Gita a Predappio

Gita a Predappio

La solita (e prevista) tempestina mediatica sul ritorno della coppia reale sul patrio suolo, nel corso della quale abbiamo sentito di tutto e di più, mi ha lasciato perplesso, per usare un eufemismo.

Si è dibattuto su chi sosterrà i costi del volo di Stato (lo Stato, visto che trattavasi di atto dovuto), sul rifiuto logico a tumulare le loro maestà al Pantheon (ci mancherebbe), sulla liceità dell’intera operazione (dopo l’abolizione della XII norma transitoria solo un grillino avrebbe potuto trovare qualche fantasioso appiglio per impedirla).

Siamo stati deliziati da interviste al principe ballerino e al padre sparatore imbolsito, abbiamo appreso con comprensibile preoccupazione del conflitto interno ai Savoia fra Emanuele e Gabriella. Con tutto ciò abbiamo acceso un cero al Padreterno (o chi per esso) che il 2 giugno ci diede la Repubblica.

Ma tutto questo ha concorso in minima parte alla mia perplessità.

Abbiamo perso giorni a discettare su cosa? Sul concedere la sepoltura ha chi ha portato l’Italia al disastro, a chi ha rotto il patto di cittadinanza su cui si fonda ogni Stato moderno firmando le leggi razziste del 1938, a chi è fuggito abbandonando il proprio posto di comando, configurando così il reato di alto tradimento l’8 settembre 1943?

E allora? Per dirla in modo educato: quisquilie, bazzecole.Tutto qui?

Nel 2017 si poteva festeggiare un anniversario significativo: il sessantesimo della restituzione della salma di Benito Mussolini alla vedova, la sua tumulazione nel cimitero di S.Cassiano a Predappio e l’inizio dell’omaggio al corpo e alla memoria del dittatore.

Sono sessant’anni che consentiamo che quella tomba sia luogo di pellegrinaggio, di adunate, di turismo politico-gastronomico e ora solleviamo questioni per il ritorno delle loro maestà?

Vi immaginate in Austria, a Braunau, la cappella della famiglia Hitler che accoglie le spoglie del caro estinto?

Quando nel 1988 l’ultimo dei gerarchi nazisti Rudolph Hess morì nel carcere di Spandau si pose il problema della sua sepoltura. I gerarchi impiccati a Norimberga nel 1946 erano stati cremati e le loro ceneri disperse, lo stesso trattamento era stato riservato in Israele ad Adolf Eichmann. Il sacello di Reinhard Heydrich nel cimitero degli Invalides a Berlino era stato ruspato dai sovietici.

Un parroco caritatevole accolse le spoglie di Hess nel cimitero di Wunsiedel in Baviera, ma nel 2011 non rinnovò l’atto di carità chiedendo che gli eredi ritirassero i resti del congiunto, visto che il cimitero era divenuto meta di pellegrinaggio per i neonazisti. Gli eredi fecero cremare le ossa e disperdere le ceneri in mare.

Anche in Italia ci è stata data una lezione di come la memoria non possa essere taciuta e rimossa. Nel cimitero militare tedesco di Costermano (VR) sono sepolti 22.000 caduti tedeschi, Wehrmacht e SS. Fra essi alcuni criminali di guerra: Christian Wirth (operazione T4, inventore delle camera a gas al monossido di carbonio, organizzatore di campi di sterminio nell’est e comandante della Risiera di San Sabba), Franz Reichleitner (Operazione T4, comandante di Sobibor e persecutore di ebrei e partigiani in Istria), Gottfried Schwarz (aiutante di Wirth a Bełzec, Majdanek e Udine). Nel 2004 si costituì la “Iniziativa italo-tedesca per la memoria a Costermano” che richiedeva che fossero tolti i “Libri dell’onore” (Erhenbücher) in cui, su bronzo, erano riportati tutti i nomi dei sepolti nel cimitero e che fosse posta una targa che ricordasse i crimini commessi dai nazisti e ne ricordasse le vittime, visto che in quel luogo, oltre i tre più noti, erano tumulati ufficiali e sottoufficiali responsabili (secondo gli atti della Magistratura italiana) delle stragi di civili di Monte Sole, S.Anna Stazzema, Valla, Vinca. Sepolti accanto a militari che avevano svolto il loro dovere di uomini di coscienza, come i cinque di Albinea, fucilati per avere tentato di cooperare con la Resistenza nell’agosto 1944. Carnefici e vittime insieme.

