25 aprile | Cosa significa resistere, cosa significa ricordare (Andrea Cortellessa)

Schermata 2012-04-25 a 11.01.11.pngÈ il 1968 quando esce La Beltà di Andrea Zanzotto. I muri del mondo, in quei mesi, sono pieni di scritte che rappresentano, e insieme performativamente sono, la rivoluzione in atto. Durerà poco, quel momento di sospensione e trascendentale rilancio della storia; ma ciò non toglie che sia stato (lo dimostra il fatto che fa ancora incazzare tanta gente). E in effetti le scritte sui muri – attraverso le quali, aveva profetizzato Lautréamont, un giorno saremmo stati tutti poeti – non cessarono allora di esistere. Sono rimaste un luogo simbolico e performativo di grande importanza, nella formazione e nella vita politica delle generazioni più giovani; nonché, a ben vedere, un efficace tramite di memoria intergenerazionale. Cioè di storia.
 
In quel libro atroce e sublime di Zanzotto – il più importante, se non il più bello, della nostra poesia contemporanea – si rincorrono non a caso diciotto grandi poesie-tableaux che recano il titolo complessivo di “Profezie o memorie o giornali murali”; poche pagine prima, invece, si legge un grande componimento dal titolo “Retorica su: lo sbandamento, il principio-‘resistenza’”. I bagliori corruschi delle guerre civili di venticinque anni prima si sovraimprimono a quelli bituminosi del Napalm che brucia all’orizzonte, a Oriente; e il “principio resistenza” (mutuato, spiega il poeta, da quello speranza di Ernst Bloch) illustra proprio come la storia brilli in quelle che Walter Benjamin aveva chiamato “immagini dialettiche”: sovrapposizioni, sovrimpressioni di figure diverse che insistono sugli stessi luoghi, geografici o psichici. La macrostoria che produce “retorica” – cemento linguistico di cui necessita qualsiasi comunità – si ricapitola così in mille rivoli di microstorie, e viceversa. L’ontogenesi dell’evento, la filogenesi della memoria.
 
Davvero il “principio resistenza” è un’immagine dialettica. Sovraimprime il presente al passato, ne fa sprizzare scintille. È un esempio di quella che più di recente il grande filosofo Paul Ricoeur ha chiamato “rimemorazione”. Se commemorare il più delle volte è un atto retorico (nel senso più deteriore), un rituale istituito e non davvero sentito, in definitiva il manifestarsi di un’ipocrisia collettiva, rimemorare significa al contrario rifare presente l’essere stato nel passato o, diciamo, l’esserci stato: ed è attraverso la passione dei luoghi – nei quali la memoria è di una situazione, non di un avvenimento – che si aziona il cortocircuito decisivo. Non può essere inteso come una generica, ancorché condivisibile, posizione etica collocata nell’oggi. Non è insomma una citazione, l’omaggio reverenziale (o il re-enactement meramente spettacolare) di una Resistenza di ormai quasi settant’anni fa. Deve invece raccogliere almeno uno dei testimoni, concettuali e pratici, di quelle staffette.
 
E quello che oggi pare più aperto al futuro riguarda proprio l’essere situato del nostro agire. I partigiani difendevano un ideale di libertà ma anche un territorio concreto, che apparteneva a una geografia fisica e insieme morale: il “pathos dei luoghi”, visceralmente affettivo ma anche concretamente logistico, di cui ha parlato Gabriele Pedullà nella sua antologia di Racconti della Resistenza, non a caso, geograficamente ordinata. Proprio presentando questo libro, a Pieve di Soligo il 25 aprile 2005, ascoltai il vecchio Zanzotto ricordare un proprio racconto-apologo ivi compreso e risalente a dieci anni prima, 1944: FEIER. Il titolo riproduceva una grande scritta a carbone nero tracciata sul muro di un casolare da un contadino veneto: il quale così s’era tatuato quel tempo e quel suono, con le proprie mani aveva inciso quel trauma a futura memoria. Ma, diceva Zanzotto, passato poco tempo prima da quel casolare, con amarezza aveva scoperto che la scritta era stata cancellata.
 
