passato, un’operazione di avanguardia concentrando in un unico Polo Archivistico gli archivi del ‘900, salvandoli dalla distruzione. E’ la memoria di tutti, messa al riparo perchè tutti possano usufruirne. Ora quell’esperienza rimane appesa, mese per mese, alla generosità di un nuovo piccolo contributo, sottrattto alle “grandi iniziative” con cui si pensa di cambiare la storia della nostra comunità, cadendo invece nel provincialismo più inutile.

Reggio può vantare su un patrimonio fondamentale di luoghi, di pietre ancora parlanti: il carcere di S.Tommaso, il Poligono di Tiro, la canonica di Tapignola, la nostra montagna tutta. Quando i testimoni non ci saranno più resteranno le pietre a parlare, se le vorremo ascoltare. Ma resteranno mute, di fronte all’incapacità, alla superficialità contro cui ogni giorno ci troviamo a confrontarci. Siamo stati incapaci di rinnovare la nostra cultura democratica, di dare una sostanza al futuro. Ascoltiamo lo smarrimento degli amministratori di fronte al diffondersi del virus leghista senza capire di quanto abbia bisogno la nostra comunità di cultura, di educazione democratica. Ha bisogno di strutture, di muri, di archivi, non di vanità, di notti più o meno colorate, di kermesse intellettualistiche.

“Ma chi te lo fa fare?”. Io la so la risposta. L’ho trovata sulla judenrampe di Birkenau quella volta, nevicava, il gelo e il vento di febbraio. Il caso mi aveva portato lì nello stesso giorno, sabato 26, in cui era arrivato il convoglio da Fossoli, fra i tanti i dieci ebrei reggiani e Primo Levi. Ho recitato per loro il kaddish, la preghiera dei morti, non sono ebreo ma credo fosse quello il modo migliore per dire che c’era ancora chi ricordava. Chi sarebbe tornato a casa e avrebbe continuato a far fatica. Perchè era giusto e ne valeva la pena.

Craxi al posto di De Gasperi, Salò al posto della Liberazione…

Craxi al posto di De Gasperi, Salò al posto della Liberazione. Così legittimano Berlusconi (intervista di Bianca Di Giovanni a Giovanni De Luna)

Una rilettura della storia con un obiettivo preciso: la legittimazione dell’egemonia di centrodestra. Così
Giovanni De Luna, docente di Storia contemporanea all’Università di Torino, «legge» le cronache delle ultime
ore sul decennale della morte di Bettino Craxi. Un’operazione esplicita, che compendia il lavoro iniziato già negli anni Novanta: demolire le fondamenta della Prima Repubblica per legittimare la Seconda.
Cambiando i «Protagonisti della Storia»: non più l’antifascismo, ma l’anticomunismo. Non più De Gasperi ma Craxi. Il quale rappresenta il punto di svolta, con un paradosso di fondo che nessuna rilettura potrà mai cancellare. Il centrodestra fa di Craxi una vittima dei comunisti, eppure dalla sua caduta uscirono rafforzati proprio la Lega e lo stesso Berlusconi. Senza quella drammatica cesura, il centrodestra di oggi non esisterebbe. Così il Pdl si ritrova in un nonsenso: condannare il proprio atto di nascita per autolegittimarsi.
Allora possiamo parlare di revisionismo.
«Io sostengo che il revisionismo è lo spirito della storia, purché questo avvenga nell’ambito della ricerca.
Ma nel caso di Craxi non è così: si prescinde totalmente dalla ricerca storica. La rilettura è completamente slegata da nuove fonti, nuove scoperte. Craxi viene legittimato nell’arena dell’uso pubblico della storia. Su di luinon esistono fonti alternative a quelle giudiziarie. Non esistono fonti attendibili per lo storico. Così l’obiettivo è costruire una vulgata per giustificare il centrodestra di oggi. Si tratta di legittimare la seconda Repubblica».

Il collegamento tra Craxi e l’autolegittimazione è abbastanza esplicito. Basti leggere quello che dice Maurizio Sacconi ad Hammamet: la rilettura del passato serve a superare il giustizialismo di oggi.

