Il patto di Katharine_Capitolo 1_

Capitolo 1

20 ottobre 1941, lunedì

Guardava il signore con i baffi e la piccola cicatrice sulla fronte, seduto di fronte a lui. Dormiva tranquillo, le mani incrociate sul petto, appena un sospiro ogni tanto. Nello scompartimento solo la luce azzurrastra della lampadina di servizio, e fuori il paesaggio buio che scorreva oltre il finestrino. Celso s’era tolto le scarpe e aveva messo i piedi sul sedile di fronte, anche lui sbuffava appena. Di fianco, la ragazza salita a Cortona s’era addormentata da poco e ogni tanto mormorava qualcosa nel sonno.

Le labbra si muovevano, – belle labbra, pensò Dario – ma senza emettere suoni. O, se qualcosa usciva, il rumore regolare del treno lo copriva senza difficoltà. Una fila brevissima di lampioncini azzurri, appena percettibili per l’oscuramento, segnò il passaggio in una stazione, poco dopo Prato. La luna era già tramontata e solo qualche rarissima luce sulle montagne, apparendo e scomparendo, faceva capire che quel viaggio proseguiva. Verso Nord, verso casa.

Il telegramma era arrivato a Celso la mattina prima, quella formuletta pietosa che ricordava bene: «Babbo ricoverato, urge tua presenza». Il suo l’aveva ricevuto a Monaco, una giornata con un sole pallido, il tempo di preparare una borsa e salire sul primo treno. Non aveva fatto in tempo a vederla l’ultima volta e si sentiva ancora addosso la pioggia del funerale.

 

Stumme Seufzer, stille Klagen,

ihr mögt meine Schmerzen sagen,

weil der Mund geschlossen ist.

 

(Muti sospiri, lamenti silenziosi

solo voi potete esprimere il mio dolore,

essendo chiusa la mia bocca)

 

Il maggiore era stato più gentile di altre volte. Aveva anticipato la sua licenza di due giorni e l’aveva salutato con una stretta di mano poco formale: «Accompagni Fontana, sono momenti difficili». Poi gli aveva consegnato la busta con i documenti per la scuola di volo a vela di Cameri, dove avrebbe iniziato il corso sette giorni dopo.

Così erano finiti in breve anticipo i due mesi di scuola di volo basico a Ciampino. Il servizio alla patria come rimedio alla sua “pazzia”: s’era giocato la sessione di laurea di luglio ma aveva schivato anche i “provvedimenti” che Fantozzi, il federale, gli aveva minacciato. «Al ‘onfino, al ‘onfino».

Per la laurea ci sarebbe stato tempo, per la stupidità no. C’era stato poco da scegliere: o anticipare la chiamata di leva, oppure. Già, oppure. Aveva preferito scegliere l’arma, senza rischiare di finire in una qualche caserma a consumare le suole sul piazzale, lo zaino affardellato, con un coglione di graduato a farlo morire per il gusto di farglielo pagare, quel pugno sul naso a Finasi, il “bambinello del fascio”. Un pugno sacrosanto, se mai dato nel posto sbagliato, come possono essere le scale del teatro Municipale una sera di concerto al Circolo del Littorio. Un pugno sul naso, col sangue che era schizzato sulla camicia nera del giovane patrio virgulto. Perfetto. Manco si vedeva, il rosso, su quel colore da scarafaggio. Una vergogna, una vera vergogna. Una camicia nera, alla sera, a un concerto! E quella cravatta, nera pure lei ma di stoffa diversa, un po’ lucidina sull’opaco del tessuto grezzo. Era stata la rivincita del tessuto di Panama su quella roba autarchica e volgare: la sua camicia bianca e la cravatta di Amoldoni (blu notte con pallini beige) contro quel nero. Un pugno a zero. Oltretutto quel coglione s’era messo a dir su contro il professor Modena, l’aveva chiamato “giudeo”. Non era bastato cacciarlo da scuola? Togliergli il pane? No, non era bastato. Sempre oltre andavano, quelli lì, quelli come Finasi. Le camicie nere anche ai concerti.

 

E adesso anche Celso provava quel vuoto, quei «muti sospiri» della Cantata di Bach. Dario l’aveva ascoltata un paio di settimane dopo la morte della madre. Era tornato a Monaco, nella Chiesa barocca, in quella città così ferita dalle bandiere rosse e nere. Era tornato senza rimpiangere Reggio, e casa sua ormai mezza vuota. Allora non c’era ancora Gio‘ a salvargli la vita, a dargli un po’ di umanità. Giovanna, solo per lui Gio‘, conosciuta un 29 settembre. Gio‘, il suo sorriso, le sue gambe lunghe ed esili, quella piccola cicatrice sul mento.

