Elegia per i dittatori

a1945d.jpgUrlavano impettiti nelle loro divise inventate e la gente sotto ad ascoltare, urlare, applaudire, sognare i loro incubi. Le donne pronte, a disposizione, gli altri potenti alla porta in attesa. Abbracci, i baci, le strette di mano, il sorriso a uso della foto, del video, del ricordo storico.

I dittatori forse sanno vivere, di certo non sanno morire. Abituati a far morire gli altri, negli ultimi cinque minuti fanno tutti pena. I proclami eroici sono lontani, baratterebbero un’altra mezzora per tutti i loro conti bancari, per i gioielli, le piscine, la loro pistola d’oro.

Muoiono come topi, infilati in un buco o appesi a una corda, chiedono pietà, piagnucolano, tutti dicono sempre la solita frase “non ho fatto niente”. L’uomo della Provvidenza, l’eroico difensore del ridotto della Valtellina lo trovarono in fondo a un camion tedesco, un pastrano addosso, un elmetto calato sugli occhi. Fuggito così male da non aver fatto neppure in tempo a cambiarsi i calzoni. L’eroico.

Quasi quasi quel tizio infilato nel bunker di Berlino può dare qualche lezione. Cianuro e un colpo di pistola. Questione di stile, non aveva creato il Reich millenario ma almeno non ha piagnucolato nell’ultimo istante.

I dittatori si uccidono, vanno uccisi e fanno pena e ridicolo i buoni samaritani aperti per turno che chiedono il processo, le garanzie. Le storie iniziate vanno chiuse e chiuse bene. Da sessantacinque anni qualcuno continua a indagare sulla morte del Cavaliere: Dongo? Non Dongo? Valerio? Non Valerio? Ognuno perde tempo come vuole, quel che conta è che qualcuno quel grilletto l’abbia tirato, abbia chiuso quella storia. Chi ha sparato ha fatto il suo dovere, magari l’avessero fatto anche gli altri dopo. Disperdere le ceneri nel Mediterraneo (non è il mare nostrum?) o farci concime. No, abbiamo Predappio per il caro estinto. Povero estinto, meritava di meglio, italiani ingrati, dice la nipotina che abbiamo conosciuta sulle copertine di Playboy. Ogni albero dà i frutti che sa e può. Vergogna, ripetono i pietosi pietisti di ogni parte, si sa, bisogna essere moderni, innovativi, amnesty e mojito. Piazzale Loreto: che vergogna, che insulto! Come se la guerra fosse una partita con la Wii o la playstation. Cosa meritava chi aveva sulla coscienza centinaia di migliaia di ragazzi morti, bruciati, congelati? Certo, un bel processo, una pacca sulla spalla e via, è stato brutto ma adesso è finita, tutti a casa, business as usual?

I dittatori vanno uccisi e dittatori ce ne saranno sempre, alcuni comodi  anche a noi, altri scomodi, ma dittatori sono e restano, finiti in un tubo di cemento o appesi a testa in giù. Non voglio neppure provare pietà ma solo voltare pagina e non ascoltare i pietisti di giornata, senza memoria e vergogna, a commentare le foto oscene di quello che avevano taciuto e onorato poco prima.

“Sic transit gloria mundi” ha detto un vecchio maniaco, il suo amico se n’è andato, niente più affari, donne e cavalli berberi. Basta aspettare e un tubo di cemento o la risata (o il rutto?) finale prima o poi arriva per tutti.

Wunsiedel e Predappio (M.S.)

Dal Notiziario ANPI, settembre 2011:

 

In questo afoso agosto, tempo di vacanze e di riposo (crisi economica a parte) c’è stato anche il tempo di leggere con più attenzione la stampa quotidiana, così l’attenzione è stata attirata da una pagina di “Repubblica” (22 luglio) e ho così scoperto l’esistenza di una paesino della Baviera dove è accaduta una cosa interessante. Wunsiedel, ospitava nel suo camposanto le spoglie mortali di Rudolf Hess, il delfino di Hitler, fuggito in Scozia nel 1941 in una vicenda mai chiarita del tutto. Per questa sua fuga il gerarca nazista scampò la forca come i suoi colleghi al processo di Norimberga e fu condannato all’ergastolo (vero) che scontò nel carcere berlinese di Spandau fino all’agosto 1987 quando, bontà sua, decise di suicidarsi. Le spoglie mortali furono sepolte in quel cimitero bavarese e lì nacquero i problemi: ogni anno quella tomba, nella ricorrenza della morte, divenne luogo di adunata di naziskin, gentaglia in giubbotto e mimetica, rasati, eccetera, la solita paccottiglia che l’Europa ormai conosce.

