L’ultimo colpo alla memoria: Via Tasso a rischio per 50mila euro

di Lucina Cimino

C’è una piccola strada il cui solo nome, nella Capitale occupata dai nazisti, a pronunciarlo alle donne di Roma (madri, mogli, sorelle, che aspettavano con il cambio in mano sotto le finestre murate pregando che fosse loro restituito) metteva i brividi. Perché al numero 145 di via Tasso si trovava il carcere delle SS di Herbert Kappler. Oggi in quella via che porta dritta alla Basilica di San Giovanni, si respira di nuovo un’aria oscurantista, perché il Museo della Liberazione che è sorto all’interno di quelle stesse mura dagli anni 50 è a rischio chiusura, con tutto il suo patrimonio di memoria.

Hanno attraversato quel portone 2500 persone in 9 mesi, tra il ’43 e il ‘44. I cosiddetti prigionieri politici: comunisti, sindacalisti, badogliani. Interrogati violentemente fino alla tortura e rimandati nelle strette celle sanguinanti e piegati dal dolori affinché i compagni di sventura potessero vederli e fossero loro di monito. Tra quelle mura sono stati detenuti l’ex-presidente della Corte Costituzionale Giuliano Vassalli, il sindacalista Bruno Buozzi, l’italianista Carlo Salinari, il sacerdote don Pietro Pappagallo (che ispirò a Roberto Rossellini il personaggio interpretato da Aldo Fabrizi nel film “Roma Città Aperta”), il colonnello Giuseppe Montezemolo e tanti altri sconosciuti partigiani e cittadini, tra cui oltre 300 donne, che hanno lasciato sulle pareti delle celle i segni graffiati della loro resistenza: avvertimenti, firme, messaggi di incoraggiamento per i compagni, notizie ai famigliari.

Dal 1955 i locali di via Tasso sono diventati il “Museo Storico della Liberazione”, visitato ogni giorno da decine di scolaresche. Alle pareti documenti e profili dei caduti per la libertà. Ora però tutto questo corposo patrimonio di memoria, che ricorda che Roma è una città antifascista, capitale di uno stato la cui Costituzione si fonda sui valori scaturiti dalla Resistenza, ebbene tutto questo rischia di chiudere. «Il Museo compariva fin nei primi comunicati ufficiali ministeriali sui tagli finanziari – dice Antonio Parisella, presidente – anche se ancora non c’è arrivata nessuna comunicazione al riguardo». La situazione è grave e Parisella la sintetizza così: «Se il governo ci taglia i fondi, c’è il rischio che dopo la chiusura estiva non riapriamo, se non ce li taglia, riusciremo ad andare avanti fino a febbraio o marzo».

Il museo si regge su un finanziamento statale del valore nominale di 100 milioni di lire del 2000, e cioè 50 mila euro, che, in base ad una legge del ‘57 dovrebbero garantire il funzionamento dell’istituto, che, è bene ricordarlo, si basa sul lavoro volontario. E nel frattempo il potere d’acquisto si è dimezzato e le spese sono cresciute perché sono stati acquisiti altri due appartamenti dello stabile e perché i visitatori sono aumentati nell’ultimo decennio da 7/8 mila a 12/13 mila unità. Inutile in questo contesto aspettarsi installazioni multimediali o finanche revisione dell’impianto elettrico. «Abbiamo un impianto audio-video obsoleto, i muri andrebbero ritinteggiati, non possiamo aumentare le ore di apertura d’inverno per non far lievitare i costi di energia elettrica, i volantini li autoproduciamo con le fotocopie, abbiamo esigenza di produrre materiali informativi in lingua straniera: siamo sulle guide ma poi i turisti vengono qui e hanno pochi strumenti per la visita».

Tutto è fermo all’allestimento del ‘55, basato sul modello “sacrario militare”. «Vorremmo togliere i quadretti e mettere i pc – continua Parisella – senza togliere nulla al valore etico e civile del posto, ma ci vuole una scelta politica di investire sul Museo, non solo centrale ma anche delle amministrazioni locali per adeguarlo agli standard degli analoghi delle capitali europee». Già, gli enti locali. Il presidente del museo ha scritto a maggio una lettera indirizzata al sindaco Gianni Alemanno, al presidente della Provincia di Roma, Zingaretti e a Renata Polverini, presidente della Regione Lazio e ad Andrea Mondello, presidente della Camera di commercio. Chiedeva loro di accordarsi per integrare il contributo statale per garantire la gestione ordinaria dei servizi e di chiedere alle società partecipate di quegli enti che invece contribuissero per le spese straordinarie (come le audio guide, adesso a far da guida alle scolaresche ci pensano insegnanti in pensione). Finora nessuna risposta ufficiale, solo qualche disponibilità espressa oralmente.

