Quel 16 marzo

Ci sono date che restano fisse nella memoria individuale, legando eventi “storici”a quelli personali del singolo. Questo è, in fondo, un aiuto al nostro ri-memorare: è più facile ricordare dove si era l’11 settembre o il 2 agosto 1980, eventi tragici che restano come relitti affioranti nel deserto di tutto il nostro passato.

Quel giovedì ero a Verona, altra vita, altre persone, altre storie. A 23 anni pensavo avrei fatto l’ingegnere e quello stavo facendo, o meglio facevo quello che oggi chiameremmo tirocinio. Fiera dell’Agricoltura, stand della ditta paterna, giornate a parlare con clienti e curiosi, consigli tecnici, suggerimenti, offerte, prezzi, sconti, qualche scambio scherzoso con colleghi.

Quella mattina doveva essere quella del mio ritorno, avevo un esame (che non avrei mai dato) un paio di settimane dopo. Mattina in fiera e poi alla stazione per rientrare. Tempi diversi, senza cellulari e con i telefoni ancora a care tariffe, dovevano bastare quei cinque minuti alla sera con la morosa, telefonate ellittiche di parole, con il vincolo dell’apparecchio fisso, magari a muro, piazzato, per comodità famigliare, in mezzo alla sala se non proprio in cucina.

Quattro giorni in fiera, tragitti quotidiani albergo-stand. Hotel Mastino, centro città, camera doppia con il socio di mio padre. Tutto regolare anche quel mattino, barba (portavo solo i baffi), colazione (la solita di sempre: pane, burro, marmellata e cappuccino) e poi sulla vecchia Mercedes diesel color aragosta (i diesel di allora, senza turbo, velocità di crociera 110) fino al grande parcheggio. Si entrava prima, verso le nove, apertura dei cancelli al pubblico alle dieci e da quel momento, fino alle cinque, appena e non sempre, il tempo di un panino e una birra, spesso interrotte da un rubizzo coltivatore toscano o da un distinto business man del Medio Oriente. Ormai la procedura era fissata: si arrivava allo stand, si sistemavano le nostre ventiquattrore aziendali (valigette rettangolari e squadrate stile agente segreto), si rifornivano gli espositori di pieghevoli e cataloghi, una spolverata alle macchine in mostra, una controllata al nodo della cravatta ed eccoci pronti alle dieci ad accogliere il flusso dei visitatori.

Quella mattina era, per me, una specie di ultimo giorno di scuola: tornavo a casa, dalla morosa, fuori da quella confusione dove, stavo accorgendomene da un po’, fingevo di essere quello che non ero. Pensavo al prossimo giro in montagna, al Rifugio di Rio Pascolo sotto l’Alpe dove avremmo trovato ancora tanta neve, ai problemi che avevo lasciato solo quattro giorni prima.

Le dieci. Il silenzio dei grandi padiglioni sarebbe stato interrotto dal crescente vociare delle centinaia di persone che sarebbero sciamate di stand in stand, una specie di fiumana umana che dalla campagna si era riversata e concentrata in città per la grande Fiera.

Invece niente. Passavano i minuti e non succedeva niente. Il silenzio rimaneva sordo, appena in sottofondo dagli altoparlanti la solita musichetta e qualche messaggio pubblicitario registrato.

Niente. Dieci e un quarto, dieci e venti. Ricordo che pensai al solito sciopero improvviso che avrebbe magari bloccato anche i treni, e io che dovevo tornare, io che volevo andare nella neve sotto l’Alpe. Guardai Emore, il socio, lui esperto di centinaia di fiere, con la faccia scolpita da contadino di Roncocesi. Nessuna risposta. Scambiai qualche parola con la vicina di stand, una ragazza biondina di una ditta di sistemi di irrigazione a pioggia. Zero.

Eravamo soli, ognuno nel proprio stand, come chiusi in un recinto, in quella scacchiera di piccoli spazi quadrati sotto le arcate grigie di cemento del padiglione.

Poi, prima un sussurro, poi parole più articolate, lontane, echeggiate, più vicine. All’inizio incomprensibili, quasi disarticolate: sequestro, morti, moro, roma, poi un uomo, con un’atroce cravatta a scacchi, di passaggio, si fermò, guardò Emore (dovevano conoscersi, se non altro per il gusto tremendo nell’abbigliamento) e scandì:

“A Roma le bierre hanno rapito Moro e hanno massacrato la sua scorta”.

