Minima Elettoralia (7): Per un governo del 4 dicembre (G.Innamorati)

In quest’analisi del dopo voto vorrei spiegare ai lettori di ytali. perché è importante che nasca un governo sostenuto da tutte le forze che hanno sostenuto il “No” al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 (M5s, Lega, Fi, Fdi, LeU), e di come ci sia un legame tra quel voto, l’esito delle urne del 4 marzo scorso e i cinque anni di legislatura appena trascorsi.

Il ragionamento che proporrò richiede che si rammenti rapidamente in premessa che la politica è una scienza esatta, vale a dire che segue regole ben precise. Le prime due regole sono:

  1. La democrazia è quel sistema in cui si può cambiare un governo senza spargimento di sangue, attraverso libere elezioni.
  2. Chi vince le elezioni (per il Parlamento ma anche all’interno di un qualsiasi organismo di rappresentanza) ha l’onere di governare; chi perde sta all’opposizione, controlla chi governa e si prepara per essere competitivo alle successive elezioni.

Queste regole non vengono seguite o quando si scrivono le fiction televisive (tipo House of Cards) o quando si mira a far saltare le stesse regole e quindi la democrazia. Non a caso le fiction in cui le trame oscure sovvertono il voto democratico, sono amate da chi mette in discussione la democrazia liberale, affermando che essa non è “vera democrazia”.

Ma torniamo all’attualità. Tutti i commentatori hanno affermato che il 4 marzo ci sono stati due vincitori, M5s e il centrodestra/La Lega. Affermazione corretta anche se andrà precisata.

Tutti sono concordi nell’affermare che lo sconfitto è uno solo, il Pd, ed eventualmente i suoi alleati della coalizione. Gli elettori che hanno barrato il simbolo del Pd, in effetti, sono stati solo 6.134.727 su un totale di oltre 32,7 milioni, pari solo al 18,72 per cento. Questo significa che l’81,38 per cento del corpo elettorale ha bocciato i cinque anni di governo a guida Pd e ha deciso di relegarlo all’opposizione. Le percentuali crescono se consideriamo gli astenuti (il corpo elettorale è di 46 milioni di cittadini): anche essi non hanno ritenuto di doversi recare alle urne per asseverare l’operato dei governi Dem.

Insomma cercare di trascinare il Pd dentro un governo a guida M5s (come stanno facendo molti quotidiani main stream) è una sfida al corpo elettorale, una provocazione. Lunedì 5 marzo Matteo Renzi, nel motivare il suo “no” a questa ipotesi (“niente inciuci e niente caminetti”) ha affermato:

“Ci hanno detto che siamo corrotti, mafiosi e addirittura che abbiamo le mani sporche di sangue, ed ora chiedono i nostri voti?.”

Al di là della vena polemica di Renzi, quest’affermazione coglie un punto centrale. Queste accuse al Pd e ai governi che esso ha guidato sono state effettivamente pronunciate da Luigi Di Maio e Matteo Salvini, e gli elettori votando i loro partiti e movimenti hanno asseverato tali accuse, le hanno condivise, le hanno fatte proprie. Cosa proverebbero se oggi vedessero al governo coloro che essi ritengono “corrotti e mafiosi”. Ripeto, sarebbe una provocazione. E visto che non si sta scrivendo una fiction, si metterebbero in discussione le regole della democrazia.

Guardiamo ora i vincitori. M5s ha compiuto un importante cammino in questi cinque anni in direzione di una sua istituzionalizzazione; è passato dal “non ci alleeremo mai con nessuno” di Beppe Grillo al “siamo pronti a dialogare con tutti e ad allearci con tutti” di Di Maio, posizione che nasce dalla sua centralità elettorale, dato che il 32 per cento dei voti ne fa il primo partito. Ha compiuto lo stesso cammino di Forza Italia che nel 1994 nasceva come movimento antisistema e rivoluzionario (la famosa “rivoluzione liberale” di Berlusconi) e negli anni ha saputo modificarsi divenendo anzi l’interprete del sistema. E come Berlusconi nel corso degli anni, anche Di Maio ha saputo intelligentemente utilizzare il doppio registro comunicativo: quello movimentista indirizzato ai militanti e quello istituzionale rivolto alle realtà di sistema del paese (vedi incontri con le aziende di lobbying, o con gli investitori italiani e stranieri, con le autorità ecclesiastiche, ecc).

