Il patto di Katharine_Capitolo 3_

22 ottobre, mercoledì 

Stavolta non fu il cognac a farlo svegliare: la luce arrivò adagio dopo un perfetto, massacrante, riepilogo onirico della giornata precedente, degnamente concluso con l’incontro con il duo fratello-(quasi) cognato.

Rimase lì un po’, sotto le coperte, a sentire le auto passare in strada, i carretti, la Dorina ciabattare nel corridoio. Povera Lilly! Bertoldi, Lilly Bertoldi! Gennaio 1942, le nozze! Doveva farsi mandare in missione: bombardare Mosca in solitaria su un biplano, piuttosto che trovarsi in San Pietro – perché Bertoldi si sposava in San Pietro, sicuro – alla cerimonia. Magari in divisa, con fascia e sciabola al fianco. Brrrr. Meglio la steppa e i rossi che ti rosolano in un‘isba… E poi, sposarsi in gennaio? Roba da pesce lesso. Guido si sarebbe sposato in gennaio, magari in febbraio. Poco ma sicuro.

Lui no. Quando l’aveva detto a Gio’ prima di partire era giugno, erano a Montericco, alla Madonna dell’Uliveto. «Sposiamoci, poi parto». Non l’aveva preso sul serio, s’era messa a ridere. Uno scherzo, aveva pensato. La frase dopo era stata ancora più romantica, detta da uno come lui:  «Vedo nei tuoi occhi gli occhi dei miei figli».

Bum. Bravo. Si tirò il lenzuolo sulla faccia. Un eroico imboscato non piange mai, nemmeno sotto le coperte.

 

«Signorino! La cercano al telefono!» Dorina aveva bussato discretamente, proprio come faceva una volta, verso le sette, per tirarlo giù dal letto, per la scuola. E poi quel “signorino!”, una delizia da sentire in quel momento.

«Buongiorno, sono Rita, l’ho svegliata?»

«Buongiorno. No, magari… mi stavo radendo».

«Avevamo detto di vederci, stamattina, può andare?»

«Bene, dove e quando, sono ai suoi ordini…»

«Uhh, un militare obbediente, bene! Può venire da me alle 11, via della Racchetta 24, la villetta con l’edera».

«Ci sarò, a dopo…»

 

Definire quella abitazione “villetta con l’edera” era un bel tentativo di untertreibung, tanto per stare in tema con la lezione. Era villa Vannucci, uno splendido edificio in stile liberty: le torrette, le cuspidi, la fontana con l’elefante in cortile. Giardino, anzi quasi parco, ortensie, cespugli, scalinate. Casetta del custode all’ingresso. L’edera c’era sul muretto d’ingresso, intorno al cancello massiccio, in ferro battuto (niente ferro al patria, per chi poteva).

Katharine (in effetti la somiglianza era davvero notevole, stessa aria snob ed elegante) lo vide scendere dalla bici e gli venne incontro, aprendo il cancelletto pedonale. Calzoni grigi, camicetta bianca, filo di perle.

«Non male anche in borghese…» lo squadrò.

«Anche lei, niente male in borghese…»

«Ahh, non scherzi, posso sempre mettermi la divisa da crocerossina, sono una brava italiana anch’io!»

«Non ne dubito…»

La casa era elegante ma ancora mezza vuota, come se un trasloco fosse rimasto a metà e alcuni mobili equadri, fossero già arrivati, mentre altri oggetti aspettavano in qualche cassa di trovare posto. C’erano alcuni segni evidenti di mobili mancanti, di quadri appesi e non più presenti.

Rita gli offrì il caffè in un salottino con un finestrone ad arco sul giardino.

Domande banali: cosa fa una signora a Reggio per passare il tempo. Incontra, fa chiacchiere, gioca con le amiche al circolo. Beneficenza. Compra cose, arreda casa.

«Lei mi crede proprio una persona inutile, vero?»

«Non mi permetterei…»

«Non mi interessa molto quello che la gente pensa. In realtà c’è qualcosa che mi piace, mi segua».

Per un istante Dario pensò “adesso andiamo a letto”. Invece salirono due piani di scale e arrivarono in quella che, vista da fuori, doveva essere la torretta merlata. Katharine lo fece entrare. Era lo studio di una pittrice: quadri, cavalletti, un ampio velo color crema contro la finestra a filtrare la luce.

Dario si guardò in giro. Sorpreso ma anche felice, in qualche modo: quella donna era brava. Brava! Vedeva cose che gli piacevano, disegni a pastello, visi, acquerelli. Un tratto geniale. Semplice, ma geniale.

Girava e guardava, si spostava appena e tornava sul disegno visto prima, poi su quello successivo. Prese un piccolo cartone e lo sollevò ad altezza degli occhi. Un panorama delle sue montagne, colori chiarissimi, la vibrazione di quella luce che lui conosceva.

Non disse nulla, non ci riusciva.

«Oh, mio Dio, l’ho spaventata!»

Era bello essere lì. C’era bellezza, ovunque: Katharine, i quadri, quel luogo.

