Giorno della memoria (e dell’oblio)

menorah.jpgUn altro lunedì annuncia la nuova settimana. Ma questa è una settimana un po’ particolare. Venerdì ricorre il Giorno della memoria, stabilito con legge dello Stato nel 2000. Non entro nell’annoso dibattito sulla correttezza metodologica di imporre per legge di ricordare un evento storico, scelta per altro subito equilibrata con altri giorni/giornatedella memoria, prime fra tutte quella dedicata alle vicende del confine orientale. Sottolineo la scelta della data internazionale del 27 gennaio che esclude quella del 16 ottobre, giorno della razzia nel ghetto di Roma fra l’indifferenza vaticana e la collaborazione fascista.

Anche la scelta di inserire per legge questa ricorrenza si iscrive nella lotta per la memoria che, anche nel nostro paese, ha preso avvio dopo il bigbang succeduto al 1989, con la fine della guerra fredda e la caduta dei regimi sovietici. Quello che mi sembra più interessante è verificare quanto di quella scelta ha sedimentato nel comune sentire in un paese come il nostro che ha uno stomaco ferocemente capace di digerire qualsiasi cosa ma un cervello altrettanto capace di rimuovere e cancellare tutto (o quasi). Certamente la scelta di avere istituzionalizzato la data del 27 gennaio ha consentito, soprattutto nei confronti delle istituzioni scolastiche ed educative, di aprire spazi per iniziative e progetti che sono stati utilmente progettati e realizzati: possiamo pensare che la conoscenza della shoah sia oggi ben più diffusa fra gli studenti (di ieri e di oggi) che nella media della consapevolezza dell’opinione pubblica. E’ questo un problema che non si limita allo specifico-Shoah ma investe tutto il problema della consapevolezza storica diffusa. Credo che su questo tema il vero obiettivo educativo sia quello relativo alle fasce adulte, come confermano le varie ricerche sociologiche sull’argomento. Sono gli adulti, per intenderci quelli della fascia 35-55 anni, quelli più soggetti a rimozioni, confusioni o semplicemente ignoranti (per lo più felicemente).

L’ignoranza sulla nostra storia comune è solo uno dei risvolti di quell’analfabetismo di ritorno che tante volte il Censis ha segnalato. Con un grado di educazione inferiore alla media europea si considera pari ad un terzo del totale gli italiani non più in grado non solo di articolare per scritto il proprio pensiero su qualunque argomento ma neppure di comprendere un articolo di stampa di un qualunque quotidiano. Per questa massa la televisione rimane l’unica fonte alla quale fare riferimento, come conferma la debolezza del mercato editoriale nazionale.

Una difficoltà ulteriore, indirettamente causata dalla scelta di fissare per legge una ricorrenza, la riscontriamo nelle amministrazioni pubbliche, costrette ad approntare iniziative per quella giornata che viene vissuta spesso come un “dovere”, al pari del 25 aprile o il 2 giugno. Il panorama è ovviamente (e per fortuna) articolato ma l’esperienza ci racconta spesso di assessori trafelati, in cerca di “qualcosa” da fare per il 27 gennaio, ovviamente a costo zero o quasi, come un dazio da pagare per poi riprendere il cammino quotidiano fatto, evidentemente, di cose più rilevanti.

Certo in questo contesto il lavoro dello storico diviene ancora più complicato e frustrante, ridotto a quello di un operatore sanitario in un “pronto soccorso della memoria”, impegnato a curare l’emergenza, dopo avere per i restanti dodici mesi predicato invano sulla necessità di un’opera quotidiana di “prevenzione”, di educazione capillare alla democrazia che non può non passare proprio attraverso un lavoro continuo sulla nostra memoria. Un lavoro che ha bisogno di strutture, di luoghi fisici, di spazi. Insomma di progetti e risorse che escano dall’emergenzialità fatta regola. Ma qui, l’esperienza di alcuni lustri di lavoro lo conferma, si entra nel territorio nebuloso della mancanza di interlocutori istituzionali, in un confronto con le amministrazioni dove la procedura del “silenzio dissenso” (a richieste, progetti non si dà neppure più un cenno di risposta) è divenuta la norma.

Celebriamo quindi il 27 gennaio (data dell’apertura dei cancelli di Auschwitz), torniamo pure con un migliaio di studenti su quei luoghi ma non dimentichiamoci come tutto questo si iscriva in un preciso “contesto” che certamente non possiamo giudicare né positivo né promettente.

 

Chiudo con una notazione locale: sono stato sollecitato da alcuni dei 25 lettori di FB (Fortezza Bastiani, non Facebook) in merito alla presentazione di un volume sulla resistenza letto da parte fascista e la relativa presentazione avvenuta la scorsa settimana. Non ero presente (pur avendo letto il volume) e quindi non esprimo un giudizio che non va oltre le righe apparse sulla stampa: mi sembra che, fatto salvo il diritto di ognuno di andare e dire qualsiasi cosa, l’iniziativa avesse poco a che fare con la storia. Un confronto, un esame, una ricerca si basano su fonti, sul dibattito storiografico. In parole povere esistono bibliografie, studi pubblicati, ricerche fondate scientificamente. Nulla di definitivo, da affrontare criticamente ogni volta. Ma esistenti e reali.

Si ricorre invece allo stereotipo antico ed usurato “dell’anno zero”. Non si produce nulla di nuovo ma si ignora bellamente l’esistente. È vero che non c’è nulla di più inedito che quello che è stato scritto, ma sentire ancora presentare come “vicende oscure” eventi già più volte approfonditi e descritti, fa capire come ci si trovi di fronte non ad un dibattito storiografico ma all’ennesimo uso pubblico della storia. Legittimo, ma appartenente ad un’altra categoria di pensiero e di azione. Rileggere, dopo venti anni, ancora illazioni sulla diretta responsabilità del Pci nell’uccisione dei Cervi, non può che far sollevare allo storico un interrogativo esistenziale: ma io (e gli altri come me) cosa abbiamo fatto/scritto/detto in questi anni? Pensavamo di aver lavorato/ricercato/analizzato e invece? Che fossimo tutti in montagna? O ancora chiusi in qualche gulag nella rossa Emilia? Attendiamo risposte che ci svelino l’arcano, nell’attesa continueremo a fare il nostro lavoro come si potrà, come saremo capaci. Good night and good luck!

 

Capitani coraggiosi di oggi e di ieri

naufragio.jpgCapitani coraggiosi di oggi e ieri. In tempi andati, più romantici e crudeli, il comandante fellone sarebbe stato appeso all’albero di maestra della nave ammiraglia con la flotta schierata a parata. Sepolto con infamia, senza insegne, in mare.

Oggi basta una raffica di twitter e un paio di blog..

Osservazioni lombrosiane a parte (rayban incollato, ricciolo unto, italiano approssimativo), il comandante Schettino sembrava più un figurante dimenticato a bordo dalla troupe di Vanzina che l’eroico discendente di una schiatta di navigatori (di poeti e santi parleremo un’altra volta). Eppure Schettino ci appartiene, è l’epigone (sgangherato e patetico) di una storia lunga e poco nobile del nostro paese, fatta di comandanti vili e felloni che mollano la truppa per salvare la chiappa.