«La Cgil il 25 aprile ci ha inviato 500 euro e anche associazioni, gruppi, circoli Anpi ogni tanto ci fanno giungere contributi significativi, anche se modesti. Ma per andare avanti abbiamo bisogno di un flusso abbastanza continuo anche dei contributi di cittadini e società civile: lo sviluppo sarà in mano loro». Per questo hanno lanciato un appello su Facebook: «La solidarietà è tantissima, ma i versamenti finora sono pochi, anche se per creare – dice ancora Parisella – un atteggiamento di disponibilità a partecipare al finanziamento del Museo serve un po’ di tempo». Museo che, tra l’altro, è stato vittima di un attentato dinamitardo di stampo antisemita nel 99 ed è spesso oggetto di scritte naziste, le ultime il 27 gennaio 2010, «vederlo chiuso farebbe piacere a molti».

L’Unità, 20.7.2010

“Ma chi te lo fa fare?”

“Ma chi te lo fa fare?” E’ la domanda ricorrente, ormai è diventato quasi un mantra. Ma oggi è una di quelle giornate in cui le risposte si trovano facilmente. Basta ascoltare, come stamattina al Teatro Ariosto, la testimonianza di  Andrée Geulen Herscovi, una dei Giusti fra le Nazioni. Aveva 19 anni e salvò centinaia di bambini ebrei nel Belgio occupato. Oggi ha 96 anni ma è ancora lucida, chiara, a rivendicare di aver fatto la cosa giusta. Insieme a lei uno di quei ragazzi che l’ha considerata da allora la sua “seconda mamma”. Il Teatro era pieno, centinaia di giovani, quei giovani partiranno fra poche settimane per il “Viaggio della Memoria” verso Auschwitz-Birkenau. Quasi mille giovani. Si chiama investimento sul nostro futuro, si chiama istruzione democratica, si chiama credere nel valore dell’umanità.

“Ma chi te lo fa fare?”, la risposta oggi è più facile per i tanti che lavorano perchè questo progetto vada in porto. Ma oggi è un giorno speciale. Poi viene la normalità. La fatica di lavorare sulla memoria, sulla costruzione di una cittadinanza repubblicana antifascista per gli altri 364 giorni. Fatica. Sì, a Reggio Emilia, medaglia d’oro per il suo contributo alla Resistenza. La terra dei Cervi, di don Pasquino e di altri mille ragazzi e ragazze che decisero che valeva la pena rischiare a propria vita. Facile ricordare una volta all’anno, ma l’educazione si costruisce giorno per giorno, con quell’opera di “manovalanza democratica” che coinvolge tanti amici, operatori, ricercatori. Fatica, di fronte all’indifferenza, talvolta all’educata sopportazione di amministratori e uomini di potere che ti guardano con un misto di benevolenza e noia, come a dire: “ancora ‘sta roba?”, senza rendersi conto che loro hanno quello che hanno perchè qualcun’altro ha fatto quelle scelte, ha costruito quella democrazia di cui loro stanno godendo gli aspetti migliori.

Fatica. Perchè qui a Reggio, nella quotidianità degli altri 364 giorni le cose sono difficili, quasi si tratta di ripartire ogni giorno in un’opera di convincimento che si infrange il più delle volte nell’arroganza, nella supponenza, nella vanità. Reggio è una città che non ha un luogo dove viva la Memoria della città, un luogo dove chi viene a trovarci possa capire il perchè della nostra storia, di come abbiamo costruito la nostra identità democratica e antifascista, oggi così traballante. Reggio ha condotto, in passato, un’operazione di avanguardia concentrando in un unico Polo Archivistico gli archivi del ‘900, salvandoli dalla distruzione. E’ la memoria di tutti, messa al riparo perchè tutti possano usufruirne. Ora quell’esperienza rimane appesa, mese per mese, alla generosità di un nuovo piccolo contributo, sottrattto alle “grandi iniziative” con cui si pensa di cambiare la storia della nostra comunità, cadendo invece nel provincialismo più inutile.