Anche Celso avrebbe provato quel dolore muto, perché un padre è sempre un padre. Anche se il suo era Aurelio Fontana, detto “Ballòta” per quella pancia tenuta su dalla cintura che sembrava farcela appena a reggervisi sopra. Uno che la camicia nera l’aveva portata sempre, forse anche di notte, anche per venire in stazione ad accompagnare Celso alla partenza per la leva. Aurelio sul marciapiede, con la moglie, una donnina minuta con il naso a punta. Loro due e Lilly, la sorella di Celso, che quasi brillava con il suo abito leggero e colorato a fiori, e il cappello largo, chiaro. Il suo colore contro quel nero. Andato anche lui. Il fiduciario del gruppo rionale, il grossista di frutta e verdura di Piazza Fontanesi.

Celso si girò appena, senza svegliarsi. Il treno aveva imboccato le prime gallerie degli Appennini, e Dario benedisse il regime e le ferrovie che erano state elettrificate; ora era la Littorina a correre su quei binari verso Bologna, senza fumo, carbone, in perfetto orario. Merito anche di “Ballòta” e dei suoi, così volgari ma sempre meglio di quel bambinello col naso rotto.

All’uscita di una galleria, fuori dalla trincea scavata nella roccia, si accorse che era l’alba delle sei e mezzo di ottobre, in un cielo sempre più azzurro e indaco. Aveva dormito poco, forse una mezz’ora dopo Orte. Sarebbe arrivato a casa in anticipo, alle 8.12 sarebbe stato a Reggio, aveva già una mezza idea in testa per festeggiare quel ritorno inaspettato.

 

A Bologna lo scompartimento era tutto sveglio. Il signore coi baffi partito con loro da Roma si era scosso qualche minuto prima dell’entrata in stazione, si era riallacciato il panciotto, s’era passato il fazzoletto sulla fronte appena lucida e gli aveva sorriso. Un giovane sottoufficiale, doveva aver pensato, un vero italiano. Bella gioventù.

Bella gioventù mandata sotto le armi per la Patria. Anche se Dario era tutt’altro che quel “vero italiano” che il tizio poteva immaginarsi. Lo sapeva benissimo che essere un Lamberti aveva i suoi pregi, non solo i difetti. Non sarebbe mai stato mandato in zona d’operazioni. Gliel’aveva detto il nonno, la sera prima di partire: «Ti meriti qualche mese di ordine». Poi aveva sorriso sotto i baffoni: «Ma non troppo… tranquillo Dedo, ho ancora qualche amico…»

Dario l’aveva guardato senza capire. Aveva schivato i “provvedimenti” di Fantozzi, si sarebbe laureato nel quarantadue, ma cosa c’entravano gli amici del nonno?

Imboscato. Sotto le armi, in aeronautica, che le ragazze morivano dietro a quella bella divisa (ed era vero), ma lasciarci poi la pelle, quello no. Un Lamberti eroe? Era bastato quello sul Carso a qualificare la famiglia.

«Non ho intenzione di dare il mio Dedo perché quel testone là possa vincerci la guerra… se la vincesse da solo… adesso poi, con questa follia della Russia, un lavòr da màt!»

E il nonno l’aveva salutato come faceva lui, con una specie di carezza/buffetto su una guancia. Dedo: lo chiamava così da sempre, da quando si ricordava, che ancora aveva le croste sulle ginocchia e le mani sporche di terra. Dedo. Lui era Dedo per il nonno. Guido invece, suo fratello, il bravo, bravissimo Guido, era Guido e basta. Da sempre. Clelia era Lilly, Dario era Dedo, Guido era Guido. Tutto giusto. Com’era giusto il nonno.

Anche la ragazza di Cortona s’era svegliata e s’era riassettata pudicamente. S’era chiusa anche l’ultimo bottoncino del colletto, aveva aperto uno specchietto e aveva ripreso con un tocco di cipria le guance paffute. Insignificante. Doveva essere insignificante se in qualche ora di vicinanza a Dario non era venuto in mente neppure di chiedersi se sotto quell’abito i suoi seni fossero sodi o flosci.

Scosse Celso che era rimasto mezzo disteso a sonnecchiare, i piedi ancora sollevati. Il ragazzo lo guardò  con gli stessi occhi vuoti che aveva alla partenza.

«Siamo a Bologna».

 

Non era riuscito a dire quasi niente a Celso, dopo quel telegramma. Non che fossero mai stati tanto amici: lui al classico, l’altro alle magistrali. Lui a Bologna, lettere classiche, l’altro a Parma pedagogia, neppure finita. Erano partiti insieme, s’erano trovati insieme su quel marciapiede in stazione ed erano stati insieme. Stesso corso, stessa camerata. Insieme nelle prime libere uscite, poi Dario aveva trovato due ragazzi di Roma, Luciano e Paolo, e con loro le ragazze, le feste a casa loro, a Roma, saloni e grandi divani. Gabriella, soprattutto, la sorella di Paolo, una benedizione da coltivare.