Rinfreschiamoci la memoria: 9 settembre 1943, sua maestà Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e volontà della Nazione Re d’Italia e Albania, Imperatore etc…, prende armi e bagagli e fugge da Roma con la corte e l’argenteria. Roma era ben difendibile, avevamo una netta superiorità in termini di truppe e mezzi. Niente, tutti in auto e via nella notte. Direzione Pescara. Al porto attende la corvetta Baionetta per portare “Sciaboletta” e i suoi a Brindisi, al sicuro dagli alleati (nuovi, nuovi).

A parti invertite rispetto a oggi si verificò non la fuga ma l’arrembaggio alla nave. Generali, marescialli, colonnelli, attendenti, conti, baronesse, palafrenieri, ognuno a tentare di salire sulla nave, ognuno a spingere e urlare il più classico “lei non sa chi sono io!”. La scena superò talmente i limiti non solo della decenza ma dell’ordine pubblico stesso, che gli allibiti carabinieri di servizio dovettero intervenire per sedare la poco gloriosa rissa. La corvetta stracarica partì (purtroppo il mare era calmo ed il naufragio fu evitato) lasciando sul molo inviperiti generali con le decorazioni sbilenche, contessine con le trine scompigliate e carabinieri che a stento trattenevano le risa per quello che avevano visto.

Il Re aveva abbandonato non la nave ma un paese intero. Non ci fu nessuno quella notte a gridargli “Torni a Roma e faccia finta di essere un uomo!”. Il figliolino Umberto provò a pigolare qualcosa ma si arrese subito eroicamente davanti all’ordine del padre (non era il capo delle forze armate?) e si accodò all’eroico drappello verso Pescara.

Quasi un milione di militari furono lasciati al loro destino, in Croazia, Slovenia, Francia, Grecia, Italia, Albania etc…: I più fortunati arrivarono a casa, per gli altri una fucilata o il destino di IMI in Germania.

“Torni a Roma e faccia finta di essere un uomo (e un Re)!” Povero Vittorio, nessuno glielo gridò, magari avrebbe avuto un sussulto di dignità e di vergogna (non poteva sapere che suo pronipote avrebbe fatto il ballerino scemo in tv..). Ma la cosa più incredibile per chi abita oltre Chiasso è che solo tre anni dopo, quando si trattò di votare per la scelta istituzionale, al Referendum del 2 giugno, la monarchia perse di poco in sede nazionale e trionfò nel sud. Tutto dimenticato. Viva o’re! Non stupiamoci se fra un paio d’anni troveremo Schettino all'”Isola dei Famosi”, in fondo non è un uomo di mare?

E’ questa l’Italia, tutta insieme, l’Italia di chi, comandante, fugge e fa ammazzare gli altri, e poi magari cerca anche scuse (quella di “sciaboletta” fu di aver dovuto “salvare la continuità dinastica”, quella di Schettino cosa sarà? Uno scoglio nuotava in direzione contraria?) e l’Italia di chi rimane al suo posto, fa quello che semplicemente deve fare. Anche il 9 settembre fu così, fuggito il Re moltissimi lo seguirono abbandonando tutto, altri rimasero al loro posto, combattendo ove possibile (Cefalonia, Lero..) o semplicemente seguendo il destino dei propri sottoposti verso la prigionia.

Non ci sono eroi, ci siamo serviti del povero Salvo D’Acquisto per far dimenticare i suoi generali in fuga, anche il cap. De Falco non era forse al corrente degli “inchini” divenuti ormai abituali? Ma nel momento del crollo ha fatto il suo lavoro, non ha fatto finta. Semplice dovere. Ci sono queste due Italie, una migliore e una peggiore, una che fa il suo dovere e l’altra che al massimo lo fa se conviene, se non costa fatica, pronta al primo squillo d’allarme alla fuga, al tradimento, al silenzio. Sempre pronta a correre in soccorso del vincitore. L’Italia ben raffigurata da quella maschera che non ho mai tollerato che si chiamava Alberto Sordi. Ognuno valuti quale delle due è dominante, a seconda del periodo storico, delle congiunture, ricordando sempre, come diceva il poeta: “La storia siamo noi, nessuno si senta escluso”, ma neppure assolto o definitivamente buono.

Patria? Repubblica, semmai (Massimo Raffaeli)

e_nata_la_repubblica_italiana.jpgNon credo di avere mai pronunciato la parola “Patria” se non distanziandola ironicamente e cioè utilizzandola in un senso decisamente critico e talora persino revulsivo, lo ammetto. È vero che essa compare all’inizio della Marsigliese, il solo inno nazionale che tuttora riesca a emozionarmi, ma la “Patrie” del primo verso scritto da Rouget de Lisle per l’Armata del Reno è qualcosa che non riesco ad associare al nazionalismo e cioè al sentimento di orgogliosa superiorità, di più o meno dissimulata primazia, insomma di nazione in armi che la stessa parola, se detta in italiano, evoca immediatamente.

La “Patria” da noi si riferisce non a una comunità civica ma etnica e già virtualmente belligerante, essendo un termine che il militarismo della prima guerra mondiale e il fascismo hanno reso infetto, inerte, mortuario. “Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria”: il Carnefice e insieme Beccamorto del suo stesso paese che la pronunciò dal balcone di Palazzo Venezia il 10 giugno del 1940 non avrebbe potuto scegliere un’altra parola, dal suo punto di vista. Per parte mia, sono cresciuto in una famiglia di antifascisti, nessuno me ne ha mai vietato espressamente l’utilizzo ma fatto sta che in casa non l’ho mai sentita: crescendo, ho scoperto che si trattava di un tabù sia per la cultura dei Lumi sia per la tradizione marxista. Mio nonno Francesco, della classe 1898, un ciabattino giudeo con la terza elementare, mi raccontava sempre che a Trieste la mattina del 4 novembre entrando in un caffè dove si festeggiava la Vittoria non riuscì a trattenersi dal dire più o meno “… ma questi sono matti a venire in Italia…” Il fatto è che il nonno, un ragazzo di vent’anni, quella mattina aveva visto il pane bianco di farina per la prima volta in vita sua. Dunque che cos’era la Patria per lui? Il pane nero di vecce, la miseria. Lo stesso Primo Levi distingue cavillosamente fra troppe accezioni della parola “Patria” per poterla accettare d’acchito e infatti, sottotraccia, la respinge. È ovvio che chi prende le distanze dalla “Patria” non può che rigettare il ritorno (per cui oggi molti latrano, in Italia) alle Piccole Patrie pre-risorgimentali i cui segnacoli grotteschi, l’acqua del Po o il sangue di San Gennaro, rimandano direttamente alla metafisica del sangue e del suolo, insomma a una mistura postmoderna di xenofobia padana e sanfedismo meridionale. Patria? Non dovremmo mai dimenticare, specie festeggiando il centocinquantenario, che il nostro Risorgimento è stata la Resistenza: ora come allora, si dovrebbe dire solamente Repubblica.

http://www.doppiozero.com/dossier/disunita-italiana/patria-repubblica-semmai

Fosse Ardeatine, storico tedesco accusa l’Italia

“Roma scelse di non perseguire gli assassini”

