Per tagliare bisogna studiare (Luca Ricolfi)

Ogni volta che un governo prova a tagliare la spesa pubblica – un mostro che ogni anno costa qualcosa come 700 miliardi di euro, più o meno la metà dell’intero prodotto nazionale – le reazioni sono immancabilmente due: la (comprensibile) protesta da parte degli interessi colpiti, e il biasimo nei confronti del governo.

Al governo si rimprovera di non essere capace di colpire i «veri» privilegiati, di non essere capace di individuare i «veri» sprechi, di non sapere intervenire sulle «vere» inefficienze. Parti sociali, gruppi di pressione e singoli cittadini più o meno indignati si uniscono in una sacra crociata contro i «tagli lineari», spesso dando ad intendere che, ove i tagli stessi non fossero lineari, coloro che protestano ne sarebbero esenti.

Tutto ciò, è importante sottolinearlo, succede indipendentemente dal colore politico del governo.
Di praticare tagli lineari, indiscriminati e quindi ingiusti, veniva accusato Padoa Schioppa, di tagli lineari veniva accusato Tremonti, di tagli lineari viene ora accusato Monti. I governi cambiano ma i tagli restano sempre lineari. Sembra proprio che nessun governo sia capace di procedere a tagli non lineari, ossia tagli mirati, selettivi, chirurgici. E anche per questo tutte le manovre, che le faccia la sinistra, che le faccia la destra, o che le faccia un governo tecnico, finiscono sempre per puntare più sugli aumenti delle tasse che sui tagli alla spesa.
È un fatto rilevante, perché una correzione di 20 miliardi fatta con 15, con 10, o con 5 miliardi di tasse in più ha effetti profondamente diversi sulla crescita, e quindi sul futuro di un paese. Se gli aumenti di tasse sono eccessivi e/o mal indirizzati, i rischi di recessione aumentano, e la correzione può non bastare. Si deve procedere a un’altra correzione, che a sua volta rischia di rendere ancora più difficile un ritorno alla crescita, in una spirale che può durare anni.

Ma perché è così difficile evitare tagli che sono o appaiono lineari, e quindi ingiusti?
Una ragione che spesso si dimentica è che, nella maggior parte degli ambiti di spesa, e in particolare nella sanità, nella scuola, nella giustizia, nei servizi pubblici locali, per disporre di un piano di tagli «non lineari» e ragionevoli, ci vogliono almeno un paio di anni di studi. Un partito, una forza politica, una coalizione che aspiri a governare un Paese, dovrebbe avere i cassetti pieni di decine e decine di piani operativi, frutto di studi accurati, analitici, dettagliati. Non basta sapere che nell’erogazione di un servizio ci sono 15-20 miliardi di sprechi (è il caso della sanità italiana) ma occorre sapere con estrema precisione dove gli sprechi si annidano: in quali regioni, in quali ospedali, in quali reparti, per quali prestazioni. Quel che occorrerebbe, in altre parole, non è solo una spending review, ossia una ricognizione generale delle inefficienze della Pubblica amministrazione come quella avviata a suo tempo dal governo Prodi (e colpevolmente congelata dal governo Berlusconi), ma una miriade di micro-analisi, una rete di piani di intervento, di progetti di trasformazione, supportati da anni di analisi particolari. Quando la politica «decide» qualcosa – riformare la sanità, dismettere parte del patrimonio pubblico, ridurre gli sprechi di un servizio – dovrebbe avere già i piani operativi pronti, come li hanno gli stati maggiori degli eserciti. Nessun Paese è privo di piani militari di difesa, nessun Paese rinuncia ad aggiornarli costantemente, perché in caso di attacco bisogna essere in grado di reagire subito, non c’è il tempo per riunirsi, studiare, discutere, dibattere, nominare commissioni. Invece le forze politiche, pur sapendo da almeno venti anni quali sono i problemi strutturali dell’Italia, sono del tutto prive di piani operativi (non hanno studiato!), tanto è vero che, quando decidono di intervenire su qualcosa, invariabilmente procedono nominando una commissione «per studiare il problema», come se il problema fosse sorto in quel momento. Ma quella commissione, di nuovo, non avrà tempo per studiare. E così la storia si ripete all’infinito.

Insomma, solo l’emergenza muove la politica, ma proprio la mancanza di piani operativi la rende incapace di fronteggiare efficacemente le emergenze. Così non siamo mai pronti, e rischiamo di perdere la guerra.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9540

Alberi (e film) incomprensibili?

14655_big.jpgPer nove giorni presso il prestigioso Cinema Lumière di Bologna (presso l’ottima Cineteca) il film vincitore di Cannes “Tree of life” di Terrence Malick è stato proiettato a rulli invertiti. Nove giorni. Centinaia di spettatori hanno pagato, sono entrati, si sono gustati lo spettacolo e sono usciti. Soddisfatti? Immaginiamo i commenti “Però, questo Mallick, sempre un genio!”, “Difficile ma poetico!”, “Questo è cinema!”, “Sono commosso…”, “la Palma se l’è meritata tutta!”. E purtroppo non era un’esperimento situazionista della Cineteca ma un semplice, disgraziato infortunio. (le scuse dell’ente sono in: http://www.cinetecadibologna.it/news/n_121)

E’ pur vero che l’opera d’arte, in quanto tale, travalica i banali concetti di spazio, tempo e ordine (dei rulli) però che in nove giorni nessuno abbia obiettato, chiesto, suggerito…temo la dica lunga sul conformismo diffuso anche negli strati colti (e/o coltivati) del nostro paese. Perchè andare a vedere Malick ci vuole pazienza, preparazione, tempo e voglia. Lo dice chi si beccò ancora giovane al mitico Cineforum Capitol “La rabbia giovane” (1973), e ha gustato in tempi più recenti “La sottile linea rossa”. Nulla. Nessuno si è accorto? Si è posto una domanda?

300px-Bronenosets.jpgLo snobismo culturale provoca disastri. Viene  in mente la classica, tragica, battuta di Fantozzi: “La corazzata Potemkin è…”, sulla quale tutti abbiamo riso. Sbagliando. Primo perchè quel film è un grandissimo film e l’abbiamo visto sempre a rulli filanti. In secondo luogo perchè così abbiamo allontanato da quell’opera intere generazioni, regalandole alla orrenda filmografia  che ha portato i nostri ragazzi a seppellirsi nelle multisale a vedere quello che capita, incapaci di distinguere il (poco) accettabile dallla (tanta) paccottiglia.

Il linguaggio cinematografico necessita di educazione, formazione, delle Corazzate Potemkin come di “A qualcuno piace caldo” o “Paris Texas”, insultando allora un’opera d’arte non abbiamo fatto capire che era l’uso, perverso e snob, da condannare. Abbiamo buttato via, come al solito, bambino, acqua e bacinella e ci siamo sorbiti, soddisfatti e beoti, i Vanzina e Virzì.

Ciao, Stanley!

Dieci anni fa moriva Stanley Kubrick. Forse il più grande, certamente il più completo e quello più capace di emozionarci.

Stanley Kubrick ha ricevuto nove candidature all’Oscar, quattro come regista (per «Stranamore», «2001 Odissea nello spazio», «Arancia meccanica» e «Barry Lyndon») e cinque come sceneggiatore (i quattro film citati più «Full Metal Jacket»). Non ha mai vinto una statuetta.
«Stranamore» fu battuto da «My Fair Lady», «2001»da «Oliver!». Vabbè. Pensateci, quando gli Oscar vi sembrano una buffonata.