Reggio può vantare su un patrimonio fondamentale di luoghi, di pietre ancora parlanti: il carcere di S.Tommaso, il Poligono di Tiro, la canonica di Tapignola, la nostra montagna tutta. Quando i testimoni non ci saranno più resteranno le pietre a parlare, se le vorremo ascoltare. Ma resteranno mute, di fronte all’incapacità, alla superficialità contro cui ogni giorno ci troviamo a confrontarci. Siamo stati incapaci di rinnovare la nostra cultura democratica, di dare una sostanza al futuro. Ascoltiamo lo smarrimento degli amministratori di fronte al diffondersi del virus leghista senza capire di quanto abbia bisogno la nostra comunità di cultura, di educazione democratica. Ha bisogno di strutture, di muri, di archivi, non di vanità, di notti più o meno colorate, di kermesse intellettualistiche.

“Ma chi te lo fa fare?”. Io la so la risposta. L’ho trovata sulla judenrampe di Birkenau quella volta, nevicava, il gelo e il vento di febbraio. Il caso mi aveva portato lì nello stesso giorno, sabato 26, in cui era arrivato il convoglio da Fossoli, fra i tanti i dieci ebrei reggiani e Primo Levi. Ho recitato per loro il kaddish, la preghiera dei morti, non sono ebreo ma credo fosse quello il modo migliore per dire che c’era ancora chi ricordava. Chi sarebbe tornato a casa e avrebbe continuato a far fatica. Perchè era giusto e ne valeva la pena.

“Marco, vieni c’è Primo Levi al telefono” (2)


Data la mortalità elevatissima, pensa che la sua sopravvivenza sia dovuta a fortuna o ad altri fattori?
“Io penso che, in primo luogo, molto abbia giocato la fortuna. Inoltre non sono stato mai ammalato: mi sono ammalato più tardi, in modo provvidenziale. Ed ecco come avvenne. Io, lavorando in fabbrica, rubavo al laboratorio ciò che mi poteva servire per la sussistenza e puntualmente dividevo il bottino con Alberto; c’era infatti un patto tra di noi, per cui dividevamo fraternamente ogni colpo buono (ecco qui l’arte di arrangiarsi!). Un giorno che avevo rubato del tè in laboratorio, andai con Alberto a venderlo all’ospedale, dove ne avevano bisogno per gli ammalati. Ci pagarono con una gamella di zuppa, quasi gelata e già un po’ intaccata. Probabilmente era stata toccata da un malato di scarlattina: io presi la scarlattina, fui mandato in ospedale e sopravvissi; Alberto che aveva avuto la malattia da bambino, non ne fu contagiato e morì in campo. Altro fattore fondamentale per me è stato quell’operaio, Lorenzo, di Fossano, che mi ha portato per molti mesi quanto bastava per integrare le calorie mancanti. Egli, che pure non era un prigioniero, è tornato molto più disperato di me: era un uomo molto mite e molto pio, rozzo e insieme religioso, e era terrificato di quanto aveva visto, spaventato, ferito. È tornato in Italia da solo, a piedi, e non ha voluto più vivere. Ha incominciato a bere e, a me che lo andavo a trovare spesso, diceva molto freddamente che non desiderava più vivere, che ne aveva viste abbastanza. Morì tubercoloso; e infelice”.

Qualche episodio insolito che ricorda e che non è stato detto nei suoi libri.
“C’era con noi un medico ebreo osservante. Lei sa che la religione ebraica prevede dei digiuni molto rigorosi: in quei giorni non si mangia niente e neppure si lavora. Questo medico alla sera – dopo il lavoro – disse al capo-baracca che la zuppa non la voleva, perché era giorno di digiuno e lui non la poteva mangiare. Il capo-baracca era un comunista tedesco, abbastanza indurito dal suo mestiere (aveva dieci anni di lager alle spalle), però, colpito dalla forza morale del prigioniero, gli conservò la zuppa fino a quando quest’ultimo non terminò il suo digiuno. Questo atto di umanità mi aveva molto impressionato”.