Guardai Emore. E il mio treno? A quello pensai, ne sono sicuro.

Rapito, morti, bierre. Niente smartphone, niente schermi nel capannone. Ma avevo la mia radiolina! La mia Sony che ascoltavo la sera in camera (allora non c’erano tv come ora) era nella mia ventiquattrore. Averci pensato prima.  Così ci ritrovammo in una decina di persone (gli addetti degli stand limitrofi, io ed Emore) attorno a quella radiolina, posata sulla nostra scrivania, ad ascoltare radiouno, unificata a radiodue, il filodiretto delle notizie. Come Radio Londra ai tempi della guerra.

Così seppi di quel giovedì mattina.

Prima di mezzogiorno Emore mi portò in stazione (Verona, stazione di Porta Nuova) per prendere il treno. Mi salutò dal finestrino abbassato: “Auguri!”. Ne avrei avuto bisogno.

L’8 settembre 1943 non c’ero, ma, entrato in stazione pensai che doveva essere stata una cosa molto simile a quello che stavo vedendo. La voce che annunciava che in seguito allo sciopero generale i treni erano stati sospesi, gente che correva verso i binari, scontrandosi con persone che da quei binari tornava arrabbiata e spaventata, valigie trascinate che urtavano altre valigie in senso opposto (non c’erano trolley allora). Una signora cercava di raccogliere la sua borsa, caduta nella confusione e chiedeva alla figlia: “E adesso?”, non so se pensando alle cose sparse in terra o ai destini del paese. Con la ventiquattrore nella sinistra e la borsa a tracolla con le mie cose, prese già la mattina in hotel, dribblai al meglio quella gente, arrivai al binario per Bologna. Avevo già il biglietto in tasca, andata\ritorno, un rettangolino di cartone color salmone.

La fila dei viaggiatori era parallela ai binari, quasi ordinata, ogni tanto qualcuno si sporgeva per guardava in direzione di un treno che non arrivava. Nessun tabellone luminoso allora, solo la voce che ripeteva che “in seguito allo sciopero generale…”.

Era l’una passata quando, senza nessun annuncio, apparve la motrice e poi il treno intero al suo seguito. Un treno diverso, altri colori, nuovo, quasi luccicante. Sul muso non c’era FS ma DB. Münich-Rom, Monaco-Roma. Si fermò senza stridore. Tutti restammo a guardarlo, era quasi vuoto. Ci volle qualche secondo prima che uno dalla fila, più coraggioso degli altri, prendesse l’iniziativa e abbassasse la maniglia di uno sportello (non c’erano le porte automatiche, allora). Lo stesso ardimentoso salì per primo e noi, in silenzio, dietro di lui. Nessun odore di latrina, vetri appannati, sbalzi enormi di temperatura tra corridoio e scompartimenti. Silenzio, temperatura esatta, sedili che si intuivano accoglienti e puliti. Percorrendo il corridoio guardai fuori, la gente che correva sul marciapiedi entrando e uscendo dalla stazione, era come essere in un acquario al contrario, noi pesci tranquilli e al sicuro ad osservare fuori quell’accalcarsi, correre, di centinaia di persone.

Entrai in uno scompartimento vuoto. Sistemai le mie cose e rimasi lì, il treno chissà quando sarebbe ripartito ma ero al sicuro, comodo, avrei aspettato. Il sedile era morbido, in una simile sistemazione nessuno avrebbe pensato, uso normale sui treni FS, di togliersi le scarpe e stravaccarsi su due sedili. Seduto e composto, capivo che quello era lo stile richiesto anche se ero solo.

Ancora senza nessun segnale premonitore nè stridio di freni il treno si mosse, semplicemente partì. Salvato da un treno tedesco: pensai che l’8 settembre non sarebbe stato così gradito un simile passaggio, ma i tempi erano cambiati. Per fortuna.