«Grazie» riuscì a dire, e s’accorse di avere un groppo in gola.

Poi, di fronte allo sguardo dolce di lei, riuscì appena a confermare:

«Lei è brava, è…  davvero brava». Cazzo, non avere un’altra espressione, non trovarla!

Sorrise:

«Lo so. Mi piace condividerlo con qualcuno».

«Ma perché…»

«Sì, lo so, adesso mi chiederà perché non faccio mostre, perché non mi faccio conoscere, e così via…»

«Sì».

«Perché la mia vita è un romanzo!» rise forte, forse troppo, e Dario non potè non sentire quasi una flessione in quella risata.

«Mi piacciono i romanzi, i racconti».

La donna si sedette su uno sgabello e Dario rimase in giro fra i quadri.

«Un romanzo, una storiella che, magari… lei non mi conosce, quindi posso raccontargliela…»

«Sono un passante occasionale…»

«Romanzetto da poco… una ragazza di buona e nobile famiglia, Trentino, che ha ereditato dal nonno – un pittore macchiaiolo – il gusto di disegnare. Educazione commeil faut, collegio, scuole, tanto ci sono i fratelli per gli affari di famiglia, ma poi a un certo punto l’amour, l’amour fou, anzi der töricht Liebe, giusto? Lui è un artista, un professore, vent’anni più grande, due figli. Follia. La cosa viene fuori, scoppia il solito scandalo, e poi la fuga, insieme, a Vienna».

«Non è una storia a lieto fine, immagino…»

«Dipende come sempre dai punti di vista. Ci voleva coraggio o follia, e a ventidue anni se ne ha ancoradi entrambi… ma non abbastanza».

«Temo il finale…»

«Normale, banale: niente lame, coltelli o veronal!

Una giovane pittrice che si sveglia un mattino a Vienna da sola… nemmeno la lettera sul cuscino…»

«E il grande artista? Tornato dalla mogliettina, la coda fra le gambe…?»

«Caro Dario, se ti mettono dietro la questura, la chiesa, il partito, l’università, la madre o chissà chi altro… quasi non lo biasimo, si può essere grandi artisti ma piccoli uomini, bravi maschi ma kleinen Männer».

«Immagino. Non sono mai stato un artista».

«Chissà, però i miei lavori l’hanno colpita…»

«Molto, dico sul serio.

E poi, da Vienna a Reggio?»

«Sono tornata, varie cose… e questo non me lo perdonerò… cioè, comunque…»

«Tornata e sposata…»

Katharine si accese una sigaretta e appoggiò l’accendino d’oro fra i tubetti di colore ad olio. Si alzò e si mise di spalle a Dario, guardando la tela più grande che era nella stanza. Una esplosione di colori su un muro bianco.

«La prospettiva era di passare dieci anni nell’avito maniero di famiglia a seguire le vendemmie e la raccolta delle mele, magari trovarmi un qualche ragazzotto nobile di campagna e fare quattro o cinque pargoli… poi è arrivato Germano: tranquillo, educato, colto, è una buona persona, davvero. Ci siamo sposati per procura mentre lui era già ad Addis Abeba…»

«Non l’ha raggiunto?»

«Un’altra fuga?» e rise di gusto. «Vienna ancora, eccome, ma Addis Abeba! E poi lui vive di affari, gli serviva una moglie per…»

«Rappresentanza».

«No. Non dica così. Io devo molto a Germano».

«E Reggio?»

«Aveva affari anche qui, poi là si era messo in società con dei reggiani, attraverso loro ha comperato questa casa. Io sono venuta qui, libera, finalmente! Una signora, rispettabile, libera… e ho ripreso a fare quello che so fare: una snob con hobbies un po’ vuoti e decadenti. Ma libera».

«Suo marito non vive qui?»

«Quando c’è, ma lui ha varie rappresentanze industriali importanti, ed è all’estero duecento giorni all’anno, anche se ora con la guerra… comunque ha un ufficio anche a Milano. Del resto queste lezioni di tedesco servono proprio,perché vorrei accompagnarlo a Monaco la prossima settimana e non mi va di fare la figura della mogliettina bella e scema con le altre signore…»

«Scema no di certo, bella di sicuro…» e si trattenne dall’avvicinarsi.

«Come mai al funerale, ieri?» un elemento del racconto lo aveva incuriosito.

«Fra i compiti della brava moglie c’è anche la rappresentanza, no? Fontana era uno di quelli in affari con mio marito… Tranne loro non conoscevo nessuno. Be’, Bottazzi a parte…»

«Bottazzi come l’ha conosciuto?»

«Credo d’averlo sempre conosciuto! Ora che ci penso non saprei dire, è una persona che uno si trova a fianco e…»

«Ed è come ci fosse sempre stata. Conosco la sensazione, anche se per me è diverso, lui c’è sempre stato davvero, era coetaneo dei miei genitori».

Katharine guardò l’orologio al polso, un orologio maschile, un cronometro.