La stessa cosa è accaduta qualche anno fa nel quartiere romano dove ho studiato per tanti anni, San Lorenzo: sul muro scrostato di uno degli edifici bombardati nel luglio del ’43, e mai restaurati completamente, a lungo s’era letta, vergata a lettere cubitali, la scritta EREDITÀ DEL FASCISMO. Per gli studenti della mia generazione quel “monumento involontario”, come ha definito quelli di questo genere Sandro Portelli, ha costituito un monito di forza straordinaria. Ma qualche anno fa l’ossessione gentrificante della giunta Veltroni – proprio mentre con sussiego inaugurava Case della Memoria e della Storia – ha pensato bene di stendere, su quel muro, una mano d’oblio.
 
La performance-installazione della giovane artista torinese Paola Monasterolo, Lettere da un fronte, cortocircuita in una scritta-immagine potentemente dialettica, in un singolo gesto iconico di straordinaria efficacia, tutti questi stimoli concettuali. Che riesce a tradurre in un grandissimo impatto emotivo. Sui muri del cortile del Museo Diffuso della Resistenza di Torino, a Corso Valdocco 4/A, questa mattina alle 11.00 si potrà leggere in formato gigante il finale di una delle lettere dei condannati a morte della Resistenza, quella spedita dal ventitreenne Pietro Ferreira ai compagni del Partito d’Azione di Torino il 22 gennaio 1945, alla vigilia della sua esecuzione da parte dei fascisti della R.S.I. È una lettera di sorprendente serenità, dal tono di grande fermezza e lucidità, che però nel finale s’impenna in una lampeggiante immagine del futuro: “Tra poco le armate alleate spezzeranno l’ultimo baluardo difensivo tedesco, anche l’Italia tutta verrà liberata e terminerà per voi questo lungo periodo di lotta cospiratoria che tanto ha assottigliato le vostre file; e allora sarà per voi la vita, l’aria, la luce, il sole, la gioia di aver combattuto e di aver vinto e l’esultanza della libertà raggiunta…… siate felici….. Addio… un abbraccio a tutti vostro Pedro”. L’Italia liberata, oggi lo sappiamo bene, quel futuro d’aria e di luce non lo conoscerà mai davvero. Ma quell’aria e quella luce sono state: una sera, a Torino, nella mente e nella lingua di Pedro.
 
Paola Monasterolo ha scelto di gigantografare queste righe utilizzando una tecnica particolare, desunta dai racconti dell’ex partigiano Enzo Pettini, il quale ha rievocato una forma di resistenza che, seppur minima, ha lasciato tracce nella memoria orale e sui muri di alcune case del quartiere operaio di Borgata Vittoria. Su questi muri slogan antifascisti venivano scritti da donne e bambini impiegandoun particolare inchiostroottenuto lasciando a mollo la calce spenta nell’olio di motore. E durante la giornata di oggi il pubblico verrà coinvolto in un canto collettivo da Marco Testa, e sarà invitato a proseguire e completare con le proprie mani il decoro murale.
 
È significativo che il Museo della Resistenza, qui a Torino, si definisca “Diffuso”; così come che il progetto d’arte per lo spazio pubblico che ha promosso il lavoro di Monasterolo si chiami “SITUA.TO”. Appunto situati, ce ne rendiamo sempre meglio conto, sono tutti i movimenti politici che negli ultimi tempi hanno assunto significato e valore: da Occupy Wall Street a No TAV al Teatro Valle. Tutti incentrati su un luogo, un sito storico e simbolico che si fa segno di riconoscimento: proprio perché tutti noi, nel nostro quotidiano, subiamo la virtualizzazione della nostra esistenza in non-luoghi telematici nei quali s’è da tempo polverizzata qualsiasi idea di società. La sfida di questo spatial turn anche politico sta allora nel trascendere la miseria di un localismo identitario – che ha prodotto negli ultimi vent’anni più o meno gravi catastrofi politiche, dalle carneficine balcaniche alla fiera dell’intolleranza dei leghisti – per elevare questa concretezza di situazione a paradigma idealmente universale. Questa sfida del pensiero e della volontà ha un nome: si chiama politica.

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Modesta riflessione del dopo 25 aprile

25-aprile-1945.jpgBella giornata. Sole, aria di festa in giro. Tutto bene o quasi. Lo so, gli storici sono dei frangipalle, sempre ad alzare il ditino, a far la punta agli spilli, a spaccare il classico capello in quattro, otto, sedici. Già è così. Scusateci: è uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo.