Il settimanale Spiegel rilancia la ricerca di Felix Bohr su documenti provienienti dall’AA, il vecchio ministero degli Esteri. Da cui verrebbe alla luce la volontà comune di Roma e Berlino, a fine anni 50, di evitare l’estradizione e il processo ai criminali. Le ragioni del governo democristiano: evitare di dare l’esempio ad altri Paesi per rivalersi sui criminali di guerra italiani, ma anche per non incrinare i rapporti con la Germania di Adenhauer e non dare un vantaggio propagandistico al Pci

BERLINO – Alla fine degli anni Cinquanta, le diplomazie di Italia e Germania collaborarono per evitare che i criminali nazisti responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine fossero estradati e chiamati a rispondere di quella terribile rappresaglia davanti alla giustizia italiana. Alla sbarra finirono solo Herbert Kappler ed Erich Priebke. Lo afferma la ricerca dello storico berlinese Felix Bohr, che il settimanale Spiegel rilancia pubblicandone estratti e conclusioni. Secondo la sua ricostruzione, Roma contribuì all’insabbiamento per evitare che il processo ai militari tedeschi fungesse da esempio per Paesi che, a loro volta, avrebbero chiesto all’Italia di consegnare gli italiani macchiatisi di crimini di guerra.

Bohr ha ripercorso la vicenda analizzando documenti rinvenuti nell’Archivio politico dell’Auswaertiges Amt (AA), il ministero degli Esteri tedesco. Lo storico si sarebbe imbattuto in una corrispondenza intercorsa nel 1959 tra l’ambasciata tedesca a Roma e l’AA, da cui emergerebbe la volontà delle parti di sottrarre al giudizio i criminali nazisti. In particolare, il consigliere d’ambasciata tedesco a Roma dell’epoca, Kurt von Tannstein, iscritto al partito nazista dal 1933, scriveva che l’obiettivo “auspicato da parte tedesca e italiana” era di “addormentare” le indagini sull’esecuzione del marzo 1944 in una cava della Città eterna, in cui morirono 335 civili e militari italiani.

Spiegel scrive che “l’iniziativa partì dal governo italiano”: i dirigenti democristiani

non avevano interesse a chiedere l’estradizione dei responsabili dell’eccidio residenti in Germania. Un diplomatico italiano di rango elevato spiegava che “il giorno in cui il primo criminale tedesco verrà estradato, ci sarà un’ondata di proteste in altri Paesi che a quel punto chiederanno l’estradizione dei criminali (di guerra, ndr) italiani”. Ma altre ragioni inducevano il governo italiano a frenare il desiderio di giustizia di una nazione. Una era certamente la volontà di non turbare i buoni rapporti con la Germania di Konrad Adenauer, alleata nella Nato. E poi, il disegno strategico di non fornire un vantaggio propagandistico al Partito comunista italiano.

I documenti scoperti da Bohr portano alla luce il contenuto di un colloquio che l’ambasciatore tedesco Manfred Klaiber ebbe nell’ottobre 1958 con il capo della procura militare di Roma, colonnello Massimo Tringali, nella sede diplomatica tedesca. Dopo il colloquio, Klaiber scriveva a Bonn che il colonnello Tringali aveva “espresso che da parte italiana non c’è alcun interesse a portare di nuovo all’attenzione dell’opinione pubblica l’intero problema della fucilazione degli ostaggi in Italia, in particolare di quelli alle Fosse Ardeatine”.

All’ambasciatore tedesco, Tringali aveva spiegato che ciò “non era auspicato per motivi generali di politica interna” e “esprimeva l’auspicio che dopo un doveroso e accurato esame, le autorità tedesche fossero in grado di confermare alla Procura militare che nessuno degli accusati era più in vita o che non era possibile rintracciare il loro luogo di residenza, oppure che le persone non erano identificabili a causa di inesattezze riguardo alla loro identità”.

Il colonnello italiano avrebbe aggiunto che, nel caso in cui le autorità tedesche fossero arrivate dopo un’inchiesta alla conclusione che tutti o parte dei responsabili dell’eccidio vivevano in Germania, “la Bundesrepublik era libera di richiamarsi all’accordo italo-tedesco di estradizione e di spiegare che le informazioni richieste non potevano essere fornite, in quanto la Bundesrepublik in base ai suoi regolamenti non estrada i propri cittadini”.

L’ambasciatore Klaiber, iscritto al partito nazista dal 1934 ed entrato sotto Hitler nel ministero degli Esteri del Terzo Reich, aveva aggiunto una nota personale in cui appoggiava la “ragionevole richiesta” italiana, a cui bisognava fornire una “risposta assolutamente negativa”. Il risultato fu che nel gennaio 1960 dall’AA di Bonn arrivò all’ambasciata tedesca a Roma la risposta che nel caso della maggior parte dei ricercati “non è possibile al momento rintracciare il luogo di residenza”, esprimendo anche il dubbio che “essi siano ancora in vita”. Un addetto dell’ambasciata annotò che “ciò corrisponde al risultato atteso”.

Le ricerche di Felix Bohr hanno invece accertato che, in alcuni casi, sarebbe stato facile rintracciare criminali nazisti che alle Fosse Ardeatine ebbero un ruolo non di secondo piano. Carl-Theodor Schuetz, che aveva comandato il plotone di esecuzione, lavorava presso il ‘Bundesnachrichtendienst’, i servizi segreti tedeschi. Kurt Winden, che secondo Kappler aveva collaborato alla scelta degli ostaggi da fucilare, nel 1959 era il responsabile dell’ufficio legale della Deutsche Bank a Francoforte. Per quanto riguarda invece l’Obersturmfuehrer Heinz Thunat, nel 1961 il suo indirizzo era “noto”, ma un funzionario dell’AA scrisse a Klaiber e Tannstein di comunicare agli italiani che “su Thunat non si è in grado di fornire informazioni”.

Risultato: il procedimento per gli altri responsabili dell’eccidio alle Fosse Ardeatine venne archiviato in Italia nel febbraio 1962.
 

(15 gennaio 2012)

http://www.repubblica.it/esteri/2012/01/15/news/germania_spiegel_accusa_italia_su_ardeatine-28158045/?ref=HREC1-4

Un Paese diseguale, feudale, non meritocratico (Sandro Trento*)

Vorrei tornare sul tema della diseguaglianza. In Italia la diseguaglianza nella distribuzione del reddito è alta se confrontata con la gran parte degli altri Paesi avanzati ed è rimasta alta per gran parte degli ultimi quindici anni.