Già dal 1992 quei tre nomi erano stati cancellati dagli Erhenbücher, ma le richieste furono accolte sia dal Volksbund (Lega per la cura dei cimiteri tedeschi di guerra) e, in\direttamente dal Governo Federale che, dopo aver incaricato una commissione di storici di elaborare il testo dei pannelli introduttivi, nel novembre 2006 inaugurarono la nuova sistemazione del cimitero militare, nel corso di una breve cerimonia che vide, all’esterno del luogo, la presenza di Forza nuova presente a difendere l’”onore” dei camerati nazisti.

Nel 1998 Sergio Luzzatto nel suo bel saggio “Il corpo del Duce” ha raccontato e analizzato le vicende che hanno condotto a consentirne la tumulazione e l’avvio delle pratiche che ben conosciamo. Con quella salma (il “salmone” come fu definito all’epoca del suo trafugamento) l’Italia repubblicana ha convissuto, infarcita di un miscuglio maleodorante di pietismo, complicità e rimpianto, sovrapponendo la propria storia a quel “non fatto” che avrebbe dovuto essere la distruzione di quell’oggetto, perché gli italiani se per una volta hanno ucciso il tiranno non hanno avuto poi il coraggio di andare fino in fondo, scambiando misericordia per giustizia, generosità per scelta di civiltà. Una fragile e decomposta identità nazionale non poteva forse compiere l’intero processo necessario, così una Repubblica nata dall’antifascismo ha consentito il paradosso di piazze (sempre più vuote) inneggianti alla Resistenza accanto a luoghi di memoria fascista, testimoniando scandalosamente la mancanza di una resa dei conti con la propria storia.

Ora si sta lavorando per realizzare a Predappio un Museo sul fascismo, troppo poco e troppo tardi, continuando oltretutto a fare di quel luogo un punto preciso di attrazione perché, sono convinto, che nella debolezza e superficialità etica e culturale nazionale, fra qualche hanno leggeremo in qualche programma di gita scolastica o di qualche tour operator: “Gita a Predappio. Programma: mattina visita al Museo del fascismo, pranzo, visita al cimitero di S.Cassiano”.

Viva l’Italia.

Appello ai lettori renziani e non: sopportiamoci (Michele Serra)

Tante lettere accusano “ Repubblica” di essere anti-Pd. Ma così la base litiga come i capi