«Mezzogiorno passato, torno al mio ruolo di signora inutile! Vado a prendere un aperitivo al Circolo… la lezione è finita!»

«Be’, come lezione…» Dario si alzò, accostandosi i lembi della giacca.

«Dovevamo conoscerci un po’, no? Domani mi racconterà di lei, giovane scapestrato della borghesia reggiana…»

«Non sono mai scappato a Vienna».

«Ma a Trieste, sì…» Bottazzi aveva raccontato anche quello!

Vide la faccia di Dario e gli si fece vicina, gli mise una mano sul braccio:

«Non si preoccupi, siamo fra amici… anzi, senta, perché non torna stasera, dopocena? Vengono alcune persone, un po’ di musica, chiacchiere, mi fa compagnia? È una tal noia… non dica di no».

 

Uscì dalla villa-con-l’edera ed era confuso. Piacevolmente, eccitatamente confuso, ma confuso. Aveva respirato quell’aria di bellezza, anche troppa. Le immagini, lei, quel luogo… Era arrivato là con la mezza idea di un’avventura, quella di iniziare a giocare la partita a cui Bottazzi l’aveva indirizzato. Invece non c’era stata nessuna partita, solo Katharine aveva giocato e lui era stato a guardare. In nessun momento aveva avuto la possibilità di far qualcosa per conquistare un piccolo spazio. Facile prendersi e spogliarsi, saltare in un letto e lasciarsi andare con quella dolcezza feroce che conosceva. Gli occhi di Gio’, le sue mani. Il suo silenzio. Era stato forse troppo facile. Erano arrivati in cima senza costruire niente, sotto. Un ponte senza basi, scivolato via con la prima piena. Avevano scambiato la fine con il principio. Avevano dato tutto per scontato. E non lo era.

Perché allora quel senso di vuoto ora, passando davanti a casa sua, dove l’aveva accompagnata tante volte, stando con lei appena dentro al portone a baciarsi, in piedi? Perché il vuoto se non fosse stato importante?

 

La salsina verde sul manzo lessato era la solita, meravigliosa, di Dorina. E dire che alla mensa ufficiali non mancava nulla, pranzi da scoppiare e vino pure riservato, ma quella era casa e una casa anche migliore, visto che il nonno era di buon umore e Guido era a Bologna per lavoro.

Solo Lilly ebbe una piccola smorfia, il massimo che le riuscisse di esprimere in termini di disapprovazione, quando sentì nominare la signora Gagliardi:

«Lezioni di tedesco… quella lì?»

«Perché? Va con il marito in Germania e vuole rinfrescare un po’ la lingua…»

Il nonno li guardò sorridendo:

«Dedo, attento ai mariti…» un’espressione quasi scherzosa, inattesa nel suo stile.

«Sono un ufficiale, cioè quasi…»

«A proposito, ti ha cercato Celso, chiamalo, non ti dimenticare!» chiuse Lilly.

Fine dello scontro. Perfetto stile Lamberti. Magari dopo, forse, Lilly lo avrebbe preso da parte e avrebbe chiesto altro, ma il pranzo era la sede ufficiale della famiglia e, nonostante l’assenza di Guido rendesse l’ambiente meno curiale, nulla poteva essere messo intorno a quel tavolo. Con il rischio di essere ancora più formali del nonno che, così era sembrato a Dario, magari qualche domanda l’avrebbe fatta volentieri al nipote.

 

Sulla sua scrivania una busta. Gio’. Non l’aprì. Se la mise nella tasca della giacca, prese il caffè e andò da Celso.

La famiglia Fontana non aveva una “villa con l’edera” ma non abitava certo in un tugurio. Via Emilia all’Angelo, quasi a porta Santo Stefano, lì a destra nella laterale. Suonò e il portone si aprì. Androne e scale lucide, un cortile piccolo e lastricato. Celso gli venne incontro per le scale.

«Scusami, Dario, ma volevo vederti…»

Il ragazzo lo fermò sul pianerottolo, prima di entrare:

«È che ho convinto lo zio Rico a portarmi a San Prospero e volevo venissi: non so se ho il coraggio…»

«A San Prospero?» per un istante aveva scordato le modalità della morte del padre.

«Sì a casa dei nonni, sai…»

La casa del suicidio. Bell’idea! Un figlio che va a vedere dove il padre… Poi però la cosa gli sembrò improvvisamente eccitante. Sempre meglio che mettersi a leggere quella lettera che aveva in tasca e dare il via ad un’altra autogeremiade. Meglio la casa dell’impiccato!

 

Celso entrò solo per mettersi un giaccone e tornò da Dario con un uomo alto, le spalle larghe, i capelli scuri tirati indietro.

«Dario, Americo, lo zio Rico…»

«Piacere, Americo De Marchi» e gli strinse con forza, vera forza, la mano.