A fronte di questa stabilità vi sono stati però dei processi che hanno riguardato alcune categorie in particolare: si è avuto un impoverimento delle famiglie operaie e impiegatizie con rischi di scivolamento verso la povertà relativa; vi è una elevata volatilità del reddito per i giovani; si sono avuti all’estremo opposto fenomeni da “superstar”: fasce ristrette al top della distribuzione si sono appropriate di quote molto elevate del reddito complessivo. I lavoratori autonomi sono andati meglio di gran parte del ceto medio dipendente. Maurizio Franzini nel suo recente volume “Ricchi e poveri”, (UBE 2010) sottolinea il fatto che si riscontra a livello internazionale una correlazione tra trasmissione intergenerazionale delle posizioni economiche e alta diseguaglianza. I Paesi nei quali vi è alta diseguaglianza sono Paesi nei quali più vischioso è il cambiamento di ceto sociale da una generazione e l’altra. La trasmissione intergenerazionale (i figli dei poveri restano poveri e i figli dei ricchi restano ricchi) è alta negli Stati Uniti contrariamente allo stereotipo che vuole l’America come terrà di elevata mobilità sociale. Viceversa la trasmissione intergenerazionale è bassa in Svezia e in altri paesi Nordici, regioni di forte mobilità sociale.

L’Italia, come gli Stati Uniti, è un Paese ineguale e nel quale c’è poca mobilità sociale. Il coefficiente di correlazione tra i redditi dei figli e quelli dei padri è contenuto nei paesi Scandinavi, è invece pari allo 0,47 in USA, allo 0,50 nel Regno Unito e allo 0,51 in Italia. Questo significa che oltre metà della differenza di reddito che c’è tra due giovani lavoratori è spiegabile dalla differenza di reddito che sussiteva tra i rispettivi genitori. Le condizioni di nascita insomma hanno in Italia una forte influenza sulla posizione economica e sociale delle persone. I figli degli operai tendono a restare in una condizione di disagio economico, come i loro genitori. Si tratta di un tema cruciale. Infatti, un sistema economico ha legittimazione se è percepito come “equo”. Certo vi sono vari modi per definire l’equità ma diciamo che serve che tutti o il maggior numero dei cittadini deve avere sufficienti opportunità per salire nella gerarchia sociale. Se invece le posizioni sociali sono cristallizzate si ha un sistema di stampo feudale e la stessa democrazia assume connotazioni fragili.

Molto importante è capire quali siano i canali attraverso i quali si realizza la trasmissione intergenerazionale dei vantaggi e degli svantaggi economici. L’istruzione in un sistema economico “aperto” è uno dei canali più importanti per rompere la trasmissione intergenerazionale e per favorire l’ascesa sociale di chi per nascita appartiene a una classe sociale umile. Affinchè l’istruzione funzioni come “ascensore sociale” servono: 1) scuole di qualità 2) meccanismi di selezione meritocratici.

Scuole di qualità: le scuole devono fornire le competenze necessarie per il mercato del lavoro; devono essere molto meritocratiche: chi è bravo riceve i voti migliori; ci devono essere borse di studio adeguate per chi è bravo ma privo di mezzi economici.
Meritocrazia: per accedere ai lavori l’unico criterio deve essere quello del merito, della bravura, delle competenze. Chi è figlio di poveri ma ha studiato e ha meritato un titolo di studio con voto elevato deve poter avere accesso a un posto di prestigio ben retribuito.

In Italia manca la meritocrazia. La scuola non è meritocratica, salvo pochissime eccezioni. Chi ha figli in età scolastica sa che in classe si copia, che esistono le “interrogazioni programmate”, che si suggeriscono le risposte ai compagni interrogati. I programmi sono vecchi. Mancano poi vere borse di studio per i meritevoli. Le borse universitarie sono correlate solo al reddito dichiarato dai genitori: quasi sempre finiscono per essere assegnate ai figli degli evasori fiscali e non ai meritevoli senza mezzi.

Il mercato del lavoro non è meritocratico. Si accede ai vari lavori con le raccomandazioni, con le reti familiari, con gli amici di papà o di mamma. Ci si tramanda la professione da generazione a generazione. Siamo un Paese feudale e non un’economia “aperta”.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/01/14/paese-diseguale-feudale-meritocratico/183850/

*Professore ordinario presso la Facoltà di Economia dell’Università di Trento

Così il Reich pianificò lo sterminio degli ebrei esiste ancora una copia del protocollo

163622364-bd4ab44c-34c0-403b-b048-9ff7256368ea.jpgBERLINO – Esiste ancora una copia del protocollo della riunione segreta in cui, il 20 gennaio 1942, alti ufficiali delle SS e dignitari d’alto rango del Partito nazionalsocialista (Nsdap) e dell’amministrazione del Terzo Reich discussero e organizzarono con precisione e metodicità industriale il genocidio del popolo ebraico. Per decenni, è stato custodito come documento storico negli archivi dello Auswaertiges Amt, il ministero degli Esteri tedesco. Il documento fu trovato per caso, dopo la disfatta dell’Asse, da ufficiali delle forze armate americane, e consegnato ai giudici del processo di Norimberga, la grande istruttoria degli Alleati contro i criminali nazisti. Fu più volte fotocopiato e riprodotto in testi storici e scolastici, ma si pensava che l’originale non esistesse più. Invece eccolo qui: in quelle 15 pagine dattiloscritte ingiallite dal tempo, pubblicate da Welt online 1 (edizione digitale del quotidiano liberalconservatore vicino al governo Merkel) oggi tutti, soprattutto i giovani, possono ritrovare la prova schiacciante della Shoah. E’ l’ennesima smentita ai negazionisti, ai nostalgici e agli storici revisionisti che spudoratamente affermano che l’Olocausto sarebbe stato inventato a posteriori dai vincitori della seconda guerra mondiale (Usa, Regno Unito, Urss, la Polonia del governo in esilio a Londra, la Francia libera di De Gaulle e i molti Paesi e movimenti di resistenza loro alleati). Nossignore: tutto vero, confermato ancora una volta dalla lettura di quell’agghiacciante documento.

Era il freddo 20 gennaio 1942 quando un gruppo di alti responsabili nazisti si riunirono in una bella, lussuosa villa nel quartiere elegante di Wannsee, nell’area sudovest di Berlino. “Geheime Reichsache!”, cioè “top secret del Reich”, dice il timbro in rosso in cima al documento. L’idea di redigere il protocollo della riunione e di stamparne trenta copie venne ad Adolf Eichmann, l’alto ufficiale delle SS che fu poi il progettista-ingegnere dell’esecuzione dell’Olocausto nei minimi dettagli anche tecnici, dal numero di treni-bestiame piombati alla cadenza delle esecuzioni di massa quotidiane col gas Zyklone-B in dosi ben calcolate prodotto dalla diligente, moderna azienda IG Farben, con colpi alla nuca, con criminali esperimenti “medici” in cui i deportati erano cavie destinate alla morte, fino alla “sinergia” con governi e polizie collaborazioniste esistenti ovunque tranne che in Polonia nell’Europa occupata dall’Asse.

Già alla riga tre del documento, come si vede nelle immagini, una piccola frase chiarisce di cosa si trattava in quell’incontro al Wannsee: “die Endloesung der Judenfrage”, cioè “la soluzione finale del problema ebraico”, in esecuzione degli ordini del Fuehrer Adolf Hitler e del vertice della tirannide, a cominciare dallo spietato, sadico capo delle SS, Heinrich Himmler. Il testo del protocollo, redatto da Eichmann, parla chiaramente di “evacuazione verso l’Est”. Annotazioni d’accompagno scritte dal suo stretto collaboratore Reinhard Heydrich spiegano che si tratta “dell’esecuzione pratica della soluzione finale del problema ebraico”.