Aveva sentito da parte di Celso quasi un senso di soggezione. Questione di classe, aveva pensato. Ma classe come stile, non per i soldi: che di quelli magari, in tasca, ne aveva di più l‘altro. Dario tornava in caserma e Celso era lì, lo aspettava, senza chiedergli «Com’è andata», ma era quello, in fondo, che voleva sapere. E lui a raccontare, quasi di malavoglia, le gite in auto, la cena al ristorante sui colli. Per l’aviere Fontana, invece, solo cinema e passeggiate, da solo o forse no. In compenso, Dario era stato rifornito di mezze spanne di torta di riso che la madre gli faceva arrivare ogni martedì, attraverso un “camerata” amico del padre.

 

Stava per chiedergli, sopra pensiero «Quando c’è il funerale?» Per fortuna si accorse della boiata che stava per fare. Rispettare le convenzioni. Il padre era “ricoverato”, grave forse, ma “ricoverato”. Celso lo immaginava, stupido non era, ma avrebbe capito tutto ancora su quel marciapiede in stazione.

Così era stato per lui. I marciapiedi delle stazioni come luogo di verità. Doveva annotarselo, nel suo libricino dei pensieri che si trascinava dietro da anni, tasca dei calzoni posteriore sinistra.

Il treno che si fermava, Celso che scendeva lento, poi il pianto della signora Fontana, gli abbracci a un signore con il cappello scuro sulla cinquantina che gli prese la valigia. Se ne andarono, così, tutti e tre verso l’uscita.

Dario si mise lo zaino a tracolla e uscì anche lui sul piazzale della stazione. Guardò il grande orologio sul fronte dell‘edificio: treno quasi puntuale, 8.15, tre minuti di ritardo, di nuovo a Reggio. Una Lancia grigia gli passò vicino; guardò i due tassì fermi, in attesa. No, a casa ci si andava a piedi, erano solo dodici minuti.

 

Stava per suonare il campanello quando la porta di casa si aprì.

«Dedo!» Stavolta il nonno superò sè stesso. Con un gesto che non avrebbe mai scordato, lasciò cadere la sua borsa di pelle e lo abbracciò. Un abbraccio vero, breve ma vero, come se all’improvviso, superato lo slancio, il vecchio si fosse ricordato delle buone, eterne norme di decoro famigliare.

«Dedo! Ti aspettavamo mercoledì! Ti hanno cacciato?»

«Ho accompagnato un amico in licenza per cause di famiglia e il maggiore…»

«Bene… ci vediamo a pranzo». Il nonno aveva ripreso il suo stile.

Si scostò e lo lasciò entrare. Lilly sulla porta gli gettò le braccia al collo, il cappello militare cadde e rotolò poco dentro l’ingresso.

«Come sei bello! Sembri un attore!» gli mise le mani sulle spalle guardandolo dal basso in alto.

«Dai! Non fare la scema!» e la presa per la vita e la sollevò.

Si misero a sedere in cucina, mentre la vecchia Dorina preparava il caffè.

Dario raccontò della licenza anticipata, della morte del padre di Celso, della sua nuova destinazione. Il caffè non era ancora pronto che già aveva iniziato a togliersi la divisa, voleva farsi una doccia e poi andare dove sapeva lui.

Non si mise la cravatta, sopra la camicia solo la giacca grigia di panno e l’impermeabile.

«Mi dai le chiavi?» allungò la destra verso Lilly che sorrideva divertita.

«Ma dove devi andare?» lo canzonò.

«Dai, dammi le chiavi…»

«No, voglio sapere dove vai…»

Dario era troppo contento per tenere dentro quel segreto di Pulcinella:

«Gio‘ esce da lezione alle dieci e mezza, in auto arrivo a Parma in tempo…»

«Le chiavi sono nel cruscotto, ma stai attento, la via Emilia è pericolosa…»

Dario la strinse, le stampò un bacio in fronte:

«Ti adoro!» e uscì correndo per le scale.

Lilly rimase un attimo lì, poi tornò in cucina.

«Che bel ragazzo s’è fatto il signorino…» sorrise Dorina.

«Quando si è innamorati succede…»

 

Pieve era passata da poco, La Cella era là davanti, la via Emilia era piena quella mattina. Era il terzo camion che incrociava, e quelle file di ciclisti e il biroccio che aveva dovuto sorpassare! Sembravano tutti messi apposta lì per lui, contro di lui, su quella Balilla a tre marce, roba che con un’Ardea gli avrebbe fatto vedere! O anche in moto, ma poi come la riportava indietro Gio‘? Attaccata dietro, all’aria? Ora poi che veniva anche qualche goccia dal cielo grigino…

Per fortuna dopo Sant‘Ilario il traffico diminuì, e alle dieci e sedici era fermo davanti alla Facoltà di Chimica, ingresso laterale, quello sul vialetto. Aveva accompagnato lì Gio’ a giugno, due giorni prima di partire. Esame di chimica organica. Lei non aveva voluto che entrasse in aula e si era fatta aspettare in corridoio. Aveva preso ventisette, e all’uscita aveva lasciato cadere la borsa in terra e l’aveva baciato lì, davanti a tutti. Un bacio vero, di quelli che dopo per un attimo non sai bene dove sei. E se ci sei ancora.

