Antifascismo oggi, ancora?

resistenza23_img.jpgViviamo in un paese strano e lo sappiamo, una paese, per fortuna inserito nella buona vecchia Europa, in cui accade che una amministrazione pubblica (Regione Lazio) finanzi un mausoleo dedicato a un criminale di guerra o che il presidente della Camera di Commercio di Forlì proponga di intitolare il locale aeroporto non ad Eulalia Torricelli ma a Benito Mussolini. Per non dire poi di Predappio dove da anni, sotto amministrazioni “democratiche” si assiste a sfilate, inni, camicie nere e fez intorno alla tomba del caro estinto, all’insegna dell’antico “pecunia non olet”.

Cose inconcepibili in paesi come Francia e Germania (provate ad andare in piazza a Monaco, alzare il braccio teso e gridare “Sieg Hiel!” e poi vedrete…). Qui è diverso.

Accadono questi episodi (ultimo in ordine di tempo la folla di saluti romani alle esequie di Rauti, amen) ed ecco, comprensibile reazione, spuntare comunicati di protesta, inviti alle autorità ad intervenire e simili. Bene, ottimo, ma forse non basta.

Non mi interessa, per ora, ragionare sul (neo)fascismo, preferisco fare qualche considerazione sulla “nostra” parte, quella antifascista.

Nel Documento redatto da ANPI e Istituto Cervi nel luglio scorso si parla di “un nuovo impegno e una nuova cultura antifascista”. Bene, partiamo da qui. Prima osservazione logica (e domanda): se ci vuole una nuova cultura antifascista è lecito pensare che quella “vecchia” non sia più adeguata. Bene, quale cultura vogliamo proporre per il futuro?

Seconda osservazione (e domanda): gli episodi sopra riferiti e cento altri, piccoli e grandi, ci fanno porre una domanda forse spiacevole ma reale dalla quale non si può sfuggire:perchè l’Italia non è antifascista? Perchè l’antifascismo non è diventata la koinè culturale della Repubblica?

Ipotizzo, fra le tante, quattro risposte:


  1. Perché l’Italia è stata fascista, il fascismo ha saputo costruire un consenso, forgiare una cultura e una mentalità che si sono saldate con radici e legami profondi nella storia italiana. Alla vigilia dell’entrata in guerra l’antifascismo italiano ed europeo erano stati sconfitti, dalle politiche dei regimi e dall’accordo Molotov-Ribbentrop che aveva sancito l’allenaza fra nazismo e stalinismo. L’antifascismo viene “reintrodotto” dagli alleati dopo il 1942 come collante ideale nella lotta alle potenze dell’Asse. Residuale in Italia, paese invasore e poi sconfitto, l’antifascismo “seconda versione” e la Resistenza sono giocati come “alibi” per far dimenticare all’esterno, come all’interno, quanto noi italiani avevamo fatto nei vent’anni di regime.

  2. Perché la Resistenza non è stata un fenomeno nazionale, nè da un punto di vista geografico (il sud è stato liberato dagli alleati prima che potesse nascere un movimento di resistenza) che numerico (l’Italia non è stata l’Emilia e la stessa Emilia non è stata Reggio e Modena).

  3. Perchè nel dopoguerra si è scelto di valorizzare/mitizzare la figura del partigiano combattente e non si sono valorizzate le altre “Resistenze”, prima fra tutte quella degli internati militari in Germania, i primi a dire “no” a Salò e a resistere nei lager. E fra quei primi resistenti c’erano italiani di tutte le regioni, sud e isole comprese.

  4. Perché la transizione fascismo-democrazia si è svolta nella continuità di strutture, apparati e quindi di uomini, funzionari, magistrati, carabinieri passati indenni, o quasi, dal fascismo a Salò alla Repubblica. Il primo presidente della Corte Costituzionale che succedette a De Nicola nel 1957 fu Gaetano Azzariti che era stato Presidente del Tribunale della Razza dal 1938 al 1943, dopo essere stato fra i firmatari del Manifesto della Razza. Al luglio 1960 i 34 dei questori in servizio provenivano dall’Italia fascista o da Salò.