Il protocollo su ordine di Eichmann fu dattiloscritto in trenta copie. Più tardi però, quando fu loro chiaro che la guerra da loro scatenata si sarebbe conclusa con la disfatta tedesca, i gerarchi nazisti, le SS, la Gestapo, tutti i singoli personaggi e istituzioni che ne avevano una copia, la distrussero. In marzo e aprile del 1945, il regime eliminò migliaia di documenti che contenevano le prove dei crimini contro l’umanità, in una corsa contro il tempo contro gli Alleati vittoriosi: a Ovest gli angloamericani di Patton, Eisenhower, Bradley e Montgomery, a est l’Armata rossa guidata dai marescialli Zhukov e Rokossovskij, le unità militari dell’Armia Krajowa polacca comandata dal governo in esilio a Londra e le divisioni polacche nelle forze armate sovietiche.
   
Distrussero tutte le copie, tranne una, la numero sedici. Sembra che un funzionario del ministero degli Esteri, convinto nazista, e giudicato anche rozzo e corrotto, Martin Luther, riuscì a conservarla nel sogno di compromettere il suo ministro, Joachim von Ribbentrop. SS e Gestapo scoprirono i piani di Luther, che fu internato a Sachsenhausen. Ma nessuno distrusse la copia. Che restò negli archivi sotterranei del ministero. Dopo la disfatta del “Reich millenario”, i sovietici che avevano preso Berlino, setacciarono insieme a inquirenti Usa, britannici e francesi ogni archivio delle istituzioni naziste. Così quel protocollo finì in mano a Robert Kempner, un esule antinazista tedesco divenuto cittadino e ufficiale americano. Kempner non volle credere ai suoi occhi, e la trasmise subito a Telford Taylor, il giudice americano capo della Corte alleata che giudicò i capi del regime nazista a Norimberga. “Oh Dio, ma è un documento vero?”, disse il giudice Taylor sotto shock, poi lo esaminò subito coi colleghi britannico, sovietico e francese.

Il processo di Norimberga si concluse con numerose condanne a morte. Alcuni dei capi del nazismo, come Hermann Goering, si suicidarono. Degli estensori del protocollo, uno era già caduto vittima dei suoi crimini, l’altro avrebbe reso conto più tardi al mondo del suo ruolo. Reinhard Heydrich fu il sadico governatore di Praga occupata, ogni giorno faceva affiggere nelle strade manifesti con le foto dei resistenti o dei sospetti assassinati. Un commando suicida della resistenza cecoslovacca si assunse l’incarico (*) : si fece addestrare nel Regno Unito dalle truppe speciali britanniche, poi fu paracadutato presso Praga da aerei per missioni segrete della Royal Air Force. Uccisero Heydrich in un attentato, poi si tolsero la vita per non cadere prigionieri e non parlare sotto tortura.

Eichmann era fuggito in Argentina, ma il Mossad, l’efficientissimo servizio segreto dello Stato d’Israele intanto sorto, lo scovò, e in una straordinaria missione lo rapì e lo portò in Israele con un quadrimotore DC 4 cargo con false registrazioni di volo trasporto merci. Al processo a Gerusalemme Eichmann ammise freddo ogni colpa, senza mostrare alcun pentimento. Fu condannato a morte e impiccato. Ma la caccia agli ultimi criminali nazisti continua, guidata da Efraim Zuroff al Centro Simon Wiesenthal con la collaborazione dei servizi americani, israeliani, tedeschi e di altri Paesi. Quelle pagine ingiallite con il piano del più orrido crimine della Storia incoraggiano a ricordare, e a non smettere di ricercarli.

ANDREA TARQUINI
(La Repubblica, 12 gennaio 2012)

(*) Il commando , composto da Jan Kubis e Joseph Gabcik , aveva predisposto anche una via di fuga dopo l’attentato (compiuto il 27 maggio) con l’appoggio altri agenti ma il piano non ebbe fortuna. I due si rifugiarono nella cripta della chiesa di S.Cirilllo e Metodio dove, scoperti il 18 giugno, si uccisero dopo un lungo assedio insieme al ten. Jan Opalka, altro membro del commando. Heydrich era morto per le ferite il 4 giugno 1942.(n.d.A.)

Che cos’è la verità storica (Miguel Gotor)

magritte-la-verita-negata.jpgLa disputa tra realisti e antirealisti interroga anche gli storici invitandoli a selezionare una serie di strumenti critici con cui affrontare il relativismo concettuale tipico degli anti-realisti radicali e la critica alla nozione di fatto promossa dai post-modernisti. Il primo strumento è costituito dalla documentalità come resistenza, che usa la filologia a guisa di arma. I fatti saranno pure interpretazioni come sostenuto da Nietzsche, o sacchi vuoti che non stanno in piedi come scritto da Pirandello; e avrà anche ragione Borges nelle Ficciones, quando, commentando il capitolo IX del Don Chisciotte, quello in cui Cervantes definiva la storia la «madre della verità» sostiene: «L’ idea di Cervantes è meravigliosa: non vede nella storia l’ indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica per lui non è ciò che avvenne, ma ciò che giudichiamo che avvenne». D’ accordo, ma dai tempi di Lorenzo Valla, grazie alla rivoluzione umanistica, si è affermata un’ irriducibilità dell’ analisi del testo e una sua autonomia che connotano la disciplina storica e le consentono, attraverso la critica delle fonti e le relazioni con il contesto, di accertare l’ autenticità di un documento e la verità o la falsità del suo contenuto. Ciò avviene attraverso un metodo filologico che è il migliore antidoto allo scetticismo integrale e che fa della storia una disciplina laica che sottopone a ragione critica i discorsi istituzionali e istituzionalizzanti del potere e si fonda, come ha insegnato Marc Bloch, sul modo del relativo e degli uomini al plurale. Il secondo strumento respinge l’ identità tra storia e memoria che devono vivere nella loro reciproca autonomia. Se la verità storica dipendesse solo dal racconto dei testimoni oculari o dal ricordo dei protagonisti degli avvenimenti, sarebbe davvero poca cosa. Anzi, sia gli uni sia gli altri, non aiutano a capire perché – come ha insegnato Primo Levi in I sommersi e i salvati – la testimonianza oculare e la memoria individuale sono necessarie, ma non sufficienti alla comprensione storica. Entrambe, infatti, sono determinate da un impasto vivacemente umano di interessi, dimenticanze, censure, passioni, paure, ambiguità, dolori, segreti, rimpianti, fedeltà e obbedienze che costituiscono l’ inevitabile porto da cui si salpa, ma non il punto di arrivo di ogni avventura di conoscenza. La storia non può limitarsi a raccogliere e inventariare le testimonianze dei reduci, bensì deve criticarle nella loro emotività costitutiva, altrimenti rischia di diventare una disciplina della rappresentazione dei sentimenti e delle percezioni, incapace di mettere in relazione i discorsi tenuti con la posizione sociale di chi li tiene e i rapporti di forza entroi quali avvengono. Naturalmente, non si tratta di riproporre un neo-positivismo ingenuo dal carattere sociologico-documentario, indifferente al travaglio ermeneutico che ha attraversato la soggettività occidentale negli ultimi decenni.
Piuttosto, bisogna partire da quella consapevolezza per riflettere anche in ambito storiografico e non solo letterario sulla fecondità di una sorta di “realismo isterico” caratterizzato dal gusto maniacale per il dettaglio (Dio è nel particolare), dalla digressione che rivela il problema quanto più sembra allontanarsi dal suo oggetto e dalla fluvialità della trama che serve a proteggere con i suoi argini la sempre fragile e spesso tragica complessità della verità storica come ricerca. Il terzo strumento riguarda la dimensione civile della ricerca storica. In questi ultimi anni il mestiere di storico è stato caratterizzato da una deriva ermeneutica sempre più specialistica e parcellizzata direttamente proporzionale alla crisi del carattere etico-politico della disciplina.