Viaggiarono sull’Ardea dello zio Rico, Celso a fianco e lui dietro. Nello specchietto ogni tanto incrociava gli occhi di De Marchi che parlava con Celso, con voce calma e piana. Aveva una bella voce, da baritono forse, e mani curate. Le vedeva prendere il volante e passarlo nelle curve, scendere al cambio. Un uomo elegante, come non si sarebbe aspettato da un geometra partito per costruire le nuove colonie imperiali.

La casa era poco oltre il cimitero di San Prospero, in piena campagna. Una costruzione tipica di quelle reggiane, la porta „morta» in mezzo, a destra l’abitazione, a sinistra la stalla. E intorno alla casa un gran via vai, carri, carretti, anche un trattore con rimorchio, contadini che andavano e venivano. La vendemmia in pieno corso. Per non intralciare quel traffico operoso lasciarono l’auto sulla strada e scesero, i due davanti e Dario dietro. Al loro arrivo nell’aia tutto si fermò per un istante, i contadini lasciarono le cassette a terra, qualcuno spense il motore del trattore. Poi dal gruppo si staccò un uomo di mezza età, si tolse il cappello e tenendolo in mano si avvicinò a Celso, gli mormorò qualcosa, gli tese la mano. Condoglianze.

Poi lo zio Rico fece un cenno e tutto riprese. Il trattore ripartì e loro tre entrarono in casa.

«Celso ha voluto, ma io non credo…»

«No, zio, sono grande, volevo, voglio vedere».

«Come vuoi. Lei, Dario, che dice?»

Voleva sapere? Che sapesse, quello che non si sa non esiste, quello che si sa non ci lascia mai. Celso aveva scelto.

«Celso, sapere forse è meglio che arrovellarsi, anche se…»

«Comunque non c’è molto da sapere, povero Ottavio. Venite…»

E senza dir nulla lo seguirono, uscirono dalla la cucina e salirono le scale, strette, di mattoni lisci, le pareti segnate e un po’ sudice.

Arrivarono alle stanze da letto, una a destra e una sinistra.

«Qui?» chiese Celso.

«No» e lo zio indicò la parete di fronte dove, con una scaletta di legno, quattro scalini, si saliva nel solaio. Quattro scalini sbrecciati in una scaletta di legno povero, di pioppo. Lo zio fece strada e, uno alla volta, salirono nella stanza. La luce era solo quella che entrava dai piccoli abbaini e dalle fessure fra le tegole. Era un solaio ma molto alto, era la porzione di casa in corrispondenza del portico, un luogo fresco dove si conservava il frumento per la famiglia, la frutta. A destra, infatti, c‘era un ripiano coperto di noci e mele.

Poi, senza ancora aver detto una parola, il loro sguardo si alzò verso la trave centrale. Cazzo. Almeno potevano togliere quel mozzicone di fune che penzolava ancora, tagliata, ma ancora minacciosa. Celso si attaccò a Dario e, lentamente, scivolò a terra, come un telo lasciato cadere all’improvviso. Dario riuscì solo a frenare la sua discesa, ma finendo anche lui in ginocchio con l’amico mezzo abbracciato addosso.

«Dio…» sentì solo l’imprecazione dello zio.

I due uomini, entrambi inginocchiati ora, misero a sedere Celso. Americo gli passò una mano fra i capelli, con un gesto affettuoso:

«Su, Celso, dai…»

Aspettarono qualche istante, poi lo sollevarono: «Ce la fai?» chiese Dario e Celso gli fece cenno, quasi a occhi chiusi. Tenendolo quasi per mano ridiscesero la scaletta, Dario quasi mancò l’ultimo scalino che scricchiolò sonoro.

Tornarono in cucina, Celso si sedette al tavolo e lo zio gli portò un bicchiere d’acqua:

«Stai meglio? Te l’avevo detto, a cosa serve?»

 

Il ritorno fu breve, l’auto andava veloce e Dario chiese di scendere, con Celso, a Porta Santo Stefano: «Facciamo due passi…» Lo zio annuì con uno sguardo d’intesa e accostò, lì vicino al giardinetto, di fronte alla pompa di benzina.

Dario prese sottobraccio l’amico e imboccarono la via Emilia. Poco dopo la chiesa entrarono in un caffè, il primo sulla destra.

Ordinò due cognac.

«Io volevo sapere…» disse il ragazzo dopo un primo, brevissimo, sorso.

«Ti capisco, però adesso devi andare avanti, sono colpi duri ma devi andare avanti».

Banalità assolute, ma con un cognac in mano alle cinque di sera, cosa si poteva dire a un figlio che ha appena visto dove il padre s’è impiccato?

«Ma perché, perché? E poi perché lì? Mio padre aveva tanti posti, il magazzino, l’altra casa, cioè, no…»

«Quando si arriva a certi punti di disperazione, la logica…»

«No, non è vero, ecco, no, c’è una logica… sì una logica… l’ha fatto là, lo so perché…»

Oddio, adesso l’alcool funziona, magari straparla un po’ ma poi passa, magari gli fa bene.

Celso prese la mano di Dario e lo guardò con gli occhi aperti, quasi spalancati.

