Minima Elettoralia (4): Lo statuto iraniano del M5S (M.Taradash)

Nel novembre del 2012, quando Dario Fo, autore del Mistero Buffo, annunciò il suo voto per il M5S cominciai a definire i grillini “fascisti buffi”. Il loro modo di operare in Parlamento non me ne ha fatto pentire. Ora il nuovo Statuto del M5S dà forma a quel progetto di distruzione della democrazia parlamentare avviato col Vaffaday. In attesa, nelle aspettative di Grillo e del Clan dei Casaleggesi, di trasferirlo nella nuova Costituzione della Repubblica Democratica Diretta Italiana, come vedremo.

Una premessa: pensare che il fare, o il non fare, o il mal fare, o persino il malaffare, o persino persino il ben fare, quando capitasse, del movimento di Grillo possa spostare un solo voto in meno o in più è sbagliato. Concordo con chi invita a cercare nella politica un’alternativa, non nel corpo a corpo che spesso finisce col confondere i corpi.

In Italia è già avvenuto una volta, cento anni fa, e fu una tragedia. La seconda volta può materializzarsi anche in una sagoma comica

Accade, alle volte, nella storia

In Italia è già avvenuto una volta, cento anni fa, e fu una tragedia. La storia oggi potrebbe ripetersi. La seconda volta però non sempre assume la forma di farsa, può materializzarsi anche in una sagoma comica. Una comica avvelenata, grottesca spesso, disgustosa alle volte, ma ridicola sempre – nel doppio senso di far sorridere scetticamente i geometri politici e di divertire fino far scoppiare la pancia della brava gente, del “popolo”. Fino a condurre sulla soglia del governo di una nazione.

Per capire come questo possa accadere nell’Italia del nuovo millennio è consigliabile leggere un romanzo, il miglior romanzo civile di questo nuovo secolo, “Canale Mussolini” di Antonio Pennacchi. Vi si racconta come, con quotidiana ineluttabilità, ampie fasce di popolazione che si erano riconosciute nel movimento socialista poterono acclamare in Mussolini, il socialista rivoluzionario che aveva trasferito nel suo movimento – che mai doveva diventare partito e nel giro di due anni partito divenne – l’interprete delle loro speranze. Molto semplicemente allora, stanca delle frustrazioni e delle difficoltà della vita quotidiana, delle “chiacchiere” della politica, dei soprusi, la gente, e alla fine la stragrande maggioranza della gente italiana, a un certo punto aveva smesso di pensare con la sua testa e si era affidata a qualcuno che aveva un gran capoccione (e una mascella volitiva) e si dichiarava capace di trasformare in azione la volontà vera di tutti. La volontà generale.

E alla fine tutto questo gran rivolgimento di stomaco si è concentrato in una persona, un comico dalla grande capigliatura e capace di attraversare volitivamente a nuoto lo stretto di Messina, uno che al posto di Sorel e del sindacalismo rivoluzionario ha come mentore Gianroberto Casaleggio e il suo Rousseau, la sua visione fantascientifica del futuro, i suoi algoritmi, la sua dissoluzione della democrazia parlamentare, la sua rinnovata fiducia nell’intellettuale collettivo, il mediatore assolutista della “democrazia diretta”. Identificato in Grillo, in se stesso ma a distanza di sicurezza, e poi, per diritto ereditario, in suo figlio.

In un prezioso libro del 1961, ‘Le delusioni della libertà’, anticipatore in qualche misura dei monumentali studi di Renzo De Felice, Paolo Vita-Finzi scriveva che “nel primo fascismo confluivano correnti diverse e contraddittorie, in maggioranza però di sinistra (massoni, repubblicani) e anche di estrema sinistra, come i sindacalisti rivoluzionari… ma persino fra i socialisti moderati il fascismo non appariva allora con i contorni mostruosi che una falsa prospettiva tende ad attribuirgli sin dall’inizio”. Vita-Finzi invitava a rileggere grandi intellettuali e politici anche di matrice liberale e democratica sedotti, almeno per un breve periodo, dall’antiparlamentarismo che impregnava all’inizio del ‘900, in Italia e in Europa, il sentimento popolare e culturale. Si racconta di Peguy, Sorel, Prezzolini, Pareto, Croce, D’Annunzio…

Ai fascisti buffi di oggi è bastato meno, molto meno: l’eredità giustizialista di Mani Pulite e il superstite Davigo, l’Antimafia di Di Matteo, la simpatia di Dario Fo, la vanità di Stefano Rodotà. Oltre a Rousseau, ovviamente, e alla sua piattaforma-bancomat.