Hans Jürgen Buchta, diacono evangelico di quella parrocchia, allo scadere della concessione cimiteriale, ha deciso di chiudere la questione e, nella notte del 20 luglio, insieme a sette assistenti, ha preso mazza e piccone  distruggendo la lapide e la sepoltura del caro estinto. Quello che resta del corpo sarà cremato e le ceneri sparse in mare.

Hess segue così il destino dei suoi camerati, anche i condannati di Norimberga, impiccati, furono cremati e le loro ceneri sparse in mare. Nel 1972, nel corso di lavori in un cantiere a Berlino, furono ritrovate le ossa di Martin Borman, il braccio destro del Führer, riconosciute dal DNA nel 1998. Si era favoleggiato di una sua salvezza dall’inferno di Berlino e di una sua presenza in Brasile. Bormann, invece, era morto alla fine di aprile 1945, nell’ultimo tentativo di fuga. Le ossa ritrovate, furono riconsegnate al figlio del defunto che, però, le rifiutò sdegnosamente. Lo stato tedesco provvide allora alla cremazione e decise, in linea con quanto già fatto nel 1946, a spargerle nelle fredde acque del Mare del Nord, stavolta però fuori dalle acque territoriali tedesche, a sottolineare  l’estraneità di quei resti alla sovranità del paese.

Così si è fatto (e si fa) in Germania, dove le leggi contro il nazismo sono serie e, soprattutto, vengono applicate. Quella gentaglia che andava sulla tomba di Hess si guardava bene da esporre simboli nazi, ben conscia che anche una minuscola svastica avrebbe comportato l’arresto immediato.

Noi, invece, abbiamo Predappio, dove nell’agosto 1957, su decisione dell’allora Presidente del Consiglio, il dc Odone Zoli (nativo del medesimo luogo), fu autorizzata la sepoltura nella tomba di famiglia della salma del cavalier Benito Mussolini. Da allora ogni anno centinaia (se non migliaia) di fascisti sfilano in quella cripta, lasciano messaggi appassionati sul registro d’onore, si irrigidiscono all’uscita nel saluto romano, quando poi, le foto/video sono disponibili sul web, vecchi e giovani idioti si presentano in divisa da federale, gnr, brigata nera. Come logico, intorno al cimitero di Predappio, operano lucrose bancarelle che offrono in vendita ai turisti del manganello, oggettistica relativa all’illustre defunto.

Parliamo pure di antifascismo ma risulta difficile coniugare il tema con la constatazione che noi italiani i conti con il fascismo li abbiamo chiusi nel 1957 con un bell’atto di perdono, concedendo a Mussolini l’onore di una sepoltura. Condannare quella scelta non significa mancare di rispetto a un defunto o accanirsi su povere spoglie, ma capire che quella sepoltura costituisce un palese atto di ingiustizia. Abbiamo concesso ai famigliari di un dittatore un onore e un conforto che è stato negato, nei fatti, alle migliaia di famiglie che non hanno avuto mai la possibilità di piangere sulla tomba di quei soldati mandati, ad esempio, a morire in Russia proprio ad opera di quel cavaliere di cui onoriamo le spoglie.

Sarebbe pensabile che fosse eletta al Parlamento tedesco la nipote di Hitler? Noi abbiamo l’onorevole Mussolini che, con vivacità partenopea, ci viene a raccontare in diretta tv quanto fosse buono e bravo il nonnino e quanto gli italiani siano ingrati nel suoi confronti.

Difficile parlare di antifascismo in un paese così. Ora alziamo gli scudi-giustamente-per la progettata cancellazione del 25 aprile ma siamo facili all’indignazione occasionale, dimentichi che il 25 aprile si costruisce tutto l’anno, con un serio lavoro di educazione, che non basta spargere belle parole dal palco in quella giornata e far finta di nulla per i restanti 364 giorni. Salvo poi stupirsi dell’ennesimo tentativo dei (post)fascisti di ridisegnare il calendario civile sui cui dovrebbe basarsi l’identità democratica di una nazione.