«Ormai aveva perso tutto: il magazzino, l’altra casa, tutto pignorato, fra poco il fallimento… no, a casa nostra no, per proteggerci. Casa sua, quella di San Prospero, era ancora sua, e lì ha voluto… ecco, sì, la logica, la logica, capisci, l’ha fatto per noi, per proteggerci» e si afflosciò sul cognac.

Protezione. Una famiglia in fallimento, come protezione… però era già qualcosa avesse rimesso in fila quattro idee.

«Sì, forse è così, è stato bello da parte sua. Voglio dire, vi voleva molto bene».

«Sì, certo, ci voleva molto bene, il babbo…»

 

Il cognac aveva aiutato Celso almeno ad alzare lo sguardo dal tavolino. Dario ci mise un po’ a convincerlo, ma alla fine uscirono insieme. «Mi vergogno» ripeteva il ragazzo, anche se Dario continuava a dirgli che non c’era nessun motivo, nessuno. Proseguirono per via Emilia fino a piazza del Monte, ma non camminavano insieme: Celso gli camminava a fianco, contro il fianco, costringendolo a fatica a spingerlo sulla linea retta.

Le vetrine mezze vuote colpirono subito Dario. Era partito in estate e tornava d’autunno, etichette appiccicate sui vetri che garantivano le merci come “prodotto nazionale”, ma quasi a coprire lo sguardo sul poco o niente che era rimasto da esporre.

Il tragitto, del resto, non era certo rapido. Celso tirava e s’accantucciava contro Dario, e almeno un paio di volte furono fermati da persone che volevano porgere le loro condoglianze all’orfano. Prima da tale signor Grassi di Coviolo che «conoscevo bene il suo babbo…», poi dalla signora Gisella, cinquantenne con cappellino e zeppe, che «quante volte abbiamo portato i bambini insieme a sua madre ai giardini…»

Arrivati quasi in piazza Dario ne aveva le scatole piene. Almeno aveva incrociato due ragazze come si deve, una anche quasi conosciuta di cui non ricordava il nome. Bel tipo, labbra mozzafiato, capelli ricci e orecchini rossi.

In compenso l’ora era quella e il luogo anche: finirono nei capannelli di gente sul marciapiede fuori dal bar Impero. E qui cedette alla tentazione vigliacca. Lasciò lentamente che Celso fosse assorbito da quei capannelli, che qualcuno degli amici lo tirasse dentro per offrirgli qualcosa, per “tenerlo su”. Lo abbandonò, semplicemente. Senza far nulla, rimase quasi fermo sul marciapiede, poi, adagio, riprese la via Emilia verso San Pietro.

 

Una cosa era certa. Gli avessero offerto un’altra licenza avrebbe rifiutato. A Roma sapeva cosa fare, in caserma sapeva cosa fare, magari anche a Cameri avrebbe trovato qualcosa da fare, anche solo leggere un libro in branda. Ma a casa no. Aveva azzerato tutto. 23.260, e tutto era cambiato. Non poteva andarsene a casa col rischio di trovarsi ancora Gio’ al portone, starsene a leggere? Ma cosa? Non gliene fregava più nulla. Si sarebbe messo a suonare la tromba o dipingere vetrate pur di far passare il tempo. Salvo riprendere la Balilla e girare su e giù come uno scemo.

 

Nulla re iam delector in hac vita…

Quid hic faciam adhuc et cur hic sim, nescio, iam consumpta spe huius saeculi

 

Gironzolò un po’ sotto i portici, s’infilò nel Mercato coperto, finì nel negozio di libri usati che frequentava spesso. Sembrava fosse partito il giorno prima. La signora Emma era seduta al solito posto: una lampadina fioca appesa a un trespolino, la mantellina sulle spalle (forse in giugno non l’aveva, ma non ne era sicuro), gli occhiali sul naso. Sollevò lo sguardo, come a dire «Era ora».

«Buonasera, ben trovata».

«Lamberti, ha già vinto la guerra?»

«Magari…»

«Venga un canchero al testone… finalmente! Ecco la signora Emma!»

„Un canchero al testone“, tutto regolare. Prese il panchetto, si sedette e si mise a frugare nella pila lì a destra:romanzetti rosa, qualche Salgari un po’ sbrindellato.

«Non perda tempo, ho una cosina per lei…» e si piegò appena a prendere qualcosa da un cassetto poco più in basso.

Gli allungò un volume, rilegato in scuro, stretto, forte.

Dario lo prese e quasi non credette alla fortuna che aveva davanti. Lo aprì adagio, socchiudendo la copertina lentamente, toccando con dolcezza il frontespizio. Era quell’edizione tanto cercata. Quella. Le Confessions di Sant‘Agostino, traduzione commentata in inglese, Peter Brown, 1860.

«Peccato che abbia quella macchia…» ammiccò.

Dario girò il volume, sul retro l’inchiostro di chissà chi aveva lasciato una specie di fiore nerastro.

«Ma va benissimo!»

