Questa è la storia di una strada e di una ragazza

Questo è il testo che è stato letto ieri nel corso della visita guidata sui luoghi della repressione fascista a Reggio Emilia, nel quadro del progetto “Oltre il settantesimo”.

Questa è la storia di una strada e di una ragazza. Una ragazza che forse si chiamava Anna o Lucia o Silvana, il nome non ha molta importanza.

La strada è una strada del centro, qui vicina. Ma poi ci arriveremo.

La ragazza nel 1945 aveva 21 anni, compiuti da poco, suo padre un artigiano, sua madre una casalinga, altri fratelli e sorelle. Il posto diciamo fra Cavriago e l’Enza.

21 anni, in quell’inverno finale della guerra, Anna era una staffetta partigiana, in bicicletta, a piedi, un biglietto, una frase, una borsa. Una consegna rapida e via, la paura in gola, sulle strade di campagna. La paura addosso ma anche il pensiero di lui, in montagna, il “moroso” come lo chiamava scherzando sua sorellina, quella piccola. Lui in montagna, a fare il partigiano. Perché era giusto, perché lui aveva coraggio.

 

Era una mattina di febbraio, in piedi alla fermata della corriera, d’improvviso una voce dietro: “lei è…?” e due mani forti a prenderla. Una macchina nera, quei due in borghese di fianco. Senza una parola. E lei senza chiedere perché.

Giusto il tempo di riconoscere Reggio, i viali, la porta verso Parma. La macchina si ferma, una villetta, un grande cedro davanti.

In piedi davanti a una scrivania, le “generalità”, i “documenti”. Adesso c’è anche gente in divisa, la camicia nera e gli stivali.

“Signorina…” la chiamano, “così giovane”, le dicono. “Non abbia paura, qualche domanda…”.

Cosa rispondere, se sai che hai ancora l’ultimo messaggio infilato in quella piega della giacca? Quasi un colpo di fortuna essere chiusa dentro un gabinetto, in piedi, incantucciata nell’angolo per lo sporco e  la puzza. Ma almeno il biglietto sparisce.

Non c’è più luce fuori quando la fortuna finisce.

La vengono a prendere e stavolta non la chiamano più “signorina”, e sorridono e la guardano in un altro modo mentre la portano giù per le scale, in cantina.

Non erano voci straniere, non erano nomi incomprensibili. Quando le hanno strappato i vestiti, quando l’hanno legata. Si chiamavano Manzini, Berti, Barozzi. Nomi delle nostre parti, gente di Reggio. Non erano stranieri quando hanno voluto divertirsi-come diceva il capo- e l’urlo nemmeno le usciva dalla gola, fra l’acqua versata e i colpi che le arrivavano addosso. Forse il tempo si ferma in certi momenti e basta cercare di non pensare. Poi quando tutto finisce il tempo riprende, normale, quasi a dire “si ricomincia a vivere”.

Tre giorni a Villa Cucchi, centro storico, Reggio Emilia, febbraio 1945. Poi la sensazione, inconsapevole che ti prende giorno per giorno, in carcere, che forse sei salva, che forse si sono scordati di te. Altre Anna, altri Giorgio, Marcello. Tu lasciata indietro, lì in un cella ai Servi. Centro storico, Reggio Emilia. Fino a un martedì pomeriggio di aprile, le porte si aprono e capisci che è finita.

 

Questa è la storia di una strada e di una ragazza. Una ragazza che forse si chiamava Anna o Lucia o Silvana, il nome non ha molta importanza.

La strada è una strada del centro, qui vicina. Adesso ci arriviamo.

Ogni martedì si viene a Reggio, c’è mercato, c’è da andare in giro a fare commissioni. In quell’ufficio Anna deve esserci alle nove, per evitare la coda. Scende dalla corriera alla Sarsa e la strada è facile. Ma non può farla.

Perché questa è anche la storia di una strada sbagliata, una strada dove Anna non può passare. Una volta l’ha fatto, la prima volta. Ora non può più. Perché in quella strada, in centro, qui vicino, c’è un negozio, una banale negozio per gli altri. Ma non per Anna. Una volta c’è passata e sulla soglia c’era lui, uno di quelli che s’erano “divertiti”, una, due, altre volte. L’ha guardata, ha sorriso, i baffetti sui denti guasti. L’ha guardata e le ha fatto quel gesto.

Per sette anni Anna non ha potuto fare quella strada, la strada sbagliata. Ha allungato il cammino, ha affrettato il passo per essere in quell’ufficio alle nove, per evitare la coda. Per sette anni è stata ancora prigioniera.

Poi un martedì mattina, lì vicino, su un muro ha visto quell’avviso funebre. Ha letto il nome, il cognome, “è serenamente spirato” c’era scritto.

Ora poteva passare in quella strada.

 

Anna mi ha raccontato la sua storia, un pomeriggio, alla fine mi ha detto:

“Sai qual’è stata la cosa peggiore?” E io ho pensato a Villa Cucchi, a quei denti guasti, agli stivali, a una ragazza di 21 anni legata a un tavolo.

“La cosa peggiore, per me, è stata che, quando ho letto quell’annuncio, non ho provato niente. Solo una gran voglia di piangere perché avevo avuto quasi un momento di felicità. Quella è stata la cosa peggiore”.

m.storchi©2009

 

 

Luoghi dell’anima

Ci sono luoghi dell’anima, luoghi dove si torna sempre e non si vorrebbe mai lasciare, sono diversi nella vita, cambiano, mutano come noi. In cammino, affaticati giorno dopo giorno, tornare in quei luoghi, in quelle strade, ci da un poco di riposo. Poi si ritorna e allora come dice Montale “Un imprevisto è l’unica speranza”.

Berlino, 2014.

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Storie d’Italia: pillole per non dimenticare (3). La “piemontesizzazione” dell’Italia

Vítor_Emanuel_II_Itália Vittorio Emanuele II a caccia

La Germania moderna nacque nel 1870 con gli Hohenzollern, la Prussia unificò il paese. A noi toccarono i Savoia.

Perché fu proprio il Piemonte a diventare il “motore” dell’Unità?

 Furono vari gli elementi che giocarono a suo favore: i suoi tradizionali rapporti politici con la Francia (in lotta per scalzare il dominio austriaco in Italia) e il riuscito inserimento nello scenario europeo con la guerra di Crimea; aver avviato una serie di riforme economiche moderne, di cui lo sviluppo della ferrovia era il segnale più forte. Gli altri Stati erano tutti, direttamente o meno, sotto il controllo politico e militare austriaco e l’Austria era stata l’artefice di quell’assetto geopolitico. Non dimentichiamo che il grande architetto dell’Europa dopo il congresso di Vienna del 1815, il principe di Metternich, considerava l’Italia una semplice «espressione geografica».

Lo Stato Piemontese, pur basandosi su un sistema politico censitario, era l’unico ad avere una Costituzione liberale effettivamente operante nonché un sistema parlamentare. Lo Statuto Albertino, concesso nel 1848, fu mantenuto in vigore anche dopo la sconfitta nella prima guerra d’indipendenza. L’unificazione nazionale permise di estendere le libertà costituzionali all’intero Paese. Vennero inoltre avviate importanti riforme riguardanti la sanità e l’istruzione e si mise in movimento quel lento processo di democratizzazione della vita politica che ebbe come passaggio cruciale (mai sfruttato completamente) la riforma delle amministrazioni locali.

Non si può ignorare inoltre che l’Italia rappresentava agli occhi delle grandi potenze europee una questione irrisolta e potenzialmente esplosiva (come lo è stata per tutto il Novecento e oltre la penisola balcanica): la creazione di uno Stato unitario fu a un certo punto caldeggiata a livello diplomatico per impedire esiti pericolosi (una situazione di guerra permanente oppure l’ingresso stabile della Penisola nell’orbita di una delle potenze europee concorrenti). Ciò permise al nostro Paese di raggiungere quella «massa critica» in grado di metterlo al riparo dagli appetiti dei nostri ingombranti vicini europei.

 Chi pagò il prezzo più alto dell’unificazione?

 Fu soprattutto il Sud che, paradossalmente, ne fu il “motore” decisivo: se l’impresa dei Mille fosse fallita (cosa che non sarebbe spiaciuta neppure a Cavour) non avremmo avuto un’Italia unita, ma un Piemonte allargato fino al Lazio. La crisi del Regno borbonico era invece arrivata a una fase così avanzata che “bastarono” quei Mille, velocemente accresciuti fino a diventare una moltitudine, a far crollare l’intera struttura statale. I nostalgici hanno parlato – e ridicolmente ancora oggi parlano – di complotti massonici, britannici e simili fesserie, in realtà l’intero Stato borbonico era ormai al collasso. Garibaldi riuscì a far deflagrare quella situazione.

Il Sud fu decisivo ma i Mille vennero dal Nord: erano volontari, molti erano i giovani della classe media (la fascia sociale più debole nella storia nazionale), oltre la metà era di estrazione borghese, il resto erano operai e artigiani delle città. Tre quarti erano lombardi (434 su 1089), poi veneti (151), liguri (160), emiliani e toscani (121), ma c’erano anche siciliani (42) e calabresi (21). Circa un centinaio dei volontari che partirono con Garibaldi erano artisti o scrittori 8.

Fu proprio il Sud a essere caricato del peso dell’Unità, sin dall’inizio, sia in termini di delusioni che di costi umani. Le masse rurali, i “cafoni” si erano uniti ai garibaldini nella speranza di avere finalmente la terra da coltivare, come promesso loro, ma con l’avvento del nuovo Stato italiano la situazione rimase invariata. Il tanto sognato cambiamento sociale rimase una speranza. Ne è un esempio  la famosa considerazione del principe di Salina nel Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». I vari Stati furono unificati con un procedimento sbrigativo: con i plebisciti, anziché con assemblee costituenti che costruissero ex novo il nuovo Stato, come chiedevano i democratici. L’Italia nacque “piemontesizzando” gli altri Stati, nessun spazio fu dato alle autonomie locali, al federalismo di Cattaneo che, non accettando la forma monarchica, se ne andò in esilio in Svizzera, dove rimase fino alla morte. Le élites temevano che un percorso troppo “democratico” avrebbe portato alla dissoluzione del nuovo Stato che stava nascendo con una carenza di legittimazione popolare o che, peggio, trovassero spazio le istanze più radicali dei garibaldini e dei mazziniani. Vittorio Emanuele non ebbe neppure l’avvedutezza e la sensibilità politica di cambiare nome all’atto di divenire re del nuovo Stato.