«Sì, il collegamento è esplicito e si fonda su una lettura del crollo della Prima Repubblica di tipo complottistico. Secondo questa tesi Craxi sarebbe caduto per via delle toghe rosse e dei comunisti, e non perché non seppe porsi come interlocutore politico di nuovi soggetti sociali che pure lui aveva individuato. La teoria del complotto tuttavia contraddice quello che il centrodestra è. Chi si è giovato della caduta di Craxi non furono i comunisti, che in realtà volevano mantenere la Prima Repubblica essendone parte integrante, ma Berlusconi e soprattutto la Lega. La Lega è stata protagonista di quei fatti, ha organizzato il lancio di monetine contro De Michelis lungo le calli di Venezia, ha sventolato cappi in Parlamento, Bossi insultò la Boniver. I veri eredi di quell’epoca sono loro, non certo i comunisti che ne sono usciti dilaniati».
Colpisce che l’ansia di riabilitazione sia pressante negli ex socialisti, mentre i Dc che governarono con Craxi si espongono meno.
«Gli eredi della Dc non sono più in grado di organizzare la memoria. È un fatto di egemonia».
Questo tipo di revisionismo è unsegno di forza o di debolezza?
«La forza del revisionismo sta nei suoi paradigmi, più vicini ai luoghi comuni che alla complessità della ricerca storica. Sicuramente quello che sta avvenendo è una decostruzione a tutto campo. Sta avvenendo la stessa cosa su Salò. la ricerca storica continua a portare prove molto pesanti sulle responsabilità degli italiani negli eccidi. Eppure l’unica costruzione che ha vinto è quella di Gianpaolo Pansa sul sangue dei vinti. E l’unica vulgata che ancora regge è di stampo azionista. La storiografia ex comunista si è totalmente disintegrata. È un segno dei tempi che i primi due segretari del Pd abbiano scritto due romanzi. Con i vecchi leader del pci non sarebbe avvenuto così. La sinistra ha perso il rapporto con la storia: anche l’albero genealogico del Pd resta poco chiaro. Gramsci c’è o non c’è? E Togliatti? E l’antifascismo?»

Da: “L’Unità”, 18.1.2010

“Sorridevano ed erano felici”

Al processo Trzebinski ricordò il massacro con queste parole:
“I bambini avevano con se tutti i loro bagagli, del cibo, i giocattoli. Si sedettero sulle panche che erano lì tutt’intorno, sorridevano ed erano felici di trovarsi fuori dal campo”
.

Dopo aver impiccato i medici, gli infermieri e i russi le SS rientrarono nella stanza dei bambini.
Avevano atteso a lungo seduti sugli sgabelli. Trzebinski tirò fuori dalla borsa le siringhe e la morfina:
frahm.jpg“Frahm (foto) rientrò (…) lo presi da parte e gli domandai cosa sarebbe successo ai bambini. Lui rispose che li avrebbe impiccati.
Potrei raccontare il falso e dire che venni minacciato con la pistola ma la verità è un’altra: non vi fu nessuna discussione perché secondo me i bambini non potevano più essere salvati. Se avessi fatto l’eroe i bambini forse sarebbero morti più tardi ma il loro destino non sarebbe cambiato.
Avevo con me della morfina era una soluzione 0,2 da 20,0. Chiamai un bambino dopo l’altro. Si stesero su uno sgabello ed io feci loro una puntura sul sedere, dove è più indolore. Affinché i bambini pensassero che questa fosse veramente una vaccinazione, ho sempre preso un ago nuovo. Il dosaggio entrava in circolazione e i bambini si facevano deboli. Dicevo a tutti i bambini che erano in una buona condizione, tranne uno di 12 anni che era veramente in pessima salute. A causa della debolezza fu lui a prendere sonno per primo.
Erano rimasti svegli dai 6 agli 8 bambini, gli altri dormivano già. Frahm prese in braccio il ragazzo dodicenne e disse agli altri: “Lo porto a letto”. Andò con lui in una stanza che era 6 o 8 metri lontana dalla sala dove aspettavamo e lì vidi un cappio appeso ad un gancio. A questo cappio Frahm impiccò il bambino addormentato e vi si appese con tutto il peso del suo corpo affinché il cappio si stringesse.
Nel periodo che ho trascorso nel campo di concentramento ho visto molte cose inumane nel lager ed ero anche in qualche modo insensibile, ma non avevo ancora visto un bambino impiccato.”

Il 29 marzo 1946 al processo il pubblico ministero Stewart interrogò il boia Frahm.