«Le farò un prezzo speciale…» Poi la donna guardò verso la porta al nuovo cliente appena entrato. «Gli vengano tanti cancheri a quello là che manda i nostri figli a casa di Dio a farsi ammazzare, per lui e le sue troie…»

Il tempo di girarsi verso il nuovo arrivato:

«Professor Marchetti!» Il “suo”professor Marchetti. Alto, i baffi larghi, curati, una lobbia larga, la cravatta alla Levailler. Fermo, sorridente a godersi gli improperi dell’Emma. La cultura di fronte alla popolana sapiente di Borgo Emilio, il quartiere degli “altri”, di quelli strani, che il regime aveva deciso di deportare fuori, in periferia.

«Caro Lamberti…» lo guardò con la stessa aria severa di quando lo chiamava alla cattedra e gli consegnava il foglio piegato con il compito in classe corretto «vedo che servire la patria fa bene… bella acconciatura: virile!» e gli si fece incontro per salutarlo.

«Professore, sono in licenza… tutto bene? Come sta?»

«La vita continua! Studenti sempre più ignoranti come vuole il governo, generi di conforto sempre più difficili da trovare, per fortuna la signora Emma provvede ai nostri bisogni». Poi, con una smorfia d’intesa: «E la “farmacia” ci dà il resto…»

La “farmacia”! Se n’era scordato! Non aveva fatto ancora un salto da Nironi e Prandi, dove si trovavano le “medicine” contro quella volgarità, quello schifo nerastro, appiccicoso e volgare che stava portando tutto alla malora.

«Per quanto… siamo rimasti noi vecchi a casa. Valdo è in Jugoslavia, Maurizio in Grecia, quell’altro in Francia, lei a fare il trasvolatore. Fai la guerra, gira il mondo… bestie!»

«Posso offrirle qualcosa? Un aperitivo…»

«Lamberti! Sono un vecchio sovversivo, ma conosco il mio dovere, venga, offro io…»

Incontrare Marchetti bastava già a salvare la giornata.

«Signora Emma, i nostri omaggi e, come si dice… che gli venga…»

«Un cancher, ch’egh vègna un cancher in tìi budee…»

«Vede, Lamberti, l’efficacia dell’eloquio popolare? Semplice, esaustivo. Che gli venga un tumore nelle interiora? No, non funziona, invece…» e fece cenno di nuovo alla donna, che ripeté:

«Un cancher, ch’egh vègna un cancher in tìi budee…»

«Perfetto! Come non associarsi a tale auspicio?»

Dario rise, pagò e si mise in tasca il prezioso volume.

 

«In realtà» Marchetti parlava tenendolo sottobraccio, un gesto di incredibile affabilità per il vecchio docente del liceo, «la povera Emma ha tutte le sue ragioni per essere così… esacerbata, diciamo. Suo marito gliel’hanno ammazzato a bastonate, finito in sanatorio a quarant’anni. Dei due figli, uno è ancora in qualche isola al confino e l’altro l’hanno spedito in Russia. Nessuna notizia».

«Non vorrei essere nel primo fascista che le capiterà sotto mano, perché prima o poi le capiterà…»

«Non si rendono conto questi beccamorti di quanto odio hanno seminato, e la tempesta che raccoglieranno…»

«Già… e lei come si trova al servizio dello Stato?»

«Va bene, va bene, in aeronautica si sta bene…»

«Ma non poteva aspettare di aver discusso la tesi prima di rompere il naso a quel tipo?»

«Il primo pugno è come il primo amore, quando arriva, arriva…»

«La vedo tonico, bene, ci vuole, in questi giorni così…» Poi d’improvviso cambiò tono e viso.

«Ha saputo di Grassi?»

«Grassi?»

«Luciano Grassi? Il volontario…» e subito si pentì di quello che aveva appena detto.

Luciano era uno dei ragazzi più onesti e puliti mai conosciuti, era nella classe avanti la sua. Nove in tutte le materie, facoltà di ingegneria. Figlio del custode del mercato suino. Era partito in febbraio. L’avevano festeggiato la sera prima, senza neppure riuscire a farlo sbronzare. Gli altri, Dario in prima fila, sotto il tavolo. Lui a sorridere. Contento, era contento di partire “per il Re”. E ci credeva.

«Quando?»

«Metà settembre, fronte greco-albanese. Medaglia d’argento».

Luciano. Che voleva tornare, finire e andare alle Reggiane a costruire aerei. Luciano che s’era innamorato di una ragazza di Pieve ma non gliel’aveva mai detto «Non è serio, prima il servizio, poi quando torno…» Fine. Medaglia d’argento sul petto del padre, alla prima celebrazione con i beccamorti e i preti a piagnucolare.

Si sedettero al tavolino contro la vetrina del primo caffè, lì sotto i portici. Due vermouth. Marchetti non aveva più detto niente, poi all’improvviso:

«Lamberti, non si faccia ammazzare… una giovinezza giunta rapidamente alla fine condanna l’annosa vecchiaia dell’ingiusto»…»

«Professore devo laurearmi, ricorda? E poi lei mi ha promesso di comporre un carmen per quella ricorrenza, non posso schiattare prima…»

Brindarono sommessamente alla prossima sconfitta dei beccamorti e alla fine di quella carneficina che portava via ragazzi come Luciano Grassi. E lasciava in giro Guido Lamberti, ma questo se lo tenne per sè, anche se lo pensò e lo pensò proprio convinto.