Può stabilire un rapporto tra lei e gli altri scrittori di religione ebraica (Ginzburg, Bassani)?
“Un rapporto complesso c’è, evidentemente. L’ambiente di Natalia Ginzburg è il mio stesso ambiente; abbiamo parenti in comune; lei è nata Levi e suo fratello era il nostro medico. L’ambiente della borghesia ebraica torinese è quello in cui sono nato e cresciuto. Quello di Bassani è diverso; sia Bassani che i suoi personaggi appartengono ad un’altra borghesia ebraica, quella di Ferrara, che io conosco abbastanza poco. E che non mi piace tanto, perché erano una classe abbastanza consapevole dei propri privilegi, abbastanza esclusiva (vedi il famoso muro di cinta) e riservata e chiusa”.

Per quale motivo la Ginzburg le ha rifiutato il manoscritto?
“Premetto che non le serbo rancore (ma forse sì, per un certo periodo gliene ho serbato). Ho pensato a tante cose: forse era satura di manoscritti – fare il lettore in una casa editrice è un brutto mestiere; si è costretti a falciare… poi… è un fatto che, pur conoscendola bene, non abbiamo mai chiarito”.
Ha ancora dei contatti con i compagni del lager?
“Enick l’ho perso di vista completamente. Ho ritrovato invece quel Pikolo, quello del canto di Ulisse; con lui ci vediamo sovente; viene a fare le vacanze in Italia e fa il farmacista in un piccolo paese vicino a Strasburgo. È uno di quelli che hanno rimosso tutto: si è imborghesito completamente e non ama parlare di queste cose. Sono stato a trovarlo, l’ultima volta, con la Televisione italiana; gli ho chiesto di riceverci e mi ha risposto: te sì, ma le telecamere no. Poi però ha accettato anche loro, ma non volentieri”.

Che pensa dei giovani d’oggi?
“La differenza fondamentale tra la nostra giovinezza e la giovinezza attuale è nella speranza di un futuro migliore, che noi avevamo in modo clamoroso e che ci sosteneva anche negli anni peggiori, anche nel lager: la meta c’era e era costruire un mondo nuovo di uguali diritti, dove la violenza era abolita o relegata in un angolo, costruire il Paese per riportarlo a livello europeo. Invece, i giovani d’oggi, mi pare abbiamo molte meno speranze. In generale vedo che tendono a scopi immediati, e questo forse è anche abbastanza giusto, in quanto non distinguono un altro futuro. Mi pare, paradossalmente, che sia stata più facile la nostra giovinezza, perché oggi sono troppi i mostri all’orizzonte: c’è il problema della violenza, il problema energetico, dell’inquinamento; il mondo è diviso in blocchi, c’è una totale incapacità di prevedere l’avvenire e nessuno osa fare previsioni sensate di qui a due anni. C’è sempre il problema atomico. Trovo che sono pochi i giovani che pensano di fare o studiare in qualche modo per un loro preciso futuro. È il senso del tramonto dei valori, per cui bisogna godere e bruciare tutto subito”.

Come mai ha lasciato passare tanto tempo, quindici anni, da Se questo è un uomo alla seconda opera?
“Se questo è un uomo, edito nel ’47 presso De Silva, uscì in duemilacinquecento copie: avevo delle buone recensioni, ma ho avuto cinquemila lettori (un libro lo leggono due persone in media). Dopodiché… non ho avuto più incentivo a scrivere; mi pareva di avere fatto il mio dovere di testimone, di essermi scaricato delle mie tensioni e non sentivo il bisogno di scrivere altro. Solo dopo molti anni mi ha ripreso questo desiderio, perché si è ricominciato a parlare della Seconda guerra mondiale, e dei lager in specie, in modo diverso, in senso storico appunto. Verso il ’60, o forse prima, si tenne un ciclo di conferenze sul tema e io mi sono ritrovato protagonista: molti allora mi hanno incoraggiato a raccontare anche la seconda parte della mia esperienza, cioè il ritorno dalla Russia. Ripresi la penna anche per un altro motivo: era cessata la Guerra fredda e ora potevo raccontare la verità completa, umana. Prima era impossibile parlare della Russia: o se ne parlava come dell’inferno o come del paradiso. E io non me la sentivo, in un ambiente così, di scrivere un libro-verità come La tregua. Solo dopo la distensione è diventato possibile scrivere di queste cose in un linguaggio non retorico”.