Anche l’altro vincitore, il centrodestra, è profondamente cambiato. Innanzi tutto la leadership della coalizione non è più di Fi e di Berlusconi, bensì della Lega. Ma anche tale osservazione va ulteriormente precisata: la Lega di Salvini non è quella di Bossi, che era un movimento trasversale e in certi aspetti centrista (“una costola della sinistra” la definì Massimo D’Alema). Il Carroccio di Salvini è un soggetto di destra-destra: via i negri dalle nostre città; in casa si deve poter sparare a qualsiasi estraneo, anche se disarmato e di spalle; ecc.

Tanto è vero che la Lega ha rubato molti elettori a Fratelli d’Italia, superandolo persino a Roma, finora feudo di Giorgia Meloni nell’elettorato di destra. Più che di centrodestra dovremmo parlare di destracentro, se non fosse una parola inconsueta. È interessante ricordare quando avviene la svolta “radicale” di Salvini e la conseguente scalata a Fi e alla leadership del centrodestra.

Siamo all’indomani delle elezioni europee del maggio 2014, quelle in cui il Pd aveva ottenuto il 41 per cento e Fi solo il 17 per cento il che mostrava come il “Patto del Nazareno” drenava voti moderati da Fi al Pd. Nella commissione affari costituzionali del Senato era stato approvato il testo della riforma costituzionale, che era stato votato non solo dal centrosinistra e da Fi, ma anche dalla Lega, la quale esprimeva il correlatore, Roberto Calderoli.

Ebbene nei giorni che trascorrono prima dell’approdo della riforma in aula, Salvini rompe proprio su quel testo facendo votare “no” ai suoi senatori, che da quel momento fanno asse con M5s. Inizia così un progressivo spostamento a destra della Lega che porta Silvio Berlusconi a inseguire l’alleato sulle sue posizioni. Lo schiacciamento a destra di Berlusconi ha raggiunto il suo culmine nell’ultima campagna elettorale, nella quale l’ex Cavaliere ha proposto il rimpatrio di seicentomila immigrati irregolari. Parole a cui non credeva palesemente neppure lui che, da Presidente del consiglio, ha sagacemente varato due sanatorie, nel 2002 (decreto 195/2002) e nel 2009 (decreto 78/2009) per complessivi un milione di immigrati regolarizzati, misura rivendicata da Berlusconi nella sua propaganda elettorale.

Come si ricorderà il patto del Nazareno si rompe il 30 gennaio 2015 sull’elezione del Presidente della repubblica. Da allora Fi si allinea a livello parlamentare a Lega, Fdi e M5s non solo nel votare contro la riforma costituzionale e l’Italicum (appena votato in Senato tre giorni prima), ma anche su tutte le altre riforme promosse dal governo Renzi e poi da quello Gentiloni. M5s, Fi, Lega, Fdi hanno votato compattamente insieme contro la riforma del mercato del lavoro, la riforma Madia della pubblica amministrazione, la riforma del terzo settore, le unioni civili, il testamento biologico, la riforma delle Banche popolari, ecc, oltre l’Italicum nel successivo passaggio alla Camera.

E compattamente hanno votato contro le proposte del governo su altre tematiche: ne accenno solo due, quella dei crediti deteriorati delle banche e quella dell’immigrazione. Sulle banche M5s, Fi, Lega e Fdi hanno votato contro la creazione del fondo Atlante per la gestione degli Npl; e in tema di immigrazione il 4 luglio 2017 hanno votato contro il mandato al governo di chiedere al vertice europeo di Tallin il cambio delle regole di Triton, in modo tale che le navi che salvavano i migranti nel Mediterraneo potessero approdare non solo in Italia e Malta, ma anche nei porti di altre nazioni Ue. Per il vero i quattro partiti hanno sempre votato contro a tutti i mandati ai governi Pd prima dei semestrali vertici Ue.

