Il patto di Katharine_Capitolo 7_

26 ottobre 1941, domenica

 

 Alberto lo aveva accompagnato sotto casa a mezzanotte passata. Erano sgattaiolati via da casa di Stefano Fabbri, dopo una serata passata a giocare a un nuovo gioco americano, Monopoli, appena arrivato di nascosto anche in Italia. S’erano accaniti e Dario si era trovato, quasi subito, al limite della bancarotta. Un gioco formativo, niente da dire:magari l’aveva inventato Guido, di nascosto, nel tempo libero. C’era tutto su quel tabellone: le casette, i soldi, gli affari, gli imprevisti e le opportunità. Tutto per diventare furbi, abili. Per diventare come Guido, insomma. E infatti Dario aveva perso, magari distratto anche dalla sorella di Stefano, Valentina, che, anche se aveva solo sedici anni, era cresciuta proprio bene e faceva già la furbetta, giocandogli sempre contro.

Alla fine, quando la signora Fabbri li aveva salutati, aveva ancora in bocca il gusto dei bicchieri di sassolino mandati giù e un debito di qualche migliaia di lire con gli altri giocatori, ma quelli erano debiti buoni, già estinti.

Poi con Alberto avevano fatto il giro delle quattro porte. Gli faceva bene camminare, dopo la giornata passata inchiodato in casa, e Alberto ne aveva da raccontare, fra le ultime novità del Guf, i libri arrivati alla “farmacia” e altri amici partiti sotto le armi.

 

Nessuno lo aveva svegliato, e quando si mise a girare per casa erano quasi le dieci. Lilly e Guido usciti per la messa, Dorina era intenta a tagliare la sfoglia in cucina. Si mise l’impermeabile addosso e scese a comprare il «Corriere». Con il tempo che aveva arrivò fino in piazza del Duomo e poi tornò lentamente sfogliando le notizie della grande avanzata in Russia, che stava diventando un po’ meno avanzata e sempre più “prepotente spinta offensiva”, con i panzer tedeschi arrivati a… Borodino. Borodino: magari ricordarsi di Napoleone sarebbe stato meglio per tutti quei geni gallonati, quel matto coi baffetti e per quei poveretti che adesso si sarebbero trovati nel fango prima, nella neve poi e nella merda comunque.

Anche la sua personale “prepotente spinta offensiva” si fermò, lì all’angolo di via del Torrazzo. Bloccato. Gio’.

«Ma stai dietro gli angoli ad aspettare me?»

«Avevi detto di vederci prima che tu partissi… tieni la barba lunga adesso?» e indicò sorridendo quella specie di peluria che Dario aveva dedicato a Katharine.

«Sono in licenza… fino a stasera».

«Ti avevo scritto, per spiegare… ma non…»

«No, non ho letto… non mi interessa».

Gio’ chiuse gli occhi un attimo, li riaprì bagnati. Una lacrima giù per la guancia finì sul bavero della giacca di lana blu.

«Secondo te basta scrivere? Lo sapevano tutti… tutti! Povero scemo, lo scemo, eccomi qua, presente! Cosa dovrei fare? Scrivevi a me e andavi a letto con lui… ma dai! Almeno la coerenza, la responsabilità, un minimo senso di responsabilità… succede, ci si innamora… bene, capita, no?»

Coerenza, senso di responsabilità. Dio! Aveva usato le parole di Guido! Coerenza! E chi se ne fregava della coerenza!Lui, la coerenza! Si sentì ancora peggio, l’aveva fatto parlare come Guido, ragionare come lui: la vendetta, l’orgoglio ferito, la coerenza… che cazzata, che mucchio di cazzate!

«Ma io ti…» l’aveva detto. Gio’ l’aveva detto. Era la fine. Fine della «prepotente spinta offensiva», fine di tutto l’orgoglio, fine di tutta la vendetta. Voleva solo lei, la voleva, furiosamente, senza nessuna coerenza. Subito.

 

I ricordi sono preziosi, sono assicurazioni sulla vita, meglio che i sacchetti di sabbia di una trincea. Neanche una bomba li sposta, li butta all’aria. No, i ricordi sono meglio di tutto, sono il meglio di noi, il senso che diamo alle cose che abbiamo attraversato, sono una voce che ci racconta la storia che vogliamo sentire, il ponticello che ci porta dall’altra parte, sempre. I ricordi nessuno ce li strappa, ce li portiamo dietro quando sarà l‘ora, e in quel momento si scioglieranno ma nessuno potrà riprenderli e cambiarli. I ricordi sono solo nostri, sono la nostra salvezza e insieme la nostra condanna, perché poi nulla sarà più come prima e già lo sappiamo mentre li costruiamo, un istante dopo la realtà.

 

Le diede la mano e corsero via insieme, subito, nella stanza sul garage. Non c’era nulla altro da fare.

 

Era proprio il pranzo di saluto della famiglia al militare in partenza. Antipasto con salumi e sottaceti, rotolini di burro e alici incluse. Tagliatelle sottili in brodo, bolliti (lesso di manzo, lingua, cappone, gallina) con salsa verde e mostarda. Zuppa inglese e paste dell’Helvetia.

Dario arrivò all’ultimo minuto, ancora trasognato e accaldato. Il nonno lo guardò con benevolenza, o almeno così gli sembrò:

«Dedo, spero che alla mensa ufficiali sarai più puntuale».

«Mi scusi, nonno, ho fatto una corsa…»

«A che ora hai il treno stanotte?» s’informò a conferma Lilly, che sapeva già tutto benissimo.

«Prendo quello della mezza, alle tre sono a Milano, a Bergamo alle quattro e mezzo. Così mi sistemo e per le otto sono all’appello».

Lunedì subito a presentare la domanda, Cherubino, alla vittoria!
 Alla gloria militar! Ma questo era il suo segreto, per ora. Magari avrebbe scritto una lettera a Lilly, ma con la massima cautela, la famiglia era capace di intervenire e farlo sbattere in qualche ufficio. Non voleva rischiare. In tasca aveva anche un certificato di Bertelli, a riprova che quel livido sul braccio era stato per un prelievo, „fragilità capillare“, roba che si sana con un po’ di bistecche e spinaci. Niente di strano, insomma, in confronto al rischio di farsi riformare e di tornare a casa!

Era felice di andarsene. Spalmava il burro sul pane, ci adagiava le alici ed era tranquillo, nonostante tutto. Era rimasto pochi giorni e non aveva capito niente. Si era trovato sballottato, in preda alle sue sognanti pulsioni, finito in mezzo a storie lontane, a persone strane, ad ambienti che non conosceva. Non aveva capito quasi nulla, non aveva voluto capire, come con Gio’… troppi “mai più”, troppi „io ti…”

Tirarsi fuori era la cosa migliore. Aveva già l’eccitazione del viaggio. La sua divisa, che Dorina aveva stirato per bene, gli faceva venire voglia di partire subito. Facile, con quella, lontano, invitare una ragazza, una serata sotto a un portone, un saluto di un altro militare, il rispetto sul tram o alla biglietteria del cinema.

Fuori dal grigio di Reggio, dove i ragazzi partivano, morivano da eroi e diventavano una targa sul muro di un’aula scolastica. Lilly gli aveva raccontato della «bella cerimonia» alla Montegrappa in memoria di Luciano, mentre la gente continuava a fare i suoi affari, sporchi o puliti, senza tessera del pane ma con quella che contava, a Reggio come ad Addis Abeba.

Fuori voleva andare, su un aereo, a guardare dall’alto, con il sole che ti attraversava, le nuvole sotto a far da materasso se ti fosse venuta la voglia di andar giù. Fuori sarebbe stato meglio, comunque fosse andata a finire, infilato nel mare di Malta o in un lampo di fuoco giallo e bluastro. Sempre meglio che su un letto, con l’ago che aveva lasciato quel livido sul braccio.

«Fossi venuto a messa…» attaccò Guido sorbendo il brodo, «tanti volevano salutarti, ci hanno chiesto, tanti amici…» e iniziò a snocciolare una litania da elenco del telefono: la Milli, Antonio, Pucci, la Felici, Braglia, l’avvocato, don Giulio…

«C’era poco tempo, li saluterò la prossima volta…»

«Sì, bene!» squittì Lilly, «Tanto da Bergamo fai presto, no?»

«Sì, tranquilla, magari già per Natale…»

«Così tanto?»

«Lilly, c’è una guerra, te ne sei scordata?» puntualizzò Guido.

«A proposito, c’era anche Celso Fontana, poveretto, in fondo alla chiesa, forse si vergognava. Era già in borghese, mi ha detto che aspetta il congedo e che vi siete già parlati…»

«Sì, so già tutto…» e incrociò uno sguardo con Guido.

 

Insieme alle paste Dorina servì una bottiglia di quel Prosecco che il nonno faceva venire dal Friuli. Riempì i calici e, eccezione delle eccezioni, fu proprio il nonno a fare il brindisi:

«Per Dedo, che la guerra finisca presto e che tutto torni a posto, in questo mondo di pazzi… prosit!» Alzarono i calici e bevvero. Il brindisi era la versione educata del motto che aveva sentito ripetere tante volte dal giugno dell’anno prima: «Dopo la guerra, tutti morti o tutti matti…» Il nonno, che aveva schivato le guerre patrie, nato poco dopo l’Unità, troppo ricco e poco convinto per le campagne d’Africa, troppo vecchio per il grande tritacarne, si trovava ora in quella nuova boiata senza poter più far nulla, se non scrutare giorno per giorno i bollettini di guerra, che segnava ogni tanto con il suo lapis copiativo, e far brindisi augurali, sperando.

Non gli era stato richiesto, ma Dario si alzò e volle rispondere:

«Alla buona sorte… Alla gloria militar! Grazie e che vada tutto bene!»

«Sì, che vada tutto bene…» e Lilly fece cenno con il bicchiere vuoto, un po‘ commossa.

Dorina entrò con la caffettiera fumante.

«Alla faccia della tessera…» Dario era sempre inebriato da quel profumo, profumo di mattina prima di andare al liceo, quand’era passato, finalmente, dall’orzo al caffè vero.

«Eh, se non ci fosse Gilli e Bezzola… sai, la signora è così cara…»

Allora viva la signora Gilli per quella tazza, contro la tessera, contro le demoplutogiudo… che cavolo fossero, viva il caffè e il burro di casa Lamberti!

 

Le ultime ore sono sempre le più inutili e le più affannose, anche nell’ozio supremo di una domenica pomeriggio. Il tempo era cambiato, cielo bigio padano compatto, senza una goccia, senza vento. Subito dopo pranzo gli venne in mente di andarsene subito, poteva dormire da qualche parte a Milano o a Bergamo addirittura. Poi lasciò l’idea, sembrava un’offesa ai suoi. Sapeva che difficilmente, se tutto fosse andato come doveva, sarebbe tornato per Natale, e così girava per casa, con Lilly che sorrideva felice nel vederlo deambulare senza meta e Guido che lo occhieggiava mentre, nel suo studio, quello rosso del babbo, sfogliava cartelle e documenti certamente di enorme importanza e complessità.

«Hai tempo una mezz’oretta?» la voce al telefono di Bottazzi era la solita, profonda e nitida.

Come il giorno precedente lo aspettava sotto casa, ma stavolta era in tenuta da campagna, giacca di fustagno, pullover di maglia e knickerbocker. Elegante come sempre, comunque.

«Devo fare un paio di cosette su a Puianello… vieni!»

E si slanciò su verso la Baragalla, Madonna di Nebbiara, con il solito entusiasmo, tanto entusiasmo da grattare un paio di marce. L’Ardea non aveva il cambio dell’Alfa, quei click… Bottazzi guidò fino alla villa, imboccò il lungo viale alberato e si fermò davanti all’ingresso padronale.

«Aspetta, devo dire due cose al mezzadro…» disse a Dario, e lo lasciò lì da solo, sotto i grandi pini, la siepe di magnolia, i cespugli di ortensie dove aveva giocato tante volte da piccolo, quando veniva d’estate con sua madre, e poi andava in giro, giù per i prati fino al Crostolo, con Corrado il figlio dell’avvocato, e i figli e le figlie dei contadini. Gli tornarono in mente le corse a perdifiato, a nascondersi nelle vigne e poi a correre su nel fienile, in luoghi misteriosi, col sapore di polvere dei sacchi di grano e il profumo delle balle di fieno da usare come castelli, ponti, cunicoli infiniti.

«Allora, ragazzaccio, in partenza, volevo dirti alcune cosette… vieni». Entrarono nella sala che dava direttamente sul giardino. C’era già il camino acceso, quel camino di marmo nero con gli intarsi, le due facce di satiri ai lati e le fronde che scendevano giù per le colonne laterali.

Bottazzi tirò fuori una bottiglia e due bichieri da cognac.

«Armagnac 1929, grande crisi ma grandi spiriti… poi gelarono le viti e abbiamo perso dieci anni di meraviglie».

Sedettero uno di fronte all’altro. Poteva sembrare l’ultimo colloquio fra padre e figlio prima della partenza per la guerra, e a Dario non sarebbe dispiaciuto se davvero fosse stato così. Suo padre se n’era andato troppo presto, quando lui era in terza elementare. Nessuna partenza da salutare da allora.

«Ho ripensato a tutto quello che è successo, anche alle cose che ci hanno detto ieri i coniugi Gagliardi, e mi sono fatto una mezza idea, che spiegherebbe… però bada, è un‘idea, non potrei mai andare in Assise a sostenerla. Ma così, tanto per non fare la figura dei coglioni…»

Dario levò il bicchiere e assaggiò il liquore:

«Ma è buonissimo!»

«Bravo, hai gusto… del resto se hai apprezzato Margherita, anzi „Katharine“…» Alzò il bicchiere in segno di intesa, e continuò:

«Allora, sappiamo delle imprese di De Marchi in colonia e del suo ritorno, precipitoso, in patria. Ritorno comodo e morbido, visto come si era preparato il nido, tanto che oggi si ritrova in qualche consiglio di amministrazione, a Reggio e altrove, con tanto di cavalierato conferito per “meriti”, che noi sappiamo quali possano essere stati. Tornato in patria, avrà pagato la vedova Pigozzi, manterrà il figliolino in collegio e tutto sarà a posto. Ma…»

«Ma?»

«C’è la cosa di Fontana, il suo suicidio, che non torna… e tu l’hai capito per primo. Hai letto troppi Sherlock Holmes, eh? Ma secondo me li hai letti bene…»

«Anche a lei le cose non sembravano… logiche?»

«Logiche? Se uno vuol suicidarsi sono affari suoi: ma Fontana, sai, lo chiamavano Ballòta, era piccolo, ciccio, rotondo come una palla, senza un piede, e per uccidersi cosa fa? Si butta dal terzo piano, si beve un bicchiere di solfato di rame, da vecchio squadrista, si spara? No, va in campagna alla notte, nella sua vecchia casa, piena di alberi, ganci che sembrano fatti apposta – ci sono stato anch’io ieri, a vedere – sale in solaio, lega una corda, al buio, e si impicca così male che negli strepiti finali addirittura perde la protesi? Ti sembra logico?»

«Lo so, ma allora…?» quell’Armagnac era davvero un sacro liquido. Un colore, un gusto, un calore che sembrava raccogliere il fuoco del camino e depositarlo adagio adagio dentro, nella pancia, nel cervello.

«Ragazzaccio, secondo me tu e Katharine, l’altro giorno, siete arrivati senza saperlo al cuore della cosa, al cuore nero…» era bravo Bottazzi, sarebbe stato bello ascoltarlo in aula ricostruire fatti e vicende, meglio che un romanzo.

«Quando quel contadino ti ha dato l’accendino… è l’accendino che mi ha illuminato la strada… e la verità è in marcia!» si entusiasmò. «Quell’accendino cosa ci dice? Che a San Prospero non c’era solo Fontana, ma c’era anche qualcun altro…»

«Iotti!»

«Esatto! Quartàsa! Per lui sparare a uno, stuprare una monaca o mangiare un piatto di tortelli è esattamente la stessa cosa. Iotti era lì, nel locus criminis, e se c’era lui, magari poteva esserci anche il suo padrone, no?»

«Ma a far cosa? Accompagnare Fontana?»

«Eh, mah… non li vedo i cari amici in comitiva con l’aspirante suicida, a cercar di rincuorarlo, “dai non far così, la vita è bella…” Li vedi, tu?»

No. Ripensò a quell’omone e a De Marchi, e la scena non era plausibile.

«E allora?»

«E allora andiamo per induzione: metti che Fontana, tornato rovinato e alla disperazione, abbia cercato aiuto dai camerati, che magari all’inizio qualcosa avranno anche fatto, ma poi il fallimento era alle porte, le banche, sai, sono come avvoltoi, anzi, come iene, non aspettano che tu sia morto… e allora, ecco l‘ultima carta del disperato Ballòta:andare dall’amico De Marchi e minacciarlo. L’uomo d’affari, specchiato neonominato cavaliere da Santa MadreChiesa, in colonia aveva avuto qualche problema: Zenìa si chiamava la negretta, il porco… non proprio una cosa da far sapere, non trovi? Troppo rischioso per De Marchi. Un disperato è incontrollabile, meglio stare sul sicuro. E allorasi prende su Quartàsa, i vecchi amici, si va a San Prospero per discutere di affari, e poi… facevano così gli squadristi, come con Matteotti: „Andiamo a far un giro insieme…“ e poi ti ritrovavano la mattina dopo».

«Ma Fontana no…»

«Esatto. Fontana no, c’era già tutto il quadro pronto: poveretto, disperato, soverchiato dai debiti, per salvare l’onore, zac» e fece il gesto prendendosi per il colletto, «pace al camerata e onore e soldi per chi resta… un lavoretto pulito, roba da De Marchi, che Iotti l’avrebbe massacrato e amen, così invece un colpo in testa, Iotti lo porta in solaio e lo appende. E per sicurezza, anche troppa, gli dà un bel tirone al buio, così forte che gli resta in mano un piede… senza accorgersi che mentre portava su il ciccione qualcosa gli è caduto di tasca… l’accendino!»

«Cazzo…» e Dario vuotò il bicchiere.

«Espressione forte ma adeguata» sottolineò Bottazzi, versando ancora liquore ad entrambi.

«Bene. Ragazzo mio, adesso seguimi nella seconda parte, quella che ti riguarda. Anzi, aspetta, volevo prima darti una cosa». Si alzò dalla poltrona e andò alla credenza a vetri alla sua destra, la aprì, e ne estrasse un album di fotografie.

«Era tanto che volevo mostrartela, ma non ne avevo avuto l’occasione». Sfogliò alcune pagine e poi prese una foto, staccandola dalle cornici di cartone.

«Tienila tu, adesso che starai lontano… così ti ricordi anche di me».

Dario la prese ed ebbe, in un istante, gli occhi pieni di lacrime. In quella foto c’erano lui, a dodici, tredici anni al massimo, sua madre, Bottazzi e Corrado, fotografati a Casa del Vento, un pomeriggio di fine estate, lungo la strada, quella con i paracarri di pietra. Tirò su col naso, prese la foto senza dire nulla e la mise nella tasca interna della giacca, adagio, facendola scorrere sulla stoffa.

«Bene, allora, domanda: com’è che un ragazzaccio finisce in questa storiaccia? L’accendino è stato il busillis, ricorda: fumare fa male!» e rise forte, soddisfatto dal suo ragionamento.

«De Marchi ti conosce a casa di Margherita, Katharine, mi consenti? E fa lo splendido: tu sei di buona famiglia, fratello dell’intemerato Guido, fa sempre utile avere una conoscenza in più. Magari con qualche risvolto un po’… pruriginoso, diciamo così: ti invita alla serata privata, ti fa conoscere una dolce fanciulla alla quale un gonadico come te non poteva resistere…»

Dario fece un segno di insofferenza. Giorgia!

«Senza offesa eh! Sei giovane, è normale… avessi io i tuoi anni! E infatti non resisti, il riposo del guerriero… tutto bene, ma…»

«L’accendino!» Ora Dario iniziava a capire.

«La luce! L’accendino… senza renderti conto, cosa fai? Vai a metterti nella bocca dell’orco, pollicino! Vai a fare uno scherzetto al bestione! Guarda, secondo me Iotti non l’avrà neanche capito subito, è troppo bestia… ma De Marchi che era lì nei pressi, e lui bestia è, ma per altre cose, capisce e gli suonano le sirene… l’accendino è la prova che Iotti era a San Prospero, e se c’era lui… E così, magari con quell’altra signora bionda, fra l’altro nota tenutaria di bordelli di lusso…» segnalò con aria da esperto, «ti organizza lo scherzetto al ragazzetto: ti lascia andare a soddisfare il tuo uccello e poi…»

Bottazzi con quella volgarità aveva sporcato una delle più meravigliose… ma come dargli torto, come negare la sua imbecillità?

«Ma voleva uccidermi?»

«Noo, non è Quartàsa, lui ha fatto di meglio: genio, si chiama, criminale, ma genio… ti ha fatto iniettare un po’ di roba, da farti star male, ma non troppo. E infatti ora sei, per fortuna, a gustare questo nettare con me… Non lo ha fatto per ucciderti, ma per sputtanare te, la tua famiglia e il tuo augusto fratello, che ora è ricattabile quando e dove De Marchi vorrà. E mai più nessuno si ricorderà di un accendino, di San Prospero e del Ballòta appeso al trave. Perfetto e geniale. Chapeau…»

«Sono stato un cretino…»

«Direi tecnicamente un utile idiota… Scherzo! Non potevi immaginare, nessuno poteva».

«Ma adesso, Guido…» Si rese conto che, per la prima volta in vita sua, provava un senso di preoccupazione per il poco amato fratello.

«Guido ha denti abbastanza affilati per difendersi, tranquillo. Non fartene un cruccio».

Aveva già capito prima che doveva andarsene via da quella città. Ora, con quello che aveva sentito da Bottazzi, il treno per Milano gli sembrava un galeone in partenza per i mari del Sud, un agile sciabecco per l’Oriente, un meraviglioso passaggio verso l‘ India.

«Che schifo! E io…»

«Bevi un altro goccio, gaudeamus igitur… ti serva magari da lezione, la prossima volta che il tuo pisello prenderà il sopravvento…»

Già, il suo pisello. Ma Bottazzi non aveva visto il culo di Giorgia!

 

L’Armagnac aveva fatto un buon lavoro. Il caldo della stanza, il liquore, tutto sembrava essersi ricomposto. In realtà Dario ebbe qualche momento di tensione quando Bottazzi riprese la strada verso la città e, non alticcio, ma certamente con un buon tasso alcolico, improvvisò un paio di curve allegre verso la Vasca di Corbelli.

Scendevano al buio del tramonto appena sceso, qualche fioca lucina da un osteria, dal caseificio di San Felice, mentre i contadini si allontanavano con i bidoni del latte già vuoti dalla casa cantoniera, poco dopo la grande curva.

«Ma adesso, cosa succede?» Perché quella era la domanda: l’Armagnac aveva chiarito, ma ora?

«Benedetto ragazzo! Cosa deve succedere? Nulla. Le cose che abbiamo detto sono un‘ipotesi, secondo me molto plausibile, ma un’ipotesi. Magari potessi andare in aula con della roba così! Sarebbe facile… sono molto bravo, ma così sarebbe troppo facile! Non abbiamo niente in mano: racconti d’Africa, un suicida, un giovanotto esuberante che si caccia nei guai, l’accendino… ecco, l’accendino è la sola cosa vera e solida, morto a parte ah… ma poi, un accendino si fa presto a perdere e trovare. No, non abbiamo niente, salvo la nostra personale soddisfazione di non essere stati proprio presi per i fondelli… ci hanno fregato, diciamo così, ma ce ne siamo accorti e… abbiamo capito».

«Be’, non mi sembra una gran soddisfazione. Se le cose sono andate così, Fontana non è… ma Celso vivrà con la vergogna di essere figlio di un fallito, di un suicida. De Marchi e il bestione andranno in giro a fare le loro belle imprese, e qualcuno potrà dire che io sono un drogato… e noi lasciamo tutto così! Non mi sembra una gran soddisfazione, è uno schifo…» e aprì appena il finestrino perché uscisse un po’ del fumo della sigaretta di Bottazzi.

«Lo so… so bene che preferiresti un bel finale alla Salgari: il Corsaro nero torna, smaschera le trame del governatore, salva la fanciulla e salpa per la Tortuga sud con Yanez…»

«A parte che l’amico del Corsaro Nero è Wan Stiller… non pretenderei tanto se vedessi qualcuno in galera, no? Questi fanno quello che vogliono! Sono tutti uguali: il padre di Gianni che ha perso il figlio in guerra e quell’animale che se la faceva con le bambine. Anzi, peggio! Il maiale è un Signor porco con tanto di onori di Santa Madre Chiesa… ma che cazzo di schifo è questo giochino!? E se poi un giorno uno si alza, s’incazza, prende il fucile e comincia a sparare?»

«Diventa un bandito, e quello sì che lo carcerano e buttano via la chiave, tranquillo… “La giustizia è la gloria suprema delle virtù“ diceva l’Arpinate, ma quando la virtù latita, quando la verità e la bugia diventano sorelle, buone per tutti i giorni, rimane solo da stare sotto costa, lasciare il mare aperto e aspettare, magari in un buon porto, che passi…»

«Che passi cosa? La guerra, il mondo, tutto quanto? E poi, alla fine? Quanti Celso, Gianni, conteremo, quanti morti ci vorranno per ripulire questa merda? Quanto spreco di persone, intelligenze, sentimenti, dobbiamo ancora accettare?»

Aveva parlato al plurale. Lui, al plurale. Ma come fare altrimenti? Stare lì a guardare, ascoltare e capire il trucchettoche in qualche modo lo aveva accalappiato come fosse in un gioco di società?

«Dario, ti capisco, ma sarei un pessimo amico se ti dessi illusioni. Salva la tua vita intanto: hai visto, e credimi, hai solo potuto intuire… i tempi sono questi, sono tempi di iene e maiali, e non credo che finirà né presto, né bene, quindi…»

Dario esitò qualche istante. Poi disse:

«Quindi ringraziamo che non mi abbiano fatto fuori».

 

Era sceso dall’auto di Bottazzi con un gran nervoso addosso, tanto che non era nemmeno salito in casa. S’era messo a girare per la città, camminando di furia. Tempi di iene e maiali, li aveva conosciuti, e senza neppure avere l’aiuto di una divisa, un’etichetta per vederli, distinguerli. Iene e maiali liberi di pascolare e razziare, in orbace o con la cravattina elegante, al fascio o in canonica, in belle villette discrete o uffici rispettabili. Cosa diceva quel cretino di Catellani alla premilitare? La rivoluzione fascista aveva cambiato il popolo! Altroché, cambialo un popolo: non c’è peggior servo di chi vuol essere servo, di chi dice “sì” ancora prima che qualcuno gli dia un ordine. E Gianni che sarebbe stato un bravo ingegnere, una vita, una famiglia… pam una palla in fronte, fine. Niente ingegnere. Niente, e la sua ragazza sposerà qualcun altro, magari senza neppure sapere che Gianni l’aveva amata. Che spreco. Come diceva Marchetti interpretando alla sua maniera il versetto dell’Ecclesiaste, non «Vanità delle vanità, tutto è vanità…» ma «Spreco degli sprechi, tutto è spreco…» E conoscendo lui le scritture meglio di tanti preti, ci si poteva fidare.

Fece il giro delle quattro porte e tornò per Piazza del Duomo, anche per vedersela un po‘, nella calma deserta delle otto di sera, quasi al buio. Si infilò sotto il Broletto, passò sotto i portici di San Prospero e poi girò verso casa. Nessuna Gio’ dietro l’angolo, poteva star tranquillo.

 

«Chiamiamo un’auto pubblica, è così tardi…» Lilly aveva cominciato a lacrimare alle dieci, e ora, dopo una buona oretta, aveva gli occhi a fessura. Aveva comunque adempiuto ai suoi obblighi, sentiti e vissuti, di buona sorellina. Gli aveva preparato due maglie di lana, la scatoletta con le medicine, la carta da lettere e il pacchetto dei viveri di conforto per il “lungo” viaggio. Pane con la frittata di cipolle, torta di mele di Dorina, una bottiglietta con il vino.

Il nonno l’aveva salutato con un abbraccio dopo cena «Dedo, torna… fai a modo» e lui aveva sentito un sospiro dal vecchio che lo teneva stretto, un sospiro che era stata la cosa migliore di quella sequela di saluti.

«Guido, mi dispiace, Bottazzi mi ha spiegato… non volevo procurarti dei guai».

Il fratello gli tese la mano, così diversa dalla sua:

«Non ti preoccupare, me la caverò, pensa a te… anche se sei in un posto tranquillo c’è sempre la guerra».

C’è la guerra e io non voglio essere in un posto tranquillo. Ma questo a lui non poteva interessare. Prese lo zaino, sistemò il cappello e la cravatta, solo un ultimo istante, mentre ancora sulla porta sentì Dorina rincorrerlo:

«Signorino! Stia attento. Dio la protegga…» E gli mise in mano un santino di Santa Rita. La santa dei casi impossibili. Giusto.

Finalmente fu fuori. La nottata era tranquilla, le strade erano bagnate dalla nebbiolina che vedeva alzarsi oltre i viali, dalla campagna al di là di porta Castello.

Girò per Viale Montegrappa, aveva quasi un’ora da aspettare ma era meglio così. A casa aveva chiuso le cose, salutato tutti. Star lì a far cosa? Ascoltare la radio, in poltrona, a rimuginare le sue recenti trionfali giornate?

 

Sentì, nel silenzio quasi completo, chiarissimo, il rumore di un’auto. Ebbe paura. Continuò a camminare, ma l’auto si avvicinava, alle spalle. L’Alfa di de Marchi, col bestione. Stavolta dove mi portano? Aveva vissuto ogni giorno della sua vita nella paura, ma era una cosa diversa. Paura di non essere all’altezza, paura di esserci, quasi vergogna a volte, paura di essere tradito, di restar da solo, di non essere amato. Ma ora era diverso. A quelle paure era abituato, erano familiari, sapeva come parlarci, guardarle in faccia. Non a vincerle, che quello non ci si riesce mai, ma era un confronto possibile, una partita con regole che lui aveva fissato e la sua paura aveva accettato. No. Quello era altro. Paura di essere ripreso da qualcosa di incontrollabile. Iene e maiali. Non era il suo genere.

 

Grigia. Era l’Aprilia grigia. Non era l’Alfa, quella con il cambio-click. Aprilia grigia. Katharine.

«Avevo paura di non trovarla, giravo da un po’… salga, l’accompagno».

«Ma una brava signora non gira di notte a dar passaggi ai militari, cosa dirà suo marito?»