I (post) fascisti continuano a fare il loro (sporco) lavoro, non sarà che gli antifascisti hanno smesso, da troppo tempo, di fare il loro?

L’antifascismo non è un feticcio, un mitico graal che tutto salva e tutto spiega. Si deve tornare a ripensarlo, ridiscuterlo, prendere atto di una storia complessa e articolata. Chiederci perché l’antifascismo, uscito dalla guerra e dalla Resistenza, non sia divenuto un patrimonio condiviso ma sia rimasto limitato solo ad una parte culturale e politica del paese. Riflettere sulla necessità di aggiornarlo in un più corretto antitotalitarismo. Oppure possiamo fare finta di niente, alzare ancora grida e proteste, contemplare le nostre piazze piene di bandiere, fino alla prossima volta in cui ci troveremo ancora, increduli e sbigottiti, a chiederci “come mai?”, “perché?” ma, soprattutto, a porci la più ipocrita delle domande: “che fare?”.

Dove comincia e dove finisce la Padania (Marco Belpoliti)

Dove comincia e dove finisce la Padania? Dalle sorgenti del Po al Mare Adriatico, hanno risposto i creatori di questo mito che non ha mai fatto i conti né con la geografia né con la storia. Cuneo è in Padania? Udine pure? E Ravenna e Ancona sono parte della Padania? O forse la Padania è il territorio che si estende intorno a Cassano Magnago, paese di nascita di Umberto Bossi, centro d’irradiazione di una fantasia geografica che ha ammaliato per quasi vent’anni una parte della popolazione del Nord del paese, come una sorta di fuga dal reale che ora si rivela, come ha sottolineato Giorgio Napolitano, nella sua veste di Presidente della Repubblica italiana, quello che appunto è: illusione. Il re è nudo, dice il bambino della favola di Andersen, che ci fa capire come lo slogan della Lega sia prodotto, non tanto e non solo, dalla boutade del capo leghista, ma anche e soprattutto dallo risposta della folla che l’ascolta, e vi crede.
 
Claudio Franzoni, studioso dei gesti, ha fatto notare di recente come sia appunto lo sguardo della folla che rende grande il gesto che compie l’uomo politico, e che basta un punto di vista diverso per rivelarne l’assurdità o la vuotezza.
 
Cita il film di Luigi Zampa, Anni ruggenti, in cui un bambino osserva il Duce a torso nudo con i pantaloni bianchi mentre compie i gesti della trebbiatura e chiede al genitore: “Papà perché tutti ce l’hanno la camicia e il Duce no?”.
 
Perché in tanti hanno creduto all’esistenza della Padania? Gli storici e gli psicologi sociali ci daranno, prima o poi, una risposta convincente, ma intanto è stato rotto un incantesimo: la Padania è un’invenzione. Non è una constatazione nuova; era stato già detto e ridetto in molte occasioni.
 
Un illustre storico inglese, Eric J. Hobsbawm, ha spiegato come la tradizione, ogni tradizione, sia spesso il frutto di un’invenzione a posteriori; celebre il caso dei kilt scozzesi creati non più di due secoli fa.
 
Ma per restare al puro dato geografico, basterebbe seguire lo sviluppo della geografia leghista dall’inizio degli anni Novanta a oggi, quando si è trattato di definire la Padania, il suo spazio territoriale: dal Veneto alla Lombardia, e poi il Piemonte, e quindi l’Emilia e la Romagna e a seguire le regioni del versante adriatico; era l’immagine di una Padania che risaliva le valli dell’Appennino e provava a scendere verso sud. La Toscana è Padania? L’illusione geografica della Lega consiste nel posizionare il territorio secessionista intorno alla Valle del Po che in realtà, come spiegano i geografi, ha il ruolo di “grande stanza territoriale del Paese”. L’espressione “stanza” non è affatto casuale, dal momento che l’intera forma visiva dell’Italia si modella su questo. La peculiarità del nostro paese è infatti quella di essere innervata da una catena dorsale, l’Appennino, che forma insieme alle Alpi la quinta che chiude ogni paesaggio, sia a Nord come al Sud, così che la gran parte del nostro paesaggio ha una costante direzione visiva monodirezionale: dall’alto delle montagne verso il basso. A questo fa eccezione la pianura del Po che ne costituisce una sorta di sosta, o di pausa. Solo qui, e in modo non paragonabile al resto dei paesaggi europei, si può sperimentare il senso della vastità; ma è pur sempre un paesaggio coronato dalle montagne.
 