Guardava il solito via vai di studenti entrare e uscire. Sempre più maschi in divisa e ragazze sottobraccio a parlare fra di loro. Chissà se le facoltà selezionavano anche le belle o no. O se quelle brutte preferivano una facoltà piuttosto che un’altra. Certamente Gio’ alzava la media di Chimica, poco ma sicuro: i suoi fianchi, le sue gambe, i suoi seni, quegli occhi, quel modo di guardarti e sorridere. La facoltà avrebbe dovuto alzarle il voto in qualche esame solo per il contributo estetico conferito.

Dal portone uscì la Tiziana Codeluppi, la compagna di Gio’, era finita la lezione. Per un istante aveva pensato di andare subito davanti alla cancellata, dov’erano appoggiate le biciclette, ma poi capì che doveva sfruttare l’auto. Poteva restarci nascosto dietro, vederla uscire, venirgli incontro senza che lei potesse vederlo e poi uscire solo quando lei avesse attraversato il viale. Benedisse la Balilla di Lilly che gli aveva permesso di essere lì. Tiziana dimostrò l’esattezza del suo piano, si fece il vialetto davanti a lui, attraversò la strada, passò a un paio di metri dall’auto senza accorgersi di nulla. Lui, appiattito dietro al platano, stile poliziotto.

Poi, finalmente, uscì anche Gio’. I capelli lunghi e mossi sulle spalle, un foulard azzurro sul soprabito grigio chiaro. Bella, bellissima, come la ricordava. Si fermò un attimo per dare un libro a una ragazza, poi si girò e le venne incontro un ragazzo. L’abbracciò e lo baciò, lui la prese per la vita e si incamminarono per il vialetto. Ora li aveva davanti, a venti metri, quindici, dieci. Il ragazzo era alto, i capelli scuri e mossi, la faccia simpatica e un po’ strafottente. Sorrideva e parlava chinandosi verso di lei.

Magari quel platano fosse stato una quercia secolare, una foresta, un baobab! Da nasconderlo, da farlo sparire, inghiottirlo. Se li vide sfilare a fianco, a tre metri. Come aveva previsto, ma tutta un‘altra scena.

Ebbe una specie di vampata di calore, la faccia come si fosse trovata davanti a una fornace spalancata. Aprì lo sportello e salì in macchina. Non sapeva che fare. Il contachilometri della Balilla lo guardava. La lancetta a zero, poco sopra l’indicatore dei chilometri fatti: 23.259. 23.259. 2+3+2+5+9 faceva 21, 2+1 faceva 3. 2+3+2+5+9 faceva 21, 2+1 faceva 3. Se lo ripetè una decina di volte. Quasi senza pensare accese il motore, mise la freccia e si mosse. Fece un tratto del viale, poi si fermò. Andava nella direzione sbagliata. Lasciò passare un camioncino e poi tornò indietro, poco dopo il platano girò a destra. Avevano preso quella strada, magari andavano in stazione. Accelerò, forse aveva perso troppo tempo, forse si erano infilati in una laterale.

Invece no, adesso camminavano mano per mano sul marciapiede di sinistra. Semplice, una coppia di ragazzi.

La Balilla andava venti metri e poi si fermava. Altri venti metri e di nuovo stop.

Nella piazzetta presero la strada larga a sinistra. Si fermarono davanti al portone. Dario guardò la targa sul muro, via Settembrini. Entrarono e richiusero. La Balilla passò davanti al palazzo. Civico 9. Via Settembrini 9.

Altri cento metri e poi fu fermo di nuovo. 23.260, quasi 61. 6+1 fa 7. Ripartì, poi di nuovo fu fermo. Girò intorno all’aiuola dei giardini e parcheggio’. Da lì via Settembrini 9 era perfettamente in vista. Erano le 11 meno cinque.

Il primo quarto d’ora fu dedicato alla matematica: 23×26: 598, 2×32:64, 64 diviso 6: 10,6 e poi… si arrese quando cercò di calcolare la radice quadrata di 598.

Scese dalla macchina ma restando sempre nascosto, non voleva che magari, dalla finestra… Fece il giro della piazzetta, guardò dentro alla vetrina di un caffè, poi in una latteria, un fornaio. Una signora che tornava dalla spesa con una grossa sporta da cui spuntava un lungo gambo di sedano si fermò a parlare con un milite, due ragazzini giocavano a palla sull’aiuola spelacchiata sotto un grande cedro. Dario gironzolava, sempre con lo sguardo su quel portone. La testa vuota, un vuoto assoluto e amaro. Peggio che una vertigine. Via Settembrini 9.

Alle 12.27 Gio’ uscì dal portone e girò a sinistra. Andava di fretta, andava in stazione. Il treno era alle 12.55. Ce l’avrebbe fatta: Gio’ andava svelta, sapeva anche correre, e forte.

Dario risalì in auto e partì. Doveva arrivare a Reggio. Doveva essere a Reggio in stazione. Doveva esserci un minuto prima di lei.