Non rispose e ripartì. Fece la strada fino alla porta, girò a destra dal gruppo rionale, imboccò la via Emilia e poi girò giù per via Chiesi. Percorse una cinquantina di metri e accostò a destra.

Era quasi buio. Dario vedeva, anzi, sentiva la sua presenza. In altre situazioni avrebbe tentato il tipico approccio, ma stavolta non si mosse.

«Dario, volevo chiederle scusa…»

«L’ha già fatto ieri».

«No, volevo fosse tutto chiaro… il nostro patto per me è importante, lo sa? Non ho giocato con lei. Be’, all’inizio, ne abbiamo già parlato… queste cose, quello che è successo è stato importante anche per me».

«Cos’è, una dichiarazione alla stazione…?» disse Dario, per stemperare la tensione.

«No, è un modo anche per dirle grazie. Suo malgrado mi ha aiutato, le cose che mio marito ha detto, e le altre, nostre, private, sono state importanti. Io voglio, ho sempre voluto essere libera e mi ero illusa… invece, come vede, ho ancora strada da fare, ma non mi tiro indietro. Pensavo di essere arrivata, ma mi sono sbagliata… ma non mollo, e lei mi ha aiutata».

«In questa storia io ci sono finito in mezzo, come il classico scemo».

«Sì, ma attraverso lei ho capito ancora, ho saputo e ora si ricomincia…»

«Con suo marito… s’è pentito?»

«No, no… non è quella la strada, Germano è stato un mezzo per uscire da una fase. Sono uscita e lo ringrazio, speravo fosse altro… ma ora si volta pagina e lei mi ha messa sulla strada, quella nuova».

Non capiva nulla, era lì al buio con una donna che aveva desiderato in maniera tanto intensa da fargli quasi perdere il controllo, eppure non capiva.

Accese una sigaretta e vide i suoi occhi lucidi nel lampo dell’accendino. Non riusciva a muoversi, eppure quanto avrebbe desiderato anche solo sfiorarla!

«Qualche giorno e me ne vado, il tempo di trovare un posto. Firenze mi piacerebbe, forse Roma… saluto la sua Reggio».

«Si separa?»

«No, sono una ricca signora per bene e mio marito provvederà… non è migliore di De Marchi, ma lui apprezza la sofferenza, ne fa il prezzo da pagare ai suoi di vizi, e poi ho il mio patrimonio… magari diventerò davvero una brava pittrice!» sorrise.

«Non ci vedremo più?»

«Perché? Vuole sempre vincere la scommessa di Bottazzi?»

«No… cosa c’entra?»

«Dario, lei la scommessa l’ha vinta… lei è stato l’unico che poteva… ma non poteva, non potevamo. Non me lo sarei mai consentito…»

«Ma lei è sempre così diretta, così dura?»

«Non mi stimi troppo, ci sono situazioni nella vita in cui la verità e la semplicità sono il più abile dei sotterfugi».

Si volse verso di lui, gli prese il viso fra le mani e lo baciò appena sulle labbra.

«Non sono un granché ma devo essere libera, e poi… vedremo».

 

Rimasero fermi al buio, su quell’auto, mano nella mano, senza dirsi più nulla. Dieci minuti prima dell’orario, Katharine lo lasciò nel piazzale della stazione. Solo un cenno di saluto e ripartì.

 

Lo zaino non gli pesava, la fontana zampillava adagio e le goccioline d’acqua si riflettevano sul grande mosaico della nascita del Tricolore, sulla facciata.

 

«Cherubino, alla vittoria! Alla gloria militar!»

 

Il patto di Katharine_Capitolo 6_

25 ottobre 1941, sabato

  

Più o meno il tempo era di dieci minuti. Dieci minuti sulla schiena, dieci sul fianco destro, dieci su quello sinistro. Provò anche a giacere prono ma quasi si asfissiò, con la testa affondata nel guanciale troppo soffice. Non era dormire, era un continuo esercizio fisico, con precisi, diversi effetti corrispondenti a ogni singola posizione. Sulla schiena una leggera ma crescente nausea, sul fianco sinistro un senso di oppressione, su quello destro l’impressione di ruzzolare dal letto, forse per la rete un po’ infiacchita o per una certa mancanza di senso dell’equilibrio, infida eredità di quella robaccia che qualche figlio di puttana gli aveva messo in corpo.

E poi niente colori, ma buio, buio, al massimo, all’improvviso, parole, musiche, trombe, timpani, musiche, e una musica che amava, adorava, ma così adesso, ne era come schiacciato.

Non più andrai, farfallone amoroso,


Notte e giorno d’intorno girando,


Delle belle turbando il riposo,
 Narcisetto, Adoncino d’amor.


Non più avrai questi bei pennacchini,


Quel cappello leggiero e galante,


Quella chioma, quell’aria brillante,


Quel vermiglio donnesco color!
 Fra guerrieri, poffar Bacco!


Gran mustacchi, stretto sacco,


Schioppo in spalla, sciabola al fianco,

Collo dritto, muso franco. 
Un gran casco, o un gran turbante,


Molto onor, poco contante.
 Ed invece del fandango.

Una marcia per il fango.


Per montagne, per valloni,
 Con le nevi, e i sollioni,


Al concerto di tromboni,


Di bombarde, di cannoni,


Che le palle in tutti i tuoni,


All’orecchio fan fischiar.


 

Cherubino, alla vittoria!
 Alla gloria militar!

 

Una marcia per il fango… Per montagne, per valloni,
 con le nevi, e i solleoni,
 e dieci minuti sul fianco e ancora di schiena.

Poi partì il film, come al cinema. Rivide tutto, da Parma. 23.260. A Giorgia. Lo rivide, ma un film così veloce e convulso che era peggio che averlo scordato, come una comica finale, di quelle che vedeva da ragazzino in parrocchia.McSennet e i poliziotti dietro a saltare sull’auto in corsa.

S’era bevuta tutta la camomilla che Lilly gli aveva lasciato sul comodino con l’esito di farlo alzare un paio di volte per vuotare la vescica ma lasciandolo perfettamente sveglio fino alle quattro. Poi, finalmente, la questione non lo riguardò più.

 

«Sveglia! Dario! Come va?»

L’orologio diceva nove e venti, e lo confermava il sole che entrava dalla finestra accostata. Aria, finalmente. Doveva uscire. Quella giornata chiuso in casa era stata una cosa atroce, pensare a tanti ammalati costretti a passare settimane in quelle condizioni gli fece sperare davvero una bella palla in fronte: «Alla gloria militar!»

Chiuso in casa e indifeso, esposto a tanti amici che ti volevano aiutare, chiedere scusa e ti portavano ogni volta un altro pacchetto di sterco, involontario, ma non per questo meno maleodorante. E tutto senza poter rifiutare nulla, come incastrato in quell’angolino di camera sua. Aria. Aria. Sole. Avesse avuto tempo e forze era la mattina da andare sul Cusna, a camminare, dormire al sole, a sentire l’aria pulita, il profumo delle foglie d’autunno. Com’era una volta con…

 

«Ecco qui, per il nostro malato…» Lilly entrò con il vassoio e lo poggiò sulla scrivania. «Caffelatte, pane, burro e marmellata!»

«Alla faccia della tessera!» Le gambe rispondevano meglio, l’acqua calda della doccia e il sapone fecero un buon lavoro. Si guardò allo specchio e gli tornò in mente quel «Dario, è pallidissimo, sembra un poeta! La barba lunga… è bellissimo!», così rinvio la rasatura, voleva mantenere quell’aria che a Katharine era piaciuta.

La Regia Aeronautica non risparmiava sul vitto, ma quella colazione l’avrebbe ricordata per un bel pezzo. Il pane fresco, il burro, la marmellata di amarena con i pezzetti dentro, il caffè (vero) forte nel latte. Era la colazione da „Dario sei stato bravo“ di tanti anni prima, insieme al pane, burro e zucchero delle merende pomeridiane, magari in campagna, con la mamma e Lilly.

Il sole, l’aria, la pancia piena. Fanculo il resto, 23.260, quella villa. Lui era ancora lì, s’era tirato su, in piedi, a gridare che era lui, l’unico su cui contare, ancora e sempre. La testa ogni tanto sembrava leggera, quasi svolazzante, ma poteva andare. Erano le dieci, il tempo di fare una telefonata a Celso e di essere alle undici da Katharine.

 

Troppo bello. Il mondo non poteva aspettare lui, il mondo andava avanti, mai dimenticarsene. Sarebbe bastato il tempo di arrivare davanti al cancello della villa-con- l’edera per capire. Katharine era lì ad aspettarlo. Dario parcheggiò la Balilla e scese.

«Sta bene con la barba, davvero…», aveva le braccia conserte come a evitare ogni possibile contatto «Oggi non faremo la nostra lezione. Fra poco arriva mio marito…»

Perfetto, fine. Torna il marito. Regolare. Giusto, il fine settimana. L’uomo d’affari rientra a casa, al nido famigliare. Giusto. Lui soltanto un elemento superfluo, il divertimento dei giorni feriali. Poi arriva la festa e tutto torna nella buona norma.

«Capisco».

«Non faccia quel muso, non mi tenga il broncio… magari ci vediamo oggi, che ne dice?»

«Non voglio turbare la sua quiete familiare».

«Questi sono capricci, lo sa».

Sì, lo sapeva. Si era appena rialzato e, di nuovo, qualcosa, gli arrivava contro. Era il solito bimbo viziato, quello del tutto subito. Fanculo.

«Va bene, magari la saluto prima di partire…», buttiamola sul patetico.

«Parte lunedì mattina, no?»

«Prima dell’alba, devo essere in aeroporto alle 8».

«Ci vedremo, stia tranquillo, spero anche prima…» rise. «Cioè, non mi chieda d’accompagnarlo alle quattro del mattino!»

«Non chiedo tanto…»

Risalì in auto. Aveva mezzo serbatoio da smaltire e c’era un bel sole.

 

Arrivò fino a Castelnuovo Monti, comprò del pane fresco e delle noci. Una telefonata a casa alla preoccupata Lilly, «Stai attento, sei ancora debole, a che ora torni?», poi arrivò fino al piazzale in alto e si incamminò sul sentiero per arrivare in cima alla Pietra. Non era ancora in forma, doveva fermarsi ogni cinque o sei passi, sudato, ma non gli dispiaceva, così guardava con calma la vallata del Secchia aprirsi sotto, i colori caldi della sua montagna, la calma di quei prati verde scuro, e quelli arati, quasi neri in lontananza, e poi i piccoli rilievi spogli fra un borgo e l’altro. Per qualche mese aveva visto vallate e montagne dall’alto, passandoci sopra, preoccupato di tenere la quota, di guardare la bussola, per riuscire a rientrare, controllando gli strumenti, con il cielo sopra e il sole che lo scaldava anche troppo attraverso i vetri opachi di quei trabiccoli che gli avevano insegnato a pilotare.

Ora invece era sceso, ed era lì, vedeva ancora dall’alto ma nell’aria fresca, senza puzzo di benzina e olio. Quelle montagne dove era stato felice, così come lo era anche in quel momento. Il fiume là sotto, la casa di famiglia a Montelaccio, il taglio bianco della parete con i gessi.

Pan e nòs, magner da spòs, pane e noci roba da sposi, era il detto. E poi lassù, a sedere su un sasso, al sole. Matrimonio solitario, ma con tutti i crismi.

Lo aveva anche detto, «sposiamoci». Poi, per fortuna, no. Del resto non c’erano pane e noci quel giorno, e così s’era salvato. Sposarsi a ventun anni, che idea!

Riprese l’auto verso le due, si fermò alla Bettola a bere un bicchiere di vino toscano e poi giù verso Reggio. Aveva ancora un pomeriggio a disposizione, magari poteva cercare Alberto per quattro chiacchiere, da Celso aveva avuto la conferma che sperava. Come neo orfano avrebbe avuto diritto al congedo immediato: si liberava così un posto per il corso di caccia d’assalto, di volontario ne avrebbero ben accettato un altro. Cherubino, alla vittoria!
 Alla gloria militar! Basta fare l’imboscato, s’era rotto le scatole di starsene nascosto e di finire preso in mezzo ai guai. Non era un pollo, uno da usare, da mettere in mezzo, da tradire. Come sarebbe tornato a casa quando quella merda fosse finita e avesse incontrato il padre di Luciano? „Eh be’, un Lamberti…“ avrebbe pensato, „quelli si salvano sempre, c’è sempre qualcuno che li tira fuori“. Certo, a lui del re e del testone non gliene fregava niente. Meno che meno della patria, un pretesto per Guido e altri per fare affari. Magari ci fosse stata una patria per cui valesse la pena morire. Gli vennero in mente i versi del poeta greco Archiloco:

Cuore, mio cuore, turbato da affanni senza rimedio,
 sorgi, difenditi, opponendo agli avversari
 il petto; e negli scontri coi nemici poniti, saldo,
 di fronte a loro; e non ti vantare davanti a tutti, se vinci;
 vinto, non gemere, prostrato nella tua casa.
 Ma gioisci delle gioie e soffri dei dolori 
non troppo: apprendi la regola che gli uomini governa.

 Opponi agli avversari il petto, prima che ti arrivi qualcuno a darti una coltellata alle spalle o a infilarti una siringa in un braccio. Senza pensare poi alle persone, a tutti i sogni che uno si costruisce e che mette in fila, come i giocattoli sul ripiano quando sei piccolo, e vai a letto tranquillo perché li guardi allineati, ben messi, ordinati. E ti addormenti insieme a loro. Spazzata via l’armonia, tornato il caos, l’unica restava proprio opporre agli avversari il petto, senza vanto se vincitore, senza lacrime se sconfitto.

 

Tornare a casa con quel sole non ancora sceso gli era sembrata una piccola violenza, un’ennesima rinuncia a un pezzetto di libertà. Avrebbe voluto girare ancora un bel po’, sarebbe andato a Montelaccio a rivedere la casa dei nonni, ora lasciata ai contadini, magari sarebbe tornato sul ponte di Cadignano a guardar giù, sputando nell’acqua del Dolo che schiumava fra i grandi sassi lisci.

Invece Puianello, Rivalta, un altro bicchiere di vino lì alla Cooperativa e poi giù al Ponte di San Pellegrino. Il sanatorio, porta Castello, verso casa. Entrò nel cortile, ma il portone era chiuso. Lilly lo salutò dal terrazzo già mentre tirava il catenaccio del garage:

«Ciao! Tutto bene?»

Le fece un cenno che significava «Tutto bene, sono qui…»

«Sei arrivato in tempo!» La sorella stava sulla porta.

«Novità?»

«L’avvocato Bottazzi ti passa a prendere alle cinque e mezzo, fai in tempo…»

 

Aveva un’ora, si buttò sul letto. Travi normali, righine attorno come sempre. Solo, in alto, una lama di luce arancione, ma stavolta era vera. Il sole che stava tramontando si rispecchiava su una finestra della casa di fronte. Un taglio trapezoidale, come uno scudo sbilenco, quattro parti di luce attraversate dall’ombra, una luce che svaniva poco a poco mentre la stanza scendeva nella penombra.

In quella luce incerta e morbida si guardò di nuovo il braccio destro. Slacciò il polsino, sollevò la manica per vedere quella macchia livida. Quel qualcuno era stato maldestro. O forse no: l’aveva voluto segnare, marchiarlo, indicare con quel segno un prima e un dopo. Senza lasciargli capire, era un’avviso. Le cose succedono e basta.

 

«Ragazzaccio, sali!» L’Ardea di Bottazzi era appena arrivata davanti al portone. L’avvocato era elegante: giacca di tweed inglese, sciarpa cammello. Per un istante, Dario temette che si trattasse di una nuova festa; poi vide anche la borsa di cuoio, posata sul sedile, e la spostò dietro per salire.

«Tutto bene… ti sei ripreso? Alla tua età si saltano i fossi per il lungo…»

«Sì, grazie, sto meglio. Ma dove andiamo?»

«Da Margherita… ma non esultare, per favore!»

Katharine? Allora aveva mantenuto la promessa, nonostante il marito! Forse era ripartito e voleva salutarlo, ma Bottazzi? Magari lei avrebbe preteso il pagamento della scommessa, persa, e l’avvocato avrebbe dovuto ammettere la sconfitta.

«Andiamo da Margherita, ma devo premettere che io non ero d’accordo…ti hanno già messo abbastanza in mezzo.Ma lei ha voluto…»

Frenò bruscamente per evitare una bicicletta: «Scemo!» inveì.

Bottazzi era nervoso e a Dario non piaceva, ancora una volta si sentiva un pacco, preso e portato da un cliente all’altro.

«Comunque mi ha detto che voi avete un patto…» disse, e lo guardò con un qualcosa che poteva sembrare invidia, «e così ti vuole là. Io le ho detto che sei appena maggiorenne e che dovevo esserci anch’io, come tuo… avvocato. Lo sapesse Guido!»

«Preferirei come amico, avvocato, posso dirlo?»

Bottazzi rallentò l’auto. Guidava molto disinvoltamente, anche troppo:

«Sei come… un figlio, come Corrado, lo devo a tua madre…»

Il cancello della villa era spalancato. Bottazzi spense il motore.

«Ascolta… non c’è solo Margherita, c’è anche Gagliardi. Tu parla il meno possibile, va bene? Lascia fare a me».

Gagliardi, il marito? Non era ripartito? E Katharine allora? Non capiva più nulla. Era sempre più come un pacco, spostato qui e là. Zitto, poi, come diceva Bottazzi.

 

Seguirono la cameriera che li aveva accolti all’ingresso e arrivarono nel salotto, quello con la grande finestra ad arco sul giardino. Il fuoco era acceso ed era un bell‘ambiente, tranquillo, elegante, con il segno preciso di Katharine. Un luogo che aveva anche qualcosa di nuovo rispetto all‘altra volta. Si guardò intorno e capì subito cosa: la padrona di casa aveva messo lì nell’angolo, vicino alla finestra, un cavalletto, uno di quelli che teneva su nella torretta, e su quel cavalletto il quadro che Dario aveva tanto apprezzato. Era un segnale, un segnale per lui, un modo per dire “fidati”. O soltanto un’idea scema e un po’ romantica? Magari aveva voluto solo coprire uno spazio vuoto nella stanza, chissà.

«Dario! Avvocato!» Katharine li accolse con un sorriso ma Dario vide in quella espressione un qualcosa di nuovo, di triste e teso.

«Voi vi conoscete già» alluse a Bottazzi, «Dario… questo è mio marito».

Gagliardi era seduto sulla poltrona più vicina al camino. Dario l’aveva notato subito e ne era rimasto impressionato. Doppiopetto grigio, alto forse un filo meno della moglie, aveva un’età indefinibile. Era giovane, ma completamente glabro e calvo. Niente sopracciglia, ciglia, barba, nulla. Liscio, completamente. Dario, a paragone, sembrava un lupo di mare, con quella barba un po’ ridicola e i capelli corti alla militare. Anche la stretta di mano gli diede un senso di disagio: liscia, poco robusta. Immaginò per un attimo Gagliardi nell’intimità e provò un senso di fastidio.

Si sedettero tutti davanti al camino, intorno a un tavolino basso. Due portacenere mezzi pieni. La cameriera portò un vassoio con due piccoli vassoi di pasticcini, due bottiglie di vermouth, i bicchieri. La donna uscì e chiuse la porta.

Ora erano lì e Katharine era al centro:

«Bene… so che l’avvocato disapprova questa mia iniziativa, ma per correttezza, soprattutto nei suoi confronti, Lamberti, credo sia l’unico modo di uscire da questa situazione. Lei, senza colpa, se non diciamo… un po’ di giovanile incoscienza, ha rischiato… di questo me ne sento in parte responsabile, quindi…»

«Margherita…» cercò di intervenire il marito a voce bassa e con un certo tono di sofferenza.

«No, Germano… ci vuole aria, pulizia, o non ne usciremo mai. Dario e Bottazzi sono amici, e di amici abbiamo bisogno se vogliamo…»

Gagliardi chinò la testa.

«Allora, non so se ciò che Germano vi potrà dire servirà per capire quello che è successo, ma certamente è servito a me» disse prendendo la mano del marito, «e sono contenta che lui abbia voluto…»

Per un attimo Dario invidiò quell‘uomo. Di un’invidia pura, instintiva, quasi infantile.

«Allora, iniziamo dal principio, come si dice… ovviamente, è banale sottolinearlo, tutto quello che ci diciamo oggi non dovrà mai…» Bottazzi e Dario confermarono con un cenno quasi contemporaneo.

Gagliardi alzò la testa e li guardò. Aveva occhi azzurri, belli, appena rovinati da quella mancanza di ciglia. Batteva le palpebre in un modo che sembrava strano, troppo forte e improvviso.

«Come Margherita vi avrà detto la mia attività di varie rappresentanze industriali mi porta abbastanza in giro per il mondo. Ora purtroppo con la guerra le cose sono difficili ma… comunque, dal ‘37 al ‘39 sono stato per periodi abbastanza lunghi in colonia, e ad Addis Abeba all’epoca ho avuto occasione di conoscere alcune persone di Reggio. In particolare De Marchi e Fontana, poi anche Pigozzi e Iotti. Erano conosciuti come i “quattro di Reggio”: persone come tante, sapete com’è fra connazionali… ci si vedeva, c’era molta attività. Verso i primi del ‘38 ero in contatto di affari più diretto con De Marchi, lui aveva alcuni cantieri di costruzione strade e opere pubbliche, un acquedotto, gli fornivo materiali e attrezzature… Fontana invece era nel settore commerciale, frutta e generi coloniali; Pigozzi era il capocantiere di De Marchi, Iotti il suo autista, il tuttofare, insomma».

«Vieni al fatto…» Katharine gli teneva ancora la mano ed era come se lo guidasse.

«Allora… la situazione si era stabilizzata e in un certo modo si stava tranquilli. Insomma, come italiani avevamo molte opportunità, libertà, ma era normale, in quella terra le cose… vorrei capiste…»

«La ragazza…»

«Per chi stava là c’erano molte comodità, c’erano anche famiglie che s’erano trasferite. Avevamo case comode, servitù… normale. Chi poi non aveva la famiglia magari si prendeva quasi come una…»

«Moglie…»

«Sì, qualcuna del luogo. Era tollerato, solo dopo vennero fuori le regole, alla fine del ‘38, ma prima si poteva».

«De Marchi…»

«Sì, De Marchi aveva vari servitori ma anche questa ragazza in casa, Zenìa, ci teneva molto… poi successe che… non so, magari… ma si poteva fare, si chiamava “madamato”… in tanti c’erano, sa, senza le famiglie, meglio così…»

«Poi…» Katharine continuava a voce bassa, gli occhi verso il marito.

«Zenìa morì… non so come, davvero. Però poteva succedere uno scandalo, De Marchi aveva relazioni importanti, non era l’ultimo arrivato. Così la cosa… si cercò di chiuderla in breve».

«La ragazza quanti anni aveva…»

Gagliardi chinò la testa.

«Germano…»

«Là è diverso… i negri, si sa, crescono prima…»

«Germano…»

«Dodici, tredici anni…»

Si sentiva solo lo sfrigolio della legna nel camino, Katharine continuava a tenerlo per mano, Dario e Bottazzi rimanevano fermi. Poi la donna lo scosse:

«Germano».

«Be’… si riuscì a chiudere la cosa, almeno con le nostre autorità. Ma era solo l’inizio, perché lì le cose erano diverse, là non ci sono sono le famiglie, ci sono delle… tribù, ecco, sì, tribù, e la ragazza era di una di quelle… sa come sono, prima l’avevano venduta… insomma, poi dopo, con quello che è successo i soldi non bastavano, quelli volevano altro. Sono selvaggi, quelli, occhio per occhio, roba così… Così quando i fratelli di Zenìa chiesero di incontrare De Marchi per mettersi d’accordo, per regolare la cosa, lui capì che era una trappola».

Si fermò di nuovo. Nuova stretta di Katharine.

«E mandò all’incontro Pigozzi. Poveretto, l’hanno massacrato… l’hanno ritrovato a pezzi, fatto a pezzi…»

E stavolta Gagliardi non ce la fece più e si mise a piangere.

Bottazzi si versò un mezzo bicchiere di liquore e lo mandò giù, poi ne riempì un altro per Dario che lo prese, ma solo per assaggiarlo appena.

A voce bassissima, Gagliardi riprese:

«A quel punto De Marchi sparì dalla circolazione e in un paio di giorni lasciò l’Etiopia, insieme a Iotti».

«E Fontana?» Bottazzi intervenne per la prima volta.

«Poveretto, era quello meno esperto. S’era andato a mettere contro i vari trafficanti locali, mezzo in combutta con gli inglesi. In due mesi gli andarono a fuoco un paio di capannoni e magazzini, poi ebbe anche l’incidente e fu veramente nei guai, per farlo tornare facemmo una colletta».

Katharine strinse forte il marito.

«Posso fare io qualche domanda?» riprese Bottazzi.

Gagliardi fece un gesto con le mani, come per dire „ormai…“

«Quando De Marchi fuggì lasciò i suoi affari là, all’improvviso, ma a differenza di Fontana che tornò rovinato, lui è tornato in condizioni molto, molto floride, come sappiamo bene. Qualcuno rimase là a sistemargli le cose?»

«No, no, non pensi che io… avevamo affari in corso, sì, qualcosa, ma non c’era bisogno di molto. De Marchi non aveva molto da perdere laggiù».

«Non aveva molto da perdere. Dottor Gagliardi, mi dica se mi sbaglio…»

L’uomo annuì.

«Nelle belle colonie c’è bisogno di uomini attivi e svegli, vero? Allora ci si organizza così: si fonda una società, una ditta, tramite “amici” si prendono gli appalti per una strada, ad esempio, il cui prezzo è cento, diciamo. Il costo vero è venticinque, ma poco conta, c’è urgenza. Strada da dieci chilometri. Si fanno i primi cinquecento metri di scavo e, perbacco, si scopre che sotto c’è roccia, allora si chiama un tecnico, amico anche questo, che fa la perizia. C’è la roccia? Il prezzo diventa centotrenta, anticipo del cinquanta e si fanno altri cento metri. Alt ancora, stavolta c’è fango, il prezzo sale a centocinquanta, altro anticipo e via di nuovo. Il lavoro non va avanti ma gli anticipi sì, che però non restano nelle casse della dittà, in mezzo al deserto, ma passano dalle banche di Addis Abeba e tornano qui, a casetta loro, in patria. Così quando un certo imprenditore deve levare le tende velocemente per salvare la ghirba, perde un po’ del giochino in corso, ma il grosso già se l’era riportato a casa… sbaglio?»

Gagliardi confermò: «Sì, ma lo fanno tutti, è normale… anche qui» e si volse verso la moglie a cercare una conferma.

«Certo, anche qui, ma là è tutto più rapido… in un paio d’anni si fanno i milioni, vero? Là si paga tutto, anche le bambine».

Dario ascoltava e faceva fatica a capire ogni passaggio, ma si ripeteva le cose che ascoltava, anche se non riusciva ancora a trovare un filo completo che le unisse.

«Un’altra domanda…» e Dario vide un lampo di cattiveria, negli occhi di Bottazzi, che non aveva mai sospettato.

«E come mai lei e la sua signora siete arrivati a Reggio, nella nostra bella e tranquilla cittadina?»

Katharine ricambiò lo sguardo, prese una sigaretta e l’accese. Aveva lasciato le mani del marito.

«Alla fine del ‘39, in novembre, decisi di rientrare. Ci eravamo appena sposati, per procura, era scoppiata la guerra e si rischiava di finire intrappolati, si sapeva… così in gennaio abbiamo fatto la cerimonia, dai miei a Genova. Margherita, ricordi che mare quel giorno? Poi dovevamo decidere dove andare a stare. Lontano dai suoi… ma in modo che fosse comodo per i miei viaggi di lavoro. A Milano avevo un ufficio, ce l’ho ancora, e allora avevo interessi nel bolognese, così pensammo che qui, a metà strada…»

«E siete venuti qui, guarda un po’, proprio nella città dei quattro di Addis Abeba, pardon, rimasti in tre. E, fortunati, avete trovato questa bella villa che, altra fortuna, era in vendita».

Ci fu qualche secondo di silenzio. Poi Gagliardi prese un bicchiere e lo riempì, lo bevve tutto, lo rimise sul tavolo. Prese una sigaretta e senza accenderla disse:

«De Marchi, per sdebitarsi forse, mi fece sapere che il proprietario doveva realizzare velocemente, a prezzo molto conveniente. Era un buon affare… cosa c’era di male?»

«Nulla. Si figuri, gli affari si fanno anche sapendo le cose. Così il buon Vannucci, quello dei pellami e della conceria,per salvare qualcosa dal fallimento le cedette la villa per quattro soldi, a porte chiuse, vero?»

«Sì».

«Capisce perché, avvocato, ho venduto quasi tutto quello che ho trovato? Volevo una casa mia, finalmente, e lei mi ha aiutato… ricorda quante visite ai rigattieri?» Katharine si era alzata e rimaneva in piedi fra il marito e il caminetto che aveva appena riattizzato.

«Cara Margherita, mi permetta… il suo gusto meritava di meglio che trovarsi…»

«Lo so».

«Dario…» la donna lo guardò con quegli occhi che lo facevano avvampare «io queste cose le ho sapute oggi, stamattina… mi crede?»

«Sì…» le credeva, avevano il loro patto.

«Glielo dovevo, volevo che lei sapesse la verità, non so perché ma qualcuno, De Marchi credo, voleva farle del male e questo è il mio modo…» Magari avesse finito con „di volerle bene“. Ma era chiedere troppo.

Tutta roba strana per Dario: affari, soldi… solo le porcherie di De Marchi le aveva capite, le aveva già sentite. Era quell’“anarchia morale“ cui il fratone a Scandiano aveva accennato. Katharine doveva avere un’idea, un sospetto. Magari si sarebbe fermata a quel punto, ma poi la nottata e il disastro successo, forse, l’avevano convinta a spingersi più in là, a quella confessione pubblica forzata del marito. Ma non era, e questo faceva sussultare Dario, un modo per dimostrare che teneva a lui, che lui non era uno qualunque, un ragazzino finito nei guai solo per la leggerezza di una signora per bene?

 

Gagliardi si alzò, chiese scusa e salì nella sua stanza. Dario provava pena per quell’uomo strano, che aveva accettato di umiliarsi fino a quel punto davanti a degli estranei, forse per non perdere una donna come Katharine. E in questo, all’improvviso, se lo sentiva più vicino.

«Margherita, la ringrazio, so quanto le è costato tutto ciò… e questo le fa onore, conferma la mia opinione su di lei».

«Io ho fatto quello che potevo, ma soprattutto dovevo…»

«Le cose che suo marito ci ha detto sono state utili, molto utili. Poco alla volta magari riusciremo a capirci qualcosa».

