Il patto di Katharine_Capitolo 2_

21 ottobre, martedì

La signora con la sporta gli veniva incontro, ma il sedano che le usciva dalla borsa non era un sedano ma un bastone, lungo e nodoso. «Ci vuole questo con le donne…» suggeriva con accento parmigiano, mentre lui rimaneva lì senza far niente. «Lo prenda…» ripeteva, e poi quei due mano nella mano e d’improvviso le cosce di Gio’, sul letto e subito un altro letto, il suo, che non riconosceva. E la Balilla che non riusciva a fermare perché stava correndo su un cornicione sulla via Emilia che finiva all’improvviso e lui era dentro all’Enza, l’acqua saliva ed era fradicio d’acqua, mentre della gente guardava dalla spalletta del ponte.

Fece appena in tempo a scendere dal letto, in ginocchio in terra, il tempo esatto di aprire il comodino, estrarre il vaso da notte e vomitarci dentro. Al buio, quasi senza reagire, la faccia verso terra. Urtò la bottiglia di cognac che aveva vuotato per addormentarsi e che, evidentemente, aveva contributo a quella eruzione notturna non proprio piacevole. Rimase giù un po’, poi, adagio, si rimise a sedere sul letto. Le 3.25. Bell’orario per star male. Magari alle otto di sera, quattro del pomeriggio. Ma le 3.25 no. Orario da tirar le cuoia, in silenzio, che poi ti ritrovano al mattino già rigido come un pesce caduto fuori dalla boccia la sera prima.

E poi cosa si può fare, a quell’ora, per veder filtrare la luce del mattino il prima possibile? Prendersi su e girare per strada, oltretutto con i casini chiusi? Al massimo incontrare l’ultimo ubriaco o il primo degli spazzini?

Si mise alla scrivania, carta e penna. Scriverle? Utile, certo! In quattro mesi le aveva scritto a giorni alterni più o meno sessanta lettere, e ne aveva ricevute altrettante, sempre scritte con la stilografica che le aveva regalato prima di partire, inchiostro blu. «Non sporcarti sempre le dita» le aveva raccomandato, conoscendo la sua tendenza ad impugnare la penna quasi in punta, con la calligrafia tonda e forte. Un fiume di lettere, di racconti, desideri, pensieri. Ma davvero la scrittura aveva un senso? Si poteva scrivere e poi vivere altrove, fare altro, amare altro. O erano due vite divise, quella di chi scrive e quella di chi vive? E lui non si era accontentato tanto spesso solo di scrivere?  Gio’ forse aveva scelto anche di vivere, senza di lui. Ora come poteva ricucire quei due percorsi? Oltretutto, ci voleva provare?

Aveva represso tutto il giorno il desiderio, la voglia di vederla, di toccarla, perché non riusciva a tener dentro quello che gli era esploso. La frustrazione si aggiungeva a frustrazione, aveva il diritto di affrontarla, di insultarla, di dirle, dirle cosa? Che non riusciva a pensare di stare senza di lei? Che la voleva ancora, sempre? E che, quindi, aveva perso due volte, tradito e così debole, incapace di alzarsi e andare via, chiudere e basta? La sua vitalità, la sua sensualità non erano stati ingredienti importanti nel suo amore per lei, e allora? Illudersi di essere l’unico, l’irripetibile? Forse perché lui non poteva rinfacciarsi nulla? Certo. Ma lei non lo sapeva. Non esisteva. Lei lo aveva tradito per quello che sapeva, non per quello che non esisteva. Per come lo conosceva.

Quasi con furore scrisse un foglio, poi un altro, arrivò al terzo e si fermò. Avesse saputo parlare e vivere come sapeva scrivere! Lei forse sapeva fare entrambe le cose. Prese i tre fogli e li mise nel cassetto, quello in basso a destra, pieno di roba inutile, scritta cento altre volte.

Si rimise sul letto, la luce del giorno era un po’ più vicina.

 

Davanti allo specchio, il nodo alla cravatta, la divisa. L’aquiletta del primo volo. Quei capelli così corti che gli facevano un testone che il cappello copriva appena.

«Preso il caffè?» Lilly era già vestita, pronta ad uscire, sulla porta del bagno.