Torniamo allo statuto

A differenza dei politici “democratici” le cui promesse sono specchietti per le allodole, quelli autoritari vanno presi alla lettera

Perché allora indugiare sullo statuto del nuovo partito a 5 stelle, se la conoscenza dello spirito e della lettera autoritaria dei suoi articoli non influiranno sulle scelte degli elettori? Perché gli aspiranti dittatori vanno presi sul serio. A differenza dei politici “democratici” le cui promesse sono spesso specchietti per le allodole, quelli autoritari vanno presi alla lettera, anche se sembrano dei pazzoidi. La Stampa ha pubblicato la scorsa settimana un’intervista fatta da Giulio De Benedetti a Hitler nel 1923, dieci anni prima che prendesse il potere. C’è già la guerra, la soluzione finale, la liquidazione del Parlamento e della democrazia rappresentativa. Eppure vinse le elezioni.

Il M5S ha annunciato spesso che intende modificare la Costituzione una volta giunto al potere (al potere, perché il governo di coalizione non gli interessa, al massimo intende raccogliere adesioni al suo programma se non raggiungerà la maggioranza assoluta). Lo Statuto del M5S è quindi un’utile anticipazione di quali saranno i fondamenti culturali della eventuale nuova Costituzione della Repubblica Democratica Diretta Italiana.

Veniamo così informati nell’art 1 che “Gli strumenti informatici attraverso i quali l’associazione si propone di organizzare le modalità telematiche di consultazione dei propri iscritti … saranno quelli di cui alla cd. Piattaforma Rousseau”. E, come ci ha fatto sapere, prendendola un po’ alla lontana, un autorevole dirigente del M5S, il deputato Manlio Di Stefano, responsabile del dipartimento nazionale LEX, questa sarà la prima innovazione costituzionale dei fascistibuffi: “Norberto Bobbio diceva ‘Nulla rischia di uccidere la democrazia più che l’eccesso di democrazia’? Sì, ma lo stesso Bobbio aggiungeva ‘a meno che non si raggiunga la capacità tecnologica di coinvolgere tutti’. Noi siamo oggettivamente l’unico movimento al mondo che ha avviato un progetto di questo tipo. Siamo in continua evoluzione. Vogliamo arrivare ad una piattaforma universale che coinvolga tutti i cittadini, non solo gli iscritti al M5S. L’idea è di inserire strumenti di democrazia diretta e partecipata in Costituzione”. La “piattaforma universale” Rousseau in Costituzione. La centralità della Piattaforma risulta chiarissima dal codice etico degli eletti. Questi si obbligano ad “accettare che l’organizzazione e la costituzione di gruppi di comunicazione spetta al Capo Politico per quanto riguarda il Parlamento Italiano ed Europeo, per quel che riguarda la Camera, il Senato, la Presidenza del Consiglio, i ministeri ed il Parlamento Europeo” (sì, è scritto così); a che “il 50 per cento delle quote stanziate dalle rispettive Camere per il funzionamento dei gruppi parlamentari sia stanziato per il sovvenzionamento dei predetti gruppi di comunicazione”; “ad utilizzare la cd. Piattaforma Rousseau come principale mezzo di comunicazione per uniformarsi agli obblighi di trasparenza e puntuale informazione dei cittadini e degli iscritti al MoVimento 5 Stelle delle proprie attività parlamentari”. E infine a versare di tasca propria 300 euro al mese per il funzionamento della piattaforma (che quindi avrà a disposizione più di 50 mila euro al mese più tutto il denaro destinato alla comunicazione).

Costruito così il partito-regime quale sarà il ruolo dei “cittadini iscritti”? Più o meno quello delle “folle oceaniche”, la grancassa. Intanto si scopre che “L’iscrizione al partito è gratuita” (art.3). Questo favorisce i maneggi, ma soltanto dal vertice, come vedremo.

L’art. 4 tratta della “democrazia diretta e partecipata”. E’ rassicurante: “Tutte le decisioni più importanti sono delegate agli iscritti: l’elezione del Garante, del Capo Politico, del Comitato di Garanzia, dei Probiviri, dei candidati alle elezioni, del programma politico”. E’ tutta fuffa, però. Continuando a leggere si scopre che in realtà gli iscritti non decidono un bel nulla, avendo soltanto il potere di ratificare le decisioni del Garante e del Capo politico.