Può un renziano sopportare Zagrebelsky, o Giannini, o Tomaso Montanari? E può un antirenziano sopportare Recalcati, o Scalfari quando esprime opinioni favorevoli al governo? La domanda, nel suo banale schematismo “bipolare”, una volta tanto non riguarda i rissosi, suscettibili esponenti dell’establishment del centrosinistra. Riguarda noi, comunità di Repubblica. Giornalisti e lettori, commentatori e opinione pubblica di sinistra, o democratico-repubblicana, o progressista: quella che, grosso modo, questo giornale ha raccolto, lungo più di trent’anni, attorno a sé, cercando di rappresentarne le idee, le opinioni, i sentimenti di speranza o di sconforto. Se mi permetto di porre a tutti noi, scriventi e leggenti, questa domanda, è perché nelle ultime settimane la mia rubrica delle lettere sul Venerdì (che ho ereditato, e ne sento la responsabilità, da Eugenio Scalfari) è destinataria di un numero impressionante di lettere amareggiate o irate nei confronti del giornale: accusato di essere anti-governativo per partito preso, e troppo critico nei confronti del Pd. “Vi leggo dalla fondazione – scrivono alcuni – e per la prima volta sto pensando di non leggervi più”. Alcune sono state pubblicate; moltissime, per ragioni di spazio, no. Tutte quante lette con attenzione. In nessun giornale, e specialmente in un giornale di forte impronta politica, vocato alla discussione e alla disputa perché così vuole la tradizione dialettica della sinistra, mancano le lettere di critica. Questo non fa eccezione: per rimanere solo all’ultimo scorcio della nostra storia, la polemica tra i fautori del nuovo corso del Pd e coloro che considerano Renzi un invasore alieno è sempre stata molto vivace: ed entrambe le fazioni lamentavano che il giornale non desse sufficiente spazio al loro punto di vista. La mia rubrica sul Venerdì, negli ultimi anni, ne è lo specchio fedele e, spero, imparziale. Ma ora si registra un salto di qualità, e anche di quantità. Una vera e propria bordata da parte di lettori, diciamo così, della sinistra moderata, legati al Pd, che considerano Repubblica “casa loro” e non si riconoscono nelle voci critiche (secondo loro, troppe) nei confronti di Renzi e del governo in carica. In assenza (per fortuna) di una contabilità attendibile delle opinioni “pro”, di quelle “contro” e di quelle “così così”; preso atto che, in questo specifico momento, la critica “renziana” al giornale è nettamente prevalente su quella “antirenziana”; e detto che un giornale è tenuto a dare conto di quanto accade nel Paese – opinioni comprese – e non di “dare la linea”; mi sento di rivolgere ai lettori – che sono una comunità certamente difforme, ma con riconoscibili assonanze culturali, biografiche e politiche – una specie di contro-lamentela, che mi verrà concessa, diciamo così, in ragione del mio stato di servizio, dopo quasi vent’anni che abito in queste pagine. Si usa imputare il settarismo e la litigiosità a sinistra all’ego ipertrofico e alla suscettibilità dei Capi. Sarebbe meglio, dunque, non imitarli. Cercando, come dire, di dare il buon esempio dal basso. Le ragioni altrui sono sempre difficili da ascoltare, ma il loro manifestarsi, ancorché irritante, è semplicemente inevitabile. I lettori renziani (mi scuso per la definizione secca secca, ma è per capirci) non possono non tenere conto degli effetti divisivi che non solamente il carattere, ma anche gli atti politici di Renzi hanno prodotto nel vasto corpo dell’opinione pubblica di centrosinistra. Per fare l’esempio più ovvio, una riforma del lavoro “lib-lab” come quella in atto può piacere, ma anche no, e non per pregiudizio politico, ma perché ha indubbiamente rotto con la tradizione sindacale e ideologica di molta sinistra. Se Repubblica non desse atto anche dei traumi prodotti, e del dissenso in campo, farebbe male il proprio mestiere di giornale. Quanto agli antirenziani, l’idea che il nuovo corso del Pd sia il frutto di una sorta di trama aliena, di usurpazione di un corpo reso inabitabile dai nuovi occupanti, non ha solamente il torto di rassomigliare da vicino alle paranoie complottiste così in voga. Distorce la realtà, perché la “scalata” di Renzi al Pd si è avvalsa, gradino dopo gradino, del voto di milioni di elettori che vengono dalla stessa storia, e in buona parte vogliono le stesse cose, di chi per Renzi non ha votato e mai voterà. Sono i lettori-elettori che oggi scrivono a Repubblica per dire “guardate che questo giornale, da sempre, è anche casa nostra”. E però accettano con qualche difficoltà che sia, questa, anche la casa dei tanti che, a sinistra, non la pensano come loro, e nel Pd vedono un problema più che una risorsa. Scusandomi per la sintesi, certo non da politologo ferrato, e assicurando che non è per ecumenismo sciocco, e men che meno per ruffianeria commerciale, che mi rivolgo ai lettori irrequieti, torno a chiedere: può un renziano sopportare Zagrebelsky? Può un antirenziano sopportare Recalcati? E potrebbe mai un giornale degno di questo nome rinunciare a dare voce, e pagine, e repliche, al coro animatissimo della cosiddetta sinistra? Serve tolleranza e serve volontà di ascolto. La pretendiamo dai leader politici, cominciamo a fornirne piccoli esempi quotidiani. Se il giornale non desse conto dei traumi e del dissenso in campo a sinistra, farebbe male il proprio mestiere Divisivo