Insomma il “no” al referendum costituzionale del 4 dicembre da parte di M5s, Lega, Fi e Fdi è stato l’ultimo di una serie compatta di altri “no” a misure ed atti del governo del Pd.

D’altra parte anche dalla società civile che si è espressa per il “no” al referendum costituzionale sono arrivate pesanti critiche anche alle altre riforme del governo Renzi, in particolare la riforma del mercato del lavoro e della scuola. Penso ad esempio a molti professori del Comitato del No guidato dal professor Alessandro Paci.

Tanto i partiti presenti in Parlamento quanto i professori, hanno sempre detto che il “No” al referendum costituzionale sintetizzava la loro contrarietà a tutta l’azione del governo a guida Pd-Renzi. “Mandiamo il governo Renzi a casa” è stato il mantra ripetuto in quella campagna da Salvini, Di Maio, Brunetta, Berlusconi, Meloni e da molti professori. Il voto anticipato ci stava tutto (come d’altra parte nel 2011) anche alla luce del fatto che nel 2018 la Bce avrebbe interrotto il QE a protezione dei nostri titoli di debito pubblico.

La bocciatura della riforma costituzionale ha fatto cadere anche il meccanismo del ballottaggio previsto dall’Italicum (così la sentenza 35/2017 della Corte costituzionale), l’unico che avrebbe permesso di avere un vincitore, tra M5s e il destracentro nelle attuali elezioni. Ma con il senno del poi, meglio così. Alle elezioni del 4 marzo, infatti, ci sono stati due vincitori in due parti ben precise del Paese. Al Sud M5s ha trionfato con una percentuale del quaranta per cento, facendo del Mezzogiorno un monocolore pentastellato. Il Nord, al contrario, non solo ha votato in massa per la nuova coalizione di Salvini, ma ha sancito la sua personale leadership barrando il simbolo della Lega che, in alcune province ha doppiato Fi.

Insomma abbiamo due vincitori perché abbiamo due Italie. Forse un ballottaggio le avrebbe messe l’una contro l’altra. Ma tale contrapposizione è un motivo in più per dar vita a un governo di tutte le forze che hanno vinto il referendum del 4 dicembre. Avrebbero la storica opportunità di unificare queste due Italie.

Il ritorno al proporzionale è stato sancito dall’elettorato italiano con il “no” del 4 dicembre, e il proporzionale implica un ritorno all’accordo post elettorale tra partiti diversi tra loro.

Il mandato a M5s, Lega, Fi e Fdi a trattare tra loro lo hanno ricevuto il 4 dicembre 2016, per di più su loro richiesta. A tale governo del 4 dicembre dovrebbero dare il loro contributo anche le altre forze che si sono battute per il “No” al referendum, da LeU di Pietro Grasso ai professori guidati da Alessandro Paci. Le diverse riforme varate dai governi a guida Pd avevano una loro coerenza interna ed erano collegate con la riforma costituzionale, nell’ottica della democrazia federale e dell’alternanza.

È giusto che si facciano avanti tutte le altre forze con il loro progetto di una democrazia sovranista e proporzionale.

Insomma il governo dell’81,32 per cento degli elettori, in base alla regola numero uno della politica che abbiamo visto all’inizio. A meno che non vogliano scrivere una fiction stile House of Cards o non vogliano portarci fuori dal perimetro di una democrazia liberale.

https://ytali.com/2018/03/09/governo-del-4-dicembre/

Minima Elettoralia (7): Per un governo del 4 dicembre (G.Innamorati)ultima modifica: 2018-03-14T11:17:06+01:00da pelikan-55
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