La principale ragione di questo moto tendenziale credo sia comune ai principali saperi umanistici. Penso alla rielaborazione del trauma costituito da Auschwitz, che, trascorsi solo settant’ anni dall’ evento, ancora condiziona lo sviluppo dei modelli culturali. Tutte le discipline umane, ancora oggi, stanno provando a rispondere, ciascuna in base alla propria specificità, alla domanda che fu per primo formulata da Theodor Adorno: dopo Auschwitz è ancora possibile la poesia? E Dio, e la filosofia, e l’ arte, e il romanzo e la storia? Sono ancora possibili? Per quanto concerne la storia la ferita da ricucire è costituita dal negazionismo, ossia dal rifiuto dell’ esistenza dei campi di sterminio come fatto in sé. La qualità dei problemi sollevati da questa patologia culturale sono più rilevanti dell’effettiva portata quantitativa del fenomeno stesso. Nel negare l’ esistenza di un fatto riducendolo a mera interpretazione c’ è il lascito più concreto del progetto nazista, fondato sulla distruzione della documentalità, un obiettivo che è stato possibile programmare e in parte realizzare proprio in virtù della forza e dell’efficacia di quel programma totalitario. «Tanto non vi crederanno…»: quest’angosciosa provocazione di una SS spinse Levi alla scrittura. Dall’ imperativo di rispondere a una sfida tanto selvaggia si è registrata la condivisibile presa di conquista del centro della disciplina da parte della memoria e della testimonianza. Tuttavia, l’ estensione onnivora di questa prescrizione agli altri ambiti della ricerca, un’ estensione non a caso accompagnata da una messa in discussione dell’ unicità della Shoah come progetto di annientamento totalitario scaturito dal cuore della democrazia europea, ha progressivamente marginalizzato lo spazio della filologia e quello del metodo nella ricostruzione storica: dalla storia alle “storie”, ciascuno con la propria memoria identitaria da difendere e brandire.

Ciò ha favorito l’affermazione della “docufiction”, il cui fulcro è costituito dalla densità emotiva del racconto, qualunque esso sia: basta che quel sacco stia in piedi, anche se a tenerlo non sono più neppure le interpretazioni – che almeno si potrebbero discutere – ma il palcoscenico delle emozioni, il ricatto degli stati d’ animo e il loro consumo pubblicitario dentro una cornice populista che costituisce la malattia della democrazia contemporanea. Un male che si può ancora curare se restituiamo uno spazio critico ai fatti e alla realtà, come istanza culturale da proporre, un percorso in cui dunque il sapere storico, con i suoi metodi, può svolgere un’ importante funzione civile. Il problema sollevato è quello della tendenza al dispotismo della democrazia, già individuata da Tocqueville in pagine famose: forme della rappresentatività in crisi e retoriche della persuasione che vivono invece una stagione tecnologica di straordinario sviluppo e pervasività e che sono sempre più in grado di «degradare gli uomini senza tormentarli», in modo «più esteso e più dolce» che in passato, come scriveva l’ autore della Democrazia in America. In questo squilibrio tipico del nostro tempo tra la lentezza delle forme della politica e la velocità tecnologica della sua comunicazione senza pensiero e cultura e, dunque, in uno stato perenne di demagogia plebiscitaria, c’ è la profonda frattura dei nostri giorni.
Ragionare su come sanarla attiene alla funzione culturale delle discipline umanistiche, alla sfida del realismo con cui avranno la capacità di affrontarla: il nemico, quando è mortale, non è mai un’ interpretazione.

La Repubblica, 5.1.2012

Dopo il Tricolore

450px-Tricolore_italiano_spiegato_su_cielo_azzurro_33-2.jpgPost visita Monti a Reggio. Ho aspettato a scrivere, ho preso il sole della montagna sulle mie pietre a Fortezza Bastiani, ho bevuto un buon rosso, ho letto qualcosa, ho scritto (altro). Sabato mattina ho girato per Reggio, ero in piazza all’alzabandiera, ho cantato l’inno, mi sono tolto il capello davanti alle bandiere che salivano sui pennoni. Ho visto-merito forse del cerimoniale-un palco delle autorità più sobrio e meno intasato di tartufi e tartufoni. Poi sono andato in giro nelle piazze. Ho sentito persone parlare, apprezzare, non apprezzare, normale, logico. Ho visto 40 leghisti, ridicoli e penosi come solo loro sanno essere, contestare chi sta cercando di salvare il paese dalla bufera dove loro e il vecchio maiale ci hanno condotti. Ho visto 10 fascisti, in nero, capelli rasati, inneggiare all’Ungheria (sì, non quella del ’56, quella di oggi…), ho visto una cinquantina di militanti dell’estrema sinistra agitare le bandiere rosse, lanciando slogan che mi hanno fatto tornare giovane, stile cortei 1971-72. Ci mancava solo “Nixon boia” e “Giù le mani dal Vietnam”.

Non sono mai stato comunista, sono un vecchio azionista, antifascista e antitotalitario, ma riconosco il ruolo dei comunisti nella costruzione della nostra democrazia, un ruolo decisivo. Paradossale forse, visto che altrove il loro stato-guida della stessa democrazia fece carta straccia e peggio. Ma sono le strane acrobazie della storia. L’Europa è stata salvata dal nazifascismo anche grazie al contributo di un’altra dittatura. Per fortuna l’Italia ha avuto i comunisti senza avere il comunismo. Ci ha salvato la geografia o la buona sorte.

Però quelle bandiere, con quegli slogan, mi hanno fatto tristezza, vedere così ridotta un’idea nobile, ormai fuori dal Parlamento e dalla sensibilità generale. La gente passava li ascoltava, scuoteva la testa e se ne andava (Reggio Emilia non Catania). Marginali, attaccati a parole invecchiate, convinte ancora dei grandi complotti del capitale delle multinazionali. Fosse così facile! Ci fosse davvero la spectre-Goldman Sachs e compagnia bella! Sono ancora al FODRIA (Forze Oscure Della Reazione In Agguato) come si diceva negli anni ’50. Marginali per i complotti o perchè non hanno azzeccato una scelta politica da vent’anni a  oggi?