 

Cosa mettere per un invito come quello di Katharine? Scartata la divisa non restava molto. Un abito scuro da teatro? Per sembrare un cameriere? Una giacca sportiva? Non era un gigolo o un gagà. Alla fine ripiegò per quella di tweed inglese che aveva comprato a Monaco prima di tornare. Si infilò nella tasca interna la terza lettera di Gio’ che aveva trovato sulla sua scrivania tornando a cena – le altre due erano già nel cassetto-lazzaretto in fondo a destra – e partì in bicicletta verso la villa-con-l’edera.

Non voleva arrivare troppo presto e star lì ed aspettare gli altri. Gli altri chi, poi? In realtà era lì per Katharine, per vederla ancora. Per giocare con lei, per non pensare.

Era tornato a Reggio perché voleva fare all’amore con Giò. L’aveva sognato, l’aveva pensato tante volte. Invece. 23260.  E poi se si poteva chiamare fare all’amore quello che era stato con Gio’. Quel desiderio misto a rabbia, nostalgia, vendetta, punizione. Eauntontimoroumenos. Colui che si punisce da solo. Quello era stato, prenderla e starle dentro e tenerla ferma e sentire il suo piacere e le sue lacrime. Il suo piacere come in via Settembrini? Meglio o peggio? Se lo era chiesto, e chiesto ancora. No. Non era stato bello.

Ora poi: le lettere nemmeno lette, perché leggerle? Anche se dentro aveva quella cosa che rimaneva lì, che respingeva ogni ora, ogni sguardo. Un ricordo. Continuo. Era stato troppo, troppo forte. Lui e lei. Per tre anni si erano visti ogni giorno, tutti i giorni. E quei pochi in cui erano stati lontani li avevano passati a scriversi fogli, biglietti, lettere. Decine di boccette di inchiostro prosciugate. Stilografiche consumate. Poi, 23260. Normale. Non era nulla di speciale. Ci avevano creduto. Tutto normale, invece, peccato di ubris credere di essere gli unici. Invidia degli dei. Puniti. Finito. Normale.

 

Non era il primo, bene. Non conosceva quasi nessuno, male. Katharine, invece, era magnifica. Abito scuro, scollatura discreta ma visibile (anche due tette da mangiare, non le aveva notate bene, prima), uno scialle rosa antico.

Aveva un sorriso sincero quando lo fece entrare nel salone e lo presentò:

«Dario Lamberti, un nuovo giovane amico, in breve licenza in città!»

Tre signore lo salutarono con un educato cenno del capo, a destra un signore sulla quarantina fece un gesto come a dire “benvenuto” e interruppe il dialogo che stava tenendo con lo zio Rico. Proprio lui, i casi della vita:. elegante in doppiopetto gessato, cravatta granata, capelli impeccabili, probabilmente tinti.

«Lamberti, venga, le presento l’ingegner Rovetta…»

«Mi fa piacere conoscere il fratello di Guido. Sa, non me ne aveva mai parlato…»

«Non me ne stupisco. È troppo indaffarato nel suo lavoro, il fratellone».

«A Reggio in licenza, mi diceva De Marchi. Noi contiamo molto su voi giovani…»

«Faremo del nostro meglio…»

«Lamberti è in gamba» intervenne lo zio Rico a troncare le banalità. «Altruista, sta aiutando molto il figlio di Aurelio, povero ragazzo: è stata una botta tremenda…»

«Chi viene al tavolo?» Katharine invitò gli ospiti nel salotto attiguo per iniziare la partita di bridge.

Rovetta si mosse subito, De Marchi trattenne Dario per un braccio:

«Gioca?»

«Per l’amor di Dio, non so neanche cosa sia, ho molti vizi ma le carte proprio no, non ci ho mai capito nulla».

«Bravo! Il bridge è proprio da vecchi barbogi, non capisco perchè Rita faccia serate come queste».

«Magari si annoia».

«Si annoia? La sveglierei io…» e gli diede un tocco col gomito.

«Rita…» la donna si stava avvicinando a loro: «Ci stavamo chiedendo proprio» e abbassò di colpo il tono «come mai organizzi serate così noiose con questi ruderi…»

«De Marchi! L’unico non rudere qui, stasera, è il nostro Lamberti, che ha accettato per educazione… e poi lui è il mio insegnante, non sapevi?»

De Marchi guardò Dario con curiosità: «C’è qualcosa in cui Rita non sia già maestra?»

«Il tedesco, De Marchi, il tedesco. Tu come te la cavi con il tedesco?»

«Ja, nein, Hure…» e rise.

«Molto divertente…» e Katharine guardò Dario come a dire “porta pazienza”.