I quali infatti, spiega l’articolo successivo (art. 5) si riservano il diritto di rimettere in discussione il voto, qualsiasi voto:

“Entro 5 (cinque) giorni, decorrenti dal giorno della pubblicazione dei risultati sul sito dell’Associazione, il Garante o il Capo Politico possono chiedere la ripetizione della consultazione, che in tal caso s’intenderà confermata solo qualora abbia partecipato alla votazione almeno la maggioranza assoluta degli iscritti ammessi al voto”.

Per il primo voto basta la maggioranza dei votanti, per la controprova è necessaria la maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto. Obiettivo irraggiungibile in un partito in cui ogni iscrizione è gratuita e deve per giunta passare al filtro del Garante.

Tanto per capirci, alle elezioni che hanno sancito l’investitura del candidato unico Luigi Di Maio a “premier” gli aventi diritto al voto erano circa 140.000 e hanno votato in 37.000. Se anche il numero restasse invariato dovrebbero votare contro il veto del Garante, per impedirlo, almeno 70.000 iscritti. Facile.

L’art. 6 tratta dell’Assemblea degli iscritti, che si riunisce ogni anno in un luogo fisico e/o per via telematica. E’ l’equivalente di ciò che i partiti pre democrazia diretta chiamano Congresso. E’ il luogo della sovranità dei “cittadini’ iscritti. In apparenza. In realtà non ha nessun potere di decisione.

Infatti ad essa spetta “approvare i documenti politici proposti dal Capo Politico ovvero da almeno un terzo degli iscritti, ferme le competenze e responsabilità del Capo Politico nella determinazione ed attuazione dell’indirizzo politico del MoVimento 5 Stelle; eleggere il Tesoriere, su proposta del Garante; su iniziativa del Garante o di almeno un terzo degli iscritti, approvare le proposte di indirizzi vincolanti per l’adozione e/o modifica dei regolamenti di competenza del Comitato di Garanzia”.

Capito? I documenti politici vengono proposti dal Capo politico, e, di fatto, solo da lui. Ma l’Assemblea ha il potere di presentare un altro documento, no? Certo. Basta che sia sottoscritto da poco meno di 50.000 iscritti. Una presa di giro megagalattica.

Per l’elezione di una figura decisiva come il Tesoriere, si applica un meccanismo ancora più rigido (si fa per dire): la proposta è fatta dal Garante e non è neppure presa in considerazione la possibilità che venga rigettata.

Ora vediamo come si svolge l’Assemblea, che è presieduta dal Capo Politico, il quale “determina le modalità di svolgimento e votazione dell’assemblea” e, naturalmente, ne trae le conclusioni: “Il Presidente dell’Assemblea, tenuto eventualmente conto delle eventuali osservazioni e/o considerazioni e/o opinioni ricevute, predispone una proposta di delibera da sottoporre alla votazione dall’Assemblea”. Si noti l’iterazione: “tenuto eventualmente conto delle eventuali osservazioni…”.

Annamo bene. E se a qualcuno saltasse in mente di proporre modifiche a questo statuto ritenendolo un tantino rigido? Semplice. Prima dovrà raccogliere le firme di un terzo degli iscritti, intorno alle 50.000, poi le modifiche verranno votate ed eventualmente approvate. Naturalmente, in questo caso, il Garante potrà mettere il veto: “Entro 5 giorni, decorrenti dal giorno della pubblicazione dei risultati sul sito dell’Associazione, il Garante può chiedere la ripetizione della votazione che, in tal caso, s’intenderà confermata qualora abbiano partecipato alla votazione almeno la metà più uno degli iscritti”.

Basterà, per vedersi approvata la modifica, convincere a votare poco più di 70.000 iscritti e conquistarne la maggioranza. Tuttavia, a maggior tutela di tutti, come spiega l’art.8, “al Garante è attribuito il potere di interpretazione autentica, non sindacabile, delle norme del presente Statuto”. Me-ra-vi-glio-so.

Le violazioni che possono portare a “richiamo, sospensione o espulsione” sono molteplici e vaghe; l’iscritto grillino è sempre sotto stress

Il Capo Politico viene però eletto dall’Assemblea, questo va riconosciuto. Ma qui lo Statuto, così puntiglioso in tutti i suoi passaggi, si fa più vago. Spiega infatti che: “Il Capo Politico è eletto mediante consultazione in Rete secondo le procedure approvate dal Comitato di Garanzia (CdG), e resta in carica per 5 anni.

