Ci sono date che restano fisse nella memoria individuale, legando eventi “storici”a quelli personali del singolo. Questo è, in fondo, un aiuto al nostro ri-memorare: è più facile ricordare dove si era l’11 settembre o il 2 agosto 1980, eventi tragici che restano come relitti affioranti nel deserto di tutto il nostro passato.
Quel giovedì ero a Verona, altra vita, altre persone, altre storie. A 23 anni pensavo avrei fatto l’ingegnere e quello stavo facendo, o meglio facevo quello che oggi chiameremmo tirocinio. Fiera dell’Agricoltura, stand della ditta paterna, giornate a parlare con clienti e curiosi, consigli tecnici, suggerimenti, offerte, prezzi, sconti, qualche scambio scherzoso con colleghi.
Quella mattina doveva essere quella del mio ritorno, avevo un esame (che non avrei mai dato) un paio di settimane dopo. Mattina in fiera e poi alla stazione per rientrare. Tempi diversi, senza cellulari e con i telefoni ancora a care tariffe, dovevano bastare quei cinque minuti alla sera con la morosa, telefonate ellittiche di parole, con il vincolo dell’apparecchio fisso, magari a muro, piazzato, per comodità famigliare, in mezzo alla sala se non proprio in cucina.
Quattro giorni in fiera, tragitti quotidiani albergo-stand. Hotel Mastino, centro città, camera doppia con il socio di mio padre. Tutto regolare anche quel mattino, barba (portavo solo i baffi), colazione (la solita di sempre: pane, burro, marmellata e cappuccino) e poi sulla vecchia Mercedes diesel color aragosta (i diesel di allora, senza turbo, velocità di crociera 110) fino al grande parcheggio. Si entrava prima, verso le nove, apertura dei cancelli al pubblico alle dieci e da quel momento, fino alle cinque, appena e non sempre, il tempo di un panino e una birra, spesso interrotte da un rubizzo coltivatore toscano o da un distinto business man del Medio Oriente. Ormai la procedura era fissata: si arrivava allo stand, si sistemavano le nostre ventiquattrore aziendali (valigette rettangolari e squadrate stile agente segreto), si rifornivano gli espositori di pieghevoli e cataloghi, una spolverata alle macchine in mostra, una controllata al nodo della cravatta ed eccoci pronti alle dieci ad accogliere il flusso dei visitatori.
Quella mattina era, per me, una specie di ultimo giorno di scuola: tornavo a casa, dalla morosa, fuori da quella confusione dove, stavo accorgendomene da un po’, fingevo di essere quello che non ero. Pensavo al prossimo giro in montagna, al Rifugio di Rio Pascolo sotto l’Alpe dove avremmo trovato ancora tanta neve, ai problemi che avevo lasciato solo quattro giorni prima.
Le dieci. Il silenzio dei grandi padiglioni sarebbe stato interrotto dal crescente vociare delle centinaia di persone che sarebbero sciamate di stand in stand, una specie di fiumana umana che dalla campagna si era riversata e concentrata in città per la grande Fiera.
Invece niente. Passavano i minuti e non succedeva niente. Il silenzio rimaneva sordo, appena in sottofondo dagli altoparlanti la solita musichetta e qualche messaggio pubblicitario registrato.
Niente. Dieci e un quarto, dieci e venti. Ricordo che pensai al solito sciopero improvviso che avrebbe magari bloccato anche i treni, e io che dovevo tornare, io che volevo andare nella neve sotto l’Alpe. Guardai Emore, il socio, lui esperto di centinaia di fiere, con la faccia scolpita da contadino di Roncocesi. Nessuna risposta. Scambiai qualche parola con la vicina di stand, una ragazza biondina di una ditta di sistemi di irrigazione a pioggia. Zero.
Eravamo soli, ognuno nel proprio stand, come chiusi in un recinto, in quella scacchiera di piccoli spazi quadrati sotto le arcate grigie di cemento del padiglione.
Poi, prima un sussurro, poi parole più articolate, lontane, echeggiate, più vicine. All’inizio incomprensibili, quasi disarticolate: sequestro, morti, moro, roma, poi un uomo, con un’atroce cravatta a scacchi, di passaggio, si fermò, guardò Emore (dovevano conoscersi, se non altro per il gusto tremendo nell’abbigliamento) e scandì:
“A Roma le bierre hanno rapito Moro e hanno massacrato la sua scorta”.
Guardai Emore. E il mio treno? A quello pensai, ne sono sicuro.