Inoltre, come si sa, si può andare da Trieste o da Milano o da Torino sino a Bari senza mai attraversare una montagna, senza valicare la dorsale appenninica che divide il paese non in Nord e Sud, bensì in Est e Ovest. Tra l’altro, la stessa Valle del Po, con i suoi insediamenti industriali e le attività commerciali, è un’entità che guarda, dal punto di vista economico, verso Nord (Francia e Germania) e dal punto di vista geografico verso Est, verso l’Adriatico, dove si getta il Po, come ha ricordato in un saggio alcuni anni fa Franco Purini. Ed è proprio la Pianura padana che permette quel movimento Est/Ovest che è l’alternativa al Nord/Sud, una delle risorse del paesaggio italiano. L’Italia si differenzia tra versante Tirrenico e versante Adriatico, ed è stata la creazione della rete autostradale, fondata su un altro mito – l’Autostrada del Sole – a sviare la visione concreta che del paesaggio italiano si aveva nel passato quando la discesa verso il Sud veniva compiuta con l’attraversamento in verticale della Pianura, per raggiungere più velocemente la Toscana e Roma.
 
Nella visione geografica della Lega, nel suo immaginario, la Liguria a cosa appartiene, alla Padania o al Regno del Sud? E tutte le regioni dell’Italia centrale, cosa sono geopoliticamente? Il paesaggio italiano ha dato per secoli ai viaggiatori l’idea di una grande varietà, di “interni” facilmente riconoscibili come tali, stanze territoriali appunto, che fornivano agli stranieri che la scendevano nel Gran Tour l’idea di osservare il paesaggio nel primo giorno della creazione.
 
Di recente Franco Farinelli ha affermato che Metternich – il ministro austroungarico nemico dell’Unità d’Italia, cui è attribuita la frase: L’Italia è solo un’espressione geografica – aveva perfettamente ragione. La geografia costituisce il collante più evidente della nostra unità: una penisola separata del resto del continente europeo da un’alta catena montuosa che si allunga dentro il Mar Mediterraneo che la circonda da tre lati, e ha una forma allungata, di cui gli Appennini costituiscono la forte continuità geologica.
 
Dopo vent’anni e più il bambino adesso può dire che il Re è nudo, che la Padania è una fantasia, la secessione una frase urlata su un prato, e che non si va impunemente contro la Storia presente e passata. Il sogno leghista è vicino a svanire e chi vi ha creduto, in buona o cattiva fede, dovrà presto aprire gli occhi e guardare la realtà per quella che è: la Padania non esiste, la pianura padana sì. Se a scuola avessero insegnato più e meglio la geografia, saremmo arrivati a questo punto? Difficile dirlo.

http://www.doppiozero.com/materiali/editoriale/dove-comincia-e-dove-finisce-la-padania

Sulla moda.2 (ancora?)

 152337971-f80fd20b-a3d6-4eee-bfc4-b74c70295982.jpgSono un fedele lettore di Repubblica ma il sabato è una giornata dura. Con il quotidiano l’edicolante mi appioppa anche l’inserto D-Donna. Inserto. Si fa per dire. 300 pagine, un oggetto contundente, un magazine, come dicono quelli che hanno studiato al Cepu. E lì scatta il problema: la scelta. Che faccio? Le opzioni sono due: a. versione “braccino corto”: l’ho pagato, è mio; b. versione “libertaria”: è carta straccia, glielo lascio (oltre tutto pesa 4 etti e per chi va in bici ogni grammo conta) e chi se ne frega.

Comunque sia la scelta (confesso che di solito lo prendo, lo sfoglio in comoda posizione seduta-in quel luogo dove un’uomo/donna deve essere solo-strappo l’ultima pagina con l’articolo di Galimberti e, in media, 4 ore dopo l’edicola, l’inserto-magazine-mattone è nel mucchio della carta da riciclare.