«Tranquilla, Dorina mi ha aveva già preparato anche il caffelatte con il pane, i biscotti al burro, roba da vacanza di una volta… il burro poi, noi in caserma ne abbiamo a bidoni, ma voi con la tessera come fate…?»

«Ehh, la tessera… la roba gira, basta pagare…»

«Borsaneristi, nemici della patria!»

«Dario, cos’è successo con Gio’? Perché mi hai fatto dire quella cosa, dare quell’indirizzo? Sapevi cosa sarebbe successo…»

Colletto troppo stretto, il pomo d’adamo picchiò contro il bordo rigido.

«Cosa è successo?»

«S’è messa a piangere ed è scappata via, per le scale, quasi si ammazzava…»

«È una ragazza atletica…»

«Perché…»

«Vado, il funerale mi aspetta, prendo la bicicletta così non vi preoccupate dell’auto…»

Le diede un bacio di sfuggita, prese l’impermeabile e uscì di casa.

Il cielo era grigiolino, non faceva quasi freddo. Fece una bella pedalata fino a San Pellegrino, su per viale Risorgimento, in mezzo alla campagna. Il corteo sarebbe partito dal Gruppo rionale fascista ma l’unico posto dove poteva essere lui era lì da don Angelo, oltretutto appena tornato dalla Germania. Un ritorno o un Ausweisung, come gli aveva suggerito Alberto? Il feretro era appena arrivato e subito si accorse di una cosa che gli fece un enorme piacere. I labari, la paccottiglia nera, erano fuori sul sagrato. Unica concessione, deposti sulla cassa, la Sciarpa Littorio e il fez. Magari il manganello glielo avevano infilato dentro, con qualche bottiglia di olio di ricino, ricordo del bei tempi. La chiesa era colma e parte della gente era fuori, soprattutto quella in divisa. Quella nera.

La sua, invece, sembrava riscuotere solo deferenza, tant’è che un tizio con degli occhiali spessi fece cenno per offrirgli un posto a sedere, nel banco lì a destra. No, grazie. Sono giovane, io, eroico imboscato nelle patrie milizie, posso stare in piedi.

Don Angelo fu veloce, concentrandosi sopratutto sul ruolo della famiglia e degli affetti. Benedizione del feretro e uscita fra i labari alzati, e un grido: «Camerata Fontana, presente!» Sperò non ci fossero troppi militari in giro, perché proprio non riuscì a fare il saluto, come, forse, il regolamento avrebbe prescritto (e poi perché? Era un fascista, mica un militare). In realtà non gli venne neppure in mente, e s’accorse della mancanza quando, proprio di fronte a lui, vide un capitano dell’esercito scattare sugli attenti. “Sempre strani quelli dell’aeronautica, avrà pensato“  e la cosa andava bene così.

Salutò di sfuggita Celso, trascinato qui e là da parenti e varia umanità. Alle undici il carro funebre partì verso il cimitero di San Prospero.

Stava per riprendere la bicicletta, per andare non sapeva dove, quando alle sue spalle sentì una voce inconfondibile, bassa e fumosa:

«Lamberti, Lamberti Dario, dove va?»

«Avvocato Bottazzi, il mio salvatore!» gli tese la mano.

«Non si fa il saluto? Il solito ragazzaccio! Neanche un po’ di disciplina ti hanno insegnato?» e ricambiò la stretta.

L’avvocato era piccolo, sui quarantacinque anni, il naso massiccio reggeva gli occhiali cerchiati d’oro. Bottazzi l’aveva salvato dal “honfino” che quello scemo del federale Fantozzi gli aveva minacciato, ma soprattutto  dalla querela di Finasi, tacitato con un congruo risarcimento famigliare per le cure mediche del caso (setto nasale e relative adiacenze). Vecchio amico di mamma e papà, penalista di vaglia, alla valentia dell’uomo di legge univa una conoscenza enciclopedica di Reggio e dei reggiani. Una memoria incredibile (e una curiosità un po’pettegola) ne facevano una informatore magnifico, se solo avesse avuto qualche curiosità. E ora ne aveva. Gli venne da chiedergli: “Con chi va a letto Giovanna Messori?”, ma poi temette di avere la risposta, così ripiegò su un più banale:

«Come mai qui?»