E’ rieleggibile per non più di due mandati consecutivi”. Quali procedure? Non si sa, le deciderà il CdG. Per giunta questo Capo può essere revocato sia dal CdG che da Garante. Decisione che che dovrà essere ratificata dagli iscritti. Come? A differenza di tutti gli altri casi di votazione non si danno i numeri. La proposta infatti dovrà essere “ratificata da una consultazione in Rete degli iscritti, in conformità a quanto previsto dal presente Statuto”.

Come abbiamo già visto spetta al Garante l’interpretazione insindacabile dello Statuto, e quindi possiamo stare tutti tranquilli. Tutti tranne uno, il Capo Politico, lo vediamo fra poco.

Il Garante modello Teheran

Per quanto tempo resta in carica il Garante? “A tempo indeterminato” recita lo statuto. A vita, quindi. A meno che non sia sfiduciato dal Comitato di Garanzia. In questo caso basterà che vada al voto la metà degli iscritti (quindi, oggi, solo 70.000) e sarà sufficiente per sradicarlo dalla carica la maggioranza assoluta. Guai però al Comitato di Garanzia se perde la partita perché in tal caso decadrà immediatamente.

Cosa ricorda? Lo statuto sembra la Costituzione della Repubblica islamica dell’Iran, con al vertice la Guida Suprema (Garante) a vita

Cosa ricorda tutto questo? Lo statuto sembra modellato sulla Costituzione della repubblica islamica dell’Iran. C’è la Guida Suprema (il Garante) nominato a tempo indeterminato, c’è il Consiglio di Vigilanza (il Comitato di Garanzia) e il Presidente eletto (il Capo Politico). I poteri sono molto simili. La Guida suprema (il Garante) può tutto, anche licenziare il Capo Politico (non ancora farne arrestare uno, come è capitato di recente al ribelle Ahmadinejad, ma diamo tempo al tempo).

Ma chi elegge il Comitato di Garanzia? L’Assemblea naturalmente, siamo o non siamo nel paradiso della democrazia diretta? L’Assemblea potrà addirittura sceglierne 3, sui 6 proposti dal Garante. Dal Garante e solo da lui, a cui però è dato il compito di “tutela delle minoranze e della rappresentatività di genere” nell’ambito dei 6. State sereni.

Poteva mancare il il Collegio dei Probiviri? Naturalmente c’è, formato da 3 persone. Da chi è eletto? Dall’Assemblea. Chi può proporne i candidati? Il Garante. Ma stavolta, sorpresa, può proporne non 6 bensì 5. Perché? Sarà una cautela numerologica, non sappiamo.

Vediamo ora come si svolge la vita politica degli iscritti e dei “portavoce’ ossia degli eletti. Dovrebbero riesumare un vecchio slogan: “Noi dormiamo con la testa sullo zaino”. L’articolo più lungo dello Statuto è infatti l’art. 11, intitolato non a caso “Procedimento per l’irrogazione di sanzioni disciplinari”. Le violazioni che possono portare a “richiamo, sospensione o espulsione” sono molteplici e vaghe, per cui la vita quotidiana dell’iscritto grillino si svolge in una spiacevole situazione di stress. E’ particolarmente rilevante, sotto il profilo politico, questo capo d’imputazione: “Promozione, organizzazione o partecipazione a cordate o gruppi riservati di iscritti”. Vietati gli assembramenti, in altre parole. Non è invece specificato a che ore scatta il coprifuoco.

Nello Statuto si parla anche di “sospensione cautelare” – che inibisce la candidatura alle elezioni anche prima che il puntiglioso procedimento d’accusa venga concluso – e di “particolari circostanze attenuanti” che possono ridurre la pena che dovrebbe essere inflitta. Un testo, come si vede, che risente del lessico inquisitorio proprio di quella parte della magistratura che guarda al M5S in vista della catarsi politica. Non basta. Fra le infrazioni di cui si possono macchiare gli iscritti candidati o eletti si prevedono “mancanze che abbiano provocato o rischiato di provocare una lesione all’immagine od una perdita di consensi per il MoVimento 5 Stelle, od ostacolato la sua azione politica”. Mancanze, c’è scritto proprio così. Non poteva mancare la censura da grottesco processo staliniano: severamente punito è “il rilascio di dichiarazioni pubbliche relative al procedimento disciplinare medesimo”.