Non sollevo proteste vetero-ecologiche pensando ai 4 alberelli sacrificati solo per fornire carta alla mia copia ma non riesco a non provare un misto di rivolta-indignazione-ironia di fronte a simili produzioni editoriali.

E’ chiaro il loro scopo, basta sfogliarli una volta: sono enormi, luccicanti, patinati esemplari di carta moschicida pubblicitaria. La pubblicità è lo scopo e l’obiettivo raggiunto: money as usual. Bene. Poi, dovendo chiudere qualche buco bianco nell’impaginato si inventano articoli, articolini, recensioni, consigli per i buyer.

Avviso i lettori, ma soprattutto le lettrici, che mi sto inoltrando in un terreno pericoloso, da obsoleto maschietto mi occuperò di faccende femminili. Chiedo venia in anticipo. Leggo sul sito del suddetto magazine:

 

[Donna, vocativo] Non devi per forza rinunciare alla sensualità e all’attitudine “easy dressing” conquistata durante le vacanze estive. Soprattutto se gli stilisti hanno proposto come quest’anno un’infinità di vestiti femminili e dal look vintage, ma non troppo, con misurate citazioni alla favolosa Swinging London e alla Catherine Deneuve di “Bella di giorno”. Il vestito, facile da indossare e abbinare, è infatti un passepartout molto amato, anche dalle dive che lo indossano volentieri anche sul red carpet (guarda la nostra gallery con i loro outfit). D.it ti propone 8 tendenze tra le quali scegliere l’abito che fa per te.

http://d.repubblica.it/argomenti/2011/09/22/foto/abiti_autunno_inverno-517845/1/

 

Compulso un dizionario moda-italiano e intuisco cosa c’è dietro a questo appello. Niente. O meglio la cosa più importante: compra. Se vuoi essere bella compra, se vuoi essere desiderata compra, se vuoi consolarti compra, comunque compra. Ho sempre avuto la ventura di frequentare, amare, sposare donne (1 sola, eh..) che di tutto ciò se ne infischiavano allegramente, ma mi rendo conto di essere stato fortunato. Anche su FB sento parlare di tacchi, animalier (??), shopping etc… Io non sono reale, FB lo è quindi ne prendo atto. E si torna al mio articolino di ieri sugli stilisti-sarti. Vado a vedermi la galleria di foto relative alle ultime sfilate. Belle. Bellissime. Bravi. Bravissimi. Però. Sono stato un fotografo e ho conosciuto altri fotografi. Pochissimi quelli che ammiravo, non perché non ce ne fossero di bravi ma perché io volevo di più della semplice tecnica, volevo l’idea, un pensiero dietro alla macchina. Mi accorsi che si poteva essere bravi, bastava esserci: auto da corsa? Basta essere abbastanza vicini. Foto di moda? Basta la modella, un buon parco luci e come fai a non fare buone foto?

Così la moda: prendi una diciassettenne semianoressica lettone, alta 1 e 80, occhi blu, capello biondo. Attirerebbe l’attenzione anche con una mia vecchia camicia da lavoro. Basterebbe lasciarla distrattamente aperta ed il gioco è fatto. Eleganza, moda, tendenza.

Io invece lancerei la sfida a questi geni del look, della citazione et similia. Prendete una casalinga di Bagnolo, una ragazza di Baiso. A caso. E vestitele. Capitele come sono davvero, cosa vogliono. Confrontatevi con curve reali, con gambe padane, con polpacci non proprio affusolati. La santa normalità. Siete geniali? Fate funzionare gli emisferi che mamma vi ha regalato. Sarebbe una bella sfida. Impossibile.

Il rischio è che la moda diventi anche, oltre il business che conosciamo, un elemento di infelicità per tante ragazze, donne, signore che già hanno i loro bei problemi. Si offrono modelli irreali, irraggiungibili, si innescano frustrazioni che si risolvono poi con tragiche scorciatoie (diete massacranti o peggio) o con grotteschi rimedi (plastiche, gomme, silicone e altro). Molte donne purtroppo sono disposte a comperare l’infelicità a caro prezzo, aiutate da maschi sempre più vincolati a standard “chic-bordello” (basta guardare l’immagine che si presenta in quelle intere pagine patinate) dove lo stesso stereotipo maschile è quello del “bello-muscolo-impossibile”. Due infelicità che si rincorrono.