Il 25 aprile è festa di libertà, di liberazione, la sconfitta del nazismo e del fascismo. Una svolta nella storia del nostro paese, forse un’occasione mancata ma certamente uno dei momenti più alti della nostra storia nazionale. 25 aprile 1945, un evento, una data, legata a quella storia. Certo una data che rappresenta valori importanti, fondamentali per il nostro vivere, valori che hanno poi trovato nella Costituzione la loro migliore collocazione e riconoscimento. Ma non possiamo dimenticare che il 25 aprile è una data, collocata nel tempo e nello spazio. Possiamo (e dobbiamo) farne un simbolo, il più possibile condiviso, un elemento importante della costruzione di una cittadinanza democratica e repubblicana, ma non possiamo andare oltre.

Ci lamentiamo, a buon diritto, dell’uso pubblico della storia, vizio vecchio come il mondo, ma il tempo non trasforma un vizio in un pregio. Usare fatti, vicende, storie passate per il nostro presente, per l’uso e consumo contingente. Lo critichiamo quando gli “altri” ne fanno un uso spregiudicato ma, purtroppo, taciamo quando quell’(ab)uso lo troviamo nelle nostre piazze, nelle nostre manifestazioni.

Il 25 aprile è la vera festa nazionale laica, popolare, vissuta e partecipata in buona parte del paese, perché dobbiamo, come accade sempre più spesso anno dopo anno, farlo affiancare da altre motivazioni, altre cause, altre situazioni, quasi che il 25 aprile non si reggesse più da solo e avesse bisogno di un sostegno, un pretesto, una giustificazione per essere ricordato e celebrato degnamente? Come in una goffa operazione di marketing della memoria: il vecchio marchio non convince più il “cliente”, mi invento un pacco dono, un’offerta speciale per sostenere le vendite. Quest’anno il prodotto di lancio e traino è stata la lotta alla/e mafia/e. Dal tema della liberazione, quella storica dal nazismo e dal fascismo, una liberazione che ha costruito le basi per l’Europa di oggi che ha ridato dignità ad un paese che aveva scatenato guerre di aggressione, massacrato popoli dopo aver distrutto la propria libertà, siamo passati ad una altra “liberazione”, quella dalle strutture criminali che opprimono e sfruttano varie aree del paese e si infiltrano anche nella nostra società emiliana.

Una liberazione vale l’altra? È banale dire che non si sta svalutando in alcun modo l’impegno e il sacrificio dei tanti contro la criminalità ma non possiamo stiracchiare la storia come un foglio di domopack per coprire quello che ci fa comodo per cucinare una comunicazione che raccolga più consenso possibile. Perché questo è uno dei primi effetti/scopi, passare da una data che ancora presenta elementi di divisione a qualcosa di tranquillizzante, unificante. Sappiamo bene quanti problemi nella trasmissione della memoria del 25 aprile si incontrano ogni giorno, come sia difficile confrontarsi con memorie diverse/divise, come la ricorrenza richieda scelte non sempre tranquille. Inserire altre “liberazioni” semplifica il compito: in occasione del 25 aprile parliamo di altro, di qualcosa su cui nessun possa alzarsi in piedi e dire ”no”. E siamo a posto: abbiamo santificato la festa di precetto, abbiamo celebrato la messa laica annuale e contemporaneamente abbiamo trasmesso un messaggio di impegno civile unificante. Ieri in piazza chi avrebbe mai potuto gridare “viva Provenzano!”? Così, seguendo il vecchio detto popolare “troppa grazia, S.Antonio!*”, nell’entusiasmo dell’occasione ci siamo lanciati in similitudini davvero spericolate, in messaggi in bilico fra sentimentalismo e chiamata alle armi, a formare un mix davvero bizzarro in una giornata, lo ripeto, che ricorda la sconfitta del nazismo e del fascismo e la nascita della nostra democrazia, grazie alla collaborazione dei resistenti allo sforzo bellico degli alleati. Punto. Non c’è abbastanza materiale per farne tanti di discorsi importanti? Sul fascismo risorgente in Europa, sul razzismo, sulla cancellazione della memoria storica, sul difficile futuro dell’Europa?