Quanto ai parlamentari l’espulsione è possibile per “violazioni dello Statuto e del Codice Etico ancorché non sfociate in un procedimento disciplinare a norma di Statuto”. Ancorché. Oppure per “comportamenti suscettibili di pregiudicare l’immagine o l’azione politica del MoVimento 5 Stelle o di avvantaggiare altri partiti”. Suscettibili di. Infine ci sono le coserelle che piacciono tanto ai giornali, tipo il controllo meticoloso sugli emolumenti dei parlamentari e il loro drastico ridimensionamento, l’obbligo di non utilizzare il titolo di onorevole (giusto, ma va via anche quello di deputato o senatore, che fa troppo democrazia rappresentativa), sostituito da “cittadina” o “cittadino”.

Infine le multe: l’eletto oggetto di una espulsione dovrà rifondere 100 mila euro per le spesa sostenute dal movimento in campagna elettorale e versare al movimento (con destinazione un ente benefico che verrà indicato dal Garante) la metà degli emolumenti annuali. Sono multe impossibili da riscuotere, visto che i parlamentari ricevono gli emolumenti direttamente dalle Camere di appartenenza, ma servono per ricordare a tutti gli eletti che che essi non rispondono alla Costituzione e all’art. 67 che vieta il vincolo di mandato in quanto rappresentanti della Nazione. No, loro rispondono del loro operato soltanto al Garante e al suo catenaccio magico. E alla Repubblica Democratica Diretta di un prossimo futuro. Possibile, improbabile? Dipende dagli elettori. Che hanno ormai esaurito la loro quota di presunta ingenuità. Scegliendo Grillo, scelgono di essere complici del suo progetto.

In: https://www.ilfoglio.it/politica/2018/01/24/news/statuto-m5s-nuove-regole-democrazia-diretta-174797/

Minima Elettoralia (3): Dal meno peggio non c’è scampo (R.Tallarita)

C’è questa idea piuttosto popolare secondo cui, quando in un’elezione tutti i candidati lasciano parecchio a desiderare, ci sono due diversi modi di comportarsi. Il primo è pigro e rassegnato: accontentarsi del meno peggio. Il secondo è nobile, coraggioso, e ispirato: svincolarsi da quel ricatto e astenersi o votare un candidato simbolico con nessuna chance di farcela.

Quest’idea, però, si fonda su un equivoco, e cioè che scegliere “il meno peggio” sia una possibile filosofia del voto (e una piuttosto triste, peraltro) e che ci sia invece un’alternativa da considerare. In realtà, il meno peggio è l’unica scelta possibile. Meno peggio vuol dire semplicemente “meglio, ma insoddisfacente”. Però lo scopo del voto non è trovare soddisfazione, ma contribuire a far prevalere l’opzione migliore. Per quanto il candidato meno peggio possa essere lontano dalle nostre aspirazioni, gli altri lo sono certamente di più. E siccome qualcuno sarà eletto comunque, abbiamo solo due alternative: aiutare il migliore (o meno peggio, che dir si voglia) o aiutare quegli altri.

 Ho scritto “lo scopo del voto è”, ma ovviamente intendevo “dovrebbe essere”. Molti di noi votano anche per sentirsi bene con se stessi: per aver fatto il proprio dovere, per aver esercitato un importante diritto politico, e per aver fatto una scelta gradevole. Quando le scelte possibili sono tutte spiacevoli, votare il meno peggio è più un dovere che un piacere. Egoisticamente, ci possiamo anche permettere di rifiutare l’offerta: la probabilità che il singolo voto faccia la differenza è talmente minuscola che, se guardiamo solo al nostro interesse personale, votare (o astenersi) per titillare l’ego è probabilmente una scelta razionale.

Basta però intendersi: Non è il nobile atto politico al servizio dei più alti ideali, ma – assai più banalmente – un calcolo narciso e interessato.

L’obiezione dei più ragionevoli spesso è: Astenersi, o votare il candidato simbolico che non potrà mai farcela, manda un segnale forte. Si vuole, insomma, rifiutare la povertà dell’offerta politica per far sì che si arricchisca; negare la propria la complicità a un sistema mediocre; chiedere ai partiti di selezionare persone migliori e di formulare proposte più degne.

Tutte cose buone. Anche questo, però, ha senso solo se è il meno peggio. Cioè se il risultato che si pensa di poter ottenere per il miglioramento dell’offerta politica sia migliore (o meno peggio, insomma) del risultato elettorale che si contribuisce a causare aiutando la vittoria del peggiore.