L’incontro era finito. Katharine chiamò la cameriera, che apparve già con i soprabiti di Dario e di Bottazzi.

 

«Che donna! Che temperamento!» fu l’unica cosa che l’avvocato disse, appena salito in auto. Ripartì veloce senza direpiù nulla, si fermò solo davanti a casa di Dario:

«Buona cena, salutami il nonno…»

«Ma davvero lei pensa che… le cose che ci hanno detto siano utili? Per capire?»

Bottazzi lo guardò con aria tranquilla:

«Vedi, è un po’ il mio lavoro: rimestare nello sterco per tirar fuori quello che si può, per rimettere ordine e far trionfare la verità».  Rise quasi di buon umore. «Tranquillo, come diceva quello, la verità è in marcia e nessuno la fermerà…»

 

Il patto di Katharine_Capitolo 5_

24 ottobre 1941, venerdì 

 

Quelli che aveva sopra la testa erano i travetti del soffitto di camera sua. I sette travetti di quercia che conosceva quasi come parte del suo corpo. La voce poteva essere di Lilly. Le parole che sentiva ripetere erano chiare, anche se pronunciate a bassa tonalità: «Che vergogna, che vergogna…»

Fece per sollevarsi sui gomiti. Errore. La testa era come infilata in una sfera pesante, trasparente ma pesante, tanto da farlo ricadere sul cuscino con un senso di nausea profonda, quasi un conato di vomito.

«Che vergogna, che vergogna…».

Girò adagio lo sguardo ed ebbe la conferma. La voce di Lilly, che con un fazzoletto in mano piangeva e gemeva, ripetendo quella stupida frase.

La sorella incrociò il suo sguardo e gli si fece appena più vicina, ma senza accostarsi al letto:

«Dario, cos’hai fatto? Che vergogna, che vergogna…»

Il lamento era parte organica di Lilly, da sempre, come le castagne dell’autunno o il cocomero dell’estate, ma la vergogna di cui parlava Dario non sapeva cosa fosse, né tantomeno cosa lui avesse potuto fare. La testa era in condizioni penose, e anche il resto non andava molto meglio. Soprattutto era sorpreso dalla sua inedita capacità di vedere colori che, lo sapeva, non c’erano. Il soffitto era sempre stato bianco panna, con due righine che correvano tutto attorno al perimetro della stanza, quattro dita sotto le travi. Righine fra il blu e il grigio. Ora invece il soffitto aveva ampie macchie di un bel giallo limone, i travetti passavano dal blu all’azzurro cupo e quelle innocenti due righine risaltavano di un rosso acceso. Anche bello, come accostamento, pensò per una frazione di secondo. Poi, di colpo, tutto tornava nel quasi non-colore consueto. Un battito di ciglia e lo spettacolo era finito. Continuava, però, un sottile fischio fra un orecchio e l’altro, ora fisso ora modulato, quasi ad accordarsi a quel «Che vergogna, che vergogna…» in sottofondo.

«Dario! Devi essere impazzito, non capisco…»

«Lilly…» niente male anche quella lingua di quattro chili che si trovava a dover muovere per articolare almeno il nome della sorella.

«Cos’è successo?»

«Cosa? Oh, Dario!» E riprese la lacrimazione.

Si concentrò sulla lingua da controllare e alzando il tono riusci a dire:

«Cosa cazzo è successo? Che ora è?»

«Sono le nove, hanno telefonato stanotte, no stamattina, insomma, che t’eri sentito male… Guido è venuto a prenderti, e ti ha trovato…»

«Lilly, per favore, siediti qui e racconta. Non ricordo niente, mi spieghi per favore?» e pazientemente le fece segno di sedersi sul letto al suo fianco.

La sorella indugiò un attimo, poi, lentamente, non senza una certa eleganza, si accomodò vicino a lui:

«Guido l’ha avvisato uno che conosceva, che era anche lui lì, a quella… festa. De Marchi si chiama, è stato così gentile… Guido poi, è corso subito, saranno state le cinque, era ancora buio pesto e ti ha riportato qui, ma ti ha trovato… oh, Dio, Dario, ma perché, perché, non sapevamo che tu fossi… ammalato, avessi quel vizio…»

Vedere l‘esangue sorellina colorirsi di un arancione corredato dal viola squillante corrispondente al colletto della camicetta poteva anche essere un’esperienza divertente, ma preferì vedersela tornare nell’incolore scala pastello di sempre.

«Di che vizio, io…»

Allora lei gli prese il braccio destro e con un gesto di inaspettata decisione gli sollevò la manica del pigiama.

«Questo!»

Nell’incavo del braccio aveva una macchia violacea, di un paio di centimetri, divisa quasi a metà dalla piega interna della pelle.

Dario osservò il suo braccio e quella macchia che, da violacea che era all’improvviso, s’era messa a virare sul verdolino. Problema. Fece appena per sollevare la testa ma fu attraversato da un sudore gelato:

«Chiama il dottore, chiama Bertelli!» Poi probabilmente svenne, o tornò dov’era stato qualche ora prima.

 

Almeno stavolta non risentì il lamento «Che vergogna, che vergogna…» del primo risveglio, ma vide la facciona da cagnone buono del suo medico, stetoscopio in resta, ad auscultargli il torace gelato di sudore.

«Allora… meglio?»

«Cosa…?»

«Un collasso, niente di serio… bevi» e lo aiutò a sollevarsi appena per bere un‘acqua troppo dolce e densa.

Almeno questa volta la testa aveva retto allo sforzo, e anche la nausea non era arrivata come una mazzata.

Il medico si alzò, andò a chiudere la porta della stanza.

«Allora, dobbiamo parlare Dario, non va bene…»

«Dottore, lei pensa che io sia un drogato?»

«Dimmi tu. Ti hanno riportato a casa in queste condizioni… dimmi tu. Comunque ci si cura…»

«Dottore, lei mi ha messo al mondo, mi conosce da sempre: io non non so cosa sia quella roba. Le ultime iniezioni me l’hanno fatte alla visita di leva, e quelle prima me le aveva ordinate lei, ma erano dei ricostituenti e avevo dodici anni. Non mi crede? Glielo giuro su mia madre!»

«Sì, Dario, però…» e ripetè il gesto di Lilly, indicando il segno violaceo sul braccio.

«Non sono stato io, glielo giuro. E poi…», lampo azzurro nella stanza.

«E poi?»

«Si ricorda di quando mi sono rotto il polso sinistro? In bicicletta, giù in cortile? Quando mi hanno tolto il gesso si sono accorti che un osso non era a posto». Sollevò il braccio sinistro, avvicinò la mano all’incavo del destro e mimò il gesto di un’iniezione:

«Vede? Non ci riesco, il polso non gira abbastanza… lo vede? Se fossi un… le punture me le farei nel sinistro, usando la mano destra che funziona!»

«Be’, potresti aver chiesto un favore a qualcuno».

Dario lo guardò senza dire una parola.

Bertelli gli prese le mani, poi i polsi, li girò, sopra, sotto. Poi si alzò, andò a frugare nella sua valigetta:

«Aspetta». E uscì dalla stanza.

I colori stavano un po’ sbiadendo e i lampi erano meno frequenti. Peccato, il colorito di Lilly prima era quasi umano.

Ma cos’era successo? La festa, la signora Lea, De Marchi, la sua Alfa. C’era tutto. E poi Giorgia! In camera, insieme, un‘esplosione, la chiavata più… Le sue gambe, le cosce, lui là… l’ultima impressione che ricordava era stata il suo separarsi dal corpo di lei e poi il sonno, pesante, lungo… Com’era passato dall’incanto a quella merda? Quanto aveva dormito, Giorgia dov’era?

Bertelli tornò dieci minuti dopo, seguito da Lilly che portava su un piatto un contenitore di metallo.

Il medico si chinò su Dario, gli prese il braccio sinistro e gli fissò un laccio emostatico: «Faccio  presto…», poi con la siringa gli prelevò un campione di sangue.

«Bene, adesso riposati. Se hai fame mangia, almeno per oggi stai tranquillo, bevi molto così ti passa prima. Io torno dopo pranzo».

 

Lilly accompagnò Bertelli e poi tornò:

«Dario, hai fame?»

«Mi fai del caffè? E poi un favore, puoi telefonare alla signora Gagliardi e dirle che oggi sono indisposto?»

«La signora Gagliardi? Dario…»

 

Lentamente si sollevò sui gomiti. Prima tappa. Poi si spinse a sedere sul letto, e fece scendere le gambe. Un paio di quintali. Capogiro. Chiuse gli occhi, lampi verdastri. Come ci potesse essere gente che si faceva delle punture per ridursi in quello stato gli parve una bella domanda, alla quale però non gliene fregava nulla dare una risposta. Il problema era lui. Non aveva mai sopportato non avere il controllo di sé stesso. Anche le bevute erano previste,calcolate: sapeva quanto alcool poteva mandar giù per divertirsi ma senza finire a straccio sotto il tavolo, quante volte fare all’amore senza trovarsi come un panno steso. Invece adesso era lì, con un paio di quintali di gambe, due chili di lingua, la testa fra i cinquanta e sessanta chili e quel livido del cazzo nel braccio. No, non andava bene. Per fortuna fra il letto e la sua scrivania c’era sì e no un metro e mezzo, così con un colpo di forza inaspettato riuscì ad alzarsi giusto in tempo per ricadere ma appoggiato alla sedia e, girandola, sedersi.

Lilly lo trovò così quando entrò con il bricco del caffè e i biscotti.

 

Così, ancora alla sua scrivania, lo trovò anche Guido, quando rientrò poco prima dell’una. Si fermò sulla soglia, pettinato, abito scuro, cravatta grigia a puntini (forse rossi? O verdi?Erano gli ultimi lampi della mattina).

«Stai meglio?»

«Sì, meglio, grazie».

«Sarebbe troppo chiederti un po’ di senso di decoro? Non dico responsabilità, ma almeno decoro. Come hai fatto a diventare un malato, così? Ma ti rendi conto? Comunque adesso tu finisci in clinica a disintossicarti, non voglio sapere altro. Anche se sei già maggiorenne, non me ne frega niente… ho le mie responsabilità!»

Guido non cambiava di colore, peccato. Vederlo diventare arancione o viola come Lilly, o rosso come le righine sui muri sarebbe stato un modo di sopportare quella tirata nobile e morigerata. Invece no. Rimaneva anche lui grigino e basta, grigino nella sua cravattina, nei suoi calzini, nelle sue manine. Grigino.

«Vai a cagare. Prenditi il tuo decoro, la tua responsabilità, e usale per pulirtici il culo! Mi sei venuto a prendere stanotte e ti ringrazio, ma la cosa è chiusa lì. Io non mi sono mai drogato in vita mia, non mi sono mai infilato un ago da nessuna parte e quello che è successo stanotte non lo so nemmeno io. Chiaro? Non te lo ripeto. Sei sveglio e l’hai capito. Quindi togliti dai coglioni e va’ a portare la tua carità di merda un po’ più in là, fuori!»

Gli sembrò che Guido cambiasse colore e al grigino si aggiungesse una nuance pisello, ma forse era ancora l’effetto di quello che aveva dentro le vene. Aprì un paio di volte la bocca, scosse la testa e uscì.

 

Dario non tentò nemmeno di andare a tavola:  si sentiva le gambe dimagrite all’improvviso, da un paio di quintali a venticinque grammi. Dorina gli portò le tagliatelle fumanti al ragù, due fette di pane, del salame, una mela e un mezzo bicchiere di vino. Bevve il vino come se niente fosse, a conferma che neppure una supersbronza poteva essere stata la causa di quello sconquasso. Le altre volte, dopo una bevuta eccessiva, il giorno dopo era naturale star lontano dal «sacro liquido», come lo chiamava con i suoi amici. Invece no, tutto a posto. Il lambrusco andava giù liscio e tranquillo come sempre.

 

Il dottor Bertelli tornò verso le tre. Aprì la porta adagio. Dario era ancora alla scrivania, i piedi sul letto, leggeva.

«Bene, ti sei già rimesso in piedi. Bevi molto, eh!»

«Ho riempito tre pitali da stamattina…» rispose, indicando la caraffa dell’acqua mezza vuota.

«Ho fatto analizzare a un collega il tuo sangue, una cosa veloce, tanto per capire… tu mi giuri…?»

«Mai fatta una puntura in vita mia!»

«Avevi residui di oppiacei. Cosa di preciso in così poco tempo non si può sapere, però il fatto rimane. E se tu non fai di queste cose, con chi sei andato a mescolarti ieri sera, per cedere alla tentazione, alla curiosità?»

«Curiosità? Dottore! Io sono stato a una festa, ho incontrato una ragazza… mai vista una così, abbiamo fatto l’amore e mi sono addormentato… Nessuna curiosità, la ragazza me ne aveva già tolte parecchie. Da quel letto mi sono ritrovato nel mio stamattina… tranquillo, ho letto Baudelaire ma non è il mio genere…»

«Vabbè…» Bertelli non sembrava del tutto convinto, «Intanto bevi, mangia e riposati. Ci sentiamo fra un paio di giorni per vedere come va» e, salutandolo, gli spettinò i capelli, come quando lo congedava nel suo ambulatorio, alla fine della visita periodica di controllo.

 

Dorina incrociò nel corridoio il dottore in uscita. Approfittò della porta aperta per entrare subito in camera:

«Signorino, c’è una signora al telefono, chiede se può passare a trovarla…»

 

Katharine veniva lì  e lui era in quelle condizioni, in pigiama e pantofole!?, no non poteva, ma dirle di no era impossibile. Aveva mezz‘ora per recuperare un minimo di decenza e umanità. Scartò l’ipotesi di farsi la barba quando si rese conto che non riusciva ancora a star dritto davanti allo specchio senza sorreggersi. Riuscì a lavarsi sommariamente aggrappandosi al lavandino e a vestirsi da seduto, chiamando però la Dorina per farsi infilare i calzoni. Al primo tentativo, infatti, appena ebbe la pessima idea di chinarsi rischiò di finire a capofitto sulle piastrelle incerate di camera sua. In tutta fretta ordinò a Dorina di rifare, velocemente, la stanza, spalancando le finestre per cambiare aria. Poi si sedette di nuovo alla scrivania, ma stavolta per accendere la pipa che teneva nel cassetto, per profumare l’aria e, anche e soprattutto, per darsi un tono. Solo poche boccate prima che la nausea lo sconsigliasse a proseguire una simile messa in scena.

Sentì la voce di Katharine che conversava educatamente con Lilly, mentre dall’ingresso, attraverso il corridoio e la prima sala, si avvicinavano alla sua camera.

Lilly socchiuse la porta:

«Hai visite…»

Tailleur grigio, tacchi alti, scarpe di camoscio chiare, una spilla d’oro sul bavero.

«Lamberti… Cosa mi combina? Come va?»

«Niente di tragico, come vede».

«Dario è ancora una ragazzo…» soffiò Lilly dalla soglia.

Vattene, vattene. Perché non te ne vai?

«Posso portarvi un tè?»

«Sì, grazie, Lilly, portaci un té, vero?» e girò a Katharine uno sguardo come a dire “Di sì, di sì, ti prego…“

«Grazie, volentieri…»

Così Lilly uscì, finalmente.

 

«Dario, è pallidissimo, sembra un poeta! La barba lunga… è bellissimo!»

Potere taumaturgico del logos! La parola balsamo dell’anima…

«“Gli dei hanno dato agli uomini due orecchie e una bocca per poter ascoltare il doppio e parlare la metà“, così diceva Talete… grazie, ci voleva, oggi, una parola così» riusci miracolosamente a dire.

Katharine sedette sull’unica poltroncina, a sinistra, quella in velluto verde scuro.

«Allora, cosa è successo? Cosa ha combinato?»

«Niente, credo…» e gli raccontò quello che era riuscito a recuperare dalle nebbie nella sua testa. Tradì il patto di sincerità, non le disse cosa era stato fare l’amore con Giorgia. Non mentì, ma trascurò i dettagli, tutti. Tacque anche su quel livido viola nel braccio.

«Così lei ha preferito un invito di De Marchi, quel birichino, alle mie serate».

«Ma ieri sera non ero invitato…»

«Già, così io mi sono annoiata a morte e lei è andato a far bisboccia… bel risultato dell’essere una signora per bene!»

«Ecco il té, vi servite voi?» Lilly, splendente nel suo ruolo migliore, quello di padrona borghese, entrò trionfante con il vassoio di argento, la teiera cinese della nonna e le tazzine del servizio blu, roba da grandi occasioni. Non approvava certo l’intrusione di una signora dal suo indifeso e ammalato fratellino, ma l’educazione e il senso della convenienza avevano avuto la meglio.

Da brava padrona di casa ebbe anche il buon gusto di ritirarsi, socchiudendo appena la porta.

«È lei che ha scelto il ruolo della brava signora per bene…» sorrise  Dario, accennando ad alzarsi per servire l’ospite.

Katharine lo fermò e versò il té a entrambi.

«Perché dice che De Marchi è un birichino?»

«Be’, credo che l’abbia capito, no? Le sue feste non sono cose per brave signore. Si sa, in giro. Poi quello che fa sono affari suoi… ci siamo capiti, no?»

Sì, si erano capiti.

«Comunque una sbronza passa, così domani ci possiamo rivedere…» e gli sorrise accendendosi la prima sigaretta.

«Katharine, abbiamo un patto, vero?»

«Certo…»

Dario sollevò la manica della camicia e le mostrò il livido.

Lei guardò senza reazione.

«Io non ho fatto nulla di simile, mai. Mi crede?»

Sospirò e appoggiò la sigaretta al bordo del piattino.

Si alzò, gli venne contro e, in piedi, gli strinse la testa sul grembo. Lo accarezzò sul collo, sulla nuca. Rimase così qualche secondo. Un sogno, una favola. Non poteva essere un’allucinazione perché i colori ormai erano quelli normali, e poi sentiva la stoffa contro il suo viso e, sotto la stoffa, il suo corpo.

Si staccò e tornò a sedersi. Aveva gli occhi lucidi.

«Mi crede?» e sentì le lacrime scendergli sul viso, cadere sulla camicia, in quella che ai suoi occhi stava diventando una scena penosa, da cretino.

«Dario… sì, ti credo, ti credo». Per la prima volta gli aveva dato del „tu“. Gli prese le mani, senza dir nulla.

In quel momento entrò Lilly, ma Katharine dimostrò chi fosse la vera donna. Non si mosse, continuò a tenere le mani su quelle di Dario. Lilly non esisteva, tanto che l’immobilità della scena la costrinse ad uscire di nuovo.

«Dario, mi dispiace, non pensavo di metterla nei guai, davvero… sono stata una sciocca».

«Ma cosa c’entra lei, sono cose che succedono…»

«No, non devono succedere… sei un ragazzo e guarda cosa t’hanno fatto!»

«Ma sono in gamba, domani sono da lei…» e si alzò orgogliosamente in piedi asciugandosi le lacrime con un gesto del braccio.

In realtà la posizione eretta non era il suo forte, quel giorno. Fingendo una forza che proprio non si sentiva riuscì ad accompagnare Katharine alla porta, a salutarla, con le loro mani che si incrociarono in un misto di una stretta e di una carezza. Chiuse la porta e si trovò esausto, madido di sudore, tanto da doversi appoggiare allo stipite per non scivolare a terra. Riprese fiato e rifece il percorso a ritroso fino a camera sua. Di nuovo alla scrivania, a bere un tè freddino ma superzuccherato.

Provava a scalare quella parete di vuoto e non riusciva, ricadeva dopo pochi tratti. Lui e Giorgia. L’amore, lei con lui, la stanza. E prima i balli, lo spumante, i dolcetti, il vicefederale che l’aveva assolto dal pugno a Finasi. Tutto fino a quel punto c’era, e poi ancora Giorgia e lo scherzetto a Iotti, al bestione. Poi la pioggia sui capelli di lei, o era stato prima? E la scala, il letto e lui che l’aveva spogliata. Sì, l’aveva spogliata, ecco, sì, perché ricordava che… e i suoi baci e le sue braccia aperte. Braccia bianche, no, non c’erano lividi su quelle braccia. Giorgia non era una drogata… il suo sapore addosso, e poi lasciarsi andare e riprendere. Che ore potevano essere? Non c’erano orologi nella stanza, solo il suo, il suo orologio d’oro, il Longines di babbo, ma non se l’era neppure tolto, quello lo ricordava perché s’era impigliato nella stoffa della sua sottoveste.

Ma come’era il suo orologio quando Guido l’aveva trovato? Lui lo portava sul destro ma girato sul lato interno, abitudine che aveva preso al corso di pilotaggio, per vedere l’ora reggendo la cloche, mentre con il sinistro poteva dare gas. Svegliandosi se l’era trovato al sinistro. Chi glielo aveva rimesso? E chi glielo aveva slacciato? Magari per fargli quella puntura?

No, no, troppa confusione. Lui sapeva solo di aver passato il tempo più incredibile e meraviglioso degli ultimi mesi in quel letto, con Giorgia, e poi il resto era solo un vuoto, non possedeva più quel piccolo frammento della sua vita. E questo non gli andava giù. Per niente.

 

Lilly lo svegliò quasi all’ora di cena, lo scosse appena e Dario sobbalzò. S’era buttato un attimo sul letto, quando aveva iniziato a piovere forte e aveva sentito il vento buttare le gocce contro le sue finestre. Aveva lasciato accesa la luce sulla scrivania ed era tornato a sdraiarsi. Magari fra un sogno e l’altro poteva uscire qualcosa. Invece niente. E oraaveva la faccia di Guido davanti.

Fece un cenno e Lilly uscì. Si sedette sulla poltroncina.

«Ho parlato con il dottor Bertelli».

Ecco, un altro a tradirlo!

«Mi ha informato. Forse…»

«Forse non sono un drogato? Grazie!»

«Questo però non cambia nulla nella gravità del tuo comportamento, una persona responsabile deve sapere prima cosa può succedergli…»

«Ma tu non sbagli mai? Mai fatta una boiata, mai?»

Stava per aggiungere „Mai conosciuta una come Giorgia?“ ma sarebbe stato inutile. Guido non avrebbe mai incontrato una come Giorgia, magari era ancora vergine, si sarebbe sposato e riprodotto  con una come lui. Due colpi, due figli. Grazie, cara, buonasera e via.

«Ascolta, io non ricordo, non ci riesco…»

«Logico, sei ancora sotto shock da stupefacenti, lo ha detto Bertelli, devi passare il momento…»

«Bene, però vorrei sapere una cosa: quando sei venuto a prendermi…»

«Vuoi tornarci sopra?»

«Devo dirti ancora grazie?»

Guido fece per alzarsi, ma Dario lo fermò.

«Ascolta, aiutami, così magari mi torna in mente qualcosa…»

«Dai… cosa vuoi sapere?»

«Tutto».

«Mi è arrivata una telefonata di De Marchi verso le cinque e mezzo, mi diceva che ti eri sentito male e che dovevo andare a prenderti. Mi aspettava sulla strada di Coviolo e siamo arrivati a quella villa. Ti ho trovato a letto incosciente…»

«Ero senza vestiti?»

«Sì».

«Nudo, no…? Ti ricordi se avevo l’orologio al polso?»

«L’orologio?»

«Sì, nudo con l’orologio al polso…»

Scosse la testa: «Ma cosa c’entra, eri lì, svenuto, in quel posto, con quella gente, cosa vuoi…»

«Chi c’era? Esattamente, lì con me».

«De Marchi, una signora bionda e un omone, ti ha preso su quasi di peso dopo che ti avevamo rivestito, senza di lui non ci saremmo riusciti. È venuto a Reggio con noi e ti ha riportato qui».

«Lui è entrato qui?»

«Come ti riportavo su? Chiamavo il nonno, o Lilly?»

Dario superò il brivido che aveva provato.

«Avevo l’orologio?»

«E dai con l’orologio! Ce l’hai al polso, no?» e glielo indicò.

«L’avevo anche là, in quel posto?» chiese ancora, la voce più acuta.

«Allora… quando ti abbiamo rivestito, e ho visto…» e abbassò lo sguardo.

«Vai avanti…»

Guido muoveva lo sguardo attorno, come a raccogliere le idee e superare l’evidente disgusto per il racconto cui Dario lo costringeva.

«Ecco, no, non l’avevi, sono sicuro… anzi, è stata proprio cortese quella signora bionda, l’omone ti aveva già preso su e stavamo per andare quando lei mi ha richiamato per darmelo. Poteva tenerselo, è di valore. Una persona corretta. Mi ha richiamato e me l’ha consegnato. Te l’ho allacciato io stamattina quando ti abbiamo messo a letto. Ecco, contento? Ti serve?»

«Sì, mi serve». E quasi gli sorrise. «Quindi quell’uomo grosso mi ha riportato qui, stamattina?»

«Sì, saranno state le sette, sette e un quarto…»

«De Marchi?»

«Gli ho telefonato per ringraziarlo, ovviamente».

«Lo conosci bene?»

«Affari, rapporti di lavoro, cosa faccia nella sua vita privata non mi interessa…»

Dario si era messo a sedere sul letto, rivolto al fratello.

«Tu cosa pensi sia successo?»

«Mi giuri che…» e si allentò appena il colletto della camicia. Si era tolto la giacca e teneva solo il gilè antracite a piccole righe grigie.

«Anche se mi credi un totale idiota, non sono un maniaco… né un pervertito!»

«Quasi quasi era meglio…»

«Fanculo!» e fece per saltare in piedi, ma le gambe non collaborarono. Appena un sussulto e poi ricadde a sedere.

«Stai calmo, sei debole, calmati!»

«Non volevo offenderti, ma stavo ragionando…»

Gli stava tornando quel sudore freddo e non voleva cedere ora, davanti al fratello. Si alzò adagio, tornò alla scrivania e prese due biscotti, poi tornò a sedersi sul letto.

«Non sbriciolare! Ti ricordi?» Da piccolo venivi nel lettone della mamma con i biscotti e trovavamo le briciole dappertutto».

«Già…»

Un ricordo tenero anche per Guido. Doveva proprio drogarsi per meritare tanto?

«Allora, se le cose sono andate come dici, e ci credo, forse è peggio… se tu non hai ceduto alla tentazione di…»

«No».

«Allora qualcuno ti ha voluto fare un brutto scherzo».

«A me? Perché?»

«A te… o a me».

«A te?». Cosa c’entrava il grande, integerrimo Guido con quella storia di nausea, colori sballati e fanciulle meravigliose?

«Dario! Da stamattina qualcuno può andare in giro a dire che ho un fratello depravato… lo capisci? Nella mia posizione?»

Ecco, perfetto. Finalmente tutto tornava a posto. La posizione! Il decoro dei Lamberti! Dai tempi di Napoleone e anche prima. Figurarsi!

«Scusami! Chi se ne frega di questo scemotto! È il fratello, il cane grosso che conta. E ti mettono su questo scherzo per cosa, per poterti sputtanare? Con quello che fai ogni giorno, sai quanti potrebbero…»

«Dario, per favore, pensaci. Il lavoro è lavoro, ma questo…»

«Ma questo non è consentito. Potevano farla anche migliore, potevano farmi trovare a letto con un bel soldatino… drogato e pederasta: due piccioni con una fava, no?»

Guido si alzò: «Vedo che non capisci… comunque non prendere sottogamba questa cosa». Si rimise la giacca e uscì.

 

A cena dovette affrontare una delle cose più pesanti della sua esperienza familiare: il silenzio del nonno. Il silenzio e le sue occhiate. Guido poteva dirgliene su e si divertiva, anzi quasi era puro piacere sentire il bigotto fratello tirar fuori le sue reprimende. Ma il nonno era diverso. Il silenzio del nonno era la dichiarazione della tua inesistenza, della tua scomparsa dal novero del persone esistenti, almeno per lui. Una cerchia ristretta, ma alla quale Dario era stato orgoglioso di appartenere. L’atmosfera imbarazzata di tutti lo fece concentrare sul brodo della Dorina, il lesso con il purè e l’insalata di radicchio con le uova sode, tutta roba da malato più che da giovane in ripresa. Ma cosa poteva dire?

La cena finì nello stesso silenzio in cui era iniziata. E nello stesso silenzio tutti si alzarono, il nonno per i due passi serali intorno a casa con Guido, Lilly per il suo ricamo in preparazione del corredo, anche se ormai aveva finito di preparare tutto il necessario da qualche mese.

Dario si sedette in poltrona, accese la radio. Da quando se n’era andato non aveva più aperto «Il Solco» e non ne aveva grandi rimpianti. Ma un paio di copie del «Corriere» se l’era già lette nel pomeriggio e la scelta era quella obbligata. Piuttosto la musica… almeno ci fosse qualcosa di accettabile, oltre quelle canzoncine sceme. Girò la manopola della sintonia finché uscì qualcosa di piacevole, anzi proprio bello: un pezzo di Gershwin. L’aveva anche ballato, una sera a Roma, d’estate. Someone to watch over me. Già, una sera d’estate.

«Ma sei matto?» Lilly riusciva ad essere drammatica anche nelle cose più banali.

«Cos’ho fatto?»

«Cosa ascolti? Non si può! È roba nemica! Radio Londra!»

«Radio Londra? Ma è Gershwin, chi se ne frega che radio è! Ma sei diventata fascista? Cos’è, il fidanzato che ti ha convertita?»

«Sciocco, non ti rendi conto, eppure sei militare, dovresti capire!»

«Dovrei capire cosa? Che stiamo diventando pazzi, che stiamo massacrando gente che non ci ha fatto nulla, che finiremo tutti morti, come in Russia?»

«Dario, cosa dici… non stai ancora bene?»

«Sto bene! Non tanto, ma comunque non abbastanza da non ricordare. In Russia i tedeschi uccidono tutti: donne, bambini, vecchi, ebrei. Tutti… Ti ricordi Landini? Rino? Era al liceo con me, siamo rimasti in contatto e ci siamo scritti. Lui è nei granatieri, l’hanno spedito in Ucraina… uccidono tutti, ha visto dei boschi pieni di donne e bambini… uccisi, tutti, tutti. E tu fai una questione su Gershwin, Lilly, ma cosa sei diventata? Come Guido? Come gli altri?»

Come nella migliore delle tradizioni, Lilly chinò il capo e tornò al suo corredo.