 

Probabilmente fece un nuovo record, roba da Nuvolari alla Mille Miglia, ma in stazione ci arrivò in tempo. Tanto da riuscire anche a sciacquarsi la faccia alla fontanella per darsi un’espressione appena più umana, almeno a giudicare da quello che riusciva a vedere nello specchietto della Balilla.

«Sono felice, sono felice, sono felice, sono felice» si ripeteva. «Tutto va bene, tutto va bene, ci sarà una spiegazione, deve esserci…»

Gio’ lo vide subito uscendo nel piazzale. S’era messo apposta lì davanti, non poteva aspettare neppure il tempo di vedersela arrivare, venti o trenta metri distante.

Perché i suoi occhi erano quelli di sempre, quelli che aveva aspettato, desiderato così tanto? Perché lo baciò davvero, come aveva sognato?

Senza dir niente si incamminarono verso la Balilla, tenendosi stretti. Quando Gio’ vide l’auto rimase sorpresa.

«Perché in auto?»

«Ero già in giro… e poi volevo festeggiare».

 

La lasciò davanti casa. Lei lo baciò ancora. «Ho voglia di te». E sapeva cosa voleva dire.

«Vengo alle tre, va bene?»

«Sì».

 

Quella fu l’unica volta che il nonno aveva aspettato qualcuno a pranzo. Il rito immutabile e ineluttabile delle ore 13 esatte in casa Lamberti era una certezza, un punto fermo nella vita di tutta la famiglia. Chi non era seduto alle 13 al grande tavolo rettangolare nella sala verde (il colore delle decorazioni floreali sui muri giallini) aveva solo l’alternativa della cucina, dove la Dorina avrebbe comunque servito il pranzo, ma in quel luogo che manteneva per tutti, in famiglia, una connotazione servile, di ripiego.

Il nonno a capotavola, la mamma a destra – c‘era Lilly, ora, al suo posto – e Guido a sinistra. Anche il posto di Dario era a destra, a fianco di Lilly. I rari, eventuali, ospiti occupavano i due rimanenti posti, che venivano però sempre apparecchiati al completo.

Dario entrò alle 13.26. Il nonno non aveva voluto che lo si aspettasse, e si era già al secondo, la paillard di vitello e zucchini al burro. Quello però era un giorno eccezionale, e solo per questo a Dario fu concesso di sedersi e prendere parte, salutato – fatto inusitato anche quello – dal bicchiere di rosso levato in suo onore dal nonno appena si fu seduto. Per un istante a Dario sembrò che Guido fosse ancora più pallido del solito, ma doveva essere stato solo un cattivo pensiero, non il solo in quella giornata.

Fra un boccone e l’altro, mentre si ripeteva ancora “sono felice, sono felice”, rifece la cronaca della giornata precedente: la licenza anticipata, la prossima destinazione.

«Hai qualche giorno di tregua, riposati!» suggerì il nonno.

Guido non disse nulla o quasi, salvo un quasi sibilato: «So che Fontana aveva dei problemi…», quando si accennò alla disgrazia di Celso, causa diretta, nella sfortuna, del fortunato arrivo di Dario.

Poi, dopo la frutta, come sempre il nonno si alzò, piegò l’ampio tovagliolo, infilandolo poi nel legatovaglioli di argento, e si diresse verso lo studio, verso la sua poltrona. Anche Dario si alzò subito, il tempo del caffè, s’infilò la giacca e uscì, con un “ciao” a Guido e lanciando un bacio a Lilly.

Doveva uscire, aveva la Balilla, doveva andare.

In realtà la sua era stata una reazione nervosa. Non aveva nessuna destinazione, né alcun desiderio. Cercare Paolo, forse, ma non sapeva gli orari del seminario, o Alberto, ma sapeva che con il primo non sarebbe riuscito a non essere sincero e col secondo non voleva fare la figura del povero scemo tradito. No. Nessuna idea, salvo prendere la macchina e andare.

 

Era puntuale, anzi qualche minuto in anticipo. Gio’ spinse la porticina in strada, quella laterale, per entrare dal lato della rimessa e salire nella stanzina di Dario, quella piccola sopra il garage, con la stufa Becchi accesa d’inverno, la scrivania e il divano. Doveva vederlo, anche se non sapeva come e cosa dirgli. La porta non si aprì. Era sempre accostata, lo era sempre stata. Alla sera, verso le sei, usciva di casa e correva lì, da Dario. Per sua madre era a casa dei Lamberti. Normale, regolare. Nominalmente vero, sostanzialmente falso. Era in camera con Dario.

Ma la porta era chiusa. La solita distrazione di Dario. Fece il giro del palazzo ed entrò dal portone grande, salì lo scalone e suonò il campanello, il pulsante di ottone incassato nel muro sotto la targhetta Lamberti.

Lilly le aprì e le sorrise sorpresa:

«Non sei con Dario?»

«Dovevamo vederci alle tre…»

Lilly aggrottò le ciglia:

«È uscito in fretta dopo pranzo, pensavo…»

Gio’ rimase in silenzio.