Rapito, morti, bierre. Niente smartphone, niente schermi nel capannone. Ma avevo la mia radiolina! La mia Sony che ascoltavo la sera in camera (allora non c’erano tv come ora) era nella mia ventiquattrore. Averci pensato prima. Così ci ritrovammo in una decina di persone (gli addetti degli stand limitrofi, io ed Emore) attorno a quella radiolina, posata sulla nostra scrivania, ad ascoltare radiouno, unificata a radiodue, il filodiretto delle notizie. Come Radio Londra ai tempi della guerra.
Così seppi di quel giovedì mattina.
Prima di mezzogiorno Emore mi portò in stazione (Verona, stazione di Porta Nuova) per prendere il treno. Mi salutò dal finestrino abbassato: “Auguri!”. Ne avrei avuto bisogno.
L’8 settembre 1943 non c’ero, ma, entrato in stazione pensai che doveva essere stata una cosa molto simile a quello che stavo vedendo. La voce che annunciava che in seguito allo sciopero generale i treni erano stati sospesi, gente che correva verso i binari, scontrandosi con persone che da quei binari tornava arrabbiata e spaventata, valigie trascinate che urtavano altre valigie in senso opposto (non c’erano trolley allora). Una signora cercava di raccogliere la sua borsa, caduta nella confusione e chiedeva alla figlia: “E adesso?”, non so se pensando alle cose sparse in terra o ai destini del paese. Con la ventiquattrore nella sinistra e la borsa a tracolla con le mie cose, prese già la mattina in hotel, dribblai al meglio quella gente, arrivai al binario per Bologna. Avevo già il biglietto in tasca, andata\ritorno, un rettangolino di cartone color salmone.
La fila dei viaggiatori era parallela ai binari, quasi ordinata, ogni tanto qualcuno si sporgeva per guardava in direzione di un treno che non arrivava. Nessun tabellone luminoso allora, solo la voce che ripeteva che “in seguito allo sciopero generale…”.
Era l’una passata quando, senza nessun annuncio, apparve la motrice e poi il treno intero al suo seguito. Un treno diverso, altri colori, nuovo, quasi luccicante. Sul muso non c’era FS ma DB. Münich-Rom, Monaco-Roma. Si fermò senza stridore. Tutti restammo a guardarlo, era quasi vuoto. Ci volle qualche secondo prima che uno dalla fila, più coraggioso degli altri, prendesse l’iniziativa e abbassasse la maniglia di uno sportello (non c’erano le porte automatiche, allora). Lo stesso ardimentoso salì per primo e noi, in silenzio, dietro di lui. Nessun odore di latrina, vetri appannati, sbalzi enormi di temperatura tra corridoio e scompartimenti. Silenzio, temperatura esatta, sedili che si intuivano accoglienti e puliti. Percorrendo il corridoio guardai fuori, la gente che correva sul marciapiedi entrando e uscendo dalla stazione, era come essere in un acquario al contrario, noi pesci tranquilli e al sicuro ad osservare fuori quell’accalcarsi, correre, di centinaia di persone.
Entrai in uno scompartimento vuoto. Sistemai le mie cose e rimasi lì, il treno chissà quando sarebbe ripartito ma ero al sicuro, comodo, avrei aspettato. Il sedile era morbido, in una simile sistemazione nessuno avrebbe pensato, uso normale sui treni FS, di togliersi le scarpe e stravaccarsi su due sedili. Seduto e composto, capivo che quello era lo stile richiesto anche se ero solo.
Ancora senza nessun segnale premonitore nè stridio di freni il treno si mosse, semplicemente partì. Salvato da un treno tedesco: pensai che l’8 settembre non sarebbe stato così gradito un simile passaggio, ma i tempi erano cambiati. Per fortuna.
Senza nessuna sosta imprevista arrivammo a Bologna. Binario uno. E di nuovo mi trovai nell’effetto acquario come alla partenza ma a parti invertite, ora da quell’acquario dovevo uscire e tornare nella confusione moltiplicata dalla grande stazione in preda al caos che continuava.
Non ricordo come riuscii ad arrivare a Reggio, di certo feci il viaggio-giusto contrappasso per la fortuna germanica appena goduta-su un treno locale, ancora senza scompartimenti, con le tante porte che si aprivano direttamente nel vagone, con le panche di legno verniciato e il riscaldamento bloccato al massimo (ma tanto ogni sportello aveva un finestrino e così si poteva viaggiare nel caldo\freddo\tiepido delle varie combinazioni di getti e spifferi d’aria.
Scesi a Reggio dopo le cinque del pomeriggio, mentre la voce ripeteva ancora che “ in seguito allo sciopero generale..”.
Mi feci tutta la strada verso casa a piedi, ma non pesava, avevo 23 anni e mi aspettava la neve sotto l’Alpe.