«Fontana era stato mio cliente, fascista ma non dei peggiori, poi si mise con i “moschettieri” e allora le cose cambiarono…»

«Moschettieri»?

Dario si appoggiò a sedere sul muretto del sagrato, anche per essere più a portata di voce del piccolo avvocato.

«Sono i bei frutti del nostro celeste Impero! Fontana aveva il suo commercio ben avviato, qualche difettuccio politico, anche qualche gonnella magari, ma roba normale. Poi zac, l’Impero. S’è messo in testa di diventare un importatore in grande stile, così è partito con altri tre, i “quattro moschettieri di Gondar” li chiamavano, quattro squadristi in affari, sai che roba! Fontana, Americo De Marchi il geometra, Umberto Iotti “quartàsa” e Natale Pigoni. L’unico che se l’è cavata, a parte quartàsa che se la cava sempre, è stato Americo, che qualche cantiere l’ha aperto. Fontana l’hanno rimpatriato con la Croce rossa dopo che aveva lasciato un piede sotto un trattore, ma peggio di tutti è finito Pigoni che è rimasto là. Secco».

«La guerra?»

«Se chiami guerra due coltellate in una rissa con dei negri…»

«Bella fine, insomma, per i nostri eroi… e “quartàsa” Iotti, perché si chiama così?»

«Perché quella sa fare, la quartàsa, sai cos’è, no? Aspettare uno, tirargli il cappotto sulla testa e riempirlo di legnate. Era famoso fra gli squadristi: bastone, coltello, e peggio…»

«Bel tipo… un vero signore… e cosa fa?»

«Saperlo! Quel che capita, adesso l’autista per De Marchi, coi soldi dell’Africa s’è messo su una bella impresina edile, la Casa del Fascio di Villa Ospizio, quella coi mosaici, l’ha tirata su lui… e anche altro…»

«Fontana, invece…»

«Tornato è dovuto stare dei mesi al Rizzoli di Bologna per la protesi, i lavori andavano male, s’è indebitato con le banche…»

Chissà quale banca.

«E tu? Come mai un sovversivo, anche se pentito, va al funerale di un camerata suicida?»

«Celso era al corso con me, l’ho riportato a casa ieri…»

Bottazzi lo squadrò dal basso all’alto:

«Sai che il militare ti fa bene? Capelli corti, barba fatta, la divisa poi… chissà quanta figa, eh?»

«Ehh, sapesse…»

«Sei un ragazzaccio!» e gli batte un colpo sul braccio.

«Piuttosto, Celso è disperato, ha saputo del suicidio dal De Marchi, lo chiama zio Rico, è di casa sembra…»

«Bel parente… ma non sono imparziale. Americo mi fregò una certa signorina, una ventina d’anni fa, e la cosa ancora mi brucia. Oltretutto la mise incinta e la mollò in mezzo a una strada, povera Elvira!»

«Vabbè, Celso dovrà rassegnarsi, lo congederanno…»

«E finirà sul lastrico per pagare i debiti, magari è tanto onesto da accettare l’eredità…»

 

Dario era già risalito in bicicletta e stava salutando Bottazzi quando l’avvocato lo trattenne. Uscendo da un altro crocchio di persone sul sagrato, s’era avvicinato un signore sulla cinquantina, tondo, lobbia calcata in testa.

«Avvocato! Anche lei ai funerali!» si strinsero la mano e Bottazzi fece le presentazioni.

Dottor Bedeschi. Medico della Federazione fascista, come testimoniava la cimice luccicante sul bavero.

«I camerati se ne vanno, la vecchia guardia cede il passo, e questi giovani? Che fanno? Lei è fratello di Guido, vero? Bravo ragazzo, ottimo tecnico!»

Il dottor Bedeschi aveva già presentato le sue credenziali. Era un coglione. Punto.