Senza nessuna sosta imprevista arrivammo a Bologna. Binario uno. E di nuovo mi trovai nell’effetto acquario come alla partenza ma a parti invertite, ora da quell’acquario dovevo uscire e tornare nella confusione moltiplicata dalla grande stazione in preda al caos che continuava.

Non ricordo come riuscii ad arrivare a Reggio, di certo feci il viaggio-giusto contrappasso per la fortuna germanica appena goduta-su un treno locale, ancora senza scompartimenti, con le tante porte che si aprivano direttamente nel vagone, con le panche di legno verniciato e il riscaldamento bloccato al massimo (ma tanto ogni sportello aveva un finestrino e così si poteva viaggiare nel caldo\freddo\tiepido delle varie combinazioni di getti e spifferi d’aria.

Scesi a Reggio dopo le cinque del pomeriggio, mentre la voce ripeteva ancora che “ in seguito allo sciopero generale..”.

Mi feci tutta la strada verso casa a piedi, ma non pesava, avevo 23 anni e mi aspettava la neve sotto l’Alpe.

 

Minima Elettoralia (7): Per un governo del 4 dicembre (G.Innamorati)

In quest’analisi del dopo voto vorrei spiegare ai lettori di ytali. perché è importante che nasca un governo sostenuto da tutte le forze che hanno sostenuto il “No” al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 (M5s, Lega, Fi, Fdi, LeU), e di come ci sia un legame tra quel voto, l’esito delle urne del 4 marzo scorso e i cinque anni di legislatura appena trascorsi.

Il ragionamento che proporrò richiede che si rammenti rapidamente in premessa che la politica è una scienza esatta, vale a dire che segue regole ben precise. Le prime due regole sono:

  1. La democrazia è quel sistema in cui si può cambiare un governo senza spargimento di sangue, attraverso libere elezioni.
  2. Chi vince le elezioni (per il Parlamento ma anche all’interno di un qualsiasi organismo di rappresentanza) ha l’onere di governare; chi perde sta all’opposizione, controlla chi governa e si prepara per essere competitivo alle successive elezioni.

Queste regole non vengono seguite o quando si scrivono le fiction televisive (tipo House of Cards) o quando si mira a far saltare le stesse regole e quindi la democrazia. Non a caso le fiction in cui le trame oscure sovvertono il voto democratico, sono amate da chi mette in discussione la democrazia liberale, affermando che essa non è “vera democrazia”.

Ma torniamo all’attualità. Tutti i commentatori hanno affermato che il 4 marzo ci sono stati due vincitori, M5s e il centrodestra/La Lega. Affermazione corretta anche se andrà precisata.

Tutti sono concordi nell’affermare che lo sconfitto è uno solo, il Pd, ed eventualmente i suoi alleati della coalizione. Gli elettori che hanno barrato il simbolo del Pd, in effetti, sono stati solo 6.134.727 su un totale di oltre 32,7 milioni, pari solo al 18,72 per cento. Questo significa che l’81,38 per cento del corpo elettorale ha bocciato i cinque anni di governo a guida Pd e ha deciso di relegarlo all’opposizione. Le percentuali crescono se consideriamo gli astenuti (il corpo elettorale è di 46 milioni di cittadini): anche essi non hanno ritenuto di doversi recare alle urne per asseverare l’operato dei governi Dem.

Insomma cercare di trascinare il Pd dentro un governo a guida M5s (come stanno facendo molti quotidiani main stream) è una sfida al corpo elettorale, una provocazione. Lunedì 5 marzo Matteo Renzi, nel motivare il suo “no” a questa ipotesi (“niente inciuci e niente caminetti”) ha affermato:

“Ci hanno detto che siamo corrotti, mafiosi e addirittura che abbiamo le mani sporche di sangue, ed ora chiedono i nostri voti?.”

Al di là della vena polemica di Renzi, quest’affermazione coglie un punto centrale. Queste accuse al Pd e ai governi che esso ha guidato sono state effettivamente pronunciate da Luigi Di Maio e Matteo Salvini, e gli elettori votando i loro partiti e movimenti hanno asseverato tali accuse, le hanno condivise, le hanno fatte proprie. Cosa proverebbero se oggi vedessero al governo coloro che essi ritengono “corrotti e mafiosi”. Ripeto, sarebbe una provocazione. E visto che non si sta scrivendo una fiction, si metterebbero in discussione le regole della democrazia.