  5. Perché l’antifascismo italiano del dopoguerra è stato un fenomeno di parte che ha coinciso, dopo la scomparsa del Partito d’Azione, in buona parte, con il PCI,  che doveva scontare la zavorra, in termini di credibilità democratica, dei suoi legami con uno stato dittatoriale come l’URSS.

In questo difficile contesto non stupisce la progressiva marginalità dell’antifascismo. Nell’Italia della guerra fredda il partito di maggioranza relativa (DC) scelse altri valori di riferimento, come il filo-atlantismo e l’anticomunismo, relegando ai margini il ricordo della sua partecipazione alla Resistenza (il primo democristiano partigiano a divenire segretario del partito fu Zaccagnini nel 1975 e i ruoli rilevanti svolti da Taviani erano legati alla sua indiscussa fedeltà alla NATO).

L’antifascismo in Italia nel corso della guerra fredda rimase patrimonio di una parte politica e non ebbe capacità inclusiva.

Dopo la caduta del Muro di Berlino anche sull’antifascismo, come sulle altre basi ideali della “sinistra” non fu aperta alcuna riflessione. Scomparso il Pci, i partiti che seguirono preferirono cambiare più volte nome e simboli (mantenendo rigorosamente lo stesso personale politico) senza porsi il problema di cosa mantenere (e cosa abbandonare) di quello che era stato il sistema di valori fino a quel punto.

E mentre gli storici, di fronte anche al nuovo contesto europeo -dove nei paesi dell’est sovietico l’antifascismo era stata la ideologia ufficiale di uno stato dittatoriale- ricostruivano le vicende storiche dei vari “antifascismi” che si erano succeduti in Europa fra gli anni venti e la fine della guerra fredda e richiamavano la necessità di una riformulazione del concetto stesso di antifascismo, nella grande crisi di avvio della seconda repubblica l’antifascismo diveniva qualcosa-nel dibattito politico-di scomodo e ingombrante da rimuovere al più presto. Per far dimenticare di essere stati comunisti si decise che non esistevano più i fascisti e quindi perchè parlare ancora di anti-fascismo? Se si poteva invitare Fini alla Festa dell’Unità che senso aveva utilizzare quel vecchio residuo ideologico?

E così, acriticamente, si è superato un nuovo passaggio semplicemente aggirando la questione senza risolverla, nessuna citazione di antifascismo nello statuto del nuovo partito nato dalla fusione delle anime principali della Resistenza ma, paradossalmente, punto di riferimento per quei partiti dell’estrema sinistra che facevano (e fanno) riferimento al comunismo realizzato nell’esperienza dittatoriale dell’URSS.

Nuova cultura antifascista si richiede oggi (comprensibilmente) ma quali sono gli ambiti, i territori entro cui operare? Si può essere antifascisti e inneggiare al regime castrista di Cuba? Il termine antifascista non dovrebbe contenere al suo interno come elemento decisivo il concetto di “antitotalitarismo” riprendendo in questo il senso più completo dell’antifascismo degli anni venti e trenta, avverso ai regimi fascisti come allo stalinismo comunista? Se la nostra Costituzione è, come è, realmente antifascista (e antitotalitaria) la risposta è già data, ma si deve avere il coraggio di uscire dagli equivoci, anche se motivati da antichi e nobili (per l’Italia almeno) legami con l’esperienza comunista del secolo scorso.

Un’ultima osservazione che potrebbe superare, almeno nominalisticamente, il problema: e se abbandonassimo il prefisso anti- che in qualche modo definisce una identità culturale e politica contro qualcosa e qualcuno? Noi esistiamo anche senza i fascisti, siamo portatori di idee e valori “per”, non abbiamo bisogno di loro. Non basterebbe dire “costituzionali”?

Antifascismo oggi, ancora?ultima modifica: 2012-11-07T11:10:00+01:00da pelikan-55
Reposta per primo quest’articolo