De Marchi si accese una sigaretta:

«Rovetta, sua moglie, la moglie di Battelli: esegui gli ordini di Germano a puntino, eh Dario, non capisce… Rovetta è il fratello del responsabile della sezione approvvigionamenti del Ministero, Battelli è il legale della…»

«Oh, basta, non annoiare Dario! Anzi, adesso te lo porto via…» e lo prese sotto braccio «Venga, scegliamo qualche disco…

Lei crede che sia una puttana?»

La domanda diretta lasciò Dario senza una risposta.

«Lo sono, lo sono, ma non come sognerebbe Bottazzi e magari piacerebbe anche a De Marchi…» gli mostrò paio di dischi «Cosa preferisce, Bartok o Mendelsohn?»

«Bartok va benissimo…» Katharine si chinò sul mobile giradischi e fece partire la musica.

Poi si girò e lo guardò negli occhi.

«Ci si vende in tanti modi e io pago il mio prezzo, lei no?»

Poi senza aspettare una replica andò verso il tavolo del bridge.

«Che donna, eh?» De Marchi era di nuovo lì, un’altra sigaretta in mano.

Dario annuì.

«Stasera è peggio che altre volte, manca Benassi con le sue barzelletacce e monsignor Ballini a far finta di scandalizzarsi, ma lei deve divertirsi, altroché: noi civili stiamo al calduccio, lei fra poco torna in linea!»

Imboscato, tranquillo, imboscato.

«Senta, domani sera, con qualche amico ci divertiamo un po’, venga con noi!»

«Ma…»

«Bene, siamo d’accordo! La passo a prendere alle nove e mezza, al portone…»

Una serata con De Marchi era forse peggio che starsene a casa a leggere quelle lettere, o girare a caso per Reggio.

«Va bene…»

«Oh, così la voglio sentire: giovani, giovani!»

«Posso chiederle una cosa?»

«Quel che vuole, Lamberti». Aver accettato l’invito aveva aperto un esile filo di complicità.

«Circa il padre di Celso, come mai… pensavo fosse senza problemi».

«Ehh, povero Aurelio, ha fatto il passo, come si dice, più lungo della gamba: purtroppo, sa, la guerra…»

«Ma era proprio rovinato?»

«Con la sua morte forse si eviterà il fallimento. Abbiamo provato a dargli una mano, ma purtroppo… le banche, troppi affari sbagliati…»

«Eravate in Africa insieme?»

De Marchi fece un gesto come a dire “proprio così”.

«L’Africa è stata proprio il passo più lungo che dicevo. Aurelio era un bravo commerciante ma, su piccola scala, ha voluto mettersi in un gioco più grande di lui. Guardi, le parla uno che è stato un po’ più fortunato, ma so io i rischi che ho corso, e poi la guerra ha spazzato via tutto, ho lasciato là un paio di cantieri, ma pazienza! Lui c’è rimasto in mezzo… poi, oltretutto, anche la sua disgrazia: un commerciante non dorme mai, sempre in giro, pensa oggi cosa fare domani e domani l’altro. Lui invece, mutilato, nei mesi d’ospedale s’è giocato anche la camicia. Quando è tornato in giro, ormai era come vuotare il mare con un cucchiaio».

«Ma uccidersi…»

«Eh, Aurelio era un uomo, una camerata vero, sa dove ci siamo conosciuti? Parma, estate 1922, che roba, che botte contro i rossi! Quella volta lì quasi quasi… ma Aurelio sempre davanti, un uomo così, con la sua carriera, un tipo tutto d’un pezzo, l’onore prima di tutto…»

Già, l’onore. Mollare una famiglia in mezzo a una strada. Onore.

 

La serata si trascinò fino alle 11.30, quando il tavolo del bridge chiuse l’ultima partita. De Marchi si offrì di accompagnare Rovetta e signora. Dario voleva essere l’ultimo ad andarsene, per scambiare almeno due parole con Katharine, che dopo quella domanda imbarazzante non l’aveva quasi più considerato.

Aveva già l’impermeabile addosso e s’era messo in coda alle ultime signore per i saluti.

«Lamberti, non s’è annoiato troppo?» e gli tese la mano per congedarlo.

«No, non troppo… domani?» tentò.

«Abbiamo la nostra lezione, alle 11?»

Aveva avuto un’idea e una curiosità. Perché no?

«Perché non facciamo la lezione all’aria aperta?»

Lo guardò con curiosità.

«La vengo a prendere a facciamo un giro in campagna?»

Katharine guardò l’ultimo ospite, ormai arrivato al cancello:

«Che pretesto posso trovare?»

«Andiamo a portar fiori sulla tomba di Fontana, può essere?»

Sembrò sollevata.

«Alle 11?»

«Alle 11».

Per un istante sognò di darle un carezza, poi la salutò e scese i gradini verso il grande cancello di ferro battuto.

Il patto di Katharine_Capitolo 3_ultima modifica: 2020-03-15T18:09:04+01:00da pelikan-55
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