Guardiamo ora i vincitori. M5s ha compiuto un importante cammino in questi cinque anni in direzione di una sua istituzionalizzazione; è passato dal “non ci alleeremo mai con nessuno” di Beppe Grillo al “siamo pronti a dialogare con tutti e ad allearci con tutti” di Di Maio, posizione che nasce dalla sua centralità elettorale, dato che il 32 per cento dei voti ne fa il primo partito. Ha compiuto lo stesso cammino di Forza Italia che nel 1994 nasceva come movimento antisistema e rivoluzionario (la famosa “rivoluzione liberale” di Berlusconi) e negli anni ha saputo modificarsi divenendo anzi l’interprete del sistema. E come Berlusconi nel corso degli anni, anche Di Maio ha saputo intelligentemente utilizzare il doppio registro comunicativo: quello movimentista indirizzato ai militanti e quello istituzionale rivolto alle realtà di sistema del paese (vedi incontri con le aziende di lobbying, o con gli investitori italiani e stranieri, con le autorità ecclesiastiche, ecc).

Anche l’altro vincitore, il centrodestra, è profondamente cambiato. Innanzi tutto la leadership della coalizione non è più di Fi e di Berlusconi, bensì della Lega. Ma anche tale osservazione va ulteriormente precisata: la Lega di Salvini non è quella di Bossi, che era un movimento trasversale e in certi aspetti centrista (“una costola della sinistra” la definì Massimo D’Alema). Il Carroccio di Salvini è un soggetto di destra-destra: via i negri dalle nostre città; in casa si deve poter sparare a qualsiasi estraneo, anche se disarmato e di spalle; ecc.

Tanto è vero che la Lega ha rubato molti elettori a Fratelli d’Italia, superandolo persino a Roma, finora feudo di Giorgia Meloni nell’elettorato di destra. Più che di centrodestra dovremmo parlare di destracentro, se non fosse una parola inconsueta. È interessante ricordare quando avviene la svolta “radicale” di Salvini e la conseguente scalata a Fi e alla leadership del centrodestra.

Siamo all’indomani delle elezioni europee del maggio 2014, quelle in cui il Pd aveva ottenuto il 41 per cento e Fi solo il 17 per cento il che mostrava come il “Patto del Nazareno” drenava voti moderati da Fi al Pd. Nella commissione affari costituzionali del Senato era stato approvato il testo della riforma costituzionale, che era stato votato non solo dal centrosinistra e da Fi, ma anche dalla Lega, la quale esprimeva il correlatore, Roberto Calderoli.

Ebbene nei giorni che trascorrono prima dell’approdo della riforma in aula, Salvini rompe proprio su quel testo facendo votare “no” ai suoi senatori, che da quel momento fanno asse con M5s. Inizia così un progressivo spostamento a destra della Lega che porta Silvio Berlusconi a inseguire l’alleato sulle sue posizioni. Lo schiacciamento a destra di Berlusconi ha raggiunto il suo culmine nell’ultima campagna elettorale, nella quale l’ex Cavaliere ha proposto il rimpatrio di seicentomila immigrati irregolari. Parole a cui non credeva palesemente neppure lui che, da Presidente del consiglio, ha sagacemente varato due sanatorie, nel 2002 (decreto 195/2002) e nel 2009 (decreto 78/2009) per complessivi un milione di immigrati regolarizzati, misura rivendicata da Berlusconi nella sua propaganda elettorale.

Come si ricorderà il patto del Nazareno si rompe il 30 gennaio 2015 sull’elezione del Presidente della repubblica. Da allora Fi si allinea a livello parlamentare a Lega, Fdi e M5s non solo nel votare contro la riforma costituzionale e l’Italicum (appena votato in Senato tre giorni prima), ma anche su tutte le altre riforme promosse dal governo Renzi e poi da quello Gentiloni. M5s, Fi, Lega, Fdi hanno votato compattamente insieme contro la riforma del mercato del lavoro, la riforma Madia della pubblica amministrazione, la riforma del terzo settore, le unioni civili, il testamento biologico, la riforma delle Banche popolari, ecc, oltre l’Italicum nel successivo passaggio alla Camera.