«Be‘, vi siete visti prima, no? È venuto a Parma a prenderti, deve aver fatto una bella corsa…»

«A Parma…?»

«Sì, ha preso la Balilla apposta, ero anche preoccupata…»

«Sì, certo, è venuto a prendermi… ma dovevamo rivederci…»

«Be‘, vedrai, si farà vivo, tutto bene, no?»

«Sì, certo, tutto bene… ciao, devo andare ora».

E scese le scale in fretta, ma non riuscì ad uscire dal portone in strada. C’era ancora troppa luce, e non voleva che qualcuno la vedesse.

 

Tornò a Reggio prima di rimanere senza benzina. La Balilla faceva spesso quello scherzo: prima che la lancetta fosse a zero il motore si fermava, la benzina non arrivava più al carburatore e amen. Era arrivato fino a Scandiano, poi a Viano, era salito a Regnano ed era sceso alla Fola, con i finestrini aperti e le ruote che fischiavano nelle curve o slittavano sulla ghiaia delle strade bianche. Era quasi davanti alla chiesa di San Pellegrino quando rallentò, c’era gente che era uscita ed era ferma a parlare sul sagrato. Stava per girare a sinistra all’incrocio quando si sentì chiamare.

Frenò e si volto per capire chi lo avesse chiamato.

La faccia di Celso apparve all’improvviso dal finestrino:

«Dario, scusa, mi porti a casa?»

Non poteva rifiutare e il ragazzo salì:

«Scusami, abbiamo appena detto il rosario per il babbo, il funerale è domattina alle dieci…»

«Non ho fatto in tempo stamattina, alla stazione, a dirti che… be‘, ti faccio le mie condoglianze…»

«Grazie…»

Erano già in viale Umberto I quando Dario si accorse di non sapere dove abitasse Celso. Lo aveva conosciuto in pratica una mattina in stazione, e ora non sapeva dove andare.

«Scusa, ma dove abiti?»

«Non importa, non volevo restare con tutta quella gente, ora poi, ora…»

Celso stava con la testa insaccata nel cappotto e piangeva.

«Lo so, non sono momenti facili…»

«No, è peggio, ora che… che so, cioè…»

Dario era imbarazzato. Gli era capitato qualche volta di fermarsi in auto con una ragazza in lacrime a fianco, roba di storie finite, di fidanzamenti andati a quel paese (gli altri?), ma non con un ragazzo, in lutto poi.

«Che vergogna, tutti lo sanno… e fanno finta…»

«Sanno cosa?»

Celso abbassò ancora di più la testa e mormorò:

«Che s’è ucciso. Suicidio, capisci?»

No, non capiva. Capiva le parole, il senso, ma non la sostanza. Fontana s’era suicidato? Era un commerciante conosciuto, le poche volte che ne aveva sentito parlare non aveva sentito cose particolari: fascista di quelli veri, ma a parte quello…

«Ma non ti hanno spiegato? Com’è stato? Sei suo figlio, no?»

«La mamma niente, neanche gli zii, non fosse stato per lo zio Rico…»

Dario lo guardò senza capire, conosceva appena Celso, figurarsi i parenti.

«Lo chiamo così, Americo, il signor De Marchi, era amico del babbo, l’ho sempre chiamato “zio Rico”, è lui che mi ha spiegato… il problema dei soldi, le cambiali e il babbo non ce l’ha fatta, s’è impiccato a San Prospero, a casa dei suoi, in solaio…»

Per consolare una ragazza bastava una carezza, una stretta affettuosa, le passavi il fazzoletto per asciugare le lacrime. Ma con un ragazzo?

«… Ma io non ci credo, il babbo non l’avrebbe mai fatto, il disonore, il disonore, che vergogna, no, il babbo no…»

Poi sollevò lo sguardo:

«Dario, scusa, tuo fratello è una persona… lavora in banca, no? Non potresti chiedere? Magari sa qualcosa… aiutami…»

Era talmente disperata, quella voce, che Dario non riuscì neppure a dire che i rapporti con suo fratello Guido non erano proprio ottimi, senza un motivo preciso, così, roba fra fratelli, da ragazzi e anche ora. Non riuscì a dirgli niente se non un: «Ne riparliamo, magari domani…»

Celso mormorò appena un „ciao“ , scese dall’auto e si avviò sotto i viali.

 

Quella non fu una serata facile per Dario. Lilly lo aspettava in cortile, davanti alla rimessa, per l’inevitabile predica: «Dove sei stato? Eravamo preoccupati… in giro in auto… Giovanna ti cercava…» Ma con lei non fu difficile. Bastò un semplice e incredibile  «…ero al rosario per il babbo di Celso» per lasciarla beatamente soddisfatta. Più arduo accettare di mettersi a sedere a fianco di Guido per cercare qualche informazione su Fontana.

L’aggancio, però, l’aveva dato lui, a pranzo, con quella sua mezza frase sui “problemi” di Fontana medesimo.

«Perchè lo vuoi sapere?»