Frahm: Portarono i bambini nella cantina e fecero loro delle iniezioni. Trzebinski fece le iniezioni, e Speck e Dreimann li portarono in cantina.
Stewart: Cosa accadde ai bambini?
Frahm: Si addormentarono.
Stewart: E cosa successe allora?
Frahm: I corpi furono portati via il giorno dopo.
Stewart: Cosa intende quando parla di corpi?
Frahm: Erano morti.
Stewart: Morirono per le iniezioni?
Frahm: Sì.
Avvocato Lappenberg: Morirono per effetto delle iniezioni o per qualche altro motivo?
Frahm: Morirono per effetto delle iniezioni. Qualche bambino fu successivamente impiccato.
Lappenberg: E quando avvenne l’impiccagione?
Frahm: Immediatamente dopo.
Lappenberg: Chi mise la corda al collo dei bambini?
Frahm: Io.
Stewart: Quanti bambini furono impiccati dopo le iniezioni?
Frahm: Forse la metà.
Stewart: Erano più o meno di dieci?
Frahm: più.
Stewart: Quanto durarono le impiccagioni dei bambini?
Frahm: Rimasero impiccati per circa dieci minuti, ma non sono sicuro.
Presidente: Lei ha detto che ne furono impiccati dieci?
Frahm: Non so il numero esatto.
Lappenberg: Lei ha detto che circa la metà dei bambini fu impiccata. Non furono impiccati tutti?
Frahm: Non lo so.
Avvocato Halben: Era lì il comandante Strippel?
Frahm: Sì, era lì di volta in volta.
Presidente: Ha ricevuto qualche ricompensa?
Frahm: Sì, abbiamo ricevuto sigarette e grappa.

Bullenhuser Damm

Il camion con i bambini a bordo impiegò una decina di minuti, alle 22.30 circa si fermava in Spaldingstrasse davanti alla scuola di Bullenhuser Damm.
bullenhusen.jpgSi trattava di un palazzo che era rimasto indenne intorno ad un mare di rovine provocate dai bombardamenti Alleati su Amburgo. Le SS avevano adibito la ex scuola a campo di concentramento satellite di Neuengamme e vi avevano concentrato prigionieri provenienti dalla Danimarca e dalla Norvegia.
La vecchia scuola era vuota: tutti i prigionieri erano stati evacuati sui camion della Croce Rossa Svedese.
Ad aspettare il camion a Bullenhuser Damm c’è l’Obersturmführer Strippel: è il comandante del subcampo.
Secondo quanto racconta Trzebinski tra le due SS si accese una discussione:
“Chiesi a Strippel di parlargli in privato, gli parlai molto chiaramente, gli dissi che occorrevano istruzioni: il “Dipartimento Heissmeyer era stato dissolto e Max Pauly mi aveva affidato lo spiacevole compito di avvelenare i bambini.
Gli dissi che non avevo intenzione di farlo e che non avevo veleno. Strippel mi rispose che se Pauly aveva dato un ordine occorreva eseguirlo.
Gli dissi allora che non avevo portato con me il veleno intenzionalmente. Strippel si irritò e mi disse che se le cose stavano così avrebbe potuto mettermi al muro e che non era il caso che lo sfidassi.
Ribattei che occorreva un ordine da Berlino e che se fosse arrivato l’avremmo eseguito. Continuammo a discutere a proposito del veleno che non avevo con me. Alla fine disse che visto che io ero un codardo avrebbe preso in mano lui la cosa”

I russi, i medici, gli infermieri vennero fatti scendere dal camion e fatti entrare nella scuola. I due medici francesi e gli infermieri olandesi furono sistemati in una stanza, i bambini in un’altra e i russi nel locale caldaie.
Nella scuola insieme a Trzebinski c’erano Strippel, Jauch, Frahm e Dreimann.
Erano circa le 23 del 20 aprile 1945. I primi a morire furono i medici francesi e gli infermieri olandesi.
Al processo Jauch ricordò:
“Dreimann aveva attaccato quattro corde a dei ganci e mise il cappio intorno al collo dei prigionieri poi li sollevò dal suolo e li tenne così per tre o quattro minuti fino a che non morirono. Constatai che contrariamente a quanto era stato detto nessuno oppose resistenza. Sarei stato contento di salvare il medico francese [Quenouille] ma non ero in grado di farlo.”
Quenouille, Florence, Deutekom e Holzel pendevano dai ganci, strangolati dal cappio. Nell’altra stanza venivano impiccati i sei russi. Ora toccava ai bambini.

http://www.olokaustos.org/argomenti/bambini/bullen12.htm

Il crepuscolo del dalemismo reale (L.Telese)