E poi mi sono sorpreso a trovare una logica in quella piazza dove a sinistra suonava uno strillo e a destra rispondeva un rutto. C’erano lì alcuni dei protagonisti della nostra crisi attuale, quelli recenti: i leghisti e i fascisti(che hanno collaborato a ogni atto del berlusconismo) e quelli antichi (quelli dell’estrema sinistra che fecero saltare per pura ideologia il primo-e migliore-governo del centro sinistra nel 1998). Erano lì, in tutto un centinaio di persone, a gridare la loro rabbia a chi sta cercando di fare qualcosa per tirarci fuori dal guano.

C’erano tanti amici in piazza e sono stato colpito da un colloquio fra un amico e una parente. Lei aveva appena finito di lanciare moccoli contro la retata di Cortina (“così rovinano l’economia e il turismo”), l’altro contro Monti che “se la prende con la povera gente”. In pochi istanti si sono trovati d’accordo, un compromesso storico sorprendente. Temo per lasciare tutto come resta.

Tutto sta cambiando o è già cambiato e non ce ne vogliamo accorgere. Abbiamo scambiato per stelle fisse quelle che sono parte dell’universo, mobili e mutevoli. Non abbiamo capito che l’unico modo per difendere i diritti è quello di lavorarci su, aggiornarli, pensarne di nuovi, renderci conto della realtà. In guerra, come in una partita, giocare in difesa significa essere perdenti. Il nemico/avversario ha i suoi piani di attacco e noi? Una bella trincea sempre più vuota dove tenere alta la nostra bandierina sempre più lacera e sbiadita.

Due esempi personali: non sono entrato nell’Università  certamente perché non sono abbastanza bravo (nonostante abbia un curriculum non indifferente) ma soprattutto perché il mio professore dell’epoca non era un barone, non aveva peso per proporre i “suoi”. Bologna, Emilia rossa, anni ottanta. Niente di male, me ne sono fatto una ragione. Roba passata. Poi però quando qualcuno ha tentato riforme, ecco la sollevazione. Fino alla ridicola EnteroGelmina. A quel punto “allarmi, compagni!”. Tutti in piazza? A far cosa? A prendere aria fresca o difendere privilegi?

Articolo 18 e difesa dei “diritti”. Nel corso della mia attività lavorativa (fatta di precariato, assunzioni, precariato, assunzioni) chi mi ha mai tutelato? L’articolo 18? Attualmente sono assunto. Grazie. Bene. Ma se domani i finanziamenti venissero a mancare io sarei licenziato senza se e senza ma. Allora difendiamo l’articolo 18 come Fort Alamo o ci mettiamo a pensare come difendere tutti lavoratori, fissi, precari, mobili, pieghevoli e quant’altro? Difenderli nei loro diritti ma affermando anche i loro doveri. Qualcuno ricorda ancora la teoria del “salario come variabile indipendente” o “a salario di merda lavoro di merda”?

I diritti sono un po’ come l’amore: se dai per scontato, se non ci ripensi tutti i giorni, prima o poi trovi a letto tua moglie/marito con qualcun altro. Ci lamentiamo perché stanno smantellando il welfare (anche su questo vorrei poi capire dove finisce il welfare e inizia il privilegio..) ma abbiamo un’idea realistica di un nuovo welfare che non sia “lo Stato deve pagare”?

Pensiamo ancora che le liberalizzazioni siano un danno? Abbiamo qualche rimpianto per la pianificazione di Stato o per la Camera dei Fasci e delle Corporazioni?

Mi sono giocato i miei lettori di sinistra, ma siamo certi che fossero di sinistra quelli che stavano sotto le bandiere rosse? Sono di sinistra quelli che vogliono che tutto resti com’è? Molti paesi europei, con diverse culture politiche e diversa etica, queste cose le hanno capite da decenni. Noi ci arriviamo adesso per contrarietà, ma anche in questo caso non dobbiamo buttare via il bimbo con l’acqua sporca. L’intervento di Monti è stato duro ma, mi sembra/spero, che la gente abbia capito, è finito un periodo dove tutti abbiamo avuto (in misura diversa) la nostra fetta di torta mangiata senza passare dalla cassa. Magari è il momento di riflettere sul nostro appetito, pensare che abbiamo smangiucchiato anche la fetta dei nostri figli e iniziare un po’ di dieta. Non so se Monti ce la farà, spero di sì, sento già tassisti, farmacisti, notai, tubisti, gelatai pronti alla lotta, ma certamente se dovesse fallire quelli che la pagheranno di più, e a carissimo prezzo, saranno proprio quelli che gli antiMontiani dicono di volere difendere.

Per ora mi accontento di avere un governo rispettabile, un premier preparato che sa di cosa parla e che anche in Europa ascoltano e rispettano. Sembrava fantascienza due mesi fa, non dimentichiamolo.

Buon 2012.

 

 

Super Mario!!

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4 Gennaio 2012

Il Presidente del Consiglio ha appreso da fonti di stampa che il Senatore Roberto Calderoli avrebbe presentato in data odierna un’interrogazione a risposta scritta con la quale chiede di dar conto delle modalità di svolgimento della cena del 31 dicembre 2011 del medesimo Presidente del Consiglio.

Il Presidente Monti precisa che non c’è stato alcun tipo di festeggiamento presso Palazzo Chigi, ma si è tenuta presso l’appartamento, residenza di servizio del Presidente del Consiglio, una semplice cena di natura privata, dalle ore 20.00 del 31 dicembre 2011 alle ore 00.15 del 1° gennaio 2012, alla quale hanno partecipato: Mario Monti e la moglie, a titolo di residenti pro tempore nell’appartamento suddetto, nonché quali invitati la figlia e il figlio, con i rispettivi coniugi, una sorella della signora Monti con il coniuge, quattro bambini, nipoti dei coniugi Monti, di età compresa tra un anno e mezzo e i sei anni.

Tutti gli invitati alla cena, che hanno trascorso a Roma il periodo dal 27 dicembre al 2 gennaio, risiedevano all’Hotel Nazionale, ovviamente a loro spese.

Gli oneri della serata sono stati sostenuti personalmente da Mario Monti, che, come l’interrogante ricorderà, ha rinunciato alle remunerazioni previste per le posizioni di Presidente del Consiglio e di Ministro dell’economia e delle finanze.

Gli acquisti sono stati effettuati dalla signora Monti a proprie spese presso alcuni negozi siti in Piazza Santa Emerenziana (tortellini e dolce) e in via Cola di Rienzo (cotechino e lenticchie).

La cena è stata preparata e servita in tavola dalla signora Monti. Non vi è perciò stato alcun onere diretto o indiretto per spese di personale.

Il Presidente Monti non si sente tuttavia di escludere che, in relazione al numero relativamente elevato degli invitati (10 ospiti), possano esservi stati per l’Amministrazione di Palazzo Chigi oneri lievemente superiori a quelli abituali per quanto riguarda il consumo di energia elettrica, gas e acqua corrente.

Nel dare risposta al Senatore Calderoli, il Presidente Monti esprime la propria gratitudine per la richiesta di chiarimenti, poiché anche a suo parere sarebbe “inopportuno e offensivo verso i cittadini organizzare una festa utilizzando strutture e personale pubblici”. Come risulta dalle circostanze di fatto sopra indicate, non si è trattato di “una festa” organizzata “utilizzando strutture e personale pubblici”.