 

p.s. Una domanda che ancora non ha trovato risposta: perché tutte queste fanciulle che troviamo sulle pagine delle riviste di moda e/o in tv nelle sfilate hanno sempre una sola espressione sui loro bei faccini: “sono incazzata nera e te la farò pagare?” Perché? Sono giovani, bellissime, superpagate, non conoscono l’odore del fritto misto per le scale, né la calza smagliata alle 8 del mattino o la suocera con badante. E sono incazzate. Perché?

Moda/e. Chiacchiere futili…

1316767326494_scrpaweb.jpgPremetto che non ho nulla contro la moda e il made in Italy, se tutto serve a portare euro a casa. Un po’ come con la vecchia Matilde di Canossa, se serve a far arrivare qualche pullman, a vendere qualche bottiglia di rosso o a far passare un pomeriggio diverso a un geometra di Ciano che si eccita a vestirsi da armigero.

Business is business. Però. Però non prendeteci per i fondelli, siamo poveracci non pirla, il mutuo ci da gli incubi tutte le notti ma non abbiamo mai sognato di diventare stilisti, abbiamo fatto tante boiate ma questa no. Non ce la facciamo, ci scapperebbe da ridere dopo cinque minuti, qualche frottola-senza cattiveria-l’abbiamo detta, ma contar balle a raffica, costruirci sopra una weltanshauung no, questo non è a nostra portata.

Disegnare abiti rende? Bene. Qualcuno dirà anche che è arte? Meglio ancora, sempre meglio un bel tailleur che il cavallo di Cattelan appeso in salotto, ma conserviamo il senso del ridicolo, si tratta di business, di far lavorare gente, facciamo finta ma ricordiamoci che lo stiamo facendo a fin di bene. Che stiamo scherzando. Un po’ come le fabbriche di armi, fanno male, ma danno da mangiare a tanta gente. Restiamo svegli, consideriamo gli outlet come luoghi di pubblica demenza, segno della barbarie contemporanea. I clienti, gente che passa una domenica a comprare anziché a passeggiare in un bosco, ascoltare musica, fare all’amore, pazienti da curare, con pazienza e comprensione (e qualche scappellotto, nei casi più ostinati).

Restiamo svegli, li conosciamo, sappiamo il meccanismo, conosciamo il gioco.

 

Ci illumina lo “stilista” Gabriele Colangelo: “Ho rivisitato la maglia in rete metallica di Versace, oggi però è tutto più facile perché posso avvalermi di tessuti più tecnici, più leggeri, più malleabili. Ho lavorato sui dettagli, un tempo si usavano delle fibbie d’argento costellate di Swarovski, ecco io ho pensato di epurare, resta la fibbia, spariscono i brillantini. La semplicità è la tendenza del momento, in questo senso si ritorna al minimalismo.”

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/intervista-a-gabriele-colangelo/2161984

 

Finalmente. “Nelle notti insonni vegliate al lume del rancore” ci chiedevamo proprio che sarebbe stato della maglia in rete metallica di Versace (quello che ad Armani disse “tu vesti le signore, io vesto le puttane”) ora abbiamo la risposta. Semplice e facile. Basta “epurare”, far sparire i “brillantini”. Ahhh! Era ora che qualcuno avesse il coraggio.

Chissà come avranno gioito le operaie di Barletta a 3,99 euro l’ora, magari anche loro impegnate a cucire maglie che il bravo imprenditore vendeva alla “Maison” a 2 euro l’una, per ritrovarcele in passerella a 350 euro e, poi, negli outlet per gonzi a 120 euro (“Cicci, sapessi che colpo! Ho preso una maglietta di Merdace a 120 euro, costava 350, un vero affare!!).

Sappiamo tutto, non prendeteci per i fondelli con il leopardato, lo strass, l’effetto pittura e il minimalismo. Noi compriamo all’OVS o nei negozi dell’usato dove i gonzi vanno a rivendere le magliette-affare comprate all’outlet.

Business is business. Con la crisi che c’è, figurarsi, ogni santo aiuta, ma non abbiamo mai sognato di diventare uno stilista e se ne incontrassimo uno manco lo saluteremmo.

Come diceva quel vecchio saggio: Al fum all’elta, l’acqua a la basa”.