Chissà quanto deve essergli costato al lìder maximo, ieri, dopo la vittoria a valanga di Nichi Vendola, vergare quel comunicato apparentemente anodino, e in realtà amarissimo (almeno per lui): “La larga vittoria di Vendola nelle elezioni primarie del centrosinistra pugliese – spiegava dopo la scoppola il presidente di ItalianiEuropei – conferma il legame del presidente della nostra regione con tanta parte dell’elettorato del centrosinistra, compresi gli elettori del Pd”. Sublime.
Voltafaccia doloroso. Chissà quanto deve essergli costato, dopo sette giorni passati a combattere ventre a terra in Puglia contro Nichi, dopo le decine di comizi e le centinaia di telefonate, dopo le dichiarazioni roboanti, dopo aver gridato quello slogan-tormentone su tutte le piazze: “Abbiamo il dovere di difendere Nichi Vendola da se stesso!” (che ora si potrebbe tranquillamente applicare a lui).
“Non ho mai perso un’elezione!”, assicurava spavaldo con una certa spensierata approssimazione (che “dimenticava”, tanto per fare un esempio, le regionali che gli costarono Palazzo Chigi).Es ubito dopo aggiungeva: “Se Vendola vince le primarie perderà le secondarie!”.
Adesso è quasi divertente leggere il suo sermoncino, unitario ed encomiastico, indietro tutta compagni: “Ora il Pd – spiega come se non avesse mai detto tutto quello che ha detto – ritrovi la sua unità nello sforzo di costruire intorno al candidato Vendola la convergenza più ampia possibile e di rafforzare l’ispirazione riformista della nostra proposta di governo”. Parole simili a quelle di un altro convertito delle primarie, quel Michele Emiliano che due settimane fa diceva: “Nichi è un traditore!”, e che ieri salmodiava: “Vendola non ha dato una lezione a Boccia, ma a tutto il Pd” (ovvero anche a lui?).
La realpolitik d’abord. Però, se si prova a leggere questa ennesima sconfitta del dalemismo presi dalla lente dell’emotività o della febbre mediatica, si rischia di non capirne la portata. Per lungo tempo l’ex ministro degli Esteri aveva rappresentato l’incarnazione di un’idea antichissima e persino razionale della politica.
L’apologia della realpolitik, l’elevazione dell’iperrealismo pessimista a dogma, la necessità della manovra di corridoio non come compromesso di bassa lega, ma come sublimazione delle irrevocabili leggi dettate dalla scienza machiavellica. Il dalemismo non è stato un incidente della storia, ma la sublimazione di un mondo, un modo di vedere le cose.
Dalemismo tolemaico. Da ieri, dopo essere stato sconfitto nella sua Gallipoli per 800 a 200 (e nella Fasano del suo epigono Nicola Latorre con uno stacco ancora più netto), D’Alema dovrebbe avere il coraggio di rivedere le sue convinzioni tolemaiche: non è più la politica italiana che deve girare intorno alle certezze del lìder maximo, ma lui che deve capire che è giunto il momento di un passo indietro.
Sabina Guzzanti, nelle sue indimenticabili imitazioni lo raffigurava sempre intento a tessere grandi disegni, strategie, accordi, i cosiddetti “dalemoni”. E lui, che nella sua prima passione pugliese non indossava mai i jeans perché troppo pop, che passava ore a giocare a Risiko e spezzava i tappi di bottiglia con le mani per conquistarsi il nomignolo epico di “Spezza-ferro”, sotto sotto ha sempre gradito questo riconoscimento.