In teoria è un ragionamento valido. Il peggior candidato potrebbe essere non così tanto peggio del meno peggio, così che una chance anche modesta di influire sull’offerta politica potrebbe valere il prezzo di un voto (indiretto) a favore dei peggiori.

L’importante però è capirsi sul linguaggio e sul calcolo che c’è dietro: Chi segue quella teoria non si sta liberando dal ricatto del meno peggio ma più semplicemente pensa che il meno peggio sia proprio aiutare il peggiore a vincere oggi per avere – forse – qualcuno molto migliore domani. Dipende da quanto peggio è il peggiore, e da quanto probabile è che i partiti accolgano il messaggio di protesta.

Quando però la differenza tra i candidati, seppur tutti parecchio difettosi, è tanta, questo calcolo a lungo termine diventa impraticabile anche per i più ottimisti. Il rischio concreto è di far vincere il peggiore oggi e non avere granché di meglio domani.

In ogni caso, comunque la si pensi, la scarsa qualità dei candidati credibili non basta a giustificare l’astensione o il voto simbolico. Bisogna sempre considerare se i benefici attesi di quella scelta siano davvero maggiori dei costi. Non si scappa dal calcolo delle conseguenze e dalla filosofia del meno peggio. Quando scegliete l’astensione o il voto simbolico, esattamente come quando scegliete un candidato che può vincere, c’è una sola cosa di cui volete assicurarvi: Che si tratti del meno peggio.

http://www.ilpost.it/robertotallarita/2018/01/18/dal-meno-peggio-non-ce-scampo/

Minima Elettoralia (2): il “Piano Kalergi”

Che cos’è – o sarebbe – il “Piano Kalergi”

Storia della teoria del complotto cara all’estrema destra – Salvini compreso – secondo cui dietro l’immigrazione ci sarebbe un complotto organizzato dalle élite europee

Nei circoli dell’estrema destra europea e italiana circola da qualche tempo una spiegazione complottista della crisi dei migranti. Secondo questa tesi, completamente infondata, l’arrivo di centinaia di migliaia di persone in Europa sarebbe parte di un piano segreto architettato dalle élite politiche ed economiche del continente per importare milioni di potenziali lavoratori a basso costo, mischiarli con le “razze europee” e creare così un meticciato debole e facilmente manipolabile. A ideare questo piano sarebbe stato un eccentrico filosofo aristocratico austro-giapponese del primo Novecento: Richard Nikolaus Eijiro. Più di dieci anni fa uno scrittore complottista e negazionista ne usò il titolo nobiliare (conte di Coudenhove-Kalergi) per battezzare il complotto che prevederebbe la sostituzione etnica dei bianchi europei. Nacque così il “Piano Kalergi”.

Come ha raccontato un lungo e documentato articolo di Vice, sono diversi anni che il Piano Kalergi è uscito dagli ambienti ristretti dei cospirazionisti per entrare a pieno titolo nel dibattito pubblico italiano. Di recente anche il candidato alla presidenza della Lombardia, il leghista Attilio Fontana, ha fatto riferimento a qualcosa che somiglia al Piano Kalergi. Nel corso di un’intervista a Radio Padaniaha parlato del rischio di sostituzione etnica da parte dei migranti che corre la “razza bianca” (Fontana si è poi scusato per l’utilizzo del termine). Fontana, in realtà, ha ripetuto quella che è oramai la linea non ufficiale del suo partito sull’immigrazione: non è un fenomeno economico e sociale di portata secolare, ma un preciso piano organizzato dall’alto.

A sostenere questa tesi è lo stesso segretario della Lega, Matteo Salvini, che da almeno tre anni ripete che quello in corso in Italia ed Europa non ha nulla di spontaneo. La prima volta in cui Salvini suggerì qualcosa del genere fu nel febbraio del 2015, quando disse che ci trovavamo di fronte a «un’operazione di sostituzione etnica coordinata dall’Europa». Non è chiaro se Salvini abbia preso ispirazione da un libro pubblicato da una piccola casa editrice proprio all’inizio del 2015 – “La verità sul Piano Kalergi. Europa, inganno, immigrazione” di Matteo Simonetti – che è il primo libro in italiano dedicato al tema. Da allora il segretario della Lega ha ripetuto il concetto più volte: l’immigrazione sarebbe voluta e organizzata da una misteriosa “élite europea” con lo scopo di eliminare la popolazione autoctona del continente. In alcune circostanze, Salvini ha utilizzato anche l’espressione “genocidio”.