E compattamente hanno votato contro le proposte del governo su altre tematiche: ne accenno solo due, quella dei crediti deteriorati delle banche e quella dell’immigrazione. Sulle banche M5s, Fi, Lega e Fdi hanno votato contro la creazione del fondo Atlante per la gestione degli Npl; e in tema di immigrazione il 4 luglio 2017 hanno votato contro il mandato al governo di chiedere al vertice europeo di Tallin il cambio delle regole di Triton, in modo tale che le navi che salvavano i migranti nel Mediterraneo potessero approdare non solo in Italia e Malta, ma anche nei porti di altre nazioni Ue. Per il vero i quattro partiti hanno sempre votato contro a tutti i mandati ai governi Pd prima dei semestrali vertici Ue.

Insomma il “no” al referendum costituzionale del 4 dicembre da parte di M5s, Lega, Fi e Fdi è stato l’ultimo di una serie compatta di altri “no” a misure ed atti del governo del Pd.

D’altra parte anche dalla società civile che si è espressa per il “no” al referendum costituzionale sono arrivate pesanti critiche anche alle altre riforme del governo Renzi, in particolare la riforma del mercato del lavoro e della scuola. Penso ad esempio a molti professori del Comitato del No guidato dal professor Alessandro Paci.

Tanto i partiti presenti in Parlamento quanto i professori, hanno sempre detto che il “No” al referendum costituzionale sintetizzava la loro contrarietà a tutta l’azione del governo a guida Pd-Renzi. “Mandiamo il governo Renzi a casa” è stato il mantra ripetuto in quella campagna da Salvini, Di Maio, Brunetta, Berlusconi, Meloni e da molti professori. Il voto anticipato ci stava tutto (come d’altra parte nel 2011) anche alla luce del fatto che nel 2018 la Bce avrebbe interrotto il QE a protezione dei nostri titoli di debito pubblico.

La bocciatura della riforma costituzionale ha fatto cadere anche il meccanismo del ballottaggio previsto dall’Italicum (così la sentenza 35/2017 della Corte costituzionale), l’unico che avrebbe permesso di avere un vincitore, tra M5s e il destracentro nelle attuali elezioni. Ma con il senno del poi, meglio così. Alle elezioni del 4 marzo, infatti, ci sono stati due vincitori in due parti ben precise del Paese. Al Sud M5s ha trionfato con una percentuale del quaranta per cento, facendo del Mezzogiorno un monocolore pentastellato. Il Nord, al contrario, non solo ha votato in massa per la nuova coalizione di Salvini, ma ha sancito la sua personale leadership barrando il simbolo della Lega che, in alcune province ha doppiato Fi.

Insomma abbiamo due vincitori perché abbiamo due Italie. Forse un ballottaggio le avrebbe messe l’una contro l’altra. Ma tale contrapposizione è un motivo in più per dar vita a un governo di tutte le forze che hanno vinto il referendum del 4 dicembre. Avrebbero la storica opportunità di unificare queste due Italie.

Il ritorno al proporzionale è stato sancito dall’elettorato italiano con il “no” del 4 dicembre, e il proporzionale implica un ritorno all’accordo post elettorale tra partiti diversi tra loro.

Il mandato a M5s, Lega, Fi e Fdi a trattare tra loro lo hanno ricevuto il 4 dicembre 2016, per di più su loro richiesta. A tale governo del 4 dicembre dovrebbero dare il loro contributo anche le altre forze che si sono battute per il “No” al referendum, da LeU di Pietro Grasso ai professori guidati da Alessandro Paci. Le diverse riforme varate dai governi a guida Pd avevano una loro coerenza interna ed erano collegate con la riforma costituzionale, nell’ottica della democrazia federale e dell’alternanza.

È giusto che si facciano avanti tutte le altre forze con il loro progetto di una democrazia sovranista e proporzionale.

Insomma il governo dell’81,32 per cento degli elettori, in base alla regola numero uno della politica che abbiamo visto all’inizio. A meno che non vogliano scrivere una fiction stile House of Cards o non vogliano portarci fuori dal perimetro di una democrazia liberale.

https://ytali.com/2018/03/09/governo-del-4-dicembre/