Incurante della risposta, proseguì la sua dichiarazione:

«Vecchi camerati, è il tempo, una volta venivano da me per lo scolo, gran chiavatori! Adesso, poveretti! Ci manca solo l’autopsia! Fontana poi, con quello che gli era successo! Senza un piede…»

Bottazzi socchiuse appena gli occhi:

«È stato lei a…»

«L’han trovato a San Prospero e m’han chiamato… troppo tardi, che fine! Deve aver sofferto come un cane, all’ultimo istante deve aver pensato, chissà, s’è divincolato tanto che s’era staccata la protesi,! Un fascista si tira un colpo in testa, altro che una corda a un trave… mah…»

Non ci sono più i camerati di una volta. Ma Dario lo pensò solo, gli era bastato già il casino dell’altra volta, Bedeschi sapeva chi era e non era il caso di sfidare la sua sorte di felice imboscato.

«Guardi, Bottazzi…» e indicò una signora che stava salendo su un‘auto in attesa.

«Guardi la Gagliardi, che stacco di gamba, che stile! Fortunato quel marito…»

«E non solo quello…» strizzò l’occhio Bottazzi, salutandolo.

«Omaggi al fratello…»

Va a cagare, fascista.

 

«Ma chi è quel tipo?»

«Bedeschi? Un fallito totale, un medico dei morti, l’hanno messo in federazione per toglierlo dai guai. Serve un lavoro sporco? Bedeschi…»

«E la signora Gagliardi? Bedeschi ha ragione…»

«Ragazzaccio! Ti piace? Se vuoi, è un po’ grandina, ma forse ha un debole per i bei ragazzi, interessa?»

«Perché no?»

«Passa in studio da me, verso le sei…»

 

Cosi erano i quattro moschettieri: Fontana, De Marchi, Iotti e Pigoni. Eroi dell’Impero. Altro che Vincenzo Bonaretti, suo compagno alle elementari, partito convinto di portare la cristianità in Africa, con lo zio prete a benedirlo alla partenza. Volontario, sepolto in Abissinia, diciannove anni. Eroe decorato, bella soddisfazione. Vincenzo che aveva sempre freddo e stava vicino alla stufa, in fondo in classe. Almeno aveva trovato il caldo, laggiù.

 

Non poteva pretendere l’impossibile. S’era messo a pedalare in fretta già a Porta Castello alle prime gocce, la visiera del cappello un po’ lo riparava ma le gocce cadevano grosse, spinte contro di lui dal vento che gli veniva contro.

La gente nella strada si riparava in fretta vicina ai muri. Qualcuno, uscito da un negozio, rimaneva sulla soglia guardando verso il cielo bigio.

Gio’ era davanti al portone, l’impermeabile del giorno prima, incantucciata nello spessore del muro. Forse se non avesse fatto l’ultima curva così in fretta avrebbe potuto far finta e tirar dritto, ma così, con la pioggia addosso non poteva cambiar strada. Eppure quello fu il primo istinto.

Arrivò con la bicicletta dentro all’androne, scese, l’appoggiò al muro, si scosse l’acqua di dosso.

«Ciao».

«Ciao».

Ecco, no, quello sguardo. Quello sguardo no, lo sapeva. Il cucciolo abbandonato, lo sguardo di chi ha appena ritrovato il padrone. Proprio quello voleva evitare, dal giorno prima. Quello sguardo e il suo silenzio. Il suo candore criminale. Quel guardarti e farti sentire tu, il colpevole, il forte, di fronte a quell’indifeso affidarsi. Lo conosceva quello sguardo. E lui era lì, non sarebbe mai stato capace di dire un altro “ciao” e andarsene, era preso, catturato. Se l’era preparato il discorso, l’aveva scritto, tre fogli. Logici, fermi ma anche sentimentali, teneri ma decisi. Perché basta, perché finire. In fila, in ordine, le parole, il ragionamento. Tesi, antitesi, sintesi. Parole stese con eleganza. Lui era bravo, a scrivere. Una lira per ogni foglio che aveva scritto! Chiedeva poco, una lira! Bastava a vivere di rendita. Sarebbe bastato.

Ma i fogli erano in fondo al cassetto, quello in basso della sua scrivania. E invece lei era lì, con quegli occhi disperati, nel silenzio.

Non aveva ancora aperto bocca e già l’avrebbe presa fra le braccia, stretta, a dirle ti voglio, stai qui, per sempre… Le parole, la logica, l’idea giusta. Evaporate, da quando l’aveva presa per la mano la prima volta, verso sera, in un’altra città.

La strada era solo una, quella da evitare. Ma quanti errori si fanno, felici, sapendo di farli?

«Perché?»

«Scusami».

Gio’ si accostò e gli mise la testa sul petto. Piangeva.

Dario guardava davanti a sé, non voleva sentirla ma era la cosa più dolce che riuscisse a capire in quel momento.

Quanti errori si fanno, felici, sapendo di farli?

 

Salirono nella sua stanza sopra il garage senza una parola, si spogliarono a vicenda con il solo desiderio di essere insieme. Quanti errori si fanno, felici.

 

Non mangiarono neppure. Poi, dopo, il cammino peggiore: le sue domande, irripetibili, orrende, oscene, e le risposte di lei. Precise, dettagliate. Per farsi più male, per fissare in mente immagini, ricordi non suoi, dettagli. Di Gio’ e l’altro. Marco.

Tutti i come, nessun perché.

Per avere quanto più dolore dentro, quanto più materiale da far bruciare le prossime notti. Tempo ce ne sarebbe stato. Nessuna concessione, usava Gio’ come un coltello affilato e lei non riusciva a tirarsi indietro. Dire “no, basta, fermiamoci…”.

Durò fino a sera. Si rivestirono e lei uscì. Ma Dario l’avrebbe tenuta lì ancora, e ancora.

 

Anche Dario uscì. Aveva smesso di piovere. Girare in divisa era l’ultima cosa che avrebbe pensato di fare a Reggio. Invece quella cosa addosso ora lo proteggeva. Era qualcuno, qualcosa. La gente lo guardava con simpatia, poteva pensare. Lui l’unico, l’irripetibile o l’imboscato, il tradito?

 

In realtà non aveva capito l’accenno di Bottazzi: «Passa in studio da me, verso le sei…», ma la cosa gli si chiarì subito. La signora Gagliardi stava chiacchierando, seduta di fronte all’avvocato, fumava e il tono era scherzoso. Dario si affacciò sull’uscio e Bottazzi lo accolse allegro come sempre:

«Ecco il ragazzaccio…»

La Gagliardi si alzò e Dario capì le osservazioni del mattino dell’orrendo medico della federazione. Era davvero… bella? Mah, non era il termine giusto. Non è la bellezza, era sempre quel qualcos’altro che faceva la differenza. E nella signora Gagliardi quella volta furono gli occhi verdi, luminosi, e la mano che gli tese al momento della presentazione. Una mano come quella di Gio’, forte, magra. Una stretta senza paura. Era alta e i capelli biondo scuro risaltavano sul colletto di velluto del soprabito.

«Ecco qui il ragazzaccio, cara Rita, te ne avevo parlato, il pericoloso sovversivo…»

Per un istante temette che anche lei partisse con le lodi all’esimio fratello, ma non fu così, per fortuna:

«L’avvocato mi aveva descritto il fratello di Guido come un saltafossi: non mi sembra proprio, mi trovo un elegante ufficiale… oltretutto non siete neanche somiglianti».

«È un insulto o un complimento…?» la guardò con lo sguardo più teso che riuscì a mettere insieme.

«Senti che caratterino il nostro Dario! Tranquilla, altra pasta dal fratello bancario…»

Si sedettero. Chiacchiere conviviali, lei offrì una sigaretta, Dario rifiutò.

«Senza vizi?»

«Non fumo.»

«Dario non temere, a Rita piace provocare…»

Ancora qualche commento sulle ultime vicende della città, il funerale del mattino, poi Bottazzi arrivò al dunque:

«Allora, cari amici, vi ho presentato non perché mi sia deciso a cambiar lavoro» e sorrise malizioso sotto gli occhiali, «ma perché posso mettere in contatto due amici per un motivo utile. Rita deve accompagnare il marito in Germania la settimana prossima e ha poco tempo per rinfrescare la lingua, e Dario», e si voltò verso di lui, «… sa bene il tedesco e deve riempire una licenza che potrebbe farlo annoiare. E la cosa peggiore per Dario è annoiarsi, vero? Così magari potreste unire le due cose, io faccio da trait d‘union, vi ho presentato e mi ritiro…»

E anche fisicamente si ritrasse sulla sua poltrona di legno scuro, incrociò le mani sul petto e se ne stette lì a guardarli.

Dario e Rita sorrisero, sorpresi.

«L’avvocato ama scherzare» iniziò lei, «però è vero, ho studiato tedesco a Trento, ero in collegio. Ma poi il tempo…»

Tempo? Già, quanti anni poteva avere la signora Gagliardi? L’avrebbe saputo poi, tutto avrebbe saputo da Bottazzi, se lo sentiva, ma voleva farsene un’idea. Più di trenta? No, ma poco meno,  forse ventotto, ventinove. La pelle era fresca, poco trucco, labbra incurvate, sorriso aperto. Trentuno al massimo.

«Bottazzi mi sopravaluta, sono stato sei mesi a Monaco due anni fa…»

«Sì, dai, ho visto la tua tesi, usi quasi tutti testi in tedesco… non fare il modesto, fossi stato meno saltafossi avresti avuto un futuro, l’asse Roma-Berlino! Ti vedevo già all’ambasciata…»

Dario la guardò tranquillo: «L’avvocato mi conosce da bambino e mi ha sempre preso in giro, e continuerà a farlo, comunque…

«Il suo è un sì, allora, mi darà lezioni in questi giorni?» e sorrise soddisfatta.

«Sì, se si accontenta…»

Rita si alzò, si richiuse il soprabito, lo salutò: «La chiamo domattina, l’avvocato mi ha dato il suo numero…» e, seguendo Bottazzi, uscì dalla stanza.

Dario si rimise a sedere, sentì la porta dello studio chiudersi e poco dopo Bottazzi era tornato sulla sua poltrona. Sorridente come un bimbo davanti al suo giocattolo nuovo.

«Avvocato, che scherzo mi ha fatto?»

«Scherzo? Ti faccio un regalo così e me lo chiami scherzo? Chi ti ricorda, dai, dì, chi ti ricorda?»

«Ricorda?»

«Ma sì, dai… ti aiuto: attrice, americana…»

Cavolo! Katharine Hepburn! Certo, appena più in carne, meno spigoli, però…

«Katharine Hepburn…»

«Vedi che ci sei arrivato… non è splendida?»

«Sì, be’, ma cosa c’entra?»

«Hai tempo, magari fare nuove conoscenze te ne fa passare un po‘. Le licenze sono delle noie, ci sei ma non ci sei…»

«E poi… la conosco…»

«Vabbè, fra uomini si può dire: non mi vergogno. Le ho fatto una corte spietata, e sai che io non ci mollo. Non sono una bellezza, ma ho un mio fascino, almeno così dicono. Ci conosciamo bene, carina, scherza, sembra che ci stia e poi, tac, niente. Una serietà assoluta. Anche in giro, nessuna voce, nulla. E io le cose, prima o poi, le vengo a sapere! Niente da fare… allora mi sono detto: „Arriva Dario, puoi sfatare una tua convinzione filosofica…»

«Quale?»

«Non esistono donne fedeli. Forse un avvocato un po’ passato non ce la fa, ma un bel tipo, in divisa, intelligente, un po’ mascalzone… altrimenti dovrò rassegnarmi».

«In sette giorni? Non sono Valentino! E poi non la conosco, non so…»

«Il tempo non conta. Tu le insegni il tedesco: galeotto il libro e chi lo scrisse, no?»

Dario si alzò, fra il divertito e l’imbarazzato:

«Vabbè, una bella donna non si rifiuta mai. Ma, tanto per saperlo, la signora ha un marito, no?»

«Gagliardi? Marito sì, uomo poi… matrimonio per procura. Lui era in Africa e si sposò la signorina qui. Combinato. Lui ricco, lei anche. Tranquillo, il marito non è un problema. I mariti non sono mai un problema…»

«Avvocato…!»

Era già sul pianerottolo pronto a scendere le scale quando volle togliersi la curiosità:

«La signora, quanti anni ha?»

«Trentuno, appena compiuti…»

Perfetto.

 

Andò a letto con la bocca impastata dai dolci portati dalle cugine di La Spezia, arrivate da quindici giorni a casa della zia Paola, moglie e figlie di ammiragli e capitani di corvetta della regia Marina entusiaste di venire a salutare il giovin militare tornato a casa. Ma quei dolci, appiccicosi come il loro affetto tanto esibito, non riuscirono a lenire un’epifania. Una rivelazione. Banale, ma presente. Aveva semplicemente rimosso, senza cattiveria, forse solo per distrazione, come spesso succedeva. Pensava ad altro e magari qualcosa gli passava davanti e non lo vedeva neppure.

Gigi Bertoldi, l’ingegner Bertoldi, il fidanzato di Lilly e, anche e soprattutto, prossimo marito – nozze fissate ai primi del luminoso 1942, anno ventesimo dell‘era fascista. Semplicemente scordato. Al suo arrivo, Lilly l’aveva accolto felice come sempre, ma non gli era venuto neppure per un istante in testa di chiedere cosa fa Gigi, come sta Gigi. No, nulla. Non perché Gigi non gli stesse sui coglioni, lo considerava un viscido, un “pratico” disposto a tutto. Ma non era per questo che lo aveva dimenticato: la sua era stata una semplice rimozione, dimenticanza, o salute mentale. Nobile tentativo di mettersi in salvo da una congiuntura terrificante, un’eventualità che quella sera, invece s’era puntualmente verificata. Guido, l’ottimo Guido e Gigi, il futuro cognato, insieme. In confronto, anche avesse mangiato in un boccone l’intero cabaret di paste, bevuto l’intera bottiglia di rosolio immancabilmente annessa e leccato un paio di portacenere per dessert, il gusto finale in bocca non sarebbe stato migliore.

E invece Gigi era stato quasi umano, ancora peggio. Aveva giocato la carta dell’innamorato con Lilly, portandole in dono, proprio quella sera, un bel cammeo di madreperla e brillantini e comunicando che avrebbero fatto il viaggio di nozze proprio a Roma, dove Lilly sognava di andare da tanto tempo.

Guido era tranquillo e passeggiava per il salone, sbocconcellando un cannellino alla crema con le briciole sparse sul panciotto, mentre dalla radio echeggiava il finale del Flauto magico diretto da Bruno Walter:

 

Dort wollen wir sie überfallen,

die Frömmler tigen von der Erd’

Mit Feuersglut und mächt’ gem Schwert

 

Là li vogliamo sorprendere,

cancellare i bigotti dalla terra

 fiamme infuocate e spada potenti

 

«Imponente, eh?» Gli si fece vicino Gigi, alludendo alla melodia «Mozart, eh… cosa dice, tu lo capisci?»

«Poco, è un tedesco parlato, un po’ difficile…»

 

Die Strahlen der Sonne vertreiben die Nacht,

Zernichten der Heuchler erschlichene Macht.

I raggi del sole dissipano la notte

Annullano il potere carpito con frode dagli ipocriti.

 

Imponente, Mozart? Si fosse buscato Wagner cosa avrebbe detto, l’ingegnere? Ciclopico? Teutonico?

«Allora, allievo pilota, possiamo star tranquilli, ci proteggi tu dai cieli?» riprese il futuro cognato.

«Proteggere? Ma se voliamo su dei baracchini che stanno su con lo sputo, legati col fil di ferro! Magari se con le vostre industrie aveste messo un po’ più di soldi a far roba buona… lo sai che dobbiamo comperare tutto in Germania?»

«Be’, allora, complementarietà si chiama. Mica possiamo competere: loro hanno la tecnica, l’industria pesante, noi ci mettiamo il genio, l’intelligenza…»

«Genio? Vallo a spiegare quando mi troverò un caccia inglese che mi gira attorno duecento chilometri più veloce, dove me lo metto il genio…»

Sguardi di  compatimento. Classico. Collaudato.

«Dario è sempre così polemico, eh…» fece la cugina figlia.

«No, sapete, la vita militare…»

Ci mancava solo che qualcuno della famiglia buttasse lì il classico «è stato ammalato da piccolo…» e il quadretto era fatto.

Buonanotte.

 

Il patto di Katharine_Capitolo 2_ultima modifica: 2020-03-14T17:01:15+01:00da pelikan-55
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