«Celso non si dà pace…»

«Be‘, non è bello avere un padre…»

«Che si uccide…»

«Allora lo sanno tutti…» Ecco Guido: se Dario sapeva qualcosa allora dovevano “saperlo tutti”. Logico.

Fece un nuovo sforzo di volontà:

«Ma aveva problemi di soldi?»

«Uno per cosa si uccide?»

Logico anche questo. Per Guido.

«Ma al punto di…»

«Senti» lo guardò un po’ spazientito, come fosse un bimbo che s’impicciava di cose da adulti, «Fontana aveva un bel commercio, poi s’è voluto andare a infilare nell’impresa in Abissinia e da lì sono iniziati i guai…»

«Abissinia?»

«Con la scusa dell’Impero era andato giù con degli altri di Reggio per avviare un commercio di coloniali – frutta, spezie e cose simili – contava sull’appoggio di Bofondi, il federale, ma le cose non sono andate per il loro verso. Lui ha perso un piede in un incidente, è tornato a casa e non è stato più in grado di onorare gli impegni… Che poi arrivasse a tanto…»

Stava per rispondere “voi bancari non potevate prevedere… magari gli avevate già pignorato anche il letto…”, ma non gli sembrò opportuno. Guido si alzò da tavola, il colloquio era finito. Grazie.

Perché aveva un fratello così? È vero che i parenti non si scelgono, però Guido sembrava davvero un caso sfortunato. Aveva solo cinque anni in più, quasi sei, ma non si ricordava una volta sola in cui l’avesse sentito non fratello, ma almeno amico, vicino, prossimo. Sempre bravo, pettinato, vestitino, ordinato. Se c’era un rimprovero arrivava da lui, se c’era quello sguardo gelido era il suo. Lui il bravo, Dario lo strano, quello che «Cosa fai? Stai a modo! Non ti comportare…» Anche al funerale della mamma «non ti bagnare, non ti fare compatire, come al solito…», perché lui se ne stava fuori dall’ombrello, nel corteo, a lasciarsi passare d’acqua in quella giornata di piombo. Del resto cosa rimproverare a Guido? Bravo, tutti otto alla maturità, laurea in legge, quattro anni, perfetto. In banca, col nonno, a lavorare nove ore al giorno. Del resto, cos’altro sapeva fare? Mai visto con la camicia slacciata, mai un bicchiere in più (anzi, astemio, che schifo!), amici? Mah… Divertimenti? Figurarsi. Al massimo al Circolo a giocare a scala quaranta con le signore. Estate una settimana a Chiavari, a casa di un collega (così non spendeva neppure per la pensione), col sospetto poi che non uscisse neanche di casa, considerato il colore cereo che manteneva al ritorno dalla vacanza. Donne, poi! Ce l’aveva anche piccolo! Ebbe anche l’idea pessima di scherzarci su l’ultima volta in cui il caso li infilò nella stessa cabina, un luglio a Rimini con la mamma, costretti a cambiarsi vicini.

 

Ma Guido era solo una tappa di quella sera difficile. Non voleva, non doveva farsi trovare da Gio’. Non sapeva cosa avrebbe fatto, cosa avrebbe detto. Gli tornavano in mente solo quei numeri dei contachilometri della sua Balilla. Forse per lui quella giornata sarebbe stata quello, soltanto quello: 23.260. Un 23.259 prima e un 23.261 dopo. Ma ora non era pronto, non c’era, non era il momento. Mangiò qualcosa in cucina, Dorina aveva sempre un avanzo giusto per lui (carne fredda con cipolline in agrodolce) e poi corse di nuovo fuori. Lilly lo fermò sull’uscio: «Se ti cerca Gio’?», come a dire “Non sono scema, posso fare finta o sembrarla, ma…“

Avrebbe voluto tirarsi dietro la porta e sparire, evaporare, strisciare via lungo il muro come un ombra, ma Lilly era lì, con la sua dolce evanescenza.

«Se mi cerca, dille che ho trovato questo posto: via Settembrini 9. Dalle questo indirizzo, poi ci risentiamo…»

«Aspetta…» la sorella si girò a prendere un pezzetto di carta e la matita dal tavolino sotto al telefono a muro.

«Via Settembrini 9… ecco, così mi ricordo… ciao, non far tardi!»

E finalmente chiuse la porta e scese le scale.

 

Arrivò al bar Impero in dieci minuti, ben illuminato nonostante l’oscuramento, si fermò sul marciapiede opposto, davanti alla Timo, all’angolo di via S.Nicolò, per controllare. Metti caso avesse incontrato di nuovo Finasi o, peggio, qualche scatenato del Guf! Per un cazzotto era finito in aeronautica, per due cosa sarebbe successo? Nella X Mas, nei sommergibilisti? L’aria sembrava tranquilla ed entrò. Pelati, il cameriere piccolo e occhialuto, gli venne incontro:

«Lamberti, come sta? È tornato, in licenza? Cosa le offro?»

«Sì, appena arrivato, grazie… un cognac, prenderei un cognac…»

«Volentieri… è sempre bello veder tornare dei ragazzi, coi tempi che corrono…bròt teimp…»

«Sì, era più divertente una volta».