Google Trends mostra che fu proprio nel periodo a cavallo tra 2015 e 2016 che l’interesse per il Piano Kalergi cominciò a diffondersi. Nell’estate del 2016 la storia divenne definitivamente mainstream quando la trasmissione di La7 “La Gabbia” gli dedicò alcuni servizi. Nel corso degli anni, la tesi è stata raccontata di nuovo da tutti i principali cospirazionisti italiani, come il più famoso tra loro, l’ex responsabile della comunicazione del Movimento 5 Stelle Claudio Messora.

Ironicamente, se non fosse per i cospirazionisti Kalergi sarebbe stato oramai dimenticato dal grande pubblico. Kalergi, che nacque a Tokyo nel 1894, non è infatti uno dei padri politici dell’Europa unita, come Altiero Spinelli o Konrad Adenauer. Appartiene piuttosto alla famiglia degli idealisti utopici che, nel periodo tra le due guerre mondiali, si opposero all’avanzata del fascismo e del nazionalismo con la loro difesa dell’integrazione e della pacificazione tra i popoli. Nel 1923, mentre l’Europa era in subbuglio e in Italia Mussolini aveva già preso il potere, Kalergi divenne famoso pubblicando il suo “Manifesto Pan-Europeo” in cui proponeva la creazione degli Stati Uniti d’Europa, un superstato dove le differenze tra i singoli popoli europei sarebbero state messe da parte in nome della reciproca collaborazione. Kalergi ottenne fondi con cui creare un giornale, raccolse alcune adesioni di personaggi importanti, ma non riuscì mai a creare un movimento popolare. A raccogliere voti e a guidare il dibattito dell’epoca erano i partiti nazionalisti di estrema destra e quelli socialisti e comunisti dell’estrema sinistra. Gli aderenti al “Manifesto Pan-Europeo” rimasero sempre un piccolo gruppo di utopisti e intellettuali, molto noti nell’alta società, ma praticamente ininfluenti sul piano concreto.

Per le sue idee Kalergi era osteggiato dai nazisti e Hitler gli dedicò alcune righe sprezzanti nel suo “Secondo libro” (mai pubblicato), definendolo «quel bastardo di Coudenhove-Kalergi». Negli anni Trenta, Kalergi divenne uno dei bersagli favoriti della loro propaganda. Fu accusato di essere ebreo, di essere un massone (in realtà aveva lasciato la loggia di Vienna nel 1926) e di voler “annacquare” la purezza delle razze europee, indebolendole così di fronte ai loro nemici: l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Quando i nazisti occuparono l’Austria, nel 1938, Kalergi fu costretto a fuggire in Francia e dovette fuggire nuovamente due anni dopo, nel 1940, durante l’invasione nazista. Secondo alcuni, la sua fuga rocambolesca attraverso Svizzera e Portogallo per arrivare negli Stati Uniti ha fornito l’ispirazione del personaggio di Victor Laszlo che nel film Casablanca è il leader politico idealista che i nazisti vogliono arrestare.

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, con l’inizio del processo di integrazione europea, Kalergi fu celebrato come uno dei grandi padri ideali dell’Europa e ricevette il primo premio “Carlo Magno”, da allora assegnato ogni anno dalla città di Aachen a coloro che contribuiscono alla creazione di un’Europa unita. Senza una carriera politica o amministrativa alle sue spalle, Kalergi fu però lasciato sostanzialmente fuori dai processi politici e decisionali che portarono alla creazione di quella che oggi si chiama Unione Europea. Nel 1955, per esempio, suggerì di adottare l’Inno alla gioia di Beethoven come inno ufficiale europeo, ma la sua idea fu accolta solo 16 anni dopo, poco prima della sua morte nel 1972. Oggi non ci sono palazzi dell’Unione a suo nome (come invece ci sono per Schumann, Spinelli e Adenauer), i suoi libri e il suo manifesto sono stati in gran parte dimenticati e, a parte la recente fama, il suo nome è ricordato soprattutto dagli storici dell’integrazione europea.