Perché i mafiosi non sono i nuovi nazisti-come ho sentito ieri-e Falcone e Borsellino non erano partigiani e i sindaci che rischiano la vita oggi non fanno la nuova Resistenza. Fanno altro, cose fondamentali come difendere lo stato democratico, spesso nonostante lo Stato stesso, a rischio della loro vita difendono la libertà e la dignità delle persone. E per questo vanno ringraziati e difesi. Ma tutte queste lotte nobili e fondanti del vivere civile celebriamole il 26 aprile, magari il 23 maggio nell’anniversario della strage di Capaci, in quella giornata fermiamoci tutti, scendiamo in piazza per chiedere di buttare fuori dal Parlamento i condannati e gli inquisiti, di troncare i legami fra economia legale e criminalità al sud come nelle nostre feraci terre padane. C’è tanto da fare e da fare insieme e con tante buone ragioni da non aver bisogno di striracchiare la storia per trovare giustificazioni a quelle scelte. E poniamoci di fronte al significato vero e profondo del 25 aprile, accettando la discussione sul senso del nostro essere antifascisti oggi, sulle prospettive di vivere nell’Europa futura, sulla nostra complicata e contraddittoria identità nazionale, sull’atavica tendenza italiana all’oblio. L’agenda è ricca e complicata, sarebbe bello iniziare a lavorarci su.

 * la locuzione pare nata da un episodio tramandato dalla tradizione popolare: un cavaliere, piccolo di statura, cercava a ripetizione di salire in sella al suo destriero. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto, pensò bene di invocare l’aiuto del Santo. Forza ritrovata o aiuto celeste, accadde che il tapino non solo riuscì a salire il groppa all’animale ma, per l’eccessivo slancio ricadde addirittura dalla parte opposta ruzzolando a terra. Rialzandosi avrebbe appunto esclamato “Troppa grazia, S.Antonio!”.

 

La Resistenza da difendere (Miguel Gotor)

IL 25 APRILE di quest’anno desideriamo celebrare il sangue versato dai vincitori e ricordare, accanto alla memoria e alla letteratura della Resistenza, anche la storia e la politica del movimento partigiano. Non solo, dunque, gli immaginifici sentieri dei nidi di ragno percorsi da piccoli maestri come il partigiano Johnny, ma i viottoli di montagna battuti 67 anni fa da uomini in carne e ossa come Arrigo Boldrini, Vittorio Foa, Sandro Pertini e Paolo Emilio Taviani.

Grazie alla loro storia commemoriamo i migliaia di giovani caduti in nome della libertà, per la dignità e il riscatto della Patria, in difesa della propria comunità di affetti.

Lo facciamo nella consapevolezza che senza la riscossa partigiana e senza la fedeltà all’Italia e il senso dell’onore di quei militari che, a Cefalonia e non solo, scelsero di impegnarsi nella guerra di liberazione dal nazifascismo, non sarebbe stato possibile gettare le fondamenta della nuova Italia democratica e repubblicana, quella che ancora oggi abbiamo il privilegio di abitare. Ma avvertiamo questa esigenza anche perché abbiamo alle spalle oltre vent’anni di un senso comune anti-antifascista che ha egemonizzato il discorso pubblico intorno a due concetti meritevoli invece di maggiore ponderazione.

Il primo è quello che vede nell’8 settembre 1943 la morte della patria. In quei giorni si assistette al collasso dello Stato e delle istituzioni, ma la patria trovò, grazie alla scelta partigiana e alla coscienza di tanti, le ragioni per resistere, rigenerarsi e rinascere alimentando un secondo Risorgimento della nazione.

Il secondo concetto è quello di guerra civile, che è stato indebitamente strumentalizzato. In questo caso, la condivisibile interpretazione azionista di un partigiano come Franco Venturi (“le guerre civili sono le uniche che meritano di essere combattute”) è stata piegata agli interessi del reducismo fascista e saloino che da sempre hanno negato il carattere di lotta di liberazione alla Resistenza e, sin dalle origini, hanno utilizzato il concetto di guerra civile per equiparare, sul piano politico e morale, le ragioni delle parti in lotta.

Da questa duplice manipolazione della realtà storica è scaturita la rivalutazione di carattere moderato/terzista della cosiddetta “zona grigia”: l’attendismo e l’indifferentismo, motivati da umane e comprensibili ragioni, inizialmente vissuti con disagio e un sentimento di vergogna, si sono trasformati nella rivendicazione orgogliosa di una zona morale di saggezza e virtù. