Zagrebelsky: “I valori della Costituzione”

La democrazia dei 5 Stelle è inganno. La tecnica non basta a governare un Paese. Il logoramento è sfociato in astensionismo e violenza. La domanda ora è: siamo ancora in tempo per rimediare?

di CARMELO LOPAPA

ROMA – “Intorno a noi, vuoto politico. Ci voleva tanto a capire che la tecnica non basta a governare un Paese? Il governo tecnico poteva essere una medicina, ma la parola avrebbe dovuto riprendersela al più presto la politica. Ci voleva tanto a immaginare il logoramento che si sarebbe determinato: astensionismo, violenza, rifugio in forme di protesta elementari, prepolitiche? Siamo ancora in tempo per riprendere in mano politicamente la situazione, o non siamo più in tempo? Questa è la domanda”. C’è preoccupazione nella riflessione di Gustavo Zagrebelsky. Nel “Manifesto di Libertà e Giustizia”, da lui appena elaborato, viene indicata una possibilità, singolarmente consonante con quanto scrive Salvatore Settis nel suo ultimo libro che porta il sottotitolo “ritornare alla politica, riprendersi la Costituzione”.

Come affrontare l’emergenza, professore, ora che le piazze italiane somigliano a quelle di Atene e Madrid?
“Innanzitutto, invito a distinguere. Come sempre nei momenti di crisi, una parte della società sta a guardare, cercando di difendere posizioni e privilegi, per poi, eventualmente, schierarsi col vincitore. All’opposto, par di vedere atteggiamenti – alimentati da parte della stampa – schiettamente nichilistici: distruggiamo tutto, poi si vedrà. Infine ci sono coloro che comprendono e vivono le difficoltà del momento e non aspettano altro che potersi identificare in qualcosa di nuovo, per muovere in una direzione costruttiva.

 

Tra questi, ci sono, oggi, molti passivi, solo perché non si mostra loro come e perché possano rendersi attivi”.

Per la verità il Movimento 5 Stelle Grillo sembra, eccome, svolgere una funzione mobilitante.
“Sì. Ma bisogna onestamente dire che non sappiamo come e verso che cosa questa mobilitazione s’incanalerà. Non sappiamo se c’è un rapporto causa-effetto nella circostanza che, in Italia, dove esiste il M5S, non abbiamo avuto (finora?) l’esplosione di movimenti d’ultra destra, razzisti, nazionalisti. Se il rapporto c’è, dovremmo essere grati. Ma non conosciamo quale sarà l’esito: potrà costruire qualcosa o sarà votato alla distruzione? Su questo punto, sarebbe bene che i suoi sostenitori si ponessero domande fondamentali”.

Si riferisce all’assenza di programma?
“No. Il programma c’è e non si può dire che sia più vuoto di quello di tanti partiti. Ma io penso ad altro, alla concezione della democrazia”.

Che vuol dire?
“La democrazia del M5S vuole essere, attraverso l’uso della rete, una forma di democrazia diretta. Ma si dovrebbe sapere che la democrazia diretta come regola è solo la via per il plebiscito. L’idea della sovranità del singolo, il quale versa la sua voce nel calderone informatico, è un’ingenuità, un inganno. Su questo punto, il movimento di Grillo dovrebbe essere incalzato. Invece di scagliare vuote parole come “antipolitico”, si dovrebbe spiegare che cosa è una forza politica basata sulla rete: democrazia diretta, sì; ma diretta da chi? La rete informatica può facilmente essere una rete nelle mani di uno o di pochissimi. Il leaderismo del periodo di Berlusconi si nutriva almeno di pulsioni populiste. Qui, il controllo dall’alto, a onta dei bagni di folla puramente spettacolari, si prospetta come un algido collegamento – nemmeno definibile rapporto – telematico”.

Vuol dire che diventerebbe una democrazia eterodiretta?
“La logica parlamentare consiste nel dialogo e nel compromesso. Quando una spina di – si dice – centocinquanta deputati diretti dal web sarà piantata in Parlamento, che ne sarà di questa logica? La nostra democrazia rappresentativa già fatica, anche a causa dei tanti “vincoli di mandato” che legano i deputati a lobbies e corporazioni. Che cosa succederà in presenza d’un gruppo consistente che, per statuto, deve operare irrigidito dalla posizione che è in rete: o sarà ridotto all’impotenza, o ridurrà all’impotenza l’istituzione parlamentare”.

Quale alternativa offrite col “Manifesto di Libertà e Giustizia”?
“Può sembrare un ritorno all’antico. È la Costituzione. Non è una parola vuota, ma svuotata. Sono decenni che la si vuole cambiare e, con ciò, s’è dato da intendere che è superata. Invece non è affatto superata. La Costituzione non contiene la soluzione dei nostri problemi, ma la direzione da seguire per affrontarli. E questa traccia è contenuta nel più elevato, nel più pensato, nel più denso di consapevolezza storica tra i documenti politici che il popolo italiano abbia prodotto”.

Può fare qualche esempio?
“Basta scorrerne gli articoli, a partire dall’articolo 1, dove si parla del lavoro – non della rendita, non della speculazione, nemmeno della proprietà (che pure è riconosciuta e tutelata) – come fondamento della Repubblica. Non mi faccia fare un elenco. Ma voglio solo ricordare l’importanza che la Costituzione attribuisce alla cultura (non alla “tre i”) e alla scuola (pubblica), come premesse, o promesse, di cittadinanza”.

Nel confronto tv per le primarie, nessun candidato del centrosinistra ha inserito nel suo Pantheon personaggi della fase costituente. Che dire?
“Sciocca la domanda (non la sua, ma quella del conduttore), e sciocchissime le risposte. Invece di qualcuno che abbia a che fare con la loro formazione politica, con la propria identità, hanno evocato dal nulla nomi di degnissime persone, Papa Giovanni, Mandela, Martini… Io avrei potuto, allo stesso titolo, dire Giovanna d’Arco. Si è speculato sull’alta dignità di uomini assenti che avrebbero potuto dirti: ma come ti permetti d’utilizzarmi per farti bello, anzi per farmi fare da specchietto per allodole? Vuote e piuttosto ridicole parole”.

Nel vostro Manifesto, c’è, appunto, un atto d’accusa contro le “parole vuote” della politica.
“Sì. Il Pantheon suddetto appartiene alle parole vuote. Ma poi riforme, innovazione, giovani, condivisione, merito, e tante altre. Qualcuno è contro i giovani? Qualcuno e per il de-merito? Bisognerebbe, per non inzupparci di parole inutili, seguire questo criterio: ciò che è ovvio, non deve essere detto”.

Vi obietteranno che rischia di esserlo anche la fase costituente.
“No, No! Non “fase costituente”, ma “fase costituzionale”!”.

Ci spieghi.
“Vuol dire riportare la Costituzione al centro. Vorremmo un partito che dicesse: il mio programma è la Costituzione, il ripristino della Costituzione, nella vita politica, nella coscienza degli italiani: uguaglianza, libertà, diritti civili senza veti confessionali o ideologici, partiti organizzati democraticamente. Qualcuno dei nostri politici sa quale entusiasmo si suscita quando si parla di queste cose con la passione che meritano? E quale senso di ripulsa, invece, quando si parla dei partiti?”.

In questi tempi, in effetti, pare che tutto ciò che i partiti toccano si trasformi in rifiuto.

“Non bisogna generalizzare. Anzi, occorre aiutare a distinguere. Per questo, se un partito “toccasse” la Costituzione in modo corretto, per farsene il manifesto, ne uscirebbe nobilitato. Aggiungo: se lo facesse in modo credibile, otterrebbe una valanga di voti. Nel referendum del 2006, quasi 16 milioni di cittadini hanno votato per la difesa di questa Costituzione, contro le improvvisazioni costituzionali, magari coltivate per anni, ma sempre improvvisazioni”.

 La Repubblica, 16.11.2012

Il sito di L&G: http://www.libertaegiustizia.it/

Cataplasmi e antibiotici

 

farmacopea.jpgCataplasma: Poltiglia di sostanze vegetali cotte che, avvolta in garze, veniva posata su una parte del corpo a scopo curativo”, ci dice il dizionario della lingua italiana Sabatini-Colletti. Il cataplasma era uno dei rimedi tipici per i malanni dei nostri (bis) nonni: un raffreddore? Un bell’impacco. Reumatismi? Idem. Risipola, scrofola? Un cataplasma e via così. Oggi usiamo altri metodi un poco più scientifici (sì, vabbè, c’è anche chi usa rimedi omeopatici ma quella è un’altra storia..). Magari un antibiotico in un’infezione serve più che un cataplasma, o un anticoagulante è meglio che una sanguisuga applicata dal cerusico di turno.

In questi giorni mi sono tornati in mente i cataplasmi perché mi sono trovato davanti la proclamazione (e svolgimento) dell’ennesimo sciopero. E’ mai possibile usare ancora strumenti di lotta ottocenteschi nel XXI secolo? Lo sciopero e il corteo? Roba da Pellizza da Volpedo al tempo di twitter. E poi quale sciopero? Sciopero generale che nessuno se n’è accorto (perché il 14 era tutto aperto e tutto funzionava) e quali cortei? Cortei finiti malissimo, a botte con la polizia e con risse colossali fra fazioni interne come a Torino, Padova, Roma?

Cortei come momento di autorassicurazione, terapia di massa alle sfighe comuni? Piazze piene urne vuote, avvisava il buon Palmiro. Ma è possibile difendere i diritti di chi lavora (e i loro doveri) pensando a qualcosa di meno inutile e autolesionista? Dopo lo sciopero e i cortei è cambiato qualcosa? Siamo più vicini all’Europa o alla Grecia?

Lo so, qualche mio solerte lettore mi accuserà al solito di essere ormai un NdP (nemico del popolo) a tempo pieno ma davvero dover leggere oggi le cronache degli incidenti di ieri e della irrilevanza dello sciopero appena svolto mi da una grande tristezza. Non basta essere convinti dei propri diritti, o essere esasperati per cambiare le cose. L’incazzatura senza un’idea resta tale e di idee non se vedono. Sto parlando di idee vere e realizzabili, roba rara in questi tempi grami. Di una visione del mondo che abbia qualche chance di diventare vera e reale, che tenga conto che il mondo è cambiato senza di noi e che corriamo il rischio di essere trascinati via da una corrente tanto forte quanto incomprensibile se continuiamo ad usare metodi, idee e categorie di un secolo e mezzo fa. O qualcuno pensa che sfasciare un po’ di vetrine e dare qualche cazzotto serva a creare posti di lavoro? Qualcuno trova normale accogliere, anziché cacciare a pedate, gente che si presenta con maschere, passamontagna e caschi a manifestazioni come quelle di ieri?

Ieri, invece, si poteva/doveva inventare qualcosa per esprimere a livello europeo (e con uno “stile” europeo) la voglia di cambiamento, di futuro. Si è finito con il solito tragico spettacolo di botte, lacrimogeni, gente picchiata e la cronaca di oggi ha già dimenticato il perché quelle piazze europee erano piene ma ricorderà, ancora per qualche giorno, quelle botte, quei lacrimogeni. Politicamente una completa waterloo. Bene, bravi. Evviva.

E poi ci troviamo un comico che minaccia di arrivare al 20% dei consensi buttando lì quattro chiacchiere da bar o da forum di smanettoni da PC e rimaniamo lì senza sapere che fare, ancorati ai nostri cari vecchi cataplasmi, ai nostri cortei, ai nostri documenti programmatici, alle nostre manifestazioni che ci fanno tornare giovani per mezzora e ci lasciano poi esausti e frustrati per il resto del tempo. Quello accaduto ieri mi fa quasi superare il profondo scetticismo circa le future primarie, che restano almeno, se non il metodo per indicare il futuro presidente del consiglio (visto la nuova porcellinata elettorale che si prepara), un momento di democrazia diffusa e pacifica, per persone che vogliono discutere e pensare a cosa fare domani in termini di diritti/doveri, senza sanguisughe e cataplasmi, ma anche senza condannarsi all’eterno infantile antagonismo che rimane appollaiato come la classica scimmia sulle spalle di tanta sinistra italiana.

Antifascismo oggi, ancora?

resistenza23_img.jpgViviamo in un paese strano e lo sappiamo, una paese, per fortuna inserito nella buona vecchia Europa, in cui accade che una amministrazione pubblica (Regione Lazio) finanzi un mausoleo dedicato a un criminale di guerra o che il presidente della Camera di Commercio di Forlì proponga di intitolare il locale aeroporto non ad Eulalia Torricelli ma a Benito Mussolini. Per non dire poi di Predappio dove da anni, sotto amministrazioni “democratiche” si assiste a sfilate, inni, camicie nere e fez intorno alla tomba del caro estinto, all’insegna dell’antico “pecunia non olet”.

Cose inconcepibili in paesi come Francia e Germania (provate ad andare in piazza a Monaco, alzare il braccio teso e gridare “Sieg Hiel!” e poi vedrete…). Qui è diverso.

Accadono questi episodi (ultimo in ordine di tempo la folla di saluti romani alle esequie di Rauti, amen) ed ecco, comprensibile reazione, spuntare comunicati di protesta, inviti alle autorità ad intervenire e simili. Bene, ottimo, ma forse non basta.

Non mi interessa, per ora, ragionare sul (neo)fascismo, preferisco fare qualche considerazione sulla “nostra” parte, quella antifascista.

Nel Documento redatto da ANPI e Istituto Cervi nel luglio scorso si parla di “un nuovo impegno e una nuova cultura antifascista”. Bene, partiamo da qui. Prima osservazione logica (e domanda): se ci vuole una nuova cultura antifascista è lecito pensare che quella “vecchia” non sia più adeguata. Bene, quale cultura vogliamo proporre per il futuro?

Seconda osservazione (e domanda): gli episodi sopra riferiti e cento altri, piccoli e grandi, ci fanno porre una domanda forse spiacevole ma reale dalla quale non si può sfuggire:perchè l’Italia non è antifascista? Perchè l’antifascismo non è diventata la koinè culturale della Repubblica?

Ipotizzo, fra le tante, quattro risposte:


  1. Perché l’Italia è stata fascista, il fascismo ha saputo costruire un consenso, forgiare una cultura e una mentalità che si sono saldate con radici e legami profondi nella storia italiana. Alla vigilia dell’entrata in guerra l’antifascismo italiano ed europeo erano stati sconfitti, dalle politiche dei regimi e dall’accordo Molotov-Ribbentrop che aveva sancito l’allenaza fra nazismo e stalinismo. L’antifascismo viene “reintrodotto” dagli alleati dopo il 1942 come collante ideale nella lotta alle potenze dell’Asse. Residuale in Italia, paese invasore e poi sconfitto, l’antifascismo “seconda versione” e la Resistenza sono giocati come “alibi” per far dimenticare all’esterno, come all’interno, quanto noi italiani avevamo fatto nei vent’anni di regime.

  2. Perché la Resistenza non è stata un fenomeno nazionale, nè da un punto di vista geografico (il sud è stato liberato dagli alleati prima che potesse nascere un movimento di resistenza) che numerico (l’Italia non è stata l’Emilia e la stessa Emilia non è stata Reggio e Modena).

  3. Perchè nel dopoguerra si è scelto di valorizzare/mitizzare la figura del partigiano combattente e non si sono valorizzate le altre “Resistenze”, prima fra tutte quella degli internati militari in Germania, i primi a dire “no” a Salò e a resistere nei lager. E fra quei primi resistenti c’erano italiani di tutte le regioni, sud e isole comprese.

  4. Perché la transizione fascismo-democrazia si è svolta nella continuità di strutture, apparati e quindi di uomini, funzionari, magistrati, carabinieri passati indenni, o quasi, dal fascismo a Salò alla Repubblica. Il primo presidente della Corte Costituzionale che succedette a De Nicola nel 1957 fu Gaetano Azzariti che era stato Presidente del Tribunale della Razza dal 1938 al 1943, dopo essere stato fra i firmatari del Manifesto della Razza. Al luglio 1960 i 34 dei questori in servizio provenivano dall’Italia fascista o da Salò.

  5. Perché l’antifascismo italiano del dopoguerra è stato un fenomeno di parte che ha coinciso, dopo la scomparsa del Partito d’Azione, in buona parte, con il PCI,  che doveva scontare la zavorra, in termini di credibilità democratica, dei suoi legami con uno stato dittatoriale come l’URSS.

In questo difficile contesto non stupisce la progressiva marginalità dell’antifascismo. Nell’Italia della guerra fredda il partito di maggioranza relativa (DC) scelse altri valori di riferimento, come il filo-atlantismo e l’anticomunismo, relegando ai margini il ricordo della sua partecipazione alla Resistenza (il primo democristiano partigiano a divenire segretario del partito fu Zaccagnini nel 1975 e i ruoli rilevanti svolti da Taviani erano legati alla sua indiscussa fedeltà alla NATO).

L’antifascismo in Italia nel corso della guerra fredda rimase patrimonio di una parte politica e non ebbe capacità inclusiva.

Dopo la caduta del Muro di Berlino anche sull’antifascismo, come sulle altre basi ideali della “sinistra” non fu aperta alcuna riflessione. Scomparso il Pci, i partiti che seguirono preferirono cambiare più volte nome e simboli (mantenendo rigorosamente lo stesso personale politico) senza porsi il problema di cosa mantenere (e cosa abbandonare) di quello che era stato il sistema di valori fino a quel punto.

E mentre gli storici, di fronte anche al nuovo contesto europeo -dove nei paesi dell’est sovietico l’antifascismo era stata la ideologia ufficiale di uno stato dittatoriale- ricostruivano le vicende storiche dei vari “antifascismi” che si erano succeduti in Europa fra gli anni venti e la fine della guerra fredda e richiamavano la necessità di una riformulazione del concetto stesso di antifascismo, nella grande crisi di avvio della seconda repubblica l’antifascismo diveniva qualcosa-nel dibattito politico-di scomodo e ingombrante da rimuovere al più presto. Per far dimenticare di essere stati comunisti si decise che non esistevano più i fascisti e quindi perchè parlare ancora di anti-fascismo? Se si poteva invitare Fini alla Festa dell’Unità che senso aveva utilizzare quel vecchio residuo ideologico?

E così, acriticamente, si è superato un nuovo passaggio semplicemente aggirando la questione senza risolverla, nessuna citazione di antifascismo nello statuto del nuovo partito nato dalla fusione delle anime principali della Resistenza ma, paradossalmente, punto di riferimento per quei partiti dell’estrema sinistra che facevano (e fanno) riferimento al comunismo realizzato nell’esperienza dittatoriale dell’URSS.

Nuova cultura antifascista si richiede oggi (comprensibilmente) ma quali sono gli ambiti, i territori entro cui operare? Si può essere antifascisti e inneggiare al regime castrista di Cuba? Il termine antifascista non dovrebbe contenere al suo interno come elemento decisivo il concetto di “antitotalitarismo” riprendendo in questo il senso più completo dell’antifascismo degli anni venti e trenta, avverso ai regimi fascisti come allo stalinismo comunista? Se la nostra Costituzione è, come è, realmente antifascista (e antitotalitaria) la risposta è già data, ma si deve avere il coraggio di uscire dagli equivoci, anche se motivati da antichi e nobili (per l’Italia almeno) legami con l’esperienza comunista del secolo scorso.

Un’ultima osservazione che potrebbe superare, almeno nominalisticamente, il problema: e se abbandonassimo il prefisso anti- che in qualche modo definisce una identità culturale e politica contro qualcosa e qualcuno? Noi esistiamo anche senza i fascisti, siamo portatori di idee e valori “per”, non abbiamo bisogno di loro. Non basterebbe dire “costituzionali”?

Grazie ai miei 25 lettori (forse qualcuno in più..)!

NUMERI.jpgPreso da mania classificatorie e quantitativa ho voluto verificare i dati di accesso e lettura a questo modesto blog quasi montano. Il bello di questi nuovi strumenti di comunicazione è che sono impietosamente precisi, redigono statistiche complesse e dettagliate.

Ho compulsato le tabelle, sommato i numerini, diviso, calcolato e sono rimasto davvero sorpreso. Ho ricalcolato e ri-compulsato. Niente. I dati restano quelli. Pare che i miei 25 lettori siano qualcuno in più.

Per l’esattezza negli scorsi 12 mesi Fortezza Bastiani ha avuto 64.206 visite per un totale di 169.644 pagine lette. Con una media di 5350 visite/mese e 14.137 pagine lette/mese.

Che dire? Grazie a tutti gli amici, conoscenti, seguaci, ignoti apprezzatori e disprezzatori, la cosa mi riempie ovviamente di egoistica soddisfazione. Magari rifletto sul disagio diffuso socio-culturale (se tante persone si riducono a leggere queste “bagatelle” sparse), ma poi ripenso al buon vecchio Oscar Wilde (“Se mi esamino sono perplesso, se mi confronto esulto”) e quindi tirerò avanti, anche se il periodo non è certo dei migliori per nessuno.

Quindi ancora un “grazie” per la paziente attenzione e appuntamento alla prossima “bagatella”!