Pelati era tornato dietro il bancone e gli aveva versato il liquore:

«Purtroppo ogni giorno… Bagnoli, Bianchi, Salati, se li ricorda? Luciano Salati?»

«Luciano? Abbiamo fatto certe gite in montagna…»

«Era negli alpini, caduto in Grecia. Bagnoli in Africa, cioè… affondato con la nave silurata… sua madre, sapesse, vedova con altri due ragazzi! Che poi poteva stare a casa, ma lui no, suo padre era morto sul Piave e lui doveva essere all’altezza. Quando è partito è venuto a salutarci, „Ci vediamo a Natale, vi porto un po’ di sabbia dell’Africa“ aveva detto, sabbia! Non c’è neanche arrivato alla sabbia… ma si può? Si può?»

«Purtroppo si può, caro Pelati, se siamo qui a parlarne…»

«Ma lei, dov’è, dove la mandano?»

Sono un imboscato, tranquillo!

«Per ora vado a fare il secondo corso di volo, a Cameri, poi vedremo!»

«Stia attento!»

«Attento? Speriamo di avere del c…, della fortuna, insomma…»

 

«Dario… siamo rovinati!» Alberto gli allungò uno scappellotto e subito lo abbracciò stringendolo per le spalle.

«Sono contento, ci sei…» lo guardò negli occhi, erano occhi buoni quelli di Alberto.

«Sono qui, appena tornato, ho sette giorni…»

«Voglio vederti in divisa, chissà che scena… sempre gagà!»

«Un bel gagà con questa rasata a bestia…» e gli scompigliò i capelli ricci. Alberto si riassettò:

«Dai vieni a far due passi… fra un po’ arriveranno in tanti…»

Si avviarono verso Piazza del Monte. Alberto raccontava del suo ultimo esame, della fretta di finire per poter affiancare in ambulatorio il padre, sempre più malmesso in salute, dei mezzucci che aveva dovuto praticare per rinviare ancora la chiamata alla leva. Lo diceva con vergogna e la voce gli calava. Benvenuto nel partito degli imboscati!

«Non siamo dei gran patrioti!» gli venne a dire.

«No, non è così» Alberto si fermò, «io partirei domani se credessi…»

«In questa guerra di merda? Ci credo… Su me non garantirei, ma tu sei…»

«Scemo?»

«Sei anche scemo, ma sei onesto!» Si guardarono e non sapevano più cosa dire.

Invece bisognava dire, perché Dario sapeva di correre il rischio che l’affetto per Alberto gli facesse rompere il blocco che si era imposto, per quella giornata dispari che gli era arrivata addosso. 23.260 si ripeteva. 23.260.

«Domattina vado al funerale di Fontana, Celso è militare con me…», così per cambiare argomento.

«Ho sentito, s’è ucciso, vero? Ne parlano tutti, anche se sai, certe cose… comunque Celso è un bravo ragazzo, non è un’aquila, deve essere stato un bel colpo…»

«E poi con questa cazzo di guerra, lui via, la famiglia a casa…»

«Be‘, se è per quello, il congedo è già pronto, tornerà fra dieci giorni, vedrai… a proposito… a quando il congedo matrimoniale?»

«Il congedo cosa…?»

«Sei smemorato, eh? La sera prima di partire ne avevi parlato tu… volevi sposare Gio’ prima di partire, ehhh… fai il furbo? O hai trovato una bella romana?»

Cazzo, cazzo. 23.260. No, anzi, era al 23.259.

«Ehh, sai, il fascino della divisa… no, non c’entra, sì è vero, ma lei ha solo vent‘anni, studia ancora… comunque… be‘…» Cosa avrebbe potuto fare in quel momento, per sottrarsi a quella sensazione di terribile imbarazzo? Fare un buco lì in Piazza del Monte e sparire? Nascondersi dietro alle statue sotto il portico e far finta di niente per qualche mese?

«Va bene, va bene, comunque sarò il testimone, eh? Me l’hai promesso…»

«Tranquillo. Quando sarà, sarai il primo a saperlo».

Nei film a questo punto arriva il colpo di scena che salva l’eroe. Si presenta l’attendente a chiamare alla guerra, alla battaglia decisiva il mattino dopo, o la bella fatale che si è persa e cerca un letto caldo nella notte.

Nella realtà ci si trova lì come uno scemo, in quella giornata dispari, con l’unica – o quasi –  persona fidata, senza sapere più cosa dire. Salvo sputarle in faccia, per liberarsi l’anima e lo stomaco: “Gio’ mi tradisce, va a letto con un altro: via Settembrini 9, Parma”.

Per fortuna l’aiutò la natura, grosse gocce iniziarono a cadere e i due si affrettarono di corsa di nuovo verso il Bar a incontrare gli altri “amici”.

Il patto di Katharine_Capitolo 1_ultima modifica: 2020-03-13T16:57:59+01:00da pelikan-55
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