Perché è nato Malabaila?
“Perché sarebbe stato scandaloso a quel tempo: non avrei potuto, io, lo scrittore di Se questo è un uomo venire fuori a quei tempi con aneddoti, storie fantastiche. Proposi allora questo pseudonimo all’editore, il quale accettò con entusiasmo, pensando forse di farne un “caso letterario”: poi il caso non ci fu, ed io ripresi il mio nome”.

(18 gennaio 2009)

“Marco, vieni, c’è Primo Levi al telefono”

“Marco, vieni, c’è Primo Levi al telefono…”. Marco Viglino aveva diciannove anni e si stava preparando alla maturità in un liceo cattolico privato quando una sera dell’aprile 1978 arrivò, a sorpresa, la telefonata dello scrittore dalla quale è nata l’intervista inedita che Repubblica ha proposto il 18 gennaio. Trent’anni dopo, l’autore di quella intervista è diventato magistrato, mentre a Torino è nato il centro di studi che dovrà raccogliere e catalogare il grande lascito di appunti e lettere dello scrittore

PRIMO LEVI
“Io, scampato al lager
per poterlo raccontare”
di MARCO VIGLINO

Mi ha colpito il suo desiderio di rendere testimonianza sulla tragica esperienza nel lager: quando è nato questo desiderio?
“Questo desiderio, del resto comune a molti, mi è nato nel lager. Volevamo sopravvivere anche e soprattutto per raccontare ciò che avevamo visto: questo era un discorso comune, nei pochi momenti di tregua che ci erano concessi. Del resto è un desiderio umano: lei non troverà mai un reduce che non racconti. (No, mi correggo, ve ne sono alcuni che non raccontano; ve ne sono alcuni che sono stati feriti talmente a fondo che hanno censurato il loro passato, l’hanno sepolto per non sentirselo più addosso). In primo luogo c’è il bisogno di scaricarsi, di buttare fuori quello che si ha dentro. Poi ci sono anche altri motivi… c’è forse anche il desiderio di farsi valere, di far sapere che siamo sopravvissuti a certe prove, che siamo stati più fortunati, o più abili, o più forti”.

Il punto di contatto tra i primi libri e quelli di fantascienza, mi pare possa essere la sua “indignazione”, che prima è rivolta al lager e poi verso certe storture della civiltà. È giusto?
“Sì, è giusto: è una domanda che mi fanno in molti e a cui veramente non sono il più autorizzato a rispondere, perché non è detto che chi scriva sappia sempre bene “perché” scrive. Io ho due radici: una è il senso del lager e l’altra è il senso della chimica con le sue dimensioni. Avevo in mente di scrivere qualcosa sulla storia naturale ancora prima di entrare nel lager: già da studente sentivo un desiderio del genere (non come progetto chiaro e distinto, ma come vaga aspirazione) e trovavo un terreno fertile nel mio mestiere di chimico. Perciò – dopo aver terminato Se questo è un uomo e La tregua – non è che io abbia “scritto” gli altri due libri: ho raccolto alcune idee e anche alcuni racconti che avevo già scritto prima. Per esempio, il primo racconto delle Storie naturali, quello del vecchio medico che raccoglie essenze, l’ho scritto prima di Se questo è un uomo. E… probabilmente sì, benché il tema sia diverso, anche gli altri scritti risentono dell’esperienza del lager, in una forma molto indiretta, in una forma di delusione profonda, di un ritirarsi dalla vita”.

Tra i personaggi che si incontrano nei suoi libri, Lei mostra particolare simpatia e indulgenza verso alcuni che incarnano una certa “furbizia” o arte di arrangiarsi, come Cesare o il Greco.
“Anzitutto questi personaggi agiscono in un contesto tutto particolare, che è quello della fine della guerra: ora, su questo fondale, direi che si può essere abbastanza indulgenti. Non ammetterei, oggi, un Greco; lo eviterei, mi terrei lontano da lui, ma in quel momento lo sentivo quasi un maestro. Egli soleva dire: la guerra è sempre. E poi ancora mi diceva: “Vedi le scarpe belle che io ho: è perché sono andato a rubarle nei magazzini dei russi. Tu sei uno sciocco, non sei andato a cercarle”. Io rispondevo che pensavo che la guerra fosse finita e che i russi avrebbero provveduto. “La guerra è sempre”, mi ripeteva, e, allora, io ero d’accordo con lui. Oggi sarei più severo nei suoi riguardi, così anche nei riguardi di Cesare: ma la furbizia di Cesare era così solare, così aperta, così ingenua in fondo e così innocua che mi sta bene ancora adesso. Non sarei un censore tanto severo da escluderla, in quella forma: furbizia così “italiana”, sempre mescolata con bonomia. Cesare ingrassava i pesci con l’acqua, poi però, davanti ai bambini affamati della donna russa, glieli regala. Questo fa parte di un’arte di vivere che è vecchia come il mondo e davanti alla quale non si può essere troppo severi”.