Primarie sì, primarie no..

pr-4486-img-Primarie1.jpgQualche volta mi sento proprio solo: non riesco ad essere contemporaneo al mio tempo. Primarie, si, primarie no, vota quello, vota l’altro. “Tu con chi stai?” mi chiede l’amico. E se io non stessi, e basta? Questo agitarsi prima delle primarie mi ricorda-da vecchio appassionato di Formula1-le vetture in pista nel giro di ricognizione: tutte a sterzare, schivare, accelerare, frenare per scaldare le gomme per la partenza. Per piazzarsi al meglio per il futuro, per essere sul carro del vincitore o avere il riconoscimento del posto di consolazione per lo sconfitto. Così per le primarie, chi bersa, chi renza, chi venda, chi puppa, ma poi per fare cosa? Cosa vogliamo in economia? Rapporti con l’Europa? Proseguiremo la cosiddetta “agenda Monti” o torniamo alla santa bisboccia? Avremo Fassina ministro dell’economia? Ribalteremo il sistema educativo o cancelleremo anche le poche timide riforme fatte in questo anno?

Chiedo scusa ma non l’ho capito, colpa mia. Schierarsi per cosa? Per avere un posticino poi? Con l’idea morettina “mi si nota di più se vengo..o mi si nota di più se non vengo..”? Lo so, non sono un raffinato politico ma ho provato a leggere i “documenti programmatici” E li ho trovati prolissi, pieni di tecnicismi e sindacalismi ma soprattutto non all’altezza delle crisi in cui siamo immersi. Documenti buoni, per l’amor di Dio, ma “tiepidi”, incapaci di dare una svolta reale alle varie questioni. Si lima un po’ là, si raddrizza un po’ qua. Certo come alternativa alla barbarie da bordello del berlusconismo era un bel passo avanti, ma in un anno il tempo è corso molto più veloce e quelle proposte sono invecchiate tanto da ricordare il programma prodiano, 200 pagine di bei propositi, sfumati in un pomeriggio. In un anno il mondo è cambiato, ce ne siamo accorti?

Vedo intorno una crescente desertificazione politica che alimenta fenomeni inquietanti come il grillismo, un movimento in bilico fra demagogia del terzo millennio (il mito della “democrazia diretta”) e Scientology. Ma sarebbe ingenuo prendersela con l’effetto e trascurare la causa. I partiti tradizionali, compresi quelli che adesso chiamano alle “primarie”, hanno avuto anni per cambiare, salvarsi, accorgersi di quello che stava accadendo e porre un rimedio. Zero. Nulla. Hanno continuato ad occupare tutto l’occupabile, a divorare il divorabile. Inamovibili: anche fra Cusna e Po abbiamo eletti che sono in giro dagli anni settanta. 35 anni di politica politicata. C’era ancora il muro, Breznev, doveva ancora uscire la Fiat Uno. Ancora lì.

Prendersela con Monti o la Fornero è, oltre che sciocco, anche antistorico. Abbiamo votato la peggior classe dirigente europea, per ignavia, quieto vivere o tornaconto. Abbiamo goduto tutti, chi pochissimo, chi poco, chi molto di un sistema che dava qualcosa a tanti, pensioni ai poveracci, evasione ai ricchi. Basta pensare al mondo della scuola, come ho accennato in un altro post di qualche giorno fa. In fondo è proprio come a scuola: non si studia, si va in giro, si gioca a pallone. Poi un giorno il professore ti interroga e ti da quattro. Che si fa? Ci si mette a studiare? Nooo, è chiaro: “il professore ce l’ha con me, è d’accordo col preside, con provveditore, col ministro, con Dio e chissà altri per colpire me, proprio me”. Italia 2012. Un paese in crisi totale per mancanza di classi dirigenti all’altezza: politiche, economiche, sindacali, religiose.

E ora dovremmo andare alle “primarie” per scegliere un candidato per elezioni in cui non avremo (al 80%) una nuova legge elettorale, in cui nessuno (alleanze ancora ignote a parte) avrà abbastanza voti per garantire un governo stabile e si rischia che metà degli elettori stia a casa? O stare a casa e votare sul web, le primarie virtuali per mandare a governare chi? Tanti giovani volenterosi e in buona fede, telecomandati dal capo della setta?

Lo so, il quadro non è consolante né in sede nazionale né sulle rive del Crostolo (ma questa è un’altra storia..). Del resto il mondo gira come vuole, domani sapremo se Obama sarà ancora presidente o se-eletto Romney-venerdì Israele attaccherà l’Iran, nel qual caso andare sì o no alle “primarie” sarà l’ultimo dei nostri problemi…