Le ragioni per cui Kalergi è tornato a essere uno spauracchio dell’estrema destra sono abbastanza evidenti rileggendo cosa scriveva Hitler di lui più di 80 anni fa. Kalergi sosteneva la necessità di stemperare le differenze tra i popoli in nome di una comunità collettiva, più ampia del singolo stato, una ricetta che non può che essere accolta con fastidio dai nazionalisti degli anni Trenta come da quelli degli anni Duemila. Kalergi, inoltre, è stato un massone e ha ricevuto finanziamenti dalla famiglia Rothschild, due dei nemici scelti con più frequenza dai teorici del complotto. Ma il motivo per cui, tra tutte le colpe, gli è stata attribuita proprio quella specifica della “sostituzione etnica” degli europei con i migranti è probabilmente dovuto al caso.

Kalergi non ha mai fatto sostanzialmente alcun cenno alle migrazioni extra-europee che alla sua epoca, sostanzialmente, non esistevano: erano semmai gli europei a migrare all’interno del continente o verso gli Stati Uniti. L’aggiunta dell’immigrazione alle idee di Kalergi si deve a Gerd Honsik, il neonazista e negazionista austriaco che con il suo libro del 2005 ha sostanzialmente inventato il “Piano Kalergi”. Honsik mise insieme diversi libri di Kalergi e ci aggiunse del suo. Da un testo prese l’idea di Kalergi secondo cui l’uomo di città, cosmopolita e meticcio, sarebbe superiore per spirito ma inferiore per volontà all’uomo di campagna. Da questo trasse la conclusione che l’uomo di città fosse debole e facile da governare.

Kalergi, sostenne quindi Honsik, voleva che gli uomini di città si diffondessero per rendere la popolazione più facile da governare. Ma come era possibile creare questi uomini meticci di città? Per Kalergi era necessario aumentare gli scambi, le comunicazioni e gli spostamenti all’interno dell’Europa. Honsik, invece, che scrisse il suo libro quando in Austria si parlava molto della potenziale immigrazione dai paesi balcanici, scrisse che Kalergi e i suoi alleati avevano in mente un altro mezzo: l’immigrazione di massa. Così le idee utopiche e probabilmente ingenue di un eccentrico aristocratico del Novecento si sono fatte strada nel dibattito interno all’estrema destra europea per anni. Da lì sono arrivate in Italia e, negli ultimi giorni, sono riuscite a sfiorare persino la campagna elettorale per la regione Lombardia.

in: http://www.ilpost.it/2018/01/16/piano-kalergi/

Minima elettoralia (1)

Siamo in campagna elettorale e, visto che alcuni dei 25 lettori di questo blog me lo hanno chiesto, mi sembra opportuno intervenire, nei modi e tempi dovuti, sulle questioni che emergeranno in questa campagna che si annuncia fra le più sgradevoli e limacciose degli ultimi anni.

Per sgombrare il campo sin dall’inizio dichiaro che voterò PD, convintamente, come votai, altrettanto convintamente, “SI” al referendum del 2016. Se qualcuno dei miei 25 lettori abbandonerà, a questo punto disgustato, la lettura me ne farò una ragione e amici come prima.

Aggiungo che nelle mie tasche l’unica tessera che sopravvive è quella dell’ACI.

Ciò detto, il 4 marzo voterò PD perché è l’unica forza politica capace, con tutti i limiti della umana politica, di governare un paese portandolo faticosamente fuori da una crisi storica, come hanno dimostrato i governi Renzi e Gentiloni.

Voterò PD perché credo che la sinistra sia l’unica in grado di modernizzare questa Italia, congelata, ammuffita, corporativa e, culturalmente e sociologicamente, di destra. Se perde il PD non perde la sinistra, ma consegnamo il paese alla peggiore destra o ad una setta di fanatici incompetenti.

Perché il vero avversario sono loro: la destra e il M5S.

Dopo questo intervento non troverete, fino al 4 marzo, una riga contro chi ha preferito uscire dal PD, spaccando e indebolendo la principale forza politica progressista per ideologico calcolo politico, per rancore, per malinteso senso della democrazia, per ritardi e conservatorismi culturali e politici.

Ogni confronto è benefico e benvenuto ma quello che ho trovato, e trovo, irritante è che, anche questo nel solco della peggior tradizione storica della sinistra, qualcuno si attribuisca la potestà di distribuire (o no) patenti di “sinistrità” a questo o quello. Un po’ come quando, in occasione del referendum, qualcuno mi venne a tenere lezioni di “antifascismo”. Qualcuno che poi votò come la Lega e Forza Nuova.

Ogni volta che la sinistra si è divisa, dal secolo scorso ad oggi, ha vinto la destra. Questo per quel poco che so di storia.

De hoc satis.

Perché il vero avversario sono loro: la destra e il M5S.