Ecco, almeno fosse rimasto qualche giorno in più avrebbe potuto godersi la Butterfly con la Simionato e Gavazzeni al Municipale, come anticipava «Il Solco», insieme a un paio di belle notiziole: l’elenco dei forni autorizzati a fornire il pane razionato, quello per i poveretti, ovvio, in casa Lamberti le tessere annonarie erano rimaste dentro qualche cassetto. Business as usual, vero Guido? E poi un’altra cosina che proprio gli era sfuggita e che segnava, in qualche modo, il tempo che passava. Avevano aperto il Liceo scientifico! Il vecchio Classico aveva perso l’esclusiva del sapere. Ci volevano tecnici, ingegneri, scienziati. Altro che letterati, filosofi e professori, residuati come lui. Un giovane residuato di ventun anni. È il mondo nuovo che avanza, la guerra salvezza del mondo. La tecnica che risolve tutto.

Magari un po’ di tecnica, però, non sarebbe stata male, dovette ammettere. Magari gli avrebbe consentito di volare su qualcosa di più simile a un aereo che il Caproni del corso, sempre incerto se alzarsi da terra o afflosciarsi come un sacco vuoto. E poi la tecnica aveva dei lati affascinanti: l’Alfa 2600 di De Marchi, quei sei cilindri, quel cambio con i suoi click precisi. No, la tecnica aveva i suoi lati buoni, ma ci voleva cervello per gestirla, ci voleva logica, rigore, anche fantasia. E come aspettarselo da chi non avrebbe più studiato una riga di greco?

 

Che fosse una serata speciale in una giornata altrettanto particolare lo capì venti minuti dopo, quando la Dorina annunciò una visita. In realtà l’avvocato Bottazzi fu quasi più veloce di lei, la cameriera non aveva finito la frase di rito „Signorino, c’è…“ che il piccolo avvocato era già lì davanti a lui.

«Ragazzaccio! Allora, come va?»

«Bene… eccomi qua, ma quale onore?»

Bottazzi si tolse il soprabito e la sciarpa e li passò a Dorina, poi si sedette di fronte a Dario. In mezzo a loro il mobile radio, il vecchio buon Telefunken.

Fece il gesto di spegnere, ma l’avvocato lo fermò:

«No, la musica serve, e poi questa è roba sovversiva… bene, ci vuole».

Per un istante Dario si chiese se l’antifascismo di Bottazzi fosse genuino o semplice gusto di essere, sempre, un bastian contrario. Ma in fondo poco contava.

«Stai meglio? Davvero?»

«Sì, sto meglio, una buona dormita e sono a posto…»

Bottazzi si tolse gli occhiali, li ripulì appena con la punta della cravatta, li rinforcò:

«Devo chiederti scusa, sono stato un cretino. Mi sento responsabile di quello che è successo… Scusami».

«Avvocato, scuse? Ma lei cosa c’entra… la cosa… non vedo…»

«Non si dovrebbe giocare con le persone, in buona fede, eh… per aiutare, così pensavo… sono stato uno sciocco, un presuntuoso. E tu ne hai pagato le conseguenze. Volevo vedere come stavi, non mi sarei mai perdonato…»

«Avvocato, mi scusi, forse sono ancora un po’ rintronato, ma faccio fatica… anzi non capisco nulla».

Bottazzi unì le mani davanti a sé, accostando lentamente dito a dito sussurrò: «Sì, Dario, hai ragione, allora diciamocela tutta. Va bene?»

«Certo».

«Io volevo, come dire, darti una mano, sapevo che saresti tornato in licenza e che… avresti saputo. E immaginavo, temevo… così ho pensato, imbecille: „Gli presento Margherita, magari si distrae, non ci pensa“. E poi, mi vergogno un po’, ma con Margherita…»

«C’era una scommessa e sperava che gliela facessi vincere…»

«Ah, te l’ha detto?»

«Sì, è una donna molto particolare…»

«Sì, splendida, vero?»

«Sì… ma cosa avrei dovuto sapere?»

Bottazzi lo guardò da sopra gli occhiali:

«Anch’io vado a Parma, sai, qualche volta?»

«Ah. Quindi la cosa era… nota».

«Be’, diciamo così. Anche perché l’altro non ne faceva mistero in giro, anzi, andava a dirlo che lui stava con una ragazza di buona famiglia. E sai che a Reggio i Messori non sono gli ultimi arrivati…»

«Ah».

Perché adesso non poteva contare sui colori virati? Magari qualche bel violetto, azzurrino, giallo canarino o rosa avrebbe aiutato, o anche un bel grigio o verdolino, a coprire quella storia di merda.

«Be’, lei voleva darmi una mano e c’è riuscito…»

«Ah, sì, bel risultato! Ancora un po’ ci lasciavi le penne».

«Ma no, ho conosciuto Katharine e il resto passerà…»

«Katharine? Chi è? Un’altra ancora?»

Dario rise e ci voleva:

«No, scusi… Non s’è mai accorto di come Margherita assomigli a Katharine Hepburn? Io la chiamo così e lei accetta volentieri…»

«Dario! Dario! Ma così ho quasi vinto la mia scommessa! Nessuno era mai arrivato tanto avanti con Margherita! Sei già arrivato a questa complicità…»

Poi si accorse di essere andato sopra le righe.

«No, comunque scusa… è che purtroppo, forse, attraverso lei hai incontrato persone che era meglio lasciar stare».

«De Marchi? Iotti?»

«Dario, ascolta. Raccontami quello che è successo da quando ci siamo visti l’altro giorno, vuoi?»

 

Il racconto durò una buona mezz’ora, intervallato da qualche sorso di cognac sorbito lentamente dall’avvocato, ma soprattutto dai suoi frequenti interventi, domande degne del bravo penalista al testimone portato alla sbarra nell’aula di giustizia.

Terminato l’interrogatorio, Bottazzi si abbandonò sullo schienale. Chiuse gli occhi, rimase un attimo in quello stato di quiete, poi si pronunciò:

«Credo di aver capito come siano andate le cose, e se l’ho azzeccata, allora sei stato fortunato…»

«Addirittura?»

Sorrise:

«Sei un ragazzaccio, ma sei pulito. E sei finito, senza accorgertene, in un lurido pantano, peggio dello Stige del padre Dante… ma ne sei venuto fuori! E questo è quel che conta».

L’avvocato vuotò il bicchiere e si alzò.

«Vado, domani ci risentiamo…»

«Sì, grazie… ma da quando andava avanti la cosa, a Parma?»

«Riposati e dormici su, non ci pensare…»

 

Il patto di Katharine_Capitolo 4_

23 ottobre 1941, giovedì

  

 Alle 9.30 era già pronto, aveva tirato fuori la Balilla dal garage, aveva controllato il livello della benzina, aveva spazzolato i sedili. Poi era uscito in strada, aveva fatto il giro dell’isolato due volte e si era fermato a comprare «Il Corriere». Si era anche fermato a parlare con la signora Fantuzzi, la madre di Gianna, una sua compagna del Liceo, che aspettava il ritorno del moroso per sposarsi.

Tutto per far passare il tempo, per non arrivare troppo in anticipo da Katharine. Il tempo era perfetto, il vento aveva ripulito il cielo e il sole era uscito a scaldare l’aria. Aveva appena salutato la signora Fantuzzi quando se la trovò davanti quasi all’improvviso.

Gio’. Come sbucata dall’ombra, o forse semplicemente diretta a casa sua con la borsa della spesa. La borsa della spesa? Mai vista con una borsa, mai vista fare la spesa per casa sua.

«Ciao, passavo…»

«Ciao». Doveva respirare adagio, inspirare aria, per mandar giù il groppo che aveva in gola, quel colpo all’improvviso, per riuscire a mentire, per non dire quanto lei fosse tutto quello che aveva realmente desiderato in quelle ore. «Come mai in giro a quest’ora? Non sei a Parma?»

«Hai letto le cose che ti ho scritto?»

«No». E avrebbe voluto dirglielo con tutta la cattiveria di cui non era capace.

«Io…»

Non aveva letto nulla. Non l’aveva più avuta vicina. Non l’aveva più toccata. Le parole scritte erano state il loro mezzo di comunicazione, le parole scritte e l’amore fatto insieme. Parlare, ora? Per mettere su uno dei suoi discorsi? Dio, com’era bravo a parlare! Anche a scrivere, forse anche a letto! Eppure non era servito a nulla.

Rimase lì a guardarla. Vedere i suoi occhi sempre più lucidi, i capelli scenderle sul viso, coprirle le efelidi, nasconderle lo sguardo.

«Adesso devo andare, magari prima di partire ne parliamo…»

«Sì. Ciao…»

E girò le spalle e riprese il marciapiede verso via del Torrazzo. La guardò voltare l’angolo. Mattina distrutta, rovinata. E ora andare da Katharine, a far cosa? A giocare a fare il Casanova da ridere? A farsi trattare da ragazzino? L’unico desiderio era Gio’, correrle dietro. Ma sarebbe stato inutile. Una valanga di orgoglio ferito, di desiderio di rivalsa l’aveva travolto, l’aveva inchiodato a quel 23.260. Come andarle a dire “ti amo“ con quella robaccia dentro?

Tornò in cortile, salì sulla Balilla, mise in moto e girò a caso alla prima strada, poi a quella dopo, senza un senso. Si fermò dopo il ponte di San Pellegrino. Spense il motore, tirò fuori il suo taccuino e si mise a scrivere:

 

Prima che la memoria ci tradisca

o ci salvi,

prima che il dimenticare sia la sola

soluzione,

prima che il coraggio di guardarci intorno

ci abbandoni,

fragile cucciolo, uccello senz’ali,

guardiamoci in viso

cerchiamo i nostri lineamenti

nello specchio.

Fra una piccola piega

troveremo gli aghi di pino

di una montagna mai salita,

fra le ciglia, lunghe,

risentiremo il riflesso di una emozione

durata un pomeriggio,

più giù, accanto alla bocca,

riavremo il dolore di una domenica d’autunno

o lo stupore di esserci ancora.

Sul mento infine ancora un dubbio,

ancora il sospetto di sempre,

quasi un amico.

 

Richiuse il quadernetto, rimise la stilografica nel taschino.

«Andiamo a fare la figura dello scemo».

 

Alle 10.58 era davanti alla villetta con l’edera. Non fu nemmeno necessario scendere, Katharine era già in cortile, lo vide e uscì dal cancello, per salire in auto:

«Püntlich? Perfetto! Mi piacciono gli uomini precisi…» scherzò dietro gli occhiali scuri.

Si sedette e allungò le gambe lunghe, la gonna salì appena sopra il ginocchio. Bello spettacolo. Accontentati dello spettacolo, scemo.

«Mattinata dedicata ai defunti? Tutto regolare per una signora per bene?»

«Germano mi ha telefonato stamattina, ho il suo placet, anzi la ringrazia per il passaggio».

„Magnifico, faccio contento anche il marito…“ mise la marcia e partirono.

Katharine aveva aperto il finestrino e l’aria entrava quasi tiepida. Si fermarono al passaggio a livello prima di SanProspero. Davanti a loro un camioncino e un carretto tirato da un cavallo bigio.

«Com’è suo marito?»

«Una brava persona, tranquilla, quasi un amico, capisce?» aveva acceso una sigaretta e il fumo si allungava fra i due finestrini aperti.

«Ma non vi vedete molto…»

«No, lui è sempre in giro per lavoro, per questo vado con lui a Monaco, per vederlo, per stare un po’ insieme».

«Gli affari prima di tutto. Ma non…»

«Lei vuol sapere se abbiamo rapporti?»

Sì, era quello che avrebbe voluto chiedere ma non avrebbe mai avuto il coraggio.

«Succede, ma diciamo che il nostro matrimonio non si basa su quello».

Dario si vergognò molto, non solo per la non-domanda fatta, ma soprattutto perché all’improvviso si era trovato eccitato, anche se l’impermeabile nascondeva tutto, per sicurezza e decoro.

Il treno passò e ripartirono. Alla Chiesa voltarono a sinistra, cento metri ancora e Dario si fermò davanti al cimitero.

Fece per scendere ma lei lo fermò.

«Non c’è bisogno…»

«Allora possiamo andare?»

«Dove vuole».

Uno sta in macchina con una come Katharine, potrebbe portarla in giro, magari in campagna, verso la collina, chissà. Il sole, l’arietta tiepida, la mancanza del marito, tutto molto opportuno. E invece. Dario ripartì, ma solo per fare meno di cinquecento metri. Casa di Fontana, la vecchia casa.

«Vuol vedere la vendemmia?» Riuscì a dire appena si fermò, all’imbocco della carraia che portava dalla strada alla casa contadina. Lo stesso agitarsi del giorno prima, carretti che arrivavano, gente con ceste che scaricava i grappoli scuri.

«Lo sa che a casa mia vendemmiavo ancora prima di camminare? La mia famiglia produce vino dal 1736, Mainardo e Teroldego. Perché mi ha portato qui?»

„Perché sono uno scemo“, era la risposta ovvia. Ma non era solo quello.

«Mi scusi, sono sciocco e banale, ma ieri sono venuto qui con De Marchi e il figlio di Fontana». E le raccontò la visita al luogo.

«Ho visto dove Fontana s’è ucciso e… non mi torna, come se qualcuno mi raccontasse una storia che non funziona, così quasi senza pensarci sono tornato qui».

«La cosa l’ha impressionata, lo capisco… ma cosa vuol dire che la storia non funziona?»

«Niente, sarà come dice lei, è il primo suicidio che vedo, però…»

«Però?»

«Senta, il Fontana era piccoletto e grassottello, aveva perso un piede in Africa. Decide di uccidersi, viene qui di notte – l’hanno trovato al mattino presto e alla sera prima non c’era – ha tutto il portico, la stalla, alberi, pali, ganci per attaccarci una corda e farla finita e cosa fa? Sale in soffitta, due rampe di scale più uno scaletto di legno traballante, si porta dietro la corda, la fa passare attorno al trave più alto, sale su una vecchia sedia sfondata e poi si lascia cadere? Uno zoppo, un invalido? E fa tanta fatica a morire che, come ha detto il dottore che l’ha trovato, scalcia così forte da perdere la protesi?»

«Che orrore! Non sapevo…». Finalmente si tolse gli occhiali e lo guardò con i suoi occhi verdi spalancati.

«Mi scusi, non volevo turbarla con particolari macabri, ma era per farle capire perché la cosa, come dicevo, non funziona».

Dario rimise in moto la Balilla e ingranò la retromarcia per tornare sulla strada principale, quando vide un contadino venire loro incontro. Era secco, i capelli grigi a spazzola, trotterellava con gli stivali di gomma sui solchi della carraia fangosa, sollevando piccoli spruzzi di fango dalle pozze d’acqua.

Aprì il finestrino e l’uomo si accostò:

« Mi scusi, lei è venuto qui ieri con il figlio del povero Elio…»

«Sì, mi dica…»

«Quando siete venuti non ho fatto in tempo… può darlo lei al figlio, è di suo padre…» Allungò la mano dentro l’auto e consegnò a Dario un accendino, di metallo, squadrato.

«L’ho trovato in terra, su nel corridoio, quello che va in solaio]…».

«Grazie! Glielo darò senz’altro, ma lei come si chiama? Così posso dirlo a Celso, per farla ringraziare…»

«Non c’è bisogno, comunque io sono Fausto Crotti, ma tutti mi chiamano Furmìga…»

Dario salutò Furmìga e uscì dal viottolo.

«Magari poi passo da Celso…»

«E la nostra lezione?»

Te la darei io una lezione. Ma tutto quello che riuscì a fare fu di girare l’auto verso la campagna, anziché verso Reggio.

«Non torniamo a casa?» chiese lei provocatoriamente.

«Posso sequestrarla ancora per mezzora?»

«Devo fidarmi? Che intenzioni ha?»

«Le peggiori».

«Allora va bene. E poi oggi tocca a lei raccontarmi qualcosa…» e rise, guardando fuori nella campagna ancora verde.

Fece qualche chilometro a caso, la pianura non era certo il suo forte: le strade tutte uguali, nessuna cima, nessuna vallata a dare un po’ di orientamento, solo case di contadini, filari di vite e siepi ovunque. Passò Cavazzoli, poi vide sulla destra un grande noce e una specie di piazzola aperta fra due siepi alte di biancospino.

Katharine era bellissima: i capelli castani ondulati, la camicetta aperta un bottone di troppo, il foulard che copriva appena la scollatura. Ringraziò ancora l’impermeabile che copriva il suo desiderio.

«Eccoci. Cosa vuol sapere, sono una persona normale, banale…»

«Bugiardo. Bottazzi mi ha detto l’esatto contrario di lei. E poi, crede che avrei accettato un invito da una persona normale e banale? Ne vedo già tante…»

«Ventun anni, quasi ventidue, quasi laureato in lettere antiche, quasi ufficiale d’aeronautica, molti quasi…»

«Innamorato?» Sì di te, ora.

«Certo, io sono sempre innamorato!»

«Sul serio, non sfugga…»

«Quasi. Cioè, lo ero ma poi… non sempre tutto va come si vorrebbe.

E lei è innamorata?» contrattaccò.

«Non me lo posso permettere, non ancora, almeno».

«Ma suo marito?»

Scosse i capelli dalla fronte, riprese in mano gli occhiali scuri e con quelli picchiettò sul cruscotto mentre cercava una risposta.

«Sono grata a lui, gli voglio bene, ma innamorata no… sarei bugiarda se lo dicessi, e l’ultima cosa che voglio che vorrei è dover mentire ancora».

«Katharine, lei è…»

«Katharine? La sua ragazza si chiama così?»

Dario si sentì sprofondare:

«No, no… cioè, mi scusi, lo so che lei è Margherita, ma dalla prima volta che l’ho vista, anzi dalla seconda, da Bottazzi, per me lei è stata Katharine, come la Hepburn…»

La donna accusò il colpo: «Davvero? Grazie… è tanto che nessuno mi diceva una cosa così carina… e la prima volta, non le ero sembrata Katharine?»

«La prima volta al funerale l’ho vista solo mentre saliva in auto e… le ho visto solo le gambe».

«Ed erano da Katharine?»

«Sì…»

«Dario, lei è un ragazzo…» poi si fermò. Si rimise gli occhiali.

«Senta, facciamo un patto? Nostro…»

Qualunque cosa. Un patto, un giuramento, un rogito… qualunque cosa se solo avesse potuto toccarla, affondare il viso nei suoi capelli, baciarla sul collo.

«Io per lei, solo per lei, sarò Katharine, ma da lei voglio sempre la sincerità assoluta: nessuna reticenza, nessuna convenzione. Ho bisogno di una persona di cui fidarmi».

«Non tradirò mai i suoi spaventosi segreti…» rise nervoso.

«Non sono segreti… se glieli dirò, quando ci saranno, saranno i segreti di Katharine, di nessun altro, va bene?»

«Sì, va bene».

«Bene, adesso torniamo a casa altrimenti non rispondo di me e mi lancio su un bel ragazzo che mi piace davvero tanto…»

Campane, campanelli, trombe del giudizio, fischio di treno nelle orecchie, esplosione di un Te Deum di Händel.

«Sì, forse è meglio o anch’io…»

«Bene, abbiamo cominciato bene… anche se fra noi non succederà mai nulla, chiaro?»

«Sì».

 

Forse si sarebbe perso comunque in quelle stradine della bassa, ma la lucidità era evaporata, dissolta. Guidava e guardava la strada, ma l’unica cosa che sentiva era il suo profumo mentre le sbirciava le gambe di fianco a lui.

«Mi scusi, sono verwirrung, adesso prima o poi trovo la strada giusta…» disse all’ultimo bivio che imboccò. Poco prima di trovare finalmente la via Emilia Katharine chiese di fermarsi.

Si accostò e gli diede un bacio sulla guancia.

 

Tornò a casa e infilò per miracolo il portone del garage che non gli era mai sembrato così stretto. Scese e si tolse l’impermeabile. Era sudato fradicio. Aveva in mente Katharine, e solo lei, il suo sguardo. Il loro patto. Prese il fazzoletto per asciugarsi la fronte, quando si trovò in tasca l’accendino datogli da Furmìga. Celso. Bastavano dieci minuti a piedi, quattro passi per far passare quello stato di sudata eccitazione.

 

Venne ad aprire la madre, la signora Lia, piccola e minuta, i capelli grigi a crocchia, tutta in nero:

«Buongiorno… lei?»

«Sono Lamberti, Dario, cercavo Celso… mi scusi per l’orario».

«Il signor Lamberti, certo» gli strinse la mano, «la ringrazio tanto, è stato così gentile con Celso, l’ha accompagnato a casa. Venga, venga, lo chiamo subito…»

La madre lasciò Dario nell’ingresso, a fissare disattento le due specchiere e il quadro, una marina piuttosto brutta, appesi alle pareti.

«Dario! Ciao!» Celso era in pantofole e camicia.

«Scusa l’ora» s’era reso conto che era quasi l’una «passavo e volevo salutarti, come va?»

«Be’… un po’ meglio, sono arrivate tante condoglianze, fa piacere…»

«Certo, te l’avevo detto che comunque era stimato tuo padre…»

«Già…» e abbassò lo sguardo.

«Ah, poi, stavo per scordarmi… sono passato da San Prospero, ho fatto una visita al cimitero… poi sono tornato alla casa e un certo “Furmìga” mi ha detto di ridarvi questo…»

E mostrò l’accendino.

Celso lo guardò sorpreso:

«Cos’è?»

«Non era di tuo padre?»

«No, mai visto. E poi aveva smesso di fumare, dopo l’incidente il medico aveva detto che il fumo rovina la circolazione… ma aspetta. Mamma!»

Aspettò che la vedova rientrasse.

«Mamma, il babbo fumava? Aveva ripreso?»

«Perché?»

Dario le mostrò l’accendino.

«No, non è suo, cioè non era… e poi prima fumava i toscani, i „romanini” e li accendeva con dei fiammiferi da cucina. Mai avuto un accendino, da che mi ricordo».

Dario, imbarazzato, rimise in tasca l’oggetto.

«Si sarà sbagliato Furmìga!»

«Gliel’ha dato Crotti? Ah, be’, allora…»

«Perché?»

«Con Crotti non c’era… cioè, Crotti è sempre stato un sovversivo, avrà pensato… strano che non se lo sia tenuto!»

«Niente, scusate del disturbo…»

«Ma no, anzi! Vero Celso? Se vuol tornare… ci fa solo piacere, davvero…»

Celso lo accompagnò sulla scala:

«Scusala, è confusa…»

 

Fai del bene e finisce sempre così. S’era preso su di corsa per portare la reliquia alla famiglia affranta e aveva fatto quella bella figura. Un accendino qualunque, chissà dove l’aveva trovato Furmìga, il sovversivo. Chissà di chi era.

Arrivò a casa che la famiglia aveva già iniziato a pranzare, ma anche stavolta, anche se non l’avevano aspettato, il suo posto era libero, con tanto di piatto coperto: un’altra eccezione alla regola. Nelle chiacchiere a tavola avevano parlato delle solite cose: Guido e le sue ultime iniziative benefiche, Lilly e i suoi parenti sparsi e i cugini in guerra (naturalmente valorosi ufficiali al servizio di sua Maestà), il nonno che ascoltava, ora divertito ora infastidito, soprattutto dalle notizie sui cugini di Milano, quelli che stavano allegramente sperperando il loro ingente patrimonio.

Poi proprio Guido ruppe il ghiaccio: «E il nostro militare in licenza che fa di bello?»

«Sono stato a trovare Celso e la madre. L’avevo anche accompagnato a vedere il posto dove…»

«Dio che orrore!» squittì Lilly.

«Di fronte alla morte sarebbe meglio tacere». Chiuse il nonno, severo come sempre. E la conversazione morì lì, insieme a qualsiasi speranza di un dialogo sincero.

La Dorina servì una meravigliosa zuppa inglese. Chissà se si poteva ancora chiamarla così, senza stramaledirla. Finito il dolce, il nonno si alzò per il suo pisolino in poltrona, Lilly per prepararsi ad uscire con Bertoldi.

Rimasti soli, Dario, probabilmente ammorbidito dalle due fette di zuppa, si rivolse al fratello:

«Senti, ho conosciuto De Marchi. Che tipo è?»

Guido, come al solito, assunse la sua aria da „che noia questo qua che si occupa di cose di cui non capisce nulla“, poi con aria di sufficienza gli rispose:

«Poco da dire, ha un’impresa edile avviata, varie altre partecipazioni…»

«Anche lui ha fatto affari in Africa».

«Affari come tanti. È stata una bella opportunità, peccato sia finita».

«È andata peggio a Fontana, s’è rovinato…»

«Ma Fontana ha fatto il passo più lungo della gamba».

«E ci ha lasciato il piede!» Si vergognò un attimo della battuta crudele.

Guido si puliva i denti con lo stuzzicadenti. Bofonchiò:

«Non ci si va a mettere contro imprese di ben altre dimensioni, senza avere le coperture, qui e là…»

«E di Gagliardi che mi dici?»

«Ah, ma ti sei lanciato nel mondo degli affari…»

«No, ho conosciuto la moglie…»

Guido rise togliendosi l’ultimo pezzetto di verdura dai denti:

«Aah, adesso ti riconosco! La bellissima signora Gagliardi, molto fine, sì, molto fine…»

„Molto fine” Katharine! Molto fine! Solo un cefalo morto e putrefatto come Guido poteva definirla così, i suoi capelli, i suoi occhi, le sue gambe… Molto fine!

«Ma lascia perdere, è incorruttibile, e poi non si perde certo con un ragazzo di ventun anni…»

«Ti ho chiesto del marito».

«Gagliardi ha varie rappresentanze industriali: chimica, meccanica… ha un ufficio a Milano».

Sempre espansivo il fratello!

«Ma perché vive a Reggio… e da quando?»

«Sono fatti suoi, no? E poi sua moglie vive qui, lui è più il tempo che viaggia che quello che lo si vede in giro. S’è trasferito, aspetta… direi un paio di anni fa, sì, verso la primavera del ’39, s’era sposato da poco».

«Ma perché Reggio? E della moglie che ne sai?»

«Ma perché non lo chiedi al tuo amico, l’avvocato Bottazzi?»

«Non credevo fosse un segreto o che ti rompesse tanto i coglioni…»

Al solito, il solito Guido, la solita impossibilità di scambiarsi più di tre frasi di circostanza. Nessuna complicità, fiducia, confidenza. Mai.

«Non mi rompe, semplicemente tu vuoi sfruttare le mie informazioni di lavoro e questo non è corretto, per uno nella mia posizione…»

La posizione! Eccola la parola magica! La posizione, il ruolo, come a dire „io ce l’ho“, “io conto, tu…“

Dario si alzò, gettò il tovagliolo sul tavolo:

«Grazie».

 

Che testa di cazzo. Una testa di cazzo in famiglia. Sono disgrazie. Uno magari se ne dimentica, per sopravvivere, per non rodersi il fegato. Ma non serve: le teste di cazzo sono fiumi carsici. Spariscono, magari pensi siano andate ad annegare in mare e invece te le ritrovi lì, all’improvviso, a scorrerti accanto, a bagnarti, a sporcarti.

In fondo erano solo informazioni, banali, per capire qualcosa, per avere qualcosa di diverso da pensare in quelle poche giornate da passare a casa. Solo per non pensare a quel 23.260, via Settembrini 9 e tutto il resto. Non chiedeva tanto, in fondo, solo una via di fuga, fino a domenica.

«Signorino, la cercano al telefono…» Dorina lo fermò in mezzo al corridoio, mentre stava per entrare in camera asfogare la sua ira prendendo a calci quel che capitava.

 

«Dario, scusi se la disturbo, la lezione la facciamo domani alle 11, ma oggi volevo ricambiare la gita di stamattina. Non fraintenda, le voglio far conoscere una persona…»

Era lei.

«Sempre sinceri, no?»

«Certo. È il nostro patto…»

«Bene, allora con lei andrei anche in Russia, subito…»

Rise.

«Stavolta guido io, passi da me alle tre, va bene?»

«Alle tre».

Campanelle, e trombe. Fuori con Katharine!

 

Stava per uscire quando suonò di nuovo il telefono. Cazzo! Ci aveva ripensato! No, per fortuna:

«Sono De Marchi, come sta? Le ricordo l’invito per stasera… la passo a prendere, se si fa trovare alla Chiesa del Cristo… Va bene alle nove?»

L’invito di De Marchi! Non ne aveva nessuna voglia, ma magari, visto che Guido era stato così prodigo di notizie…

«Va bene alle nove al Cristo» rispose, senza pensarci troppo.

 

Lasciò la bicicletta vicino al grande cedro nel giardino. Katharine stava uscendo dal garage con l’Aprilia grigia:

«Bravo, puntuale… chiuda il cancello e salga pure».

«Dove mi porta?» Era salito e aveva subito notato i calzoni di Katharine, calzoni leggeri che nascondevano la bellezza delle sue gambe. Peccato.

«Andiamo a Scandiano, le faccio conoscere una persona che magari può sapere di Fontana, mi ha incuriosito, sa? Contro la noia di una signora per bene…»

«Che vuole essere per bene…»

«Che deve essere per bene».

Katharine sapeva guidare, questo era poco ma sicuro: accelerava con decisione, una marcia dietro l’altra. Al Buco del Signore era già a settanta allora: superò una Topolino poco prima della scuola, poi un carretto poche decine di metri dopo.

«Le piace correre?»

«Da matti! Sa, avrei voluto fare la Mille Miglia! Si immagina,  una donna! Eppure a casa in auto battevo sempre i miei fratelli, e poi sulle nostre strade di montagna… qui sembra di essere a Monza a paragone!»

«Ma chi è questa persona che conosceva Fontana?»

«Sarà una sorpresa, vedrà…»

 

Dario si aspettava un commerciante, peggio, uno squadrista. Per questo fu così sorpreso quando l’Aprilia si fermò davanti all’ingresso del Convento dei Cappuccini.

Guardò Katharine, gustava la sorpresa che leggeva nei suoi occhi:

«Qui?»

«Allora: andiamo a parlare con Padre Tranquillo, un cappuccino che è stato anche lui in Africa».

«E lei come lo conosce?»

«Se non ride glielo dico…»

Dario fece la faccia più compunta possibile.

«È il mio… padre spirituale».

Puff! In un baleno Dario vide i suoi sogni di lussuria svanire, immagini che si era cullato fino all’eccitazione (estatica e non) finire in mille pezzetti, dispersi dal vento di quella frase.

«Ah… capisco. Be‘…»

«Deluso, vero? Ma non mi stimi una persona troppo per bene, sbaglierebbe. In fondo sono qui con lei ora… e questo mi piace, molto».

«Purché non corra a confessarsi!»

Katharine sorrise e gli battè una pacca sul ginocchio:

«Prima bisognerebbe peccare…»

Il frate li aspettava. Il tipico fratone con saio, cordone, sandali. Oltre la cinquantina, a giudicare dal grigio dei capelli e della folta barba. Occhi chiarissimi, un naso deciso e una voce da attore, seria, profonda.

Dopo aver salutato Katharine guardò Dario, attentamente. «Ecco qui il giovane» disse. «La signora mi ha spiegato… venga». E gli indicò una porta a sinistra lì nell’ingresso.

«Vi aspetto in cappella…» disse Katharine, e lasciò soli.

La stanza era stretta e lunga: un tavolino, una piccola libreria, un crocifisso con una lucina accesa davanti, una stufa Becchi a dare tepore all’ambiente.

«Allora, Dario, mi dica».

Dario esitò per un momento. Non capiva come fosse possibile che si trovasse in quella situazione, era confuso. «Padre, sono imbarazzato, la signora Gagliardi sapeva che…»

«Si tratta di Fontana, povero figliolo…»

«Sì, lei lo conosceva?»

«L’ho conosciuto in ospedale ad Addis Abeba dopo l’incidente, una vittima di guerra in un certo senso. Vittima di quella guerra stupida».

«Perché stupida? Siamo andati a portare un po’ di ordine, no?»

«Lei ci crede?»

Già, ci credeva o l’aveva detto quasi in automatico? In realtà non si era mai preoccupato di avere un’idea in merito. Forse l’aveva detto solo perche pensava che fosse corretto farlo, in quella circostanza.

«Be’, le colonie anche noi potevamo averle, no?» Peggio che peggio.

«Se gli altri sono ladri, anche noi possiamo rubare?»

«Ma la Chiesa era d’accordo, si benedivano i labari in Chiesa…»

«E le piaceva?»

«No».

«Ecco, bravo. Così va meglio. Ma non mi prenda troppo sul serio, eh, sono un frate da poco…infatti mi hanno rispedito a casa. Sono un po’… in punizione».

«Perché?» Quel frate cominciava ad essergli simpatico, già. Avevano qualcosa in comune.

«Perché mi son permesso di dire che il Vangelo non si porta sulle baionette. E poi a chi lo portavamo? A dei selvaggi, come dicevano? In Abissinia c’è la Chiesa copta, cristiani come noi, antichi quanto la chiesa di Roma o quasi. E li abbiamo massacrati».

«Noi?»

«Nel ‘37, dopo l’attentato a Graziani, hanno scatenato la caccia all’uomo: gli squadristi con le mazze per le strade a caccia dei negri. Hanno fucilato anche tutti i monaci di un monastero… portar la fede?»

«Ma non ne abbiamo saputo niente…»

«Ragazzo mio! Voi non saprete mai niente… gente uccisa chissà come, ho visto vecchi arrivare in ospedale bruciati e gonfi come otri! Mi hanno rimpatriato e devo dire grazie! Troppo dolore anche per me, che ormai ne ho viste… ero sul Carso nel diciassette…»

Ora qualcosa intuiva. Il professor Marchetti in classe, le sue parole… non aveva capito niente.

«Comunque, lei è venuto per Fontana… e i suoi amici…»

«Amici?»

«Sì, i quattro di Gondar, quelli di Reggio, erano conosciuti, diciamo così. Li ho incontrati quando vennero a trovare il poveretto in ospedale». Poi il frate si interruppe di colpo. «Le offro un goccio di alchermes». Si alzò, aprì la vetrinetta sotto la libreria e mise sul tavolino la bottiglia con due bicchierini.

«Uno morì poco dopo, lo rividi all’obitorio e poi al funerale. Pigoni si chiamava…»

«Sì, e poi c’erano Iotti e De Marchi».

«Sì, loro…»

Il frate riempì di nuovo il bicchiere a Dario.

«Là ho conosciuto anche il marito della signora».

«Gagliardi era là con loro?»

«Credo li abbia incontrati là… affari».

«Scusi, ma non sembra averne un buon ricordo».

«Per molti, troppi, l’Africa è stata una specie di… libera uscita, o peggio, non so se capisce…»

«Cioè?»

«Padroni assoluti, le leggi che non esistono se non per gli altri, i servi. Come se fossero cose, animali a disposizione».

«Mi fa pensare male…»

«Era peggio».

Prese coraggio:

«Ma solo affari poco puliti, o… anche, altro?»

«Lei ancora non è stato al fronte, e non glielo auguro, ma almeno al fronte qualche regola resta. Là era la completa anarchia morale, ecco, diciamo così».

«Ma tutta quella gente che è andata là a lavorare?»

«Non mi capisca male, c’era di tutto, bravissime persone, con le famiglie: lavoratori veri, gente che voleva farsi una vita decente dopo la miseria di casa nostra, ma c’era anche…»

«Chi se ne approfittava».

«Diciamo così».

«E i quattro?»

«Veda lei, caro ragazzo…»

 

Il frate li salutò con un cenno di benedizione. Dario e Katharine uscirono e salirono in auto. Dario non aveva mai sentito un alchermes con un gusto così amaro, eppure era lo stesso che bagnava i biscotti savoiardi della zuppa inglese di Dorina. Ma non era il liquore del frate ad essere scadente. Erano le parole reticenti, forse per misericordia, forse per vergogna, di quello strano fra Cristoforo di Scandiano.

«È stato utile?» chiese Katharine a metà del viaggio, forse solo per interrompere il silenzio.

«Lei cosa sa di suo marito in Abissinia?»

«È stato là quasi due anni, a varie riprese. Le sue ditte avevano degli appalti, qualcosa di simile».

«Ed è stato lì che ha conosciuto De Marchi e Fontana?»

«Sì, gliel’ho detto…»

«Lei quando l’ha sposato?»

«A marzo del 1939. Poi lui è tornato in luglio e nell’estate eravamo qui a Reggio».

«Perché Reggio, se suo marito ha un ufficio a Milano?»

«Ha trovato l’occasione di casa nostra. Bella, no? Allora lui sapeva che io volevo star lontana da Milano,  e Reggio è una piccola città tranquilla…»

 

Stavolta non c’era stata neppure una carezza a salutarlo. Katharine gli aveva ricordato l’appuntamento delle 11 il giorno dopo ed era salita subito in casa. Ormai era buio e Dario riprese la bicicletta verso casa. Alle nove aveva l’appuntamento con De Marchi, anche se non ne aveva nessuna voglia.

„Anarchia morale“, l’aveva chiamata così padre Tranquillo, e la prima cosa che gli era venuta in mente era stato il suo Conrad: «L’orrore, l’orrore» di quel Kurtz che aveva risalito troppo il Congo: Africa, in fondo, come l’Abissinia.

 

Per un momento aveva pensato di presentarsi in divisa, poi aveva scelto la solita mise da serata, non sapeva neppure dove sarebbe andato o a far che. Si era semplicemente sbarbato una seconda volta, dopo una doccia veloce. E alle nove in punto era davanti alla Chiesa del Cristo. Salì i due gradini per ripararsi dalla pioggerella che s’era messa a scendere, una pioggerella che quasi impediva anche di vedere, spenti la gran parte dei lampioni e azzurrati quei pochi lasciati accesi. Passò solo un’auto prima che, dieci minuti dopo, si fermasse una clamorosa Alfa Romeo turchese, una 2500. Bellissima, ruote a raggi, slanciata, una roba da più di cento cavalli. De Marchi lampeggiò accostando al marciapiede, aprì la portiera del passeggero e Dario salì.

«Complimenti, bellissima auto…» fu la prima cosa che riuscì a dire.

«Ha gusto, Lamberti. Sì, è un vizio che mi sono concesso… si lavora tanto, almeno quando ci si diverte bisogna farlo bene, no?»

Era un motore incredibile, potente e silenzioso. Altro che la sua Balilla. Il cambio, poi! Un ingranaggio perfetto, De Marchi inseriva una marcia dopo l’altra con un click secco e preciso.

A porta Castello De Marchi svoltarono sui viali a sinistra, ma solo per fermarsi cento metri dopo, davanti all’Isola Maddalena. Ancora un lampeggio dei fari e dalla locanda uscì un uomo alto, massiccio, che Dario, sceso dall’auto, fece salire sul sedile posteriore dell’auto. De Marchi fece una rapida presentazione, senza neppure la classica stretta di mano fra i due. Umberto Iotti, detto „Quartàsa“, la sigaretta in bocca, si sedette dietro e l’Alfa ripartì.

«Spegni la sigaretta che mi bruci la tappezzeria!» gli fece subito De Marchi. «Lei quando riparte, Lamberti?» chiese poi.

«Lunedì devo essere a Cameri…»

«Bene, allora si diverta finchè può. Lei è giovane, stasera stia su e non pensi ad altro che al divertimento…»

«Ma dove mi porta?»

«Niente di speciale: diciamo una cosa più allegra dell’altra sera dalla signora Gagliardi, le basta?»

Quell’Alfa era un vero portento e Dario era troppo estasiato dalla velocità e dalla tenuta di strada per pensare ad altro. Sul rettilineo di Coviolo erano ai centoventi. Passarono il paese, buio e deserto, ai cento e più, poi girarono verso San Rigo, poi per una strada bianca. Si fermarono nel cortile inghiaiato di una villetta a due piani, stile liberty, nascosta in mezzo ad abeti e due grandi quercie. Le finestre erano tutte illuminate dietro alle schermature dell‘oscuramento.

Scesero, e De Marchi fece strada. Prima ancora di bussare la porta si aprì, e una signora sulla trentina, abito lungo, una treccia bionda, li accolse:

«Rico, Iotti, e…»

«Cara Lea, ti presento il professor Lamberti».

«Quasi professore…» e strinse la mano alla donna, che lo guardò sorridendo. Aveva occhi scuri sotto il trucco forse troppo pesante.

«Venite…»

Una cameriera in nero prese la loro roba ed entrarono nella sala dove c’erano già alcune persone. Dalla stanza di fianco arrivava la musica ad alto volume e il fumo di sigaretta, sparso dagli ospiti seduti a conversare su divani e poltrone rivolti verso il caminetto acceso.

«Venga, professore, le presento qualche amica…» La signora Lea lo prese sottobraccio e lo fece passare nella stanza attigua, dove tre coppie stavano ballando al suono del Tango delle capinere.  Lea fece un cenno e si avvicinò a una ragazza sui venticinque anni, anche lei in lungo:

«Questa è Titti… ma dov’è…?» e si guardò ancora in giro. Vide quello che le interessava e spostò l’attenzione di Dario:

«Venga».

Stavolta le campanelle che udì assomigliavano a canne d’organo suonate all’unisono in una cattedrale deserta. Solo per lui.

«Giorgia, questo è il professor Lamberti, il nostro giovane ospite…»

Caschetto nero alla Louise Brooks, occhi azzurro scuro, ciglia lunghissime, spalle bianche lasciate scoperte da un’abito rosso, attillato e quasi trasparente, corto fino al ginocchio.

«Piacere…» Non sapeva dove mettere gli occhi o cosa dire.

«Vi lascio…»

Giorgia lo portò al tavolino del buffet e gli offrì una coppa di spumante:

«Un professore così giovane… ma professore di cosa?»

«Quasi professore, mi manca la tesi… comunque di lettere antiche, anche se ora sono sotto le armi».

«Esercito?»

«No, aviazione…»

«Aviazione! Perché non è venuto in divisa? A me le divise fanno un effetto… quelle dell’aeronautica, poi! Dev’essere bellissimo!» E sorrise: aveva anche denti bellissimi, piccoli,  regolari, ma avrebbe potuto averne anche soltanto sei o dodici: per le canne d’organo che Dario si sentiva risuonare dentro non sarebbe cambiato molto.

«Vuol ballare?» Sul giradischi avevano messo un lento e, non a caso, qualche luce era stata spenta.

Appena sfiorandola il concerto d’organo divenne una sarabanda, una sinfonia. La ragazza scherzava su questo o quell’altro signore nella stanza, che pure Dario non conosceva, gli sussurrava nell’orecchio, ne raccoglieva la risposta divertita e poi affondava il viso nella sua spalla e sospirava appena.

«Dario, lo sai che sei molto carino?» si sentì dire appena prima della fine della musica, quando le luci si riaccesero tutte.

Lui riuscì appena a ricambiare con un: «Anche tu, davvero…» prima che De Marchi gli venisse incontro:

«Ti rubo un’attimo il professore…»

Odioso, anche se con la sua Alfa turchese!

«Si diverte? Bel bocconcino Giorgia, vero? È la figlia di un mio caro amico, una ragazza…» e concluse la frase con una strizzata d’occhi che non era proprio il massimo dell’eleganza.

«Venga, devo presentarle un altra persona». Andarono incontro a un uomo sulla cinquantina, opulento, naso affilato, i capelli imbrillantinati, pettinati all’indietro, l‘abito scuro e la cimice all’occhiello.

«Camerata… il professor Lamberti Dario… il vice segretario federale Vianello.»

Stretta granitica dell’omone, che subito proruppe: «Eccolo qua, il piccolo di casa Lamberti! Piccolo non direi, a dire il vero, un uomo dei nostri, dei migliori… sa che non assomiglia per nulla a suo fratello, il buon Guido?» Fascista:stretta granitica, troppa brillantina. Ma non gli stava troppo antipatico. Anche un cobra, che non gli avesse parlato subito e bene di Guido, sarebbe stato quasi accettabile.

«Indovini chi mi ha parlato di lei un paio di giorni fa? Un suo nemico!» e rise mostrando due denti d’oro.

«Finasi! Il caro Ubaldo, sempre lì a scrivere, a pensare…»

«Sì, abbiamo avuto qualche disaccordo, ma è passata…» cercò di svicolare.

«Disaccordo! Un bel cazzotto sul muso! Così si fa, Lamberti: roba da uomini, mica da pederasti! Da veri camerati…e poi lei ha messo la testa a posto! Militare, ufficiale… bell’esempio: lei mi piace, Lamberti! Quando ha bisogno, si ricordi, venga in federazione! I tempi si faranno duri e ci vogliono uomini con i maroni… capisce?»

Be’, in quanto a quello poteva star tranquillo, ma gli veniva da ridere. Riabilitato dal cazzotto a Finasi! La famiglia quasi lo disconosceva e invece eccolo lì, elevato al rango di vero maschio italico che risolve i suoi problemi a cazzotti sul muso. Quello di Finasi poi, «sempre lì a scrivere, a pensare». Dalle stalle alle stelle, mica male.

«La ringrazio…» e qui gli partì una parola di cui si sarebbe vergognato almeno per i successivi venticinque anni «… camerata, la ringrazio».

Una nuova granitica stretta di mano, con tanto di semicazzotto (più che pacca virile) sulla spalla, sancì questa specie di nuova amicizia.

«Venga a trovarmi, eh, non si dimentichi!» si raccomandò, prima di girarsi verso la signora Lea per chiederle qualcosa.

Dov’era Giorgia? Temette per un attimo di vederla ballare con un altro e di dover aspettare il suo turno, invece se la trovò alle spalle all’improvviso:

«Allora, ossequiata l’autorità?»

«Me l’ha presentato De Marchi…» rispose, quasi a scusarsi.

«Non ti preoccupare, bisogna essere educati. Balliamo ancora?»

E tornarono insieme nell’altra stanza. La riprese fra le braccia per un lento e poi per un valzer. Ballare non gli era mai piaciuto, aveva sempre avuto consapevolezza della sua innata goffaggine, ma stavolta si sentiva come Fred Astaire e Ginger Rogers insieme. Solo per un istante si chiese il perché di quella sua tendenza a innamorarsi di colpo di ogni donna con cui aveva a che fare, come un cagnetto in cerca di un padrone, pronto a leccare la prima mano che si trovava davanti, a patto che fosse bella, tenera e bianca. Ma fu solo un istante, poi si lasciò prendere dal ballo.

Dopo il terzo giro si fermarono e tornarono a bere. Vicini a loro, al buffet, c‘erano un tizio in giacca bianca insieme alla ragazza di nome Titti, con la sua cascata di capelli e Iotti, con un’altra fanciulla più piccola ma molto curvilinea, capelli rosso tiziano.

«Lamberti… si diverte?» gli fece Quartàsa. Era veramente grosso, quattro dita più alto di lui ma largo forse il doppio. Un fisico da lottatore: peli dappertutto, sopracciglia folte, capelli a spazzola, il collo che s’infilava a malapena nel colletto della camicia.

«Sì, bella serata…» disse imbarazzato. E istintivamente si strinse al braccio di Giorgia, che ricambiò la stretta.

Iotti estrasse il portasigarette: «Qualcuno mi fa accendere?»

Ci sono momenti in cui il genio, nascosto, latente, magari ignoto, emerge di colpo. Quella fu la volta di Dario. Si mise la mano in tasca ed estrasse l’accendino di Furmiga:

«Ecco, prego…»

Quartàsa non riuscì a trattenere, anche se a mezza voce, una bestemmia da carrettiere padano di rara potenza: «Dio… ma è il mio…»

Dario sorrise soddisfatto:

«Ah, ecco, deve esserle caduto mentre saliva in auto. Sa, prima l’ho trovato in terra, davanti…»

«E io che pensavo di averlo perso! Era in macchina, ecco! Grazie, Lamberto, grazie…»

«Lamberti, Lamberti…»

«Mi scusi, sì, certo, professore…»

Giorgia tratteneva il riso nascondendosi dietro a Dario. Appena Iotti e la piccoletta tonda si allontanarono, gli disse:

«Gli hai fatto uno scherzo, eh, a quel bestione, lì…»

«Sì, un bello scherzo».

 

Uscirono sul terrazzino per prendere una boccata d’aria. Piovigginava ancora e le goccioline si fermarono appena sulla frangetta di Giorgia. Dario la strinse a sé e la baciò. Lei ricambiò. Solo allora si accorse che era alta, un po‘ più alta di Gio’.

Rientrarono in sala e lei lo prese per la mano: «Vieni». Dalla saletta dove si ballava tornarono nell’ingresso dove la scala portava al piano superiore. Salirono insieme.

 

Il patto di Katharine_Capitolo 3_

22 ottobre, mercoledì 

Stavolta non fu il cognac a farlo svegliare: la luce arrivò adagio dopo un perfetto, massacrante, riepilogo onirico della giornata precedente, degnamente concluso con l’incontro con il duo fratello-(quasi) cognato.

Rimase lì un po’, sotto le coperte, a sentire le auto passare in strada, i carretti, la Dorina ciabattare nel corridoio. Povera Lilly! Bertoldi, Lilly Bertoldi! Gennaio 1942, le nozze! Doveva farsi mandare in missione: bombardare Mosca in solitaria su un biplano, piuttosto che trovarsi in San Pietro – perché Bertoldi si sposava in San Pietro, sicuro – alla cerimonia. Magari in divisa, con fascia e sciabola al fianco. Brrrr. Meglio la steppa e i rossi che ti rosolano in un‘isba… E poi, sposarsi in gennaio? Roba da pesce lesso. Guido si sarebbe sposato in gennaio, magari in febbraio. Poco ma sicuro.

Lui no. Quando l’aveva detto a Gio’ prima di partire era giugno, erano a Montericco, alla Madonna dell’Uliveto. «Sposiamoci, poi parto». Non l’aveva preso sul serio, s’era messa a ridere. Uno scherzo, aveva pensato. La frase dopo era stata ancora più romantica, detta da uno come lui:  «Vedo nei tuoi occhi gli occhi dei miei figli».

Bum. Bravo. Si tirò il lenzuolo sulla faccia. Un eroico imboscato non piange mai, nemmeno sotto le coperte.

 

«Signorino! La cercano al telefono!» Dorina aveva bussato discretamente, proprio come faceva una volta, verso le sette, per tirarlo giù dal letto, per la scuola. E poi quel “signorino!”, una delizia da sentire in quel momento.

«Buongiorno, sono Rita, l’ho svegliata?»

«Buongiorno. No, magari… mi stavo radendo».

«Avevamo detto di vederci, stamattina, può andare?»

«Bene, dove e quando, sono ai suoi ordini…»

«Uhh, un militare obbediente, bene! Può venire da me alle 11, via della Racchetta 24, la villetta con l’edera».

«Ci sarò, a dopo…»

 

Definire quella abitazione “villetta con l’edera” era un bel tentativo di untertreibung, tanto per stare in tema con la lezione. Era villa Vannucci, uno splendido edificio in stile liberty: le torrette, le cuspidi, la fontana con l’elefante in cortile. Giardino, anzi quasi parco, ortensie, cespugli, scalinate. Casetta del custode all’ingresso. L’edera c’era sul muretto d’ingresso, intorno al cancello massiccio, in ferro battuto (niente ferro al patria, per chi poteva).

Katharine (in effetti la somiglianza era davvero notevole, stessa aria snob ed elegante) lo vide scendere dalla bici e gli venne incontro, aprendo il cancelletto pedonale. Calzoni grigi, camicetta bianca, filo di perle.

«Non male anche in borghese…» lo squadrò.

«Anche lei, niente male in borghese…»

«Ahh, non scherzi, posso sempre mettermi la divisa da crocerossina, sono una brava italiana anch’io!»

«Non ne dubito…»

La casa era elegante ma ancora mezza vuota, come se un trasloco fosse rimasto a metà e alcuni mobili equadri, fossero già arrivati, mentre altri oggetti aspettavano in qualche cassa di trovare posto. C’erano alcuni segni evidenti di mobili mancanti, di quadri appesi e non più presenti.

Rita gli offrì il caffè in un salottino con un finestrone ad arco sul giardino.

Domande banali: cosa fa una signora a Reggio per passare il tempo. Incontra, fa chiacchiere, gioca con le amiche al circolo. Beneficenza. Compra cose, arreda casa.

«Lei mi crede proprio una persona inutile, vero?»

«Non mi permetterei…»

«Non mi interessa molto quello che la gente pensa. In realtà c’è qualcosa che mi piace, mi segua».

Per un istante Dario pensò “adesso andiamo a letto”. Invece salirono due piani di scale e arrivarono in quella che, vista da fuori, doveva essere la torretta merlata. Katharine lo fece entrare. Era lo studio di una pittrice: quadri, cavalletti, un ampio velo color crema contro la finestra a filtrare la luce.

Dario si guardò in giro. Sorpreso ma anche felice, in qualche modo: quella donna era brava. Brava! Vedeva cose che gli piacevano, disegni a pastello, visi, acquerelli. Un tratto geniale. Semplice, ma geniale.

Girava e guardava, si spostava appena e tornava sul disegno visto prima, poi su quello successivo. Prese un piccolo cartone e lo sollevò ad altezza degli occhi. Un panorama delle sue montagne, colori chiarissimi, la vibrazione di quella luce che lui conosceva.

Non disse nulla, non ci riusciva.

«Oh, mio Dio, l’ho spaventata!»

Era bello essere lì. C’era bellezza, ovunque: Katharine, i quadri, quel luogo.

«Grazie» riuscì a dire, e s’accorse di avere un groppo in gola.

Poi, di fronte allo sguardo dolce di lei, riuscì appena a confermare:

«Lei è brava, è…  davvero brava». Cazzo, non avere un’altra espressione, non trovarla!

Sorrise:

«Lo so. Mi piace condividerlo con qualcuno».

«Ma perché…»

«Sì, lo so, adesso mi chiederà perché non faccio mostre, perché non mi faccio conoscere, e così via…»

«Sì».

«Perché la mia vita è un romanzo!» rise forte, forse troppo, e Dario non potè non sentire quasi una flessione in quella risata.

«Mi piacciono i romanzi, i racconti».

La donna si sedette su uno sgabello e Dario rimase in giro fra i quadri.

«Un romanzo, una storiella che, magari… lei non mi conosce, quindi posso raccontargliela…»

«Sono un passante occasionale…»

«Romanzetto da poco… una ragazza di buona e nobile famiglia, Trentino, che ha ereditato dal nonno – un pittore macchiaiolo – il gusto di disegnare. Educazione commeil faut, collegio, scuole, tanto ci sono i fratelli per gli affari di famiglia, ma poi a un certo punto l’amour, l’amour fou, anzi der töricht Liebe, giusto? Lui è un artista, un professore, vent’anni più grande, due figli. Follia. La cosa viene fuori, scoppia il solito scandalo, e poi la fuga, insieme, a Vienna».

«Non è una storia a lieto fine, immagino…»

«Dipende come sempre dai punti di vista. Ci voleva coraggio o follia, e a ventidue anni se ne ha ancoradi entrambi… ma non abbastanza».

«Temo il finale…»

«Normale, banale: niente lame, coltelli o veronal!

Una giovane pittrice che si sveglia un mattino a Vienna da sola… nemmeno la lettera sul cuscino…»

«E il grande artista? Tornato dalla mogliettina, la coda fra le gambe…?»

«Caro Dario, se ti mettono dietro la questura, la chiesa, il partito, l’università, la madre o chissà chi altro… quasi non lo biasimo, si può essere grandi artisti ma piccoli uomini, bravi maschi ma kleinen Männer».

«Immagino. Non sono mai stato un artista».

«Chissà, però i miei lavori l’hanno colpita…»

«Molto, dico sul serio.

E poi, da Vienna a Reggio?»

«Sono tornata, varie cose… e questo non me lo perdonerò… cioè, comunque…»

«Tornata e sposata…»

Katharine si accese una sigaretta e appoggiò l’accendino d’oro fra i tubetti di colore ad olio. Si alzò e si mise di spalle a Dario, guardando la tela più grande che era nella stanza. Una esplosione di colori su un muro bianco.

«La prospettiva era di passare dieci anni nell’avito maniero di famiglia a seguire le vendemmie e la raccolta delle mele, magari trovarmi un qualche ragazzotto nobile di campagna e fare quattro o cinque pargoli… poi è arrivato Germano: tranquillo, educato, colto, è una buona persona, davvero. Ci siamo sposati per procura mentre lui era già ad Addis Abeba…»

«Non l’ha raggiunto?»

«Un’altra fuga?» e rise di gusto. «Vienna ancora, eccome, ma Addis Abeba! E poi lui vive di affari, gli serviva una moglie per…»

«Rappresentanza».

«No. Non dica così. Io devo molto a Germano».

«E Reggio?»

«Aveva affari anche qui, poi là si era messo in società con dei reggiani, attraverso loro ha comperato questa casa. Io sono venuta qui, libera, finalmente! Una signora, rispettabile, libera… e ho ripreso a fare quello che so fare: una snob con hobbies un po’ vuoti e decadenti. Ma libera».

«Suo marito non vive qui?»

«Quando c’è, ma lui ha varie rappresentanze industriali importanti, ed è all’estero duecento giorni all’anno, anche se ora con la guerra… comunque ha un ufficio anche a Milano. Del resto queste lezioni di tedesco servono proprio,perché vorrei accompagnarlo a Monaco la prossima settimana e non mi va di fare la figura della mogliettina bella e scema con le altre signore…»

«Scema no di certo, bella di sicuro…» e si trattenne dall’avvicinarsi.

«Come mai al funerale, ieri?» un elemento del racconto lo aveva incuriosito.

«Fra i compiti della brava moglie c’è anche la rappresentanza, no? Fontana era uno di quelli in affari con mio marito… Tranne loro non conoscevo nessuno. Be’, Bottazzi a parte…»

«Bottazzi come l’ha conosciuto?»

«Credo d’averlo sempre conosciuto! Ora che ci penso non saprei dire, è una persona che uno si trova a fianco e…»

«Ed è come ci fosse sempre stata. Conosco la sensazione, anche se per me è diverso, lui c’è sempre stato davvero, era coetaneo dei miei genitori».

Katharine guardò l’orologio al polso, un orologio maschile, un cronometro.

«Mezzogiorno passato, torno al mio ruolo di signora inutile! Vado a prendere un aperitivo al Circolo… la lezione è finita!»

«Be’, come lezione…» Dario si alzò, accostandosi i lembi della giacca.

«Dovevamo conoscerci un po’, no? Domani mi racconterà di lei, giovane scapestrato della borghesia reggiana…»

«Non sono mai scappato a Vienna».

«Ma a Trieste, sì…» Bottazzi aveva raccontato anche quello!

Vide la faccia di Dario e gli si fece vicina, gli mise una mano sul braccio:

«Non si preoccupi, siamo fra amici… anzi, senta, perché non torna stasera, dopocena? Vengono alcune persone, un po’ di musica, chiacchiere, mi fa compagnia? È una tal noia… non dica di no».

 

Uscì dalla villa-con-l’edera ed era confuso. Piacevolmente, eccitatamente confuso, ma confuso. Aveva respirato quell’aria di bellezza, anche troppa. Le immagini, lei, quel luogo… Era arrivato là con la mezza idea di un’avventura, quella di iniziare a giocare la partita a cui Bottazzi l’aveva indirizzato. Invece non c’era stata nessuna partita, solo Katharine aveva giocato e lui era stato a guardare. In nessun momento aveva avuto la possibilità di far qualcosa per conquistare un piccolo spazio. Facile prendersi e spogliarsi, saltare in un letto e lasciarsi andare con quella dolcezza feroce che conosceva. Gli occhi di Gio’, le sue mani. Il suo silenzio. Era stato forse troppo facile. Erano arrivati in cima senza costruire niente, sotto. Un ponte senza basi, scivolato via con la prima piena. Avevano scambiato la fine con il principio. Avevano dato tutto per scontato. E non lo era.

Perché allora quel senso di vuoto ora, passando davanti a casa sua, dove l’aveva accompagnata tante volte, stando con lei appena dentro al portone a baciarsi, in piedi? Perché il vuoto se non fosse stato importante?

 

La salsina verde sul manzo lessato era la solita, meravigliosa, di Dorina. E dire che alla mensa ufficiali non mancava nulla, pranzi da scoppiare e vino pure riservato, ma quella era casa e una casa anche migliore, visto che il nonno era di buon umore e Guido era a Bologna per lavoro.

Solo Lilly ebbe una piccola smorfia, il massimo che le riuscisse di esprimere in termini di disapprovazione, quando sentì nominare la signora Gagliardi:

«Lezioni di tedesco… quella lì?»

«Perché? Va con il marito in Germania e vuole rinfrescare un po’ la lingua…»

Il nonno li guardò sorridendo:

«Dedo, attento ai mariti…» un’espressione quasi scherzosa, inattesa nel suo stile.

«Sono un ufficiale, cioè quasi…»

«A proposito, ti ha cercato Celso, chiamalo, non ti dimenticare!» chiuse Lilly.

Fine dello scontro. Perfetto stile Lamberti. Magari dopo, forse, Lilly lo avrebbe preso da parte e avrebbe chiesto altro, ma il pranzo era la sede ufficiale della famiglia e, nonostante l’assenza di Guido rendesse l’ambiente meno curiale, nulla poteva essere messo intorno a quel tavolo. Con il rischio di essere ancora più formali del nonno che, così era sembrato a Dario, magari qualche domanda l’avrebbe fatta volentieri al nipote.

 

Sulla sua scrivania una busta. Gio’. Non l’aprì. Se la mise nella tasca della giacca, prese il caffè e andò da Celso.

La famiglia Fontana non aveva una “villa con l’edera” ma non abitava certo in un tugurio. Via Emilia all’Angelo, quasi a porta Santo Stefano, lì a destra nella laterale. Suonò e il portone si aprì. Androne e scale lucide, un cortile piccolo e lastricato. Celso gli venne incontro per le scale.

«Scusami, Dario, ma volevo vederti…»

Il ragazzo lo fermò sul pianerottolo, prima di entrare:

«È che ho convinto lo zio Rico a portarmi a San Prospero e volevo venissi: non so se ho il coraggio…»

«A San Prospero?» per un istante aveva scordato le modalità della morte del padre.

«Sì a casa dei nonni, sai…»

La casa del suicidio. Bell’idea! Un figlio che va a vedere dove il padre… Poi però la cosa gli sembrò improvvisamente eccitante. Sempre meglio che mettersi a leggere quella lettera che aveva in tasca e dare il via ad un’altra autogeremiade. Meglio la casa dell’impiccato!

 

Celso entrò solo per mettersi un giaccone e tornò da Dario con un uomo alto, le spalle larghe, i capelli scuri tirati indietro.

«Dario, Americo, lo zio Rico…»

«Piacere, Americo De Marchi» e gli strinse con forza, vera forza, la mano.

Viaggiarono sull’Ardea dello zio Rico, Celso a fianco e lui dietro. Nello specchietto ogni tanto incrociava gli occhi di De Marchi che parlava con Celso, con voce calma e piana. Aveva una bella voce, da baritono forse, e mani curate. Le vedeva prendere il volante e passarlo nelle curve, scendere al cambio. Un uomo elegante, come non si sarebbe aspettato da un geometra partito per costruire le nuove colonie imperiali.

La casa era poco oltre il cimitero di San Prospero, in piena campagna. Una costruzione tipica di quelle reggiane, la porta „morta» in mezzo, a destra l’abitazione, a sinistra la stalla. E intorno alla casa un gran via vai, carri, carretti, anche un trattore con rimorchio, contadini che andavano e venivano. La vendemmia in pieno corso. Per non intralciare quel traffico operoso lasciarono l’auto sulla strada e scesero, i due davanti e Dario dietro. Al loro arrivo nell’aia tutto si fermò per un istante, i contadini lasciarono le cassette a terra, qualcuno spense il motore del trattore. Poi dal gruppo si staccò un uomo di mezza età, si tolse il cappello e tenendolo in mano si avvicinò a Celso, gli mormorò qualcosa, gli tese la mano. Condoglianze.

Poi lo zio Rico fece un cenno e tutto riprese. Il trattore ripartì e loro tre entrarono in casa.

«Celso ha voluto, ma io non credo…»

«No, zio, sono grande, volevo, voglio vedere».

«Come vuoi. Lei, Dario, che dice?»

Voleva sapere? Che sapesse, quello che non si sa non esiste, quello che si sa non ci lascia mai. Celso aveva scelto.

«Celso, sapere forse è meglio che arrovellarsi, anche se…»

«Comunque non c’è molto da sapere, povero Ottavio. Venite…»

E senza dir nulla lo seguirono, uscirono dalla la cucina e salirono le scale, strette, di mattoni lisci, le pareti segnate e un po’ sudice.

Arrivarono alle stanze da letto, una a destra e una sinistra.

«Qui?» chiese Celso.

«No» e lo zio indicò la parete di fronte dove, con una scaletta di legno, quattro scalini, si saliva nel solaio. Quattro scalini sbrecciati in una scaletta di legno povero, di pioppo. Lo zio fece strada e, uno alla volta, salirono nella stanza. La luce era solo quella che entrava dai piccoli abbaini e dalle fessure fra le tegole. Era un solaio ma molto alto, era la porzione di casa in corrispondenza del portico, un luogo fresco dove si conservava il frumento per la famiglia, la frutta. A destra, infatti, c‘era un ripiano coperto di noci e mele.

Poi, senza ancora aver detto una parola, il loro sguardo si alzò verso la trave centrale. Cazzo. Almeno potevano togliere quel mozzicone di fune che penzolava ancora, tagliata, ma ancora minacciosa. Celso si attaccò a Dario e, lentamente, scivolò a terra, come un telo lasciato cadere all’improvviso. Dario riuscì solo a frenare la sua discesa, ma finendo anche lui in ginocchio con l’amico mezzo abbracciato addosso.

«Dio…» sentì solo l’imprecazione dello zio.

I due uomini, entrambi inginocchiati ora, misero a sedere Celso. Americo gli passò una mano fra i capelli, con un gesto affettuoso:

«Su, Celso, dai…»

Aspettarono qualche istante, poi lo sollevarono: «Ce la fai?» chiese Dario e Celso gli fece cenno, quasi a occhi chiusi. Tenendolo quasi per mano ridiscesero la scaletta, Dario quasi mancò l’ultimo scalino che scricchiolò sonoro.

Tornarono in cucina, Celso si sedette al tavolo e lo zio gli portò un bicchiere d’acqua:

«Stai meglio? Te l’avevo detto, a cosa serve?»

 

Il ritorno fu breve, l’auto andava veloce e Dario chiese di scendere, con Celso, a Porta Santo Stefano: «Facciamo due passi…» Lo zio annuì con uno sguardo d’intesa e accostò, lì vicino al giardinetto, di fronte alla pompa di benzina.

Dario prese sottobraccio l’amico e imboccarono la via Emilia. Poco dopo la chiesa entrarono in un caffè, il primo sulla destra.

Ordinò due cognac.

«Io volevo sapere…» disse il ragazzo dopo un primo, brevissimo, sorso.

«Ti capisco, però adesso devi andare avanti, sono colpi duri ma devi andare avanti».

Banalità assolute, ma con un cognac in mano alle cinque di sera, cosa si poteva dire a un figlio che ha appena visto dove il padre s’è impiccato?

«Ma perché, perché? E poi perché lì? Mio padre aveva tanti posti, il magazzino, l’altra casa, cioè, no…»

«Quando si arriva a certi punti di disperazione, la logica…»

«No, non è vero, ecco, no, c’è una logica… sì una logica… l’ha fatto là, lo so perché…»

Oddio, adesso l’alcool funziona, magari straparla un po’ ma poi passa, magari gli fa bene.

Celso prese la mano di Dario e lo guardò con gli occhi aperti, quasi spalancati.

«Ormai aveva perso tutto: il magazzino, l’altra casa, tutto pignorato, fra poco il fallimento… no, a casa nostra no, per proteggerci. Casa sua, quella di San Prospero, era ancora sua, e lì ha voluto… ecco, sì, la logica, la logica, capisci, l’ha fatto per noi, per proteggerci» e si afflosciò sul cognac.

Protezione. Una famiglia in fallimento, come protezione… però era già qualcosa avesse rimesso in fila quattro idee.

«Sì, forse è così, è stato bello da parte sua. Voglio dire, vi voleva molto bene».

«Sì, certo, ci voleva molto bene, il babbo…»

 

Il cognac aveva aiutato Celso almeno ad alzare lo sguardo dal tavolino. Dario ci mise un po’ a convincerlo, ma alla fine uscirono insieme. «Mi vergogno» ripeteva il ragazzo, anche se Dario continuava a dirgli che non c’era nessun motivo, nessuno. Proseguirono per via Emilia fino a piazza del Monte, ma non camminavano insieme: Celso gli camminava a fianco, contro il fianco, costringendolo a fatica a spingerlo sulla linea retta.

Le vetrine mezze vuote colpirono subito Dario. Era partito in estate e tornava d’autunno, etichette appiccicate sui vetri che garantivano le merci come “prodotto nazionale”, ma quasi a coprire lo sguardo sul poco o niente che era rimasto da esporre.

Il tragitto, del resto, non era certo rapido. Celso tirava e s’accantucciava contro Dario, e almeno un paio di volte furono fermati da persone che volevano porgere le loro condoglianze all’orfano. Prima da tale signor Grassi di Coviolo che «conoscevo bene il suo babbo…», poi dalla signora Gisella, cinquantenne con cappellino e zeppe, che «quante volte abbiamo portato i bambini insieme a sua madre ai giardini…»

Arrivati quasi in piazza Dario ne aveva le scatole piene. Almeno aveva incrociato due ragazze come si deve, una anche quasi conosciuta di cui non ricordava il nome. Bel tipo, labbra mozzafiato, capelli ricci e orecchini rossi.

In compenso l’ora era quella e il luogo anche: finirono nei capannelli di gente sul marciapiede fuori dal bar Impero. E qui cedette alla tentazione vigliacca. Lasciò lentamente che Celso fosse assorbito da quei capannelli, che qualcuno degli amici lo tirasse dentro per offrirgli qualcosa, per “tenerlo su”. Lo abbandonò, semplicemente. Senza far nulla, rimase quasi fermo sul marciapiede, poi, adagio, riprese la via Emilia verso San Pietro.

 

Una cosa era certa. Gli avessero offerto un’altra licenza avrebbe rifiutato. A Roma sapeva cosa fare, in caserma sapeva cosa fare, magari anche a Cameri avrebbe trovato qualcosa da fare, anche solo leggere un libro in branda. Ma a casa no. Aveva azzerato tutto. 23.260, e tutto era cambiato. Non poteva andarsene a casa col rischio di trovarsi ancora Gio’ al portone, starsene a leggere? Ma cosa? Non gliene fregava più nulla. Si sarebbe messo a suonare la tromba o dipingere vetrate pur di far passare il tempo. Salvo riprendere la Balilla e girare su e giù come uno scemo.

 

Nulla re iam delector in hac vita…

Quid hic faciam adhuc et cur hic sim, nescio, iam consumpta spe huius saeculi

 

Gironzolò un po’ sotto i portici, s’infilò nel Mercato coperto, finì nel negozio di libri usati che frequentava spesso. Sembrava fosse partito il giorno prima. La signora Emma era seduta al solito posto: una lampadina fioca appesa a un trespolino, la mantellina sulle spalle (forse in giugno non l’aveva, ma non ne era sicuro), gli occhiali sul naso. Sollevò lo sguardo, come a dire «Era ora».

«Buonasera, ben trovata».

«Lamberti, ha già vinto la guerra?»

«Magari…»

«Venga un canchero al testone… finalmente! Ecco la signora Emma!»

„Un canchero al testone“, tutto regolare. Prese il panchetto, si sedette e si mise a frugare nella pila lì a destra:romanzetti rosa, qualche Salgari un po’ sbrindellato.

«Non perda tempo, ho una cosina per lei…» e si piegò appena a prendere qualcosa da un cassetto poco più in basso.

Gli allungò un volume, rilegato in scuro, stretto, forte.

Dario lo prese e quasi non credette alla fortuna che aveva davanti. Lo aprì adagio, socchiudendo la copertina lentamente, toccando con dolcezza il frontespizio. Era quell’edizione tanto cercata. Quella. Le Confessions di Sant‘Agostino, traduzione commentata in inglese, Peter Brown, 1860.

«Peccato che abbia quella macchia…» ammiccò.

Dario girò il volume, sul retro l’inchiostro di chissà chi aveva lasciato una specie di fiore nerastro.

«Ma va benissimo!»

«Le farò un prezzo speciale…» Poi la donna guardò verso la porta al nuovo cliente appena entrato. «Gli vengano tanti cancheri a quello là che manda i nostri figli a casa di Dio a farsi ammazzare, per lui e le sue troie…»

Il tempo di girarsi verso il nuovo arrivato:

«Professor Marchetti!» Il “suo”professor Marchetti. Alto, i baffi larghi, curati, una lobbia larga, la cravatta alla Levailler. Fermo, sorridente a godersi gli improperi dell’Emma. La cultura di fronte alla popolana sapiente di Borgo Emilio, il quartiere degli “altri”, di quelli strani, che il regime aveva deciso di deportare fuori, in periferia.

«Caro Lamberti…» lo guardò con la stessa aria severa di quando lo chiamava alla cattedra e gli consegnava il foglio piegato con il compito in classe corretto «vedo che servire la patria fa bene… bella acconciatura: virile!» e gli si fece incontro per salutarlo.

«Professore, sono in licenza… tutto bene? Come sta?»

«La vita continua! Studenti sempre più ignoranti come vuole il governo, generi di conforto sempre più difficili da trovare, per fortuna la signora Emma provvede ai nostri bisogni». Poi, con una smorfia d’intesa: «E la “farmacia” ci dà il resto…»

La “farmacia”! Se n’era scordato! Non aveva fatto ancora un salto da Nironi e Prandi, dove si trovavano le “medicine” contro quella volgarità, quello schifo nerastro, appiccicoso e volgare che stava portando tutto alla malora.

«Per quanto… siamo rimasti noi vecchi a casa. Valdo è in Jugoslavia, Maurizio in Grecia, quell’altro in Francia, lei a fare il trasvolatore. Fai la guerra, gira il mondo… bestie!»

«Posso offrirle qualcosa? Un aperitivo…»

«Lamberti! Sono un vecchio sovversivo, ma conosco il mio dovere, venga, offro io…»

Incontrare Marchetti bastava già a salvare la giornata.

«Signora Emma, i nostri omaggi e, come si dice… che gli venga…»

«Un cancher, ch’egh vègna un cancher in tìi budee…»

«Vede, Lamberti, l’efficacia dell’eloquio popolare? Semplice, esaustivo. Che gli venga un tumore nelle interiora? No, non funziona, invece…» e fece cenno di nuovo alla donna, che ripeté:

«Un cancher, ch’egh vègna un cancher in tìi budee…»

«Perfetto! Come non associarsi a tale auspicio?»

Dario rise, pagò e si mise in tasca il prezioso volume.

 

«In realtà» Marchetti parlava tenendolo sottobraccio, un gesto di incredibile affabilità per il vecchio docente del liceo, «la povera Emma ha tutte le sue ragioni per essere così… esacerbata, diciamo. Suo marito gliel’hanno ammazzato a bastonate, finito in sanatorio a quarant’anni. Dei due figli, uno è ancora in qualche isola al confino e l’altro l’hanno spedito in Russia. Nessuna notizia».

«Non vorrei essere nel primo fascista che le capiterà sotto mano, perché prima o poi le capiterà…»

«Non si rendono conto questi beccamorti di quanto odio hanno seminato, e la tempesta che raccoglieranno…»

«Già… e lei come si trova al servizio dello Stato?»

«Va bene, va bene, in aeronautica si sta bene…»

«Ma non poteva aspettare di aver discusso la tesi prima di rompere il naso a quel tipo?»

«Il primo pugno è come il primo amore, quando arriva, arriva…»

«La vedo tonico, bene, ci vuole, in questi giorni così…» Poi d’improvviso cambiò tono e viso.

«Ha saputo di Grassi?»

«Grassi?»

«Luciano Grassi? Il volontario…» e subito si pentì di quello che aveva appena detto.

Luciano era uno dei ragazzi più onesti e puliti mai conosciuti, era nella classe avanti la sua. Nove in tutte le materie, facoltà di ingegneria. Figlio del custode del mercato suino. Era partito in febbraio. L’avevano festeggiato la sera prima, senza neppure riuscire a farlo sbronzare. Gli altri, Dario in prima fila, sotto il tavolo. Lui a sorridere. Contento, era contento di partire “per il Re”. E ci credeva.

«Quando?»

«Metà settembre, fronte greco-albanese. Medaglia d’argento».

Luciano. Che voleva tornare, finire e andare alle Reggiane a costruire aerei. Luciano che s’era innamorato di una ragazza di Pieve ma non gliel’aveva mai detto «Non è serio, prima il servizio, poi quando torno…» Fine. Medaglia d’argento sul petto del padre, alla prima celebrazione con i beccamorti e i preti a piagnucolare.

Si sedettero al tavolino contro la vetrina del primo caffè, lì sotto i portici. Due vermouth. Marchetti non aveva più detto niente, poi all’improvviso:

«Lamberti, non si faccia ammazzare… una giovinezza giunta rapidamente alla fine condanna l’annosa vecchiaia dell’ingiusto»…»

«Professore devo laurearmi, ricorda? E poi lei mi ha promesso di comporre un carmen per quella ricorrenza, non posso schiattare prima…»

Brindarono sommessamente alla prossima sconfitta dei beccamorti e alla fine di quella carneficina che portava via ragazzi come Luciano Grassi. E lasciava in giro Guido Lamberti, ma questo se lo tenne per sè, anche se lo pensò e lo pensò proprio convinto.

 

Cosa mettere per un invito come quello di Katharine? Scartata la divisa non restava molto. Un abito scuro da teatro? Per sembrare un cameriere? Una giacca sportiva? Non era un gigolo o un gagà. Alla fine ripiegò per quella di tweed inglese che aveva comprato a Monaco prima di tornare. Si infilò nella tasca interna la terza lettera di Gio’ che aveva trovato sulla sua scrivania tornando a cena – le altre due erano già nel cassetto-lazzaretto in fondo a destra – e partì in bicicletta verso la villa-con-l’edera.

Non voleva arrivare troppo presto e star lì ed aspettare gli altri. Gli altri chi, poi? In realtà era lì per Katharine, per vederla ancora. Per giocare con lei, per non pensare.

Era tornato a Reggio perché voleva fare all’amore con Giò. L’aveva sognato, l’aveva pensato tante volte. Invece. 23260.  E poi se si poteva chiamare fare all’amore quello che era stato con Gio’. Quel desiderio misto a rabbia, nostalgia, vendetta, punizione. Eauntontimoroumenos. Colui che si punisce da solo. Quello era stato, prenderla e starle dentro e tenerla ferma e sentire il suo piacere e le sue lacrime. Il suo piacere come in via Settembrini? Meglio o peggio? Se lo era chiesto, e chiesto ancora. No. Non era stato bello.

Ora poi: le lettere nemmeno lette, perché leggerle? Anche se dentro aveva quella cosa che rimaneva lì, che respingeva ogni ora, ogni sguardo. Un ricordo. Continuo. Era stato troppo, troppo forte. Lui e lei. Per tre anni si erano visti ogni giorno, tutti i giorni. E quei pochi in cui erano stati lontani li avevano passati a scriversi fogli, biglietti, lettere. Decine di boccette di inchiostro prosciugate. Stilografiche consumate. Poi, 23260. Normale. Non era nulla di speciale. Ci avevano creduto. Tutto normale, invece, peccato di ubris credere di essere gli unici. Invidia degli dei. Puniti. Finito. Normale.

 

Non era il primo, bene. Non conosceva quasi nessuno, male. Katharine, invece, era magnifica. Abito scuro, scollatura discreta ma visibile (anche due tette da mangiare, non le aveva notate bene, prima), uno scialle rosa antico.

Aveva un sorriso sincero quando lo fece entrare nel salone e lo presentò:

«Dario Lamberti, un nuovo giovane amico, in breve licenza in città!»

Tre signore lo salutarono con un educato cenno del capo, a destra un signore sulla quarantina fece un gesto come a dire “benvenuto” e interruppe il dialogo che stava tenendo con lo zio Rico. Proprio lui, i casi della vita:. elegante in doppiopetto gessato, cravatta granata, capelli impeccabili, probabilmente tinti.

«Lamberti, venga, le presento l’ingegner Rovetta…»

«Mi fa piacere conoscere il fratello di Guido. Sa, non me ne aveva mai parlato…»

«Non me ne stupisco. È troppo indaffarato nel suo lavoro, il fratellone».

«A Reggio in licenza, mi diceva De Marchi. Noi contiamo molto su voi giovani…»

«Faremo del nostro meglio…»

«Lamberti è in gamba» intervenne lo zio Rico a troncare le banalità. «Altruista, sta aiutando molto il figlio di Aurelio, povero ragazzo: è stata una botta tremenda…»

«Chi viene al tavolo?» Katharine invitò gli ospiti nel salotto attiguo per iniziare la partita di bridge.

Rovetta si mosse subito, De Marchi trattenne Dario per un braccio:

«Gioca?»

«Per l’amor di Dio, non so neanche cosa sia, ho molti vizi ma le carte proprio no, non ci ho mai capito nulla».

«Bravo! Il bridge è proprio da vecchi barbogi, non capisco perchè Rita faccia serate come queste».

«Magari si annoia».

«Si annoia? La sveglierei io…» e gli diede un tocco col gomito.

«Rita…» la donna si stava avvicinando a loro: «Ci stavamo chiedendo proprio» e abbassò di colpo il tono «come mai organizzi serate così noiose con questi ruderi…»

«De Marchi! L’unico non rudere qui, stasera, è il nostro Lamberti, che ha accettato per educazione… e poi lui è il mio insegnante, non sapevi?»

De Marchi guardò Dario con curiosità: «C’è qualcosa in cui Rita non sia già maestra?»

«Il tedesco, De Marchi, il tedesco. Tu come te la cavi con il tedesco?»

«Ja, nein, Hure…» e rise.

«Molto divertente…» e Katharine guardò Dario come a dire “porta pazienza”.

De Marchi si accese una sigaretta:

«Rovetta, sua moglie, la moglie di Battelli: esegui gli ordini di Germano a puntino, eh Dario, non capisce… Rovetta è il fratello del responsabile della sezione approvvigionamenti del Ministero, Battelli è il legale della…»

«Oh, basta, non annoiare Dario! Anzi, adesso te lo porto via…» e lo prese sotto braccio «Venga, scegliamo qualche disco…

Lei crede che sia una puttana?»

La domanda diretta lasciò Dario senza una risposta.

«Lo sono, lo sono, ma non come sognerebbe Bottazzi e magari piacerebbe anche a De Marchi…» gli mostrò paio di dischi «Cosa preferisce, Bartok o Mendelsohn?»

«Bartok va benissimo…» Katharine si chinò sul mobile giradischi e fece partire la musica.

Poi si girò e lo guardò negli occhi.

«Ci si vende in tanti modi e io pago il mio prezzo, lei no?»

Poi senza aspettare una replica andò verso il tavolo del bridge.

«Che donna, eh?» De Marchi era di nuovo lì, un’altra sigaretta in mano.

Dario annuì.

«Stasera è peggio che altre volte, manca Benassi con le sue barzelletacce e monsignor Ballini a far finta di scandalizzarsi, ma lei deve divertirsi, altroché: noi civili stiamo al calduccio, lei fra poco torna in linea!»

Imboscato, tranquillo, imboscato.

«Senta, domani sera, con qualche amico ci divertiamo un po’, venga con noi!»

«Ma…»

«Bene, siamo d’accordo! La passo a prendere alle nove e mezza, al portone…»

Una serata con De Marchi era forse peggio che starsene a casa a leggere quelle lettere, o girare a caso per Reggio.

«Va bene…»

«Oh, così la voglio sentire: giovani, giovani!»

«Posso chiederle una cosa?»

«Quel che vuole, Lamberti». Aver accettato l’invito aveva aperto un esile filo di complicità.

«Circa il padre di Celso, come mai… pensavo fosse senza problemi».

«Ehh, povero Aurelio, ha fatto il passo, come si dice, più lungo della gamba: purtroppo, sa, la guerra…»

«Ma era proprio rovinato?»

«Con la sua morte forse si eviterà il fallimento. Abbiamo provato a dargli una mano, ma purtroppo… le banche, troppi affari sbagliati…»

«Eravate in Africa insieme?»

De Marchi fece un gesto come a dire “proprio così”.

«L’Africa è stata proprio il passo più lungo che dicevo. Aurelio era un bravo commerciante ma, su piccola scala, ha voluto mettersi in un gioco più grande di lui. Guardi, le parla uno che è stato un po’ più fortunato, ma so io i rischi che ho corso, e poi la guerra ha spazzato via tutto, ho lasciato là un paio di cantieri, ma pazienza! Lui c’è rimasto in mezzo… poi, oltretutto, anche la sua disgrazia: un commerciante non dorme mai, sempre in giro, pensa oggi cosa fare domani e domani l’altro. Lui invece, mutilato, nei mesi d’ospedale s’è giocato anche la camicia. Quando è tornato in giro, ormai era come vuotare il mare con un cucchiaio».

«Ma uccidersi…»

«Eh, Aurelio era un uomo, una camerata vero, sa dove ci siamo conosciuti? Parma, estate 1922, che roba, che botte contro i rossi! Quella volta lì quasi quasi… ma Aurelio sempre davanti, un uomo così, con la sua carriera, un tipo tutto d’un pezzo, l’onore prima di tutto…»

Già, l’onore. Mollare una famiglia in mezzo a una strada. Onore.

 

La serata si trascinò fino alle 11.30, quando il tavolo del bridge chiuse l’ultima partita. De Marchi si offrì di accompagnare Rovetta e signora. Dario voleva essere l’ultimo ad andarsene, per scambiare almeno due parole con Katharine, che dopo quella domanda imbarazzante non l’aveva quasi più considerato.

Aveva già l’impermeabile addosso e s’era messo in coda alle ultime signore per i saluti.

«Lamberti, non s’è annoiato troppo?» e gli tese la mano per congedarlo.

«No, non troppo… domani?» tentò.

«Abbiamo la nostra lezione, alle 11?»

Aveva avuto un’idea e una curiosità. Perché no?

«Perché non facciamo la lezione all’aria aperta?»

Lo guardò con curiosità.

«La vengo a prendere a facciamo un giro in campagna?»

Katharine guardò l’ultimo ospite, ormai arrivato al cancello:

«Che pretesto posso trovare?»

«Andiamo a portar fiori sulla tomba di Fontana, può essere?»

Sembrò sollevata.

«Alle 11?»

«Alle 11».

Per un istante sognò di darle un carezza, poi la salutò e scese i gradini verso il grande cancello di ferro battuto.

Il patto di Katharine_Capitolo 2_

21 ottobre, martedì

La signora con la sporta gli veniva incontro, ma il sedano che le usciva dalla borsa non era un sedano ma un bastone, lungo e nodoso. «Ci vuole questo con le donne…» suggeriva con accento parmigiano, mentre lui rimaneva lì senza far niente. «Lo prenda…» ripeteva, e poi quei due mano nella mano e d’improvviso le cosce di Gio’, sul letto e subito un altro letto, il suo, che non riconosceva. E la Balilla che non riusciva a fermare perché stava correndo su un cornicione sulla via Emilia che finiva all’improvviso e lui era dentro all’Enza, l’acqua saliva ed era fradicio d’acqua, mentre della gente guardava dalla spalletta del ponte.

Fece appena in tempo a scendere dal letto, in ginocchio in terra, il tempo esatto di aprire il comodino, estrarre il vaso da notte e vomitarci dentro. Al buio, quasi senza reagire, la faccia verso terra. Urtò la bottiglia di cognac che aveva vuotato per addormentarsi e che, evidentemente, aveva contributo a quella eruzione notturna non proprio piacevole. Rimase giù un po’, poi, adagio, si rimise a sedere sul letto. Le 3.25. Bell’orario per star male. Magari alle otto di sera, quattro del pomeriggio. Ma le 3.25 no. Orario da tirar le cuoia, in silenzio, che poi ti ritrovano al mattino già rigido come un pesce caduto fuori dalla boccia la sera prima.

E poi cosa si può fare, a quell’ora, per veder filtrare la luce del mattino il prima possibile? Prendersi su e girare per strada, oltretutto con i casini chiusi? Al massimo incontrare l’ultimo ubriaco o il primo degli spazzini?

Si mise alla scrivania, carta e penna. Scriverle? Utile, certo! In quattro mesi le aveva scritto a giorni alterni più o meno sessanta lettere, e ne aveva ricevute altrettante, sempre scritte con la stilografica che le aveva regalato prima di partire, inchiostro blu. «Non sporcarti sempre le dita» le aveva raccomandato, conoscendo la sua tendenza ad impugnare la penna quasi in punta, con la calligrafia tonda e forte. Un fiume di lettere, di racconti, desideri, pensieri. Ma davvero la scrittura aveva un senso? Si poteva scrivere e poi vivere altrove, fare altro, amare altro. O erano due vite divise, quella di chi scrive e quella di chi vive? E lui non si era accontentato tanto spesso solo di scrivere?  Gio’ forse aveva scelto anche di vivere, senza di lui. Ora come poteva ricucire quei due percorsi? Oltretutto, ci voleva provare?

Aveva represso tutto il giorno il desiderio, la voglia di vederla, di toccarla, perché non riusciva a tener dentro quello che gli era esploso. La frustrazione si aggiungeva a frustrazione, aveva il diritto di affrontarla, di insultarla, di dirle, dirle cosa? Che non riusciva a pensare di stare senza di lei? Che la voleva ancora, sempre? E che, quindi, aveva perso due volte, tradito e così debole, incapace di alzarsi e andare via, chiudere e basta? La sua vitalità, la sua sensualità non erano stati ingredienti importanti nel suo amore per lei, e allora? Illudersi di essere l’unico, l’irripetibile? Forse perché lui non poteva rinfacciarsi nulla? Certo. Ma lei non lo sapeva. Non esisteva. Lei lo aveva tradito per quello che sapeva, non per quello che non esisteva. Per come lo conosceva.

Quasi con furore scrisse un foglio, poi un altro, arrivò al terzo e si fermò. Avesse saputo parlare e vivere come sapeva scrivere! Lei forse sapeva fare entrambe le cose. Prese i tre fogli e li mise nel cassetto, quello in basso a destra, pieno di roba inutile, scritta cento altre volte.

Si rimise sul letto, la luce del giorno era un po’ più vicina.

 

Davanti allo specchio, il nodo alla cravatta, la divisa. L’aquiletta del primo volo. Quei capelli così corti che gli facevano un testone che il cappello copriva appena.

«Preso il caffè?» Lilly era già vestita, pronta ad uscire, sulla porta del bagno.

«Tranquilla, Dorina mi ha aveva già preparato anche il caffelatte con il pane, i biscotti al burro, roba da vacanza di una volta… il burro poi, noi in caserma ne abbiamo a bidoni, ma voi con la tessera come fate…?»

«Ehh, la tessera… la roba gira, basta pagare…»

«Borsaneristi, nemici della patria!»

«Dario, cos’è successo con Gio’? Perché mi hai fatto dire quella cosa, dare quell’indirizzo? Sapevi cosa sarebbe successo…»

Colletto troppo stretto, il pomo d’adamo picchiò contro il bordo rigido.

«Cosa è successo?»

«S’è messa a piangere ed è scappata via, per le scale, quasi si ammazzava…»

«È una ragazza atletica…»

«Perché…»

«Vado, il funerale mi aspetta, prendo la bicicletta così non vi preoccupate dell’auto…»

Le diede un bacio di sfuggita, prese l’impermeabile e uscì di casa.

Il cielo era grigiolino, non faceva quasi freddo. Fece una bella pedalata fino a San Pellegrino, su per viale Risorgimento, in mezzo alla campagna. Il corteo sarebbe partito dal Gruppo rionale fascista ma l’unico posto dove poteva essere lui era lì da don Angelo, oltretutto appena tornato dalla Germania. Un ritorno o un Ausweisung, come gli aveva suggerito Alberto? Il feretro era appena arrivato e subito si accorse di una cosa che gli fece un enorme piacere. I labari, la paccottiglia nera, erano fuori sul sagrato. Unica concessione, deposti sulla cassa, la Sciarpa Littorio e il fez. Magari il manganello glielo avevano infilato dentro, con qualche bottiglia di olio di ricino, ricordo del bei tempi. La chiesa era colma e parte della gente era fuori, soprattutto quella in divisa. Quella nera.

La sua, invece, sembrava riscuotere solo deferenza, tant’è che un tizio con degli occhiali spessi fece cenno per offrirgli un posto a sedere, nel banco lì a destra. No, grazie. Sono giovane, io, eroico imboscato nelle patrie milizie, posso stare in piedi.

Don Angelo fu veloce, concentrandosi sopratutto sul ruolo della famiglia e degli affetti. Benedizione del feretro e uscita fra i labari alzati, e un grido: «Camerata Fontana, presente!» Sperò non ci fossero troppi militari in giro, perché proprio non riuscì a fare il saluto, come, forse, il regolamento avrebbe prescritto (e poi perché? Era un fascista, mica un militare). In realtà non gli venne neppure in mente, e s’accorse della mancanza quando, proprio di fronte a lui, vide un capitano dell’esercito scattare sugli attenti. “Sempre strani quelli dell’aeronautica, avrà pensato“  e la cosa andava bene così.

Salutò di sfuggita Celso, trascinato qui e là da parenti e varia umanità. Alle undici il carro funebre partì verso il cimitero di San Prospero.

Stava per riprendere la bicicletta, per andare non sapeva dove, quando alle sue spalle sentì una voce inconfondibile, bassa e fumosa:

«Lamberti, Lamberti Dario, dove va?»

«Avvocato Bottazzi, il mio salvatore!» gli tese la mano.

«Non si fa il saluto? Il solito ragazzaccio! Neanche un po’ di disciplina ti hanno insegnato?» e ricambiò la stretta.

L’avvocato era piccolo, sui quarantacinque anni, il naso massiccio reggeva gli occhiali cerchiati d’oro. Bottazzi l’aveva salvato dal “honfino” che quello scemo del federale Fantozzi gli aveva minacciato, ma soprattutto  dalla querela di Finasi, tacitato con un congruo risarcimento famigliare per le cure mediche del caso (setto nasale e relative adiacenze). Vecchio amico di mamma e papà, penalista di vaglia, alla valentia dell’uomo di legge univa una conoscenza enciclopedica di Reggio e dei reggiani. Una memoria incredibile (e una curiosità un po’pettegola) ne facevano una informatore magnifico, se solo avesse avuto qualche curiosità. E ora ne aveva. Gli venne da chiedergli: “Con chi va a letto Giovanna Messori?”, ma poi temette di avere la risposta, così ripiegò su un più banale:

«Come mai qui?»

«Fontana era stato mio cliente, fascista ma non dei peggiori, poi si mise con i “moschettieri” e allora le cose cambiarono…»

«Moschettieri»?

Dario si appoggiò a sedere sul muretto del sagrato, anche per essere più a portata di voce del piccolo avvocato.

«Sono i bei frutti del nostro celeste Impero! Fontana aveva il suo commercio ben avviato, qualche difettuccio politico, anche qualche gonnella magari, ma roba normale. Poi zac, l’Impero. S’è messo in testa di diventare un importatore in grande stile, così è partito con altri tre, i “quattro moschettieri di Gondar” li chiamavano, quattro squadristi in affari, sai che roba! Fontana, Americo De Marchi il geometra, Umberto Iotti “quartàsa” e Natale Pigoni. L’unico che se l’è cavata, a parte quartàsa che se la cava sempre, è stato Americo, che qualche cantiere l’ha aperto. Fontana l’hanno rimpatriato con la Croce rossa dopo che aveva lasciato un piede sotto un trattore, ma peggio di tutti è finito Pigoni che è rimasto là. Secco».

«La guerra?»

«Se chiami guerra due coltellate in una rissa con dei negri…»

«Bella fine, insomma, per i nostri eroi… e “quartàsa” Iotti, perché si chiama così?»

«Perché quella sa fare, la quartàsa, sai cos’è, no? Aspettare uno, tirargli il cappotto sulla testa e riempirlo di legnate. Era famoso fra gli squadristi: bastone, coltello, e peggio…»

«Bel tipo… un vero signore… e cosa fa?»

«Saperlo! Quel che capita, adesso l’autista per De Marchi, coi soldi dell’Africa s’è messo su una bella impresina edile, la Casa del Fascio di Villa Ospizio, quella coi mosaici, l’ha tirata su lui… e anche altro…»

«Fontana, invece…»

«Tornato è dovuto stare dei mesi al Rizzoli di Bologna per la protesi, i lavori andavano male, s’è indebitato con le banche…»

Chissà quale banca.

«E tu? Come mai un sovversivo, anche se pentito, va al funerale di un camerata suicida?»

«Celso era al corso con me, l’ho riportato a casa ieri…»

Bottazzi lo squadrò dal basso all’alto:

«Sai che il militare ti fa bene? Capelli corti, barba fatta, la divisa poi… chissà quanta figa, eh?»

«Ehh, sapesse…»

«Sei un ragazzaccio!» e gli batte un colpo sul braccio.

«Piuttosto, Celso è disperato, ha saputo del suicidio dal De Marchi, lo chiama zio Rico, è di casa sembra…»

«Bel parente… ma non sono imparziale. Americo mi fregò una certa signorina, una ventina d’anni fa, e la cosa ancora mi brucia. Oltretutto la mise incinta e la mollò in mezzo a una strada, povera Elvira!»

«Vabbè, Celso dovrà rassegnarsi, lo congederanno…»

«E finirà sul lastrico per pagare i debiti, magari è tanto onesto da accettare l’eredità…»

 

Dario era già risalito in bicicletta e stava salutando Bottazzi quando l’avvocato lo trattenne. Uscendo da un altro crocchio di persone sul sagrato, s’era avvicinato un signore sulla cinquantina, tondo, lobbia calcata in testa.

«Avvocato! Anche lei ai funerali!» si strinsero la mano e Bottazzi fece le presentazioni.

Dottor Bedeschi. Medico della Federazione fascista, come testimoniava la cimice luccicante sul bavero.

«I camerati se ne vanno, la vecchia guardia cede il passo, e questi giovani? Che fanno? Lei è fratello di Guido, vero? Bravo ragazzo, ottimo tecnico!»

Il dottor Bedeschi aveva già presentato le sue credenziali. Era un coglione. Punto.

Incurante della risposta, proseguì la sua dichiarazione:

«Vecchi camerati, è il tempo, una volta venivano da me per lo scolo, gran chiavatori! Adesso, poveretti! Ci manca solo l’autopsia! Fontana poi, con quello che gli era successo! Senza un piede…»

Bottazzi socchiuse appena gli occhi:

«È stato lei a…»

«L’han trovato a San Prospero e m’han chiamato… troppo tardi, che fine! Deve aver sofferto come un cane, all’ultimo istante deve aver pensato, chissà, s’è divincolato tanto che s’era staccata la protesi,! Un fascista si tira un colpo in testa, altro che una corda a un trave… mah…»

Non ci sono più i camerati di una volta. Ma Dario lo pensò solo, gli era bastato già il casino dell’altra volta, Bedeschi sapeva chi era e non era il caso di sfidare la sua sorte di felice imboscato.

«Guardi, Bottazzi…» e indicò una signora che stava salendo su un‘auto in attesa.

«Guardi la Gagliardi, che stacco di gamba, che stile! Fortunato quel marito…»

«E non solo quello…» strizzò l’occhio Bottazzi, salutandolo.

«Omaggi al fratello…»

Va a cagare, fascista.

 

«Ma chi è quel tipo?»

«Bedeschi? Un fallito totale, un medico dei morti, l’hanno messo in federazione per toglierlo dai guai. Serve un lavoro sporco? Bedeschi…»

«E la signora Gagliardi? Bedeschi ha ragione…»

«Ragazzaccio! Ti piace? Se vuoi, è un po’ grandina, ma forse ha un debole per i bei ragazzi, interessa?»

«Perché no?»

«Passa in studio da me, verso le sei…»

 

Cosi erano i quattro moschettieri: Fontana, De Marchi, Iotti e Pigoni. Eroi dell’Impero. Altro che Vincenzo Bonaretti, suo compagno alle elementari, partito convinto di portare la cristianità in Africa, con lo zio prete a benedirlo alla partenza. Volontario, sepolto in Abissinia, diciannove anni. Eroe decorato, bella soddisfazione. Vincenzo che aveva sempre freddo e stava vicino alla stufa, in fondo in classe. Almeno aveva trovato il caldo, laggiù.

 

Non poteva pretendere l’impossibile. S’era messo a pedalare in fretta già a Porta Castello alle prime gocce, la visiera del cappello un po’ lo riparava ma le gocce cadevano grosse, spinte contro di lui dal vento che gli veniva contro.

La gente nella strada si riparava in fretta vicina ai muri. Qualcuno, uscito da un negozio, rimaneva sulla soglia guardando verso il cielo bigio.

Gio’ era davanti al portone, l’impermeabile del giorno prima, incantucciata nello spessore del muro. Forse se non avesse fatto l’ultima curva così in fretta avrebbe potuto far finta e tirar dritto, ma così, con la pioggia addosso non poteva cambiar strada. Eppure quello fu il primo istinto.

Arrivò con la bicicletta dentro all’androne, scese, l’appoggiò al muro, si scosse l’acqua di dosso.

«Ciao».

«Ciao».

Ecco, no, quello sguardo. Quello sguardo no, lo sapeva. Il cucciolo abbandonato, lo sguardo di chi ha appena ritrovato il padrone. Proprio quello voleva evitare, dal giorno prima. Quello sguardo e il suo silenzio. Il suo candore criminale. Quel guardarti e farti sentire tu, il colpevole, il forte, di fronte a quell’indifeso affidarsi. Lo conosceva quello sguardo. E lui era lì, non sarebbe mai stato capace di dire un altro “ciao” e andarsene, era preso, catturato. Se l’era preparato il discorso, l’aveva scritto, tre fogli. Logici, fermi ma anche sentimentali, teneri ma decisi. Perché basta, perché finire. In fila, in ordine, le parole, il ragionamento. Tesi, antitesi, sintesi. Parole stese con eleganza. Lui era bravo, a scrivere. Una lira per ogni foglio che aveva scritto! Chiedeva poco, una lira! Bastava a vivere di rendita. Sarebbe bastato.

Ma i fogli erano in fondo al cassetto, quello in basso della sua scrivania. E invece lei era lì, con quegli occhi disperati, nel silenzio.

Non aveva ancora aperto bocca e già l’avrebbe presa fra le braccia, stretta, a dirle ti voglio, stai qui, per sempre… Le parole, la logica, l’idea giusta. Evaporate, da quando l’aveva presa per la mano la prima volta, verso sera, in un’altra città.

La strada era solo una, quella da evitare. Ma quanti errori si fanno, felici, sapendo di farli?

«Perché?»

«Scusami».

Gio’ si accostò e gli mise la testa sul petto. Piangeva.

Dario guardava davanti a sé, non voleva sentirla ma era la cosa più dolce che riuscisse a capire in quel momento.

Quanti errori si fanno, felici, sapendo di farli?

 

Salirono nella sua stanza sopra il garage senza una parola, si spogliarono a vicenda con il solo desiderio di essere insieme. Quanti errori si fanno, felici.

 

Non mangiarono neppure. Poi, dopo, il cammino peggiore: le sue domande, irripetibili, orrende, oscene, e le risposte di lei. Precise, dettagliate. Per farsi più male, per fissare in mente immagini, ricordi non suoi, dettagli. Di Gio’ e l’altro. Marco.

Tutti i come, nessun perché.

Per avere quanto più dolore dentro, quanto più materiale da far bruciare le prossime notti. Tempo ce ne sarebbe stato. Nessuna concessione, usava Gio’ come un coltello affilato e lei non riusciva a tirarsi indietro. Dire “no, basta, fermiamoci…”.

Durò fino a sera. Si rivestirono e lei uscì. Ma Dario l’avrebbe tenuta lì ancora, e ancora.

 

Anche Dario uscì. Aveva smesso di piovere. Girare in divisa era l’ultima cosa che avrebbe pensato di fare a Reggio. Invece quella cosa addosso ora lo proteggeva. Era qualcuno, qualcosa. La gente lo guardava con simpatia, poteva pensare. Lui l’unico, l’irripetibile o l’imboscato, il tradito?

 

In realtà non aveva capito l’accenno di Bottazzi: «Passa in studio da me, verso le sei…», ma la cosa gli si chiarì subito. La signora Gagliardi stava chiacchierando, seduta di fronte all’avvocato, fumava e il tono era scherzoso. Dario si affacciò sull’uscio e Bottazzi lo accolse allegro come sempre:

«Ecco il ragazzaccio…»

La Gagliardi si alzò e Dario capì le osservazioni del mattino dell’orrendo medico della federazione. Era davvero… bella? Mah, non era il termine giusto. Non è la bellezza, era sempre quel qualcos’altro che faceva la differenza. E nella signora Gagliardi quella volta furono gli occhi verdi, luminosi, e la mano che gli tese al momento della presentazione. Una mano come quella di Gio’, forte, magra. Una stretta senza paura. Era alta e i capelli biondo scuro risaltavano sul colletto di velluto del soprabito.

«Ecco qui il ragazzaccio, cara Rita, te ne avevo parlato, il pericoloso sovversivo…»

Per un istante temette che anche lei partisse con le lodi all’esimio fratello, ma non fu così, per fortuna:

«L’avvocato mi aveva descritto il fratello di Guido come un saltafossi: non mi sembra proprio, mi trovo un elegante ufficiale… oltretutto non siete neanche somiglianti».

«È un insulto o un complimento…?» la guardò con lo sguardo più teso che riuscì a mettere insieme.

«Senti che caratterino il nostro Dario! Tranquilla, altra pasta dal fratello bancario…»

Si sedettero. Chiacchiere conviviali, lei offrì una sigaretta, Dario rifiutò.

«Senza vizi?»

«Non fumo.»

«Dario non temere, a Rita piace provocare…»

Ancora qualche commento sulle ultime vicende della città, il funerale del mattino, poi Bottazzi arrivò al dunque:

«Allora, cari amici, vi ho presentato non perché mi sia deciso a cambiar lavoro» e sorrise malizioso sotto gli occhiali, «ma perché posso mettere in contatto due amici per un motivo utile. Rita deve accompagnare il marito in Germania la settimana prossima e ha poco tempo per rinfrescare la lingua, e Dario», e si voltò verso di lui, «… sa bene il tedesco e deve riempire una licenza che potrebbe farlo annoiare. E la cosa peggiore per Dario è annoiarsi, vero? Così magari potreste unire le due cose, io faccio da trait d‘union, vi ho presentato e mi ritiro…»

E anche fisicamente si ritrasse sulla sua poltrona di legno scuro, incrociò le mani sul petto e se ne stette lì a guardarli.

Dario e Rita sorrisero, sorpresi.

«L’avvocato ama scherzare» iniziò lei, «però è vero, ho studiato tedesco a Trento, ero in collegio. Ma poi il tempo…»

Tempo? Già, quanti anni poteva avere la signora Gagliardi? L’avrebbe saputo poi, tutto avrebbe saputo da Bottazzi, se lo sentiva, ma voleva farsene un’idea. Più di trenta? No, ma poco meno,  forse ventotto, ventinove. La pelle era fresca, poco trucco, labbra incurvate, sorriso aperto. Trentuno al massimo.

«Bottazzi mi sopravaluta, sono stato sei mesi a Monaco due anni fa…»

«Sì, dai, ho visto la tua tesi, usi quasi tutti testi in tedesco… non fare il modesto, fossi stato meno saltafossi avresti avuto un futuro, l’asse Roma-Berlino! Ti vedevo già all’ambasciata…»

Dario la guardò tranquillo: «L’avvocato mi conosce da bambino e mi ha sempre preso in giro, e continuerà a farlo, comunque…

«Il suo è un sì, allora, mi darà lezioni in questi giorni?» e sorrise soddisfatta.

«Sì, se si accontenta…»

Rita si alzò, si richiuse il soprabito, lo salutò: «La chiamo domattina, l’avvocato mi ha dato il suo numero…» e, seguendo Bottazzi, uscì dalla stanza.

Dario si rimise a sedere, sentì la porta dello studio chiudersi e poco dopo Bottazzi era tornato sulla sua poltrona. Sorridente come un bimbo davanti al suo giocattolo nuovo.

«Avvocato, che scherzo mi ha fatto?»

«Scherzo? Ti faccio un regalo così e me lo chiami scherzo? Chi ti ricorda, dai, dì, chi ti ricorda?»

«Ricorda?»

«Ma sì, dai… ti aiuto: attrice, americana…»

Cavolo! Katharine Hepburn! Certo, appena più in carne, meno spigoli, però…

«Katharine Hepburn…»

«Vedi che ci sei arrivato… non è splendida?»

«Sì, be’, ma cosa c’entra?»

«Hai tempo, magari fare nuove conoscenze te ne fa passare un po‘. Le licenze sono delle noie, ci sei ma non ci sei…»

«E poi… la conosco…»

«Vabbè, fra uomini si può dire: non mi vergogno. Le ho fatto una corte spietata, e sai che io non ci mollo. Non sono una bellezza, ma ho un mio fascino, almeno così dicono. Ci conosciamo bene, carina, scherza, sembra che ci stia e poi, tac, niente. Una serietà assoluta. Anche in giro, nessuna voce, nulla. E io le cose, prima o poi, le vengo a sapere! Niente da fare… allora mi sono detto: „Arriva Dario, puoi sfatare una tua convinzione filosofica…»

«Quale?»

«Non esistono donne fedeli. Forse un avvocato un po’ passato non ce la fa, ma un bel tipo, in divisa, intelligente, un po’ mascalzone… altrimenti dovrò rassegnarmi».

«In sette giorni? Non sono Valentino! E poi non la conosco, non so…»

«Il tempo non conta. Tu le insegni il tedesco: galeotto il libro e chi lo scrisse, no?»

Dario si alzò, fra il divertito e l’imbarazzato:

«Vabbè, una bella donna non si rifiuta mai. Ma, tanto per saperlo, la signora ha un marito, no?»

«Gagliardi? Marito sì, uomo poi… matrimonio per procura. Lui era in Africa e si sposò la signorina qui. Combinato. Lui ricco, lei anche. Tranquillo, il marito non è un problema. I mariti non sono mai un problema…»

«Avvocato…!»

Era già sul pianerottolo pronto a scendere le scale quando volle togliersi la curiosità:

«La signora, quanti anni ha?»

«Trentuno, appena compiuti…»

Perfetto.

 

Andò a letto con la bocca impastata dai dolci portati dalle cugine di La Spezia, arrivate da quindici giorni a casa della zia Paola, moglie e figlie di ammiragli e capitani di corvetta della regia Marina entusiaste di venire a salutare il giovin militare tornato a casa. Ma quei dolci, appiccicosi come il loro affetto tanto esibito, non riuscirono a lenire un’epifania. Una rivelazione. Banale, ma presente. Aveva semplicemente rimosso, senza cattiveria, forse solo per distrazione, come spesso succedeva. Pensava ad altro e magari qualcosa gli passava davanti e non lo vedeva neppure.

Gigi Bertoldi, l’ingegner Bertoldi, il fidanzato di Lilly e, anche e soprattutto, prossimo marito – nozze fissate ai primi del luminoso 1942, anno ventesimo dell‘era fascista. Semplicemente scordato. Al suo arrivo, Lilly l’aveva accolto felice come sempre, ma non gli era venuto neppure per un istante in testa di chiedere cosa fa Gigi, come sta Gigi. No, nulla. Non perché Gigi non gli stesse sui coglioni, lo considerava un viscido, un “pratico” disposto a tutto. Ma non era per questo che lo aveva dimenticato: la sua era stata una semplice rimozione, dimenticanza, o salute mentale. Nobile tentativo di mettersi in salvo da una congiuntura terrificante, un’eventualità che quella sera, invece s’era puntualmente verificata. Guido, l’ottimo Guido e Gigi, il futuro cognato, insieme. In confronto, anche avesse mangiato in un boccone l’intero cabaret di paste, bevuto l’intera bottiglia di rosolio immancabilmente annessa e leccato un paio di portacenere per dessert, il gusto finale in bocca non sarebbe stato migliore.

E invece Gigi era stato quasi umano, ancora peggio. Aveva giocato la carta dell’innamorato con Lilly, portandole in dono, proprio quella sera, un bel cammeo di madreperla e brillantini e comunicando che avrebbero fatto il viaggio di nozze proprio a Roma, dove Lilly sognava di andare da tanto tempo.

Guido era tranquillo e passeggiava per il salone, sbocconcellando un cannellino alla crema con le briciole sparse sul panciotto, mentre dalla radio echeggiava il finale del Flauto magico diretto da Bruno Walter:

 

Dort wollen wir sie überfallen,

die Frömmler tigen von der Erd’

Mit Feuersglut und mächt’ gem Schwert

 

Là li vogliamo sorprendere,

cancellare i bigotti dalla terra

 fiamme infuocate e spada potenti

 

«Imponente, eh?» Gli si fece vicino Gigi, alludendo alla melodia «Mozart, eh… cosa dice, tu lo capisci?»

«Poco, è un tedesco parlato, un po’ difficile…»

 

Die Strahlen der Sonne vertreiben die Nacht,

Zernichten der Heuchler erschlichene Macht.

I raggi del sole dissipano la notte

Annullano il potere carpito con frode dagli ipocriti.

 

Imponente, Mozart? Si fosse buscato Wagner cosa avrebbe detto, l’ingegnere? Ciclopico? Teutonico?

«Allora, allievo pilota, possiamo star tranquilli, ci proteggi tu dai cieli?» riprese il futuro cognato.

«Proteggere? Ma se voliamo su dei baracchini che stanno su con lo sputo, legati col fil di ferro! Magari se con le vostre industrie aveste messo un po’ più di soldi a far roba buona… lo sai che dobbiamo comperare tutto in Germania?»

«Be’, allora, complementarietà si chiama. Mica possiamo competere: loro hanno la tecnica, l’industria pesante, noi ci mettiamo il genio, l’intelligenza…»

«Genio? Vallo a spiegare quando mi troverò un caccia inglese che mi gira attorno duecento chilometri più veloce, dove me lo metto il genio…»

Sguardi di  compatimento. Classico. Collaudato.

«Dario è sempre così polemico, eh…» fece la cugina figlia.

«No, sapete, la vita militare…»

Ci mancava solo che qualcuno della famiglia buttasse lì il classico «è stato ammalato da piccolo…» e il quadretto era fatto.

Buonanotte.

 

Il patto di Katharine_Capitolo 1_

Capitolo 1

20 ottobre 1941, lunedì

Guardava il signore con i baffi e la piccola cicatrice sulla fronte, seduto di fronte a lui. Dormiva tranquillo, le mani incrociate sul petto, appena un sospiro ogni tanto. Nello scompartimento solo la luce azzurrastra della lampadina di servizio, e fuori il paesaggio buio che scorreva oltre il finestrino. Celso s’era tolto le scarpe e aveva messo i piedi sul sedile di fronte, anche lui sbuffava appena. Di fianco, la ragazza salita a Cortona s’era addormentata da poco e ogni tanto mormorava qualcosa nel sonno.

Le labbra si muovevano, – belle labbra, pensò Dario – ma senza emettere suoni. O, se qualcosa usciva, il rumore regolare del treno lo copriva senza difficoltà. Una fila brevissima di lampioncini azzurri, appena percettibili per l’oscuramento, segnò il passaggio in una stazione, poco dopo Prato. La luna era già tramontata e solo qualche rarissima luce sulle montagne, apparendo e scomparendo, faceva capire che quel viaggio proseguiva. Verso Nord, verso casa.

Il telegramma era arrivato a Celso la mattina prima, quella formuletta pietosa che ricordava bene: «Babbo ricoverato, urge tua presenza». Il suo l’aveva ricevuto a Monaco, una giornata con un sole pallido, il tempo di preparare una borsa e salire sul primo treno. Non aveva fatto in tempo a vederla l’ultima volta e si sentiva ancora addosso la pioggia del funerale.

 

Stumme Seufzer, stille Klagen,

ihr mögt meine Schmerzen sagen,

weil der Mund geschlossen ist.

 

(Muti sospiri, lamenti silenziosi

solo voi potete esprimere il mio dolore,

essendo chiusa la mia bocca)

 

Il maggiore era stato più gentile di altre volte. Aveva anticipato la sua licenza di due giorni e l’aveva salutato con una stretta di mano poco formale: «Accompagni Fontana, sono momenti difficili». Poi gli aveva consegnato la busta con i documenti per la scuola di volo a vela di Cameri, dove avrebbe iniziato il corso sette giorni dopo.

Così erano finiti in breve anticipo i due mesi di scuola di volo basico a Ciampino. Il servizio alla patria come rimedio alla sua “pazzia”: s’era giocato la sessione di laurea di luglio ma aveva schivato anche i “provvedimenti” che Fantozzi, il federale, gli aveva minacciato. «Al ‘onfino, al ‘onfino».

Per la laurea ci sarebbe stato tempo, per la stupidità no. C’era stato poco da scegliere: o anticipare la chiamata di leva, oppure. Già, oppure. Aveva preferito scegliere l’arma, senza rischiare di finire in una qualche caserma a consumare le suole sul piazzale, lo zaino affardellato, con un coglione di graduato a farlo morire per il gusto di farglielo pagare, quel pugno sul naso a Finasi, il “bambinello del fascio”. Un pugno sacrosanto, se mai dato nel posto sbagliato, come possono essere le scale del teatro Municipale una sera di concerto al Circolo del Littorio. Un pugno sul naso, col sangue che era schizzato sulla camicia nera del giovane patrio virgulto. Perfetto. Manco si vedeva, il rosso, su quel colore da scarafaggio. Una vergogna, una vera vergogna. Una camicia nera, alla sera, a un concerto! E quella cravatta, nera pure lei ma di stoffa diversa, un po’ lucidina sull’opaco del tessuto grezzo. Era stata la rivincita del tessuto di Panama su quella roba autarchica e volgare: la sua camicia bianca e la cravatta di Amoldoni (blu notte con pallini beige) contro quel nero. Un pugno a zero. Oltretutto quel coglione s’era messo a dir su contro il professor Modena, l’aveva chiamato “giudeo”. Non era bastato cacciarlo da scuola? Togliergli il pane? No, non era bastato. Sempre oltre andavano, quelli lì, quelli come Finasi. Le camicie nere anche ai concerti.

 

E adesso anche Celso provava quel vuoto, quei «muti sospiri» della Cantata di Bach. Dario l’aveva ascoltata un paio di settimane dopo la morte della madre. Era tornato a Monaco, nella Chiesa barocca, in quella città così ferita dalle bandiere rosse e nere. Era tornato senza rimpiangere Reggio, e casa sua ormai mezza vuota. Allora non c’era ancora Gio‘ a salvargli la vita, a dargli un po’ di umanità. Giovanna, solo per lui Gio‘, conosciuta un 29 settembre. Gio‘, il suo sorriso, le sue gambe lunghe ed esili, quella piccola cicatrice sul mento.

Anche Celso avrebbe provato quel dolore muto, perché un padre è sempre un padre. Anche se il suo era Aurelio Fontana, detto “Ballòta” per quella pancia tenuta su dalla cintura che sembrava farcela appena a reggervisi sopra. Uno che la camicia nera l’aveva portata sempre, forse anche di notte, anche per venire in stazione ad accompagnare Celso alla partenza per la leva. Aurelio sul marciapiede, con la moglie, una donnina minuta con il naso a punta. Loro due e Lilly, la sorella di Celso, che quasi brillava con il suo abito leggero e colorato a fiori, e il cappello largo, chiaro. Il suo colore contro quel nero. Andato anche lui. Il fiduciario del gruppo rionale, il grossista di frutta e verdura di Piazza Fontanesi.

Celso si girò appena, senza svegliarsi. Il treno aveva imboccato le prime gallerie degli Appennini, e Dario benedisse il regime e le ferrovie che erano state elettrificate; ora era la Littorina a correre su quei binari verso Bologna, senza fumo, carbone, in perfetto orario. Merito anche di “Ballòta” e dei suoi, così volgari ma sempre meglio di quel bambinello col naso rotto.

All’uscita di una galleria, fuori dalla trincea scavata nella roccia, si accorse che era l’alba delle sei e mezzo di ottobre, in un cielo sempre più azzurro e indaco. Aveva dormito poco, forse una mezz’ora dopo Orte. Sarebbe arrivato a casa in anticipo, alle 8.12 sarebbe stato a Reggio, aveva già una mezza idea in testa per festeggiare quel ritorno inaspettato.

 

A Bologna lo scompartimento era tutto sveglio. Il signore coi baffi partito con loro da Roma si era scosso qualche minuto prima dell’entrata in stazione, si era riallacciato il panciotto, s’era passato il fazzoletto sulla fronte appena lucida e gli aveva sorriso. Un giovane sottoufficiale, doveva aver pensato, un vero italiano. Bella gioventù.

Bella gioventù mandata sotto le armi per la Patria. Anche se Dario era tutt’altro che quel “vero italiano” che il tizio poteva immaginarsi. Lo sapeva benissimo che essere un Lamberti aveva i suoi pregi, non solo i difetti. Non sarebbe mai stato mandato in zona d’operazioni. Gliel’aveva detto il nonno, la sera prima di partire: «Ti meriti qualche mese di ordine». Poi aveva sorriso sotto i baffoni: «Ma non troppo… tranquillo Dedo, ho ancora qualche amico…»

Dario l’aveva guardato senza capire. Aveva schivato i “provvedimenti” di Fantozzi, si sarebbe laureato nel quarantadue, ma cosa c’entravano gli amici del nonno?

Imboscato. Sotto le armi, in aeronautica, che le ragazze morivano dietro a quella bella divisa (ed era vero), ma lasciarci poi la pelle, quello no. Un Lamberti eroe? Era bastato quello sul Carso a qualificare la famiglia.

«Non ho intenzione di dare il mio Dedo perché quel testone là possa vincerci la guerra… se la vincesse da solo… adesso poi, con questa follia della Russia, un lavòr da màt!»

E il nonno l’aveva salutato come faceva lui, con una specie di carezza/buffetto su una guancia. Dedo: lo chiamava così da sempre, da quando si ricordava, che ancora aveva le croste sulle ginocchia e le mani sporche di terra. Dedo. Lui era Dedo per il nonno. Guido invece, suo fratello, il bravo, bravissimo Guido, era Guido e basta. Da sempre. Clelia era Lilly, Dario era Dedo, Guido era Guido. Tutto giusto. Com’era giusto il nonno.

Anche la ragazza di Cortona s’era svegliata e s’era riassettata pudicamente. S’era chiusa anche l’ultimo bottoncino del colletto, aveva aperto uno specchietto e aveva ripreso con un tocco di cipria le guance paffute. Insignificante. Doveva essere insignificante se in qualche ora di vicinanza a Dario non era venuto in mente neppure di chiedersi se sotto quell’abito i suoi seni fossero sodi o flosci.

Scosse Celso che era rimasto mezzo disteso a sonnecchiare, i piedi ancora sollevati. Il ragazzo lo guardò  con gli stessi occhi vuoti che aveva alla partenza.

«Siamo a Bologna».

 

Non era riuscito a dire quasi niente a Celso, dopo quel telegramma. Non che fossero mai stati tanto amici: lui al classico, l’altro alle magistrali. Lui a Bologna, lettere classiche, l’altro a Parma pedagogia, neppure finita. Erano partiti insieme, s’erano trovati insieme su quel marciapiede in stazione ed erano stati insieme. Stesso corso, stessa camerata. Insieme nelle prime libere uscite, poi Dario aveva trovato due ragazzi di Roma, Luciano e Paolo, e con loro le ragazze, le feste a casa loro, a Roma, saloni e grandi divani. Gabriella, soprattutto, la sorella di Paolo, una benedizione da coltivare.

Aveva sentito da parte di Celso quasi un senso di soggezione. Questione di classe, aveva pensato. Ma classe come stile, non per i soldi: che di quelli magari, in tasca, ne aveva di più l‘altro. Dario tornava in caserma e Celso era lì, lo aspettava, senza chiedergli «Com’è andata», ma era quello, in fondo, che voleva sapere. E lui a raccontare, quasi di malavoglia, le gite in auto, la cena al ristorante sui colli. Per l’aviere Fontana, invece, solo cinema e passeggiate, da solo o forse no. In compenso, Dario era stato rifornito di mezze spanne di torta di riso che la madre gli faceva arrivare ogni martedì, attraverso un “camerata” amico del padre.

 

Stava per chiedergli, sopra pensiero «Quando c’è il funerale?» Per fortuna si accorse della boiata che stava per fare. Rispettare le convenzioni. Il padre era “ricoverato”, grave forse, ma “ricoverato”. Celso lo immaginava, stupido non era, ma avrebbe capito tutto ancora su quel marciapiede in stazione.

Così era stato per lui. I marciapiedi delle stazioni come luogo di verità. Doveva annotarselo, nel suo libricino dei pensieri che si trascinava dietro da anni, tasca dei calzoni posteriore sinistra.

Il treno che si fermava, Celso che scendeva lento, poi il pianto della signora Fontana, gli abbracci a un signore con il cappello scuro sulla cinquantina che gli prese la valigia. Se ne andarono, così, tutti e tre verso l’uscita.

Dario si mise lo zaino a tracolla e uscì anche lui sul piazzale della stazione. Guardò il grande orologio sul fronte dell‘edificio: treno quasi puntuale, 8.15, tre minuti di ritardo, di nuovo a Reggio. Una Lancia grigia gli passò vicino; guardò i due tassì fermi, in attesa. No, a casa ci si andava a piedi, erano solo dodici minuti.

 

Stava per suonare il campanello quando la porta di casa si aprì.

«Dedo!» Stavolta il nonno superò sè stesso. Con un gesto che non avrebbe mai scordato, lasciò cadere la sua borsa di pelle e lo abbracciò. Un abbraccio vero, breve ma vero, come se all’improvviso, superato lo slancio, il vecchio si fosse ricordato delle buone, eterne norme di decoro famigliare.

«Dedo! Ti aspettavamo mercoledì! Ti hanno cacciato?»

«Ho accompagnato un amico in licenza per cause di famiglia e il maggiore…»

«Bene… ci vediamo a pranzo». Il nonno aveva ripreso il suo stile.

Si scostò e lo lasciò entrare. Lilly sulla porta gli gettò le braccia al collo, il cappello militare cadde e rotolò poco dentro l’ingresso.

«Come sei bello! Sembri un attore!» gli mise le mani sulle spalle guardandolo dal basso in alto.

«Dai! Non fare la scema!» e la presa per la vita e la sollevò.

Si misero a sedere in cucina, mentre la vecchia Dorina preparava il caffè.

Dario raccontò della licenza anticipata, della morte del padre di Celso, della sua nuova destinazione. Il caffè non era ancora pronto che già aveva iniziato a togliersi la divisa, voleva farsi una doccia e poi andare dove sapeva lui.

Non si mise la cravatta, sopra la camicia solo la giacca grigia di panno e l’impermeabile.

«Mi dai le chiavi?» allungò la destra verso Lilly che sorrideva divertita.

«Ma dove devi andare?» lo canzonò.

«Dai, dammi le chiavi…»

«No, voglio sapere dove vai…»

Dario era troppo contento per tenere dentro quel segreto di Pulcinella:

«Gio‘ esce da lezione alle dieci e mezza, in auto arrivo a Parma in tempo…»

«Le chiavi sono nel cruscotto, ma stai attento, la via Emilia è pericolosa…»

Dario la strinse, le stampò un bacio in fronte:

«Ti adoro!» e uscì correndo per le scale.

Lilly rimase un attimo lì, poi tornò in cucina.

«Che bel ragazzo s’è fatto il signorino…» sorrise Dorina.

«Quando si è innamorati succede…»

 

Pieve era passata da poco, La Cella era là davanti, la via Emilia era piena quella mattina. Era il terzo camion che incrociava, e quelle file di ciclisti e il biroccio che aveva dovuto sorpassare! Sembravano tutti messi apposta lì per lui, contro di lui, su quella Balilla a tre marce, roba che con un’Ardea gli avrebbe fatto vedere! O anche in moto, ma poi come la riportava indietro Gio‘? Attaccata dietro, all’aria? Ora poi che veniva anche qualche goccia dal cielo grigino…

Per fortuna dopo Sant‘Ilario il traffico diminuì, e alle dieci e sedici era fermo davanti alla Facoltà di Chimica, ingresso laterale, quello sul vialetto. Aveva accompagnato lì Gio’ a giugno, due giorni prima di partire. Esame di chimica organica. Lei non aveva voluto che entrasse in aula e si era fatta aspettare in corridoio. Aveva preso ventisette, e all’uscita aveva lasciato cadere la borsa in terra e l’aveva baciato lì, davanti a tutti. Un bacio vero, di quelli che dopo per un attimo non sai bene dove sei. E se ci sei ancora.

Guardava il solito via vai di studenti entrare e uscire. Sempre più maschi in divisa e ragazze sottobraccio a parlare fra di loro. Chissà se le facoltà selezionavano anche le belle o no. O se quelle brutte preferivano una facoltà piuttosto che un’altra. Certamente Gio’ alzava la media di Chimica, poco ma sicuro: i suoi fianchi, le sue gambe, i suoi seni, quegli occhi, quel modo di guardarti e sorridere. La facoltà avrebbe dovuto alzarle il voto in qualche esame solo per il contributo estetico conferito.

Dal portone uscì la Tiziana Codeluppi, la compagna di Gio’, era finita la lezione. Per un istante aveva pensato di andare subito davanti alla cancellata, dov’erano appoggiate le biciclette, ma poi capì che doveva sfruttare l’auto. Poteva restarci nascosto dietro, vederla uscire, venirgli incontro senza che lei potesse vederlo e poi uscire solo quando lei avesse attraversato il viale. Benedisse la Balilla di Lilly che gli aveva permesso di essere lì. Tiziana dimostrò l’esattezza del suo piano, si fece il vialetto davanti a lui, attraversò la strada, passò a un paio di metri dall’auto senza accorgersi di nulla. Lui, appiattito dietro al platano, stile poliziotto.

Poi, finalmente, uscì anche Gio’. I capelli lunghi e mossi sulle spalle, un foulard azzurro sul soprabito grigio chiaro. Bella, bellissima, come la ricordava. Si fermò un attimo per dare un libro a una ragazza, poi si girò e le venne incontro un ragazzo. L’abbracciò e lo baciò, lui la prese per la vita e si incamminarono per il vialetto. Ora li aveva davanti, a venti metri, quindici, dieci. Il ragazzo era alto, i capelli scuri e mossi, la faccia simpatica e un po’ strafottente. Sorrideva e parlava chinandosi verso di lei.

Magari quel platano fosse stato una quercia secolare, una foresta, un baobab! Da nasconderlo, da farlo sparire, inghiottirlo. Se li vide sfilare a fianco, a tre metri. Come aveva previsto, ma tutta un‘altra scena.

Ebbe una specie di vampata di calore, la faccia come si fosse trovata davanti a una fornace spalancata. Aprì lo sportello e salì in macchina. Non sapeva che fare. Il contachilometri della Balilla lo guardava. La lancetta a zero, poco sopra l’indicatore dei chilometri fatti: 23.259. 23.259. 2+3+2+5+9 faceva 21, 2+1 faceva 3. 2+3+2+5+9 faceva 21, 2+1 faceva 3. Se lo ripetè una decina di volte. Quasi senza pensare accese il motore, mise la freccia e si mosse. Fece un tratto del viale, poi si fermò. Andava nella direzione sbagliata. Lasciò passare un camioncino e poi tornò indietro, poco dopo il platano girò a destra. Avevano preso quella strada, magari andavano in stazione. Accelerò, forse aveva perso troppo tempo, forse si erano infilati in una laterale.

Invece no, adesso camminavano mano per mano sul marciapiede di sinistra. Semplice, una coppia di ragazzi.

La Balilla andava venti metri e poi si fermava. Altri venti metri e di nuovo stop.

Nella piazzetta presero la strada larga a sinistra. Si fermarono davanti al portone. Dario guardò la targa sul muro, via Settembrini. Entrarono e richiusero. La Balilla passò davanti al palazzo. Civico 9. Via Settembrini 9.

Altri cento metri e poi fu fermo di nuovo. 23.260, quasi 61. 6+1 fa 7. Ripartì, poi di nuovo fu fermo. Girò intorno all’aiuola dei giardini e parcheggio’. Da lì via Settembrini 9 era perfettamente in vista. Erano le 11 meno cinque.

Il primo quarto d’ora fu dedicato alla matematica: 23×26: 598, 2×32:64, 64 diviso 6: 10,6 e poi… si arrese quando cercò di calcolare la radice quadrata di 598.

Scese dalla macchina ma restando sempre nascosto, non voleva che magari, dalla finestra… Fece il giro della piazzetta, guardò dentro alla vetrina di un caffè, poi in una latteria, un fornaio. Una signora che tornava dalla spesa con una grossa sporta da cui spuntava un lungo gambo di sedano si fermò a parlare con un milite, due ragazzini giocavano a palla sull’aiuola spelacchiata sotto un grande cedro. Dario gironzolava, sempre con lo sguardo su quel portone. La testa vuota, un vuoto assoluto e amaro. Peggio che una vertigine. Via Settembrini 9.

Alle 12.27 Gio’ uscì dal portone e girò a sinistra. Andava di fretta, andava in stazione. Il treno era alle 12.55. Ce l’avrebbe fatta: Gio’ andava svelta, sapeva anche correre, e forte.

Dario risalì in auto e partì. Doveva arrivare a Reggio. Doveva essere a Reggio in stazione. Doveva esserci un minuto prima di lei.

 

Probabilmente fece un nuovo record, roba da Nuvolari alla Mille Miglia, ma in stazione ci arrivò in tempo. Tanto da riuscire anche a sciacquarsi la faccia alla fontanella per darsi un’espressione appena più umana, almeno a giudicare da quello che riusciva a vedere nello specchietto della Balilla.

«Sono felice, sono felice, sono felice, sono felice» si ripeteva. «Tutto va bene, tutto va bene, ci sarà una spiegazione, deve esserci…»

Gio’ lo vide subito uscendo nel piazzale. S’era messo apposta lì davanti, non poteva aspettare neppure il tempo di vedersela arrivare, venti o trenta metri distante.

Perché i suoi occhi erano quelli di sempre, quelli che aveva aspettato, desiderato così tanto? Perché lo baciò davvero, come aveva sognato?

Senza dir niente si incamminarono verso la Balilla, tenendosi stretti. Quando Gio’ vide l’auto rimase sorpresa.

«Perché in auto?»

«Ero già in giro… e poi volevo festeggiare».

 

La lasciò davanti casa. Lei lo baciò ancora. «Ho voglia di te». E sapeva cosa voleva dire.

«Vengo alle tre, va bene?»

«Sì».

 

Quella fu l’unica volta che il nonno aveva aspettato qualcuno a pranzo. Il rito immutabile e ineluttabile delle ore 13 esatte in casa Lamberti era una certezza, un punto fermo nella vita di tutta la famiglia. Chi non era seduto alle 13 al grande tavolo rettangolare nella sala verde (il colore delle decorazioni floreali sui muri giallini) aveva solo l’alternativa della cucina, dove la Dorina avrebbe comunque servito il pranzo, ma in quel luogo che manteneva per tutti, in famiglia, una connotazione servile, di ripiego.

Il nonno a capotavola, la mamma a destra – c‘era Lilly, ora, al suo posto – e Guido a sinistra. Anche il posto di Dario era a destra, a fianco di Lilly. I rari, eventuali, ospiti occupavano i due rimanenti posti, che venivano però sempre apparecchiati al completo.

Dario entrò alle 13.26. Il nonno non aveva voluto che lo si aspettasse, e si era già al secondo, la paillard di vitello e zucchini al burro. Quello però era un giorno eccezionale, e solo per questo a Dario fu concesso di sedersi e prendere parte, salutato – fatto inusitato anche quello – dal bicchiere di rosso levato in suo onore dal nonno appena si fu seduto. Per un istante a Dario sembrò che Guido fosse ancora più pallido del solito, ma doveva essere stato solo un cattivo pensiero, non il solo in quella giornata.

Fra un boccone e l’altro, mentre si ripeteva ancora “sono felice, sono felice”, rifece la cronaca della giornata precedente: la licenza anticipata, la prossima destinazione.

«Hai qualche giorno di tregua, riposati!» suggerì il nonno.

Guido non disse nulla o quasi, salvo un quasi sibilato: «So che Fontana aveva dei problemi…», quando si accennò alla disgrazia di Celso, causa diretta, nella sfortuna, del fortunato arrivo di Dario.

Poi, dopo la frutta, come sempre il nonno si alzò, piegò l’ampio tovagliolo, infilandolo poi nel legatovaglioli di argento, e si diresse verso lo studio, verso la sua poltrona. Anche Dario si alzò subito, il tempo del caffè, s’infilò la giacca e uscì, con un “ciao” a Guido e lanciando un bacio a Lilly.

Doveva uscire, aveva la Balilla, doveva andare.

In realtà la sua era stata una reazione nervosa. Non aveva nessuna destinazione, né alcun desiderio. Cercare Paolo, forse, ma non sapeva gli orari del seminario, o Alberto, ma sapeva che con il primo non sarebbe riuscito a non essere sincero e col secondo non voleva fare la figura del povero scemo tradito. No. Nessuna idea, salvo prendere la macchina e andare.

 

Era puntuale, anzi qualche minuto in anticipo. Gio’ spinse la porticina in strada, quella laterale, per entrare dal lato della rimessa e salire nella stanzina di Dario, quella piccola sopra il garage, con la stufa Becchi accesa d’inverno, la scrivania e il divano. Doveva vederlo, anche se non sapeva come e cosa dirgli. La porta non si aprì. Era sempre accostata, lo era sempre stata. Alla sera, verso le sei, usciva di casa e correva lì, da Dario. Per sua madre era a casa dei Lamberti. Normale, regolare. Nominalmente vero, sostanzialmente falso. Era in camera con Dario.

Ma la porta era chiusa. La solita distrazione di Dario. Fece il giro del palazzo ed entrò dal portone grande, salì lo scalone e suonò il campanello, il pulsante di ottone incassato nel muro sotto la targhetta Lamberti.

Lilly le aprì e le sorrise sorpresa:

«Non sei con Dario?»

«Dovevamo vederci alle tre…»

Lilly aggrottò le ciglia:

«È uscito in fretta dopo pranzo, pensavo…»

Gio’ rimase in silenzio.

«Be‘, vi siete visti prima, no? È venuto a Parma a prenderti, deve aver fatto una bella corsa…»

«A Parma…?»

«Sì, ha preso la Balilla apposta, ero anche preoccupata…»

«Sì, certo, è venuto a prendermi… ma dovevamo rivederci…»

«Be‘, vedrai, si farà vivo, tutto bene, no?»

«Sì, certo, tutto bene… ciao, devo andare ora».

E scese le scale in fretta, ma non riuscì ad uscire dal portone in strada. C’era ancora troppa luce, e non voleva che qualcuno la vedesse.

 

Tornò a Reggio prima di rimanere senza benzina. La Balilla faceva spesso quello scherzo: prima che la lancetta fosse a zero il motore si fermava, la benzina non arrivava più al carburatore e amen. Era arrivato fino a Scandiano, poi a Viano, era salito a Regnano ed era sceso alla Fola, con i finestrini aperti e le ruote che fischiavano nelle curve o slittavano sulla ghiaia delle strade bianche. Era quasi davanti alla chiesa di San Pellegrino quando rallentò, c’era gente che era uscita ed era ferma a parlare sul sagrato. Stava per girare a sinistra all’incrocio quando si sentì chiamare.

Frenò e si volto per capire chi lo avesse chiamato.

La faccia di Celso apparve all’improvviso dal finestrino:

«Dario, scusa, mi porti a casa?»

Non poteva rifiutare e il ragazzo salì:

«Scusami, abbiamo appena detto il rosario per il babbo, il funerale è domattina alle dieci…»

«Non ho fatto in tempo stamattina, alla stazione, a dirti che… be‘, ti faccio le mie condoglianze…»

«Grazie…»

Erano già in viale Umberto I quando Dario si accorse di non sapere dove abitasse Celso. Lo aveva conosciuto in pratica una mattina in stazione, e ora non sapeva dove andare.

«Scusa, ma dove abiti?»

«Non importa, non volevo restare con tutta quella gente, ora poi, ora…»

Celso stava con la testa insaccata nel cappotto e piangeva.

«Lo so, non sono momenti facili…»

«No, è peggio, ora che… che so, cioè…»

Dario era imbarazzato. Gli era capitato qualche volta di fermarsi in auto con una ragazza in lacrime a fianco, roba di storie finite, di fidanzamenti andati a quel paese (gli altri?), ma non con un ragazzo, in lutto poi.

«Che vergogna, tutti lo sanno… e fanno finta…»

«Sanno cosa?»

Celso abbassò ancora di più la testa e mormorò:

«Che s’è ucciso. Suicidio, capisci?»

No, non capiva. Capiva le parole, il senso, ma non la sostanza. Fontana s’era suicidato? Era un commerciante conosciuto, le poche volte che ne aveva sentito parlare non aveva sentito cose particolari: fascista di quelli veri, ma a parte quello…

«Ma non ti hanno spiegato? Com’è stato? Sei suo figlio, no?»

«La mamma niente, neanche gli zii, non fosse stato per lo zio Rico…»

Dario lo guardò senza capire, conosceva appena Celso, figurarsi i parenti.

«Lo chiamo così, Americo, il signor De Marchi, era amico del babbo, l’ho sempre chiamato “zio Rico”, è lui che mi ha spiegato… il problema dei soldi, le cambiali e il babbo non ce l’ha fatta, s’è impiccato a San Prospero, a casa dei suoi, in solaio…»

Per consolare una ragazza bastava una carezza, una stretta affettuosa, le passavi il fazzoletto per asciugare le lacrime. Ma con un ragazzo?

«… Ma io non ci credo, il babbo non l’avrebbe mai fatto, il disonore, il disonore, che vergogna, no, il babbo no…»

Poi sollevò lo sguardo:

«Dario, scusa, tuo fratello è una persona… lavora in banca, no? Non potresti chiedere? Magari sa qualcosa… aiutami…»

Era talmente disperata, quella voce, che Dario non riuscì neppure a dire che i rapporti con suo fratello Guido non erano proprio ottimi, senza un motivo preciso, così, roba fra fratelli, da ragazzi e anche ora. Non riuscì a dirgli niente se non un: «Ne riparliamo, magari domani…»

Celso mormorò appena un „ciao“ , scese dall’auto e si avviò sotto i viali.

 

Quella non fu una serata facile per Dario. Lilly lo aspettava in cortile, davanti alla rimessa, per l’inevitabile predica: «Dove sei stato? Eravamo preoccupati… in giro in auto… Giovanna ti cercava…» Ma con lei non fu difficile. Bastò un semplice e incredibile  «…ero al rosario per il babbo di Celso» per lasciarla beatamente soddisfatta. Più arduo accettare di mettersi a sedere a fianco di Guido per cercare qualche informazione su Fontana.

L’aggancio, però, l’aveva dato lui, a pranzo, con quella sua mezza frase sui “problemi” di Fontana medesimo.

«Perchè lo vuoi sapere?»

«Celso non si dà pace…»

«Be‘, non è bello avere un padre…»

«Che si uccide…»

«Allora lo sanno tutti…» Ecco Guido: se Dario sapeva qualcosa allora dovevano “saperlo tutti”. Logico.

Fece un nuovo sforzo di volontà:

«Ma aveva problemi di soldi?»

«Uno per cosa si uccide?»

Logico anche questo. Per Guido.

«Ma al punto di…»

«Senti» lo guardò un po’ spazientito, come fosse un bimbo che s’impicciava di cose da adulti, «Fontana aveva un bel commercio, poi s’è voluto andare a infilare nell’impresa in Abissinia e da lì sono iniziati i guai…»

«Abissinia?»

«Con la scusa dell’Impero era andato giù con degli altri di Reggio per avviare un commercio di coloniali – frutta, spezie e cose simili – contava sull’appoggio di Bofondi, il federale, ma le cose non sono andate per il loro verso. Lui ha perso un piede in un incidente, è tornato a casa e non è stato più in grado di onorare gli impegni… Che poi arrivasse a tanto…»

Stava per rispondere “voi bancari non potevate prevedere… magari gli avevate già pignorato anche il letto…”, ma non gli sembrò opportuno. Guido si alzò da tavola, il colloquio era finito. Grazie.

Perché aveva un fratello così? È vero che i parenti non si scelgono, però Guido sembrava davvero un caso sfortunato. Aveva solo cinque anni in più, quasi sei, ma non si ricordava una volta sola in cui l’avesse sentito non fratello, ma almeno amico, vicino, prossimo. Sempre bravo, pettinato, vestitino, ordinato. Se c’era un rimprovero arrivava da lui, se c’era quello sguardo gelido era il suo. Lui il bravo, Dario lo strano, quello che «Cosa fai? Stai a modo! Non ti comportare…» Anche al funerale della mamma «non ti bagnare, non ti fare compatire, come al solito…», perché lui se ne stava fuori dall’ombrello, nel corteo, a lasciarsi passare d’acqua in quella giornata di piombo. Del resto cosa rimproverare a Guido? Bravo, tutti otto alla maturità, laurea in legge, quattro anni, perfetto. In banca, col nonno, a lavorare nove ore al giorno. Del resto, cos’altro sapeva fare? Mai visto con la camicia slacciata, mai un bicchiere in più (anzi, astemio, che schifo!), amici? Mah… Divertimenti? Figurarsi. Al massimo al Circolo a giocare a scala quaranta con le signore. Estate una settimana a Chiavari, a casa di un collega (così non spendeva neppure per la pensione), col sospetto poi che non uscisse neanche di casa, considerato il colore cereo che manteneva al ritorno dalla vacanza. Donne, poi! Ce l’aveva anche piccolo! Ebbe anche l’idea pessima di scherzarci su l’ultima volta in cui il caso li infilò nella stessa cabina, un luglio a Rimini con la mamma, costretti a cambiarsi vicini.

 

Ma Guido era solo una tappa di quella sera difficile. Non voleva, non doveva farsi trovare da Gio’. Non sapeva cosa avrebbe fatto, cosa avrebbe detto. Gli tornavano in mente solo quei numeri dei contachilometri della sua Balilla. Forse per lui quella giornata sarebbe stata quello, soltanto quello: 23.260. Un 23.259 prima e un 23.261 dopo. Ma ora non era pronto, non c’era, non era il momento. Mangiò qualcosa in cucina, Dorina aveva sempre un avanzo giusto per lui (carne fredda con cipolline in agrodolce) e poi corse di nuovo fuori. Lilly lo fermò sull’uscio: «Se ti cerca Gio’?», come a dire “Non sono scema, posso fare finta o sembrarla, ma…“

Avrebbe voluto tirarsi dietro la porta e sparire, evaporare, strisciare via lungo il muro come un ombra, ma Lilly era lì, con la sua dolce evanescenza.

«Se mi cerca, dille che ho trovato questo posto: via Settembrini 9. Dalle questo indirizzo, poi ci risentiamo…»

«Aspetta…» la sorella si girò a prendere un pezzetto di carta e la matita dal tavolino sotto al telefono a muro.

«Via Settembrini 9… ecco, così mi ricordo… ciao, non far tardi!»

E finalmente chiuse la porta e scese le scale.

 

Arrivò al bar Impero in dieci minuti, ben illuminato nonostante l’oscuramento, si fermò sul marciapiede opposto, davanti alla Timo, all’angolo di via S.Nicolò, per controllare. Metti caso avesse incontrato di nuovo Finasi o, peggio, qualche scatenato del Guf! Per un cazzotto era finito in aeronautica, per due cosa sarebbe successo? Nella X Mas, nei sommergibilisti? L’aria sembrava tranquilla ed entrò. Pelati, il cameriere piccolo e occhialuto, gli venne incontro:

«Lamberti, come sta? È tornato, in licenza? Cosa le offro?»

«Sì, appena arrivato, grazie… un cognac, prenderei un cognac…»

«Volentieri… è sempre bello veder tornare dei ragazzi, coi tempi che corrono…bròt teimp…»

«Sì, era più divertente una volta».

Pelati era tornato dietro il bancone e gli aveva versato il liquore:

«Purtroppo ogni giorno… Bagnoli, Bianchi, Salati, se li ricorda? Luciano Salati?»

«Luciano? Abbiamo fatto certe gite in montagna…»

«Era negli alpini, caduto in Grecia. Bagnoli in Africa, cioè… affondato con la nave silurata… sua madre, sapesse, vedova con altri due ragazzi! Che poi poteva stare a casa, ma lui no, suo padre era morto sul Piave e lui doveva essere all’altezza. Quando è partito è venuto a salutarci, „Ci vediamo a Natale, vi porto un po’ di sabbia dell’Africa“ aveva detto, sabbia! Non c’è neanche arrivato alla sabbia… ma si può? Si può?»

«Purtroppo si può, caro Pelati, se siamo qui a parlarne…»

«Ma lei, dov’è, dove la mandano?»

Sono un imboscato, tranquillo!

«Per ora vado a fare il secondo corso di volo, a Cameri, poi vedremo!»

«Stia attento!»

«Attento? Speriamo di avere del c…, della fortuna, insomma…»

 

«Dario… siamo rovinati!» Alberto gli allungò uno scappellotto e subito lo abbracciò stringendolo per le spalle.

«Sono contento, ci sei…» lo guardò negli occhi, erano occhi buoni quelli di Alberto.

«Sono qui, appena tornato, ho sette giorni…»

«Voglio vederti in divisa, chissà che scena… sempre gagà!»

«Un bel gagà con questa rasata a bestia…» e gli scompigliò i capelli ricci. Alberto si riassettò:

«Dai vieni a far due passi… fra un po’ arriveranno in tanti…»

Si avviarono verso Piazza del Monte. Alberto raccontava del suo ultimo esame, della fretta di finire per poter affiancare in ambulatorio il padre, sempre più malmesso in salute, dei mezzucci che aveva dovuto praticare per rinviare ancora la chiamata alla leva. Lo diceva con vergogna e la voce gli calava. Benvenuto nel partito degli imboscati!

«Non siamo dei gran patrioti!» gli venne a dire.

«No, non è così» Alberto si fermò, «io partirei domani se credessi…»

«In questa guerra di merda? Ci credo… Su me non garantirei, ma tu sei…»

«Scemo?»

«Sei anche scemo, ma sei onesto!» Si guardarono e non sapevano più cosa dire.

Invece bisognava dire, perché Dario sapeva di correre il rischio che l’affetto per Alberto gli facesse rompere il blocco che si era imposto, per quella giornata dispari che gli era arrivata addosso. 23.260 si ripeteva. 23.260.

«Domattina vado al funerale di Fontana, Celso è militare con me…», così per cambiare argomento.

«Ho sentito, s’è ucciso, vero? Ne parlano tutti, anche se sai, certe cose… comunque Celso è un bravo ragazzo, non è un’aquila, deve essere stato un bel colpo…»

«E poi con questa cazzo di guerra, lui via, la famiglia a casa…»

«Be‘, se è per quello, il congedo è già pronto, tornerà fra dieci giorni, vedrai… a proposito… a quando il congedo matrimoniale?»

«Il congedo cosa…?»

«Sei smemorato, eh? La sera prima di partire ne avevi parlato tu… volevi sposare Gio’ prima di partire, ehhh… fai il furbo? O hai trovato una bella romana?»

Cazzo, cazzo. 23.260. No, anzi, era al 23.259.

«Ehh, sai, il fascino della divisa… no, non c’entra, sì è vero, ma lei ha solo vent‘anni, studia ancora… comunque… be‘…» Cosa avrebbe potuto fare in quel momento, per sottrarsi a quella sensazione di terribile imbarazzo? Fare un buco lì in Piazza del Monte e sparire? Nascondersi dietro alle statue sotto il portico e far finta di niente per qualche mese?

«Va bene, va bene, comunque sarò il testimone, eh? Me l’hai promesso…»

«Tranquillo. Quando sarà, sarai il primo a saperlo».

Nei film a questo punto arriva il colpo di scena che salva l’eroe. Si presenta l’attendente a chiamare alla guerra, alla battaglia decisiva il mattino dopo, o la bella fatale che si è persa e cerca un letto caldo nella notte.

Nella realtà ci si trova lì come uno scemo, in quella giornata dispari, con l’unica – o quasi –  persona fidata, senza sapere più cosa dire. Salvo sputarle in faccia, per liberarsi l’anima e lo stomaco: “Gio’ mi tradisce, va a letto con un altro: via Settembrini 9, Parma”.

Per fortuna l’aiutò la natura, grosse gocce iniziarono a cadere e i due si affrettarono di corsa di nuovo verso il Bar a incontrare gli altri “amici”.