Quella carica di ribellione che sta alla radice dei primi due libri si è attenuata con gli anni oppure no?
“Io contesto “quella carica di ribellione”: di indignazione sì; di ribellione purtroppo no perché non c’era modo, almeno per chi era al mio livello. Ribellioni in senso tecnico ve ne sono state, in alcuni lager: l’episodio che ho raccontato di quell’impiccato che muore gridando “io sono l’ultimo!” si ricollega a una ribellione che c’era stata in un altro campo: i prigionieri avevano fatto saltare i forni crematori pochi giorni prima e costui, di cui non conosco neppure il nome, era implicato nella faccenda, probabilmente aveva procurato dell’esplosivo. Riprendendo, l’indignazione sì persiste, ma diciamo che si è ramificata. Sarebbe stupido oggi continuare a vedere il nemico solo lì, solo il nazista, anche se a mio parere è ancora il principale. Però il mondo di oggi è molto più articolato che non quello di una volta. Non erano bei tempi quelli in cui io ero giovane, però avevano il grande vantaggio che erano netti; l’alternativa amico/nemico era molto netta e la scelta non era difficile. Oggi lo è molto di più. Perciò anche l’indignazione persiste, ma è… erga omnes. Verso molti, non più verso “quelli””.

Nella famosa lettera al suo editore tedesco, lei dice che non può capire i tedeschi e quindi non si sente di giudicarli.
“No, ho detto che non li capisco, ma li giudico sì”.

E come, allora?
“Li giudico male: sì, anche i tedeschi di oggi. Non tutti, naturalmente; io ho molti amici tedeschi, anche per il fatto che parlo la loro lingua, e mi interessano, e mi rifiuto di giudicarli in blocco. Però devo dire che, statisticamente, sono un paese pericoloso. Sono un pericolo intanto perché sono divisi in due e questo essi non lo accettano: pochi fra i tedeschi accettano questa divisione. E poi hanno delle virtù che diventano pericolose: questa loro straordinaria passione per la disciplina (che a noi manca – ed è male – ma loro ne hanno troppa!) per cui sono pronti ad accodarsi a chiunque comandi, mi fa paura”.

Com’è che allora, sempre in quella lettera, lei dice che i tedeschi, oltre ad essere pericolo, sono speranza per l’Europa?
“Ecco… la lettera io l’ho scritta molti anni fa, nel ’60, sulla corda dell’entusiasmo che avevo provato io per il fatto che un editore tedesco aveva accettato di pubblicare la mia testimonianza, e anche a seguito di vari contatti che avevo avuto allora con i giovani tedeschi degli anni Sessanta. E mi era sembrato che la Germania fosse veramente un’altra. Sembrava una roccaforte della democrazia, allora: oggi un po’ meno, anzi molto meno”.

Come reagiva vedendo i compagni di sventura andare ogni giorno alla morte a causa della selezione: lo prendeva, alla fine, come un dato di fatto, o questo le procurava ogni volta lo stesso dolore e lo stesso disgusto?
“Ci si incontrava, al mattino, all’appello e quando ne mancava uno, era considerato di cattivo gusto andare a fondo, un po’ come capita oggi quando uno muore di cancro: non se ne parla volentieri. Era una forma di accettazione, in sostanza, per cui l’atteggiamento verso il compagno morto in selezione non era molto diverso da quello verso uno morto di morte naturale. Quel mio amico Alberto, di cui ho parlato a lungo, era in campo con il padre: era un ragazzo molto intelligente e insieme parlavamo sovente di queste cose, senza inibizioni e senza cedere a questa tendenza di negare la verità. Pure, quando il padre fu scelto per la selezione, Alberto disse di essere sicuro che suo padre non era mandato nelle “camere” bensì veniva trasferito con altri prigionieri in un altro campo di convalescenza. E io ero stupito e impressionato nel constatare come il mio amico si fosse prontamente costruito un riparo, per celarsi una realtà altrimenti intollerabile”.
(1-continua)