Fu “un dalemone” l’operazione che portò alla caduta di Prodi, aperta da un vero e proprio discorso di metodo a Gargonza (fece indignare Umberto Eco) all’insegna dello slogan: “Prima i partiti”.
Fu un dalemone la cattedrale incompiuta della Bicamerale. E’ stato un dalemone il tentativo di usare Palazzo Chigi come piedistallo per costruire (come scrivevano i suoi “Lothar”) una leadership moderna e personale di tipo blairiano. Un lavoro paziente doveva portarlo alla presidenza della Camera (dove invece si piazzò Fausto Bertinotti) e un altrettanto meticoloso disegno doveva spalancargli le porte del Quirinale (dove invece Veltroni piazzò Giorgio Napolitano).
Nulla di tutto questo è riuscito: se si leggesse la carriera di D’Alema con gli occhi della realpolitik che lui voleva imporre alla Puglia, si dovrebbe registrare un cumulo di fiaschi. Ciò che resterà del “dalemismo reale”, paradossalmente è la scrittura quasi letteraria di un personaggio affascinante e drammatico, un carisma algido ma innegabile, un combattente indefesso, ma molto vicino alla dimensione fantastica del don Chisciotte di Cervantes.
La disgrazia (o la fortuna) di D’Alema, oggi, è l’essersi circondato da una setta di adoratori inventivi che lo seguirebbero anche nelle fiamme – i lothar – ma che non lo hanno preservato da se stesso. Solo un mese fa D’Alema si misurava i panni del ministero degli Esteri europeo, ora ripiega mestamente sulla poltrona del Copasir, che per lui è la caricatura di un incarico istituzionale, la parodia di una carriera.
Certo la Commissione di controllo sui servizi garantisce l’auto con il lampeggiatore blu, la vivificazione del titolo onorifico di “presidente” (che nella politica italiana non si nega nemmeno ai peones dei consigli comunali), l’ufficio e lo staff di quattro collaboratori a contratto.
Chi ha amato la linearità del pensiero dalemiano anche quando non ne condivideva una virgola, le battute salaci (“Le bugie hanno le gambe corte anche se portano i tacchi”), le definizioni folgoranti (“I cacicchi”, “L’inciucio”, “i flaccidi imbroglioni Prodi e Veltroni”), gli origami, il foot foot che faceva impazzire Striscia, le partite di Tetris a L’Unità e le regate da capitano coraggioso sul suo Ikarus, resta come deluso, da questa ricerca di un fondo pensione di Palazzo.
A Federico Geremicca, alla vigilia del voto pugliese, quando i sondaggi già annunciavano la débâcle consegnava parole scaramantiche: “Immagino già le sciocchezze che scriveranno: ‘La fine del dalemismo’, ‘la sconfitta del re di Puglia’, ‘il declino di D’Alema’. Sono anni che aspettano di poterlo dire”.
Invece noi de il Fatto – anime candide – non ci avevamo pensato. E’ stato lui a darci l’idea: sempre brillante, se non altro, nello scriversi l’epitaffio. A L’Espresso D’Alema, con piglio neo-andreottiano disse: “La sinistra è un male che solo l’esistenza della destra rende sopportabile”. Se Vendola ha un merito, è quello di aver dimostrato che è un bellissimo gioco di parole. Ma non è vero.

Da il Fatto Quotidiano del 26 gennaio

Divertiamoci (si fa per dire)

Ingiustizie
Materazzi alla fine della partita Inter-Milan ha indossato la maschera del cavaliere ricucito. “E’ una goliardata” ha detto. Ora pare che sarà multato. Che ingiustizia è mai questa? Per lui che s’è messo una maschera una multa e all’originale nulla? Neanche un buffetto? Uno scappellotto? Un cartellino giallo/rosso/marrone?

Puglia felix
La Volpe di Gallipoli, l’Aureliano Buendia dei poveri ha colpito ancora. Un piano geniale, machiavellico, sofisticato. Finito in vacca, as usual. Ma il problema non è lui, siamo noi che non capiamo tanta genialità. In questi casi che si fa? Come disse Brecht, in occasione dell’insurrezione operaia di Berlino del 1953 (sedata dai tank amici sovietici): “Quando la classe operaia critica i suoi dirigenti, si cambia…la classe operaia!

Cattiva digestione
Cos’ha mangiato ieri sera il card.Bagnasco che stamane se n’è uscito con un “Sogno una classe politica cattolica!”? Cavoletti di bruxelles? Peperonata? Impempata di cozze? O forse si è svegliato da un lungo sonno? Dov’era il cardinale mentre una classe politica “cattolica” divorava per decenni lo Stato? Dov’era mentre il virus leghista devastava il nord? Dov’era mentre la Cei ruiniana stringeva gli accordi più pagani (ma..paganti) con il sovrano del Regno dei Birboni? “I have dream” disse uno che-non a caso si chiamava Martin Lutero. Anch’io ho un piccolo sogno: che i cardinali stessero ben svegli e facessero il loro lavoro che non è facile nè semplice (se fatto bene).

Pari opportunità
E poi dicono che il sesso debole non conta nulla: Cinzia, Mara, Mariastella, Patrizia, Pucci, Piffi, Cicci. Altrochè se contano, vedi i danni che provocano (o i guadagni che raccolgono). Donne abili o maschi pirla?