D’altronde il Presidente Monti evita accuratamente di utilizzare mezzi dello Stato se non per ragioni strettamente legate all’esercizio delle sue funzioni, quali gli incontri con rappresentanti istituzionali o con membri di governo stranieri. Pertanto, il Presidente, per raggiungere il proprio domicilio a Milano, utilizza il treno, a meno che non siano previsti la partenza o l’arrivo a Milano da un viaggio ufficiale.

 

http://www.governo.it/Presidente/Comunicati/dettaglio.asp?d=66033&pg=1%2C2121%2C3027&pg_c=1

 

Due dubbi:

1. Ma chi puffo è sto’ Calderoli? Quel demente che si era sposato con il rito celtico?

2. Una cena senza Apicella? Senza un paio di ragazze di gamba svelta? Con nipotini/ne vere? Nahhhh..! Invito Supermario a non eccedere in correttezza e rigore: non ci siamo abituati….

Tagli alle spese militari: iniziamo con gli F-35 da 15 miliardi di euro (U.DeGiovannangeli)

 

cover-f-35_in_the_clouds_1920x10802.jpgNon è solo questione di risparmiare in una situazione di crisi. La sfida è un`altra e ben più ambiziosa: tagliare per rendere più efficiente, funzionale, produttivo il nostro sistema di Difesa. Ridurre le spese militari non significa sottrarsi ad impegni assunti dall`Italia in organismi sovranazionali, dall`Onu alla Nato, ma orientare gli investimenti, razionalizzandoli, operando di «forbice» e non di «mannaia». A partire dalla vicenda al centro da giorni di un acceso dibattito politico: l’acquisto da parte del nostro Paese di 131 caccia bombardieri F35. L’Italia dovrebbe iniziare ad acquistare i primi quattro aerei quest’anno. Gli altri, entro il 2023. La spesa totale aggiornata è di almeno 15 miliardi di euro considerando che per i progetti aeronautici, i costi maggiori si hanno proprio per il mantenimento e la gestione dei mezzi aerei. I velivoli dovranno essere consegnati due anni dopo la firma del contratto d’acquisto. In termini monetari, ciò si traduce in un costo annuo medio per l’Italia di 1.250 milioni. Dal 2012 al 2023, infatti, la spesa va dai 460 ai 1.495 milioni di euro all’anno. Una spesa eccessiva, un investimento da rimodulare e non solo perché siamo in una situazione di crisi. Ridurre, non azzerare. Senza che questo comporti una «diminutio» italiana nel sistema politico-militare internazionale e senza che una sospensione comporti una penale.

Parlamentari e analisti ascoltati da l’Unità concordano sul fatto che 131 caccia non servono e che è ragionevole una riduzione degli acquisti a 40-50. Ciò porta con sé la necessità di aprire un tavolo con i nostri partner internazionali e riflettere, in quell’ambito, se quel programma ha davvero un futuro e, se sì, quale. Nessun obbligo, dunque, tanto più che anche Stati Uniti e Gran Bretagna stanno procedendo al rallentamento del programma F35, con riduzione di ordini e ripensamenti graduali. Un ripensamento strategico che non riguarda solo Washington e Londra. Norvegia, Canada, Australia e Turchia hanno di recente messo in discussione la loro partecipazione al programma, in qualche caso arrivando a una vera e propria sospensione, mentre in Olanda la Corte dei conti ha aperto un dossier sull’argomento.

 

Ma il dossier che l’Italia dovrebbe aprire al più presto è più ampio e ambizioso, investendo il complesso delle nostre spese militari con una visione strategica e non ragionieristica. Una necessità che non sembra sfuggire al ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola: «Oggi lo strumento militare, così come è strutturato, non è più sostenibile. Questa è la realtà. E la realtà, oggi, impone una revisione dello strumento per conservare ciò che più conta, la sua operatività e la sua efficacia..»: così Di Paola nel tradizionale messaggio di fine anno rivolto al personale, civile e militare, della Difesa. Revisione dello strumento militare significa, ad esempio, riflettere sulla dimensione dei nostri investimenti in armamenti. Non ci sono solo gli F35, ma l’ultima trance del programma per i caccia Eurofighter (5 miliardi); l’acquisto di 8 aerei senza pilota (1,3 miliardi); l’acquisto di 100 nuovi elicotteri NH-90 (4 miliardi); l’acquisto di 10 fregate Fremm (5 miliardi); 2 sommergibili militari (1 miliardo); il programma per i sistemi digitali dell`Esercito che costerà alla fine oltre 12 miliardi di euro. Un ripensamento che deve riguardare anche la dimensione quantitativa delle nostre Forze Armate.

Questi i dati: le Forze Armate italiane contano complessivamente 178.600 unità (Esercito 104.000; Marina 32.300; Aeronautica 42.300). La Gran Bretagna conta, complessivamente, 177.00 unità in divisa; la Germania 152.000; la Spagna, 135.000; l`Olanda 44.700; il Canada, 41.800.

Molti analisti, non certo tacciabili di veteropacifismo, considerano l’organico delle nostre Forze Armate eccessivo, non giustificabile dal nostro impegno in missioni all’estero né funzionale ad una visione più dinamica, e integrata, di un moderno ed efficiente sistema di difesa. La riduzione ipotizzabile è di 30-40mila unità. Ma l’anomalia italiana, in questo campo, investe un dato che non ha eguali tra i Paesi europei a noi dimensionabili, e anche oltre: il rapporto tra stipendi del personale e bilancio complessivo della Difesa. Il bilancio 2011 della Difesa prevede 14 miliardi di euro.

Anche considerando i fondi per le missioni si arriva a 15,5 miliardi di euro. E di questo totale ben 9,5 miliardi sono destinati al personale: oltre i due terzi del bilancio. La spesa per il personale invece di diminuire è aumentata di quasi l’1%: un incremento che non risponde di certo a criteri di «buona amministrazione».

Quanto alla «dieta» declamata dal Governo Berlusconi-Tremonti-La Russa, rimarca generale Leonardo Tricarico (ex capo di stato maggiore dell`Aeronautica e socio della Fondazione Icsa), i tagli non hanno abolito gli sprechi ma hanno inciso «sugli stanziamenti per l’esercizio, ossia addestramento, manutenzione e infrastrutture»: insomma, un disastro. Riflette in proposito Andrea Nativi, curatore del Rapporto Difesa 2011 della Fondazione Icsa: «La situazione della Difesa italiana è sempre più precaria perché si continua a rimandare quell’intervento complessivo di razionalizzazione che tutti i partner stanno realizzando o hanno già realizzato…». L’Italia ha perso tempo prezioso. E il costo del «non decidere», rileva sempre Nativi, «è elevato perché si continuano a sprecare soldi mantenendo una struttura inadeguata e perché i partner si stanno muovendo».

Rischiamo di rimanere gli unici a non aver dato mano alla ristrutturazione delle Forze Armate. Un ben triste primato. Triste e costoso.

 

Unità, 4.1.2012

http://rassegna.governo.it/rs_pdf/pdf/18YM/18YM2B.pdf