La Shoah sul web: www.zwangsarbeit-archiv.de

L’ORRORE DELLA SHOAH SUL WEB
on line 600 testimonianze
Racconti di sopravvissuti a disposizione di studiosi, scuole, giornalisti
dal corrispondente ANDREA TARQUINI

BERLINO – La tragedia e le inenarrabili sofferenze dei forzati di Hitler rivive su internet con 600 interviste-testimonianza e racconti in diretta, grazie a un team di storici tedeschi. Da oggi è aperto, operativo, e funziona gratis per ricercatori, storici, professori e scuole, giornalisti, il sito www.zwangsarbeit-archiv.de. E’ un’iniziativa eccezionale che un team di decine di storici e ricercatori delle università berlinesi, appoggiati attivamente prima dal governo di Gerard Schroeder prima e da quello di Angela Merkel poi, hanno realizzato e mettono ora a disposizione della Memoria del mondo.

Circa 600 sono le testimonianze raccolte nel link. L’utente le può chiamare: alcune sono audio e video insieme, altre solo audio. I sopravvissuti raccontano quegli anni terribili in cui furono strappati alla loro terra e ai loro cari, deportati nei territori occupati dal ‘Reich millenario’, e costretti a lavorare in condizioni bestiali, malnutriti, maltrattati, e spesso percossi e torturati ogni giorno dagli aguzzini hitleriani. 341 uomini e 249 donne sono i sopravvissuti che i team dei ricercatori tedeschi sono riusciti a trovare sparsi per il mondo: la maggior parte attualmente vive in Russia, Ucraina o Polonia, o negli Usa, o in Israele, altri in Europa occidentale. Un terzo almeno degli intervistati sono ebrei, altri gitani, altri erano solo cittadini dei paesi occupati sospettati di simpatie per la resistenza o giudicati abbastanza giovani e forti da essere abili al lavoro.

I tempi erano già pessimi per il Terzo Reich, la scommessa hitleriana di vincere la guerra era già perduta. Prima la Royal Air Force aveva battuto l’aviazione nazista, cioè la Luftwaffe, nella battaglia aerea sull’Inghilterra. Poi l’America di F. D. Roosevelt aggredita dal Giappone era entrata in guerra con tutto il suo imbattibile potenziale industriale, e grazie a ingenti forniture militari del massimo livello americane e britanniche, alla sua stessa industria militare e al sacrificio spaventoso della sua gente (27 milioni di morti) l’Unione sovietica aveva respinto l’attacco della Wehrmacht alle porte di Mosca e a Stalingrado e l’Armata rossa avanzava verso ovest. Dalla Polonia alla Francia, dall’Olanda alla Norvegia, gruppi partigiani sfidavano l’occupante. La macchina da guerra nazista aveva bisogno di produrre sempre più armi, e si affidò ai forzati trattando milioni di persone come schiavi, come bestie.

“Io sono l’unico sopravvissuto della mia famiglia, tutta scomparsa nella deportazione”, racconta in una delle testimonianze online Henry F., ebreo ungherese, oggi abitante ad Atlanta, Georgia, Usa. “Ci picchiavano ogni giorno, era bestiale”. Altri sopravvissuti hanno ricordi diversi. Come il francese René: “A volte i capi tedeschi erano umani o quasi umani con noi, semplicemente perché tenerci in vita serviva loro per continuare a farci produrre le armi per la loro guerra”.

L’iniziativa del sito è partita dalla Fondazione tedesca per il ricordo e il futuro, creata nel 2001. E’ l’istituzione che dopo l’accordo tra Berlino e le organizzazioni ebraiche e dei sopravvissuti alla Shoah ha gestito il pagamento di risarcimenti alle vittime per oltre 4 miliardi di euro presi dal bilancio tedesco. Ma non contano solo i soldi, fa capire Felix Kolmer del Comitato internazionale di Auschwitz. Per i sopravvissuti, dice all’agenzia France Presse, conta anche che pure con Internet ci sia in futuro per loro una garanzia di non sparire dalla Memoria.

(http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/esteri/shoah-2009/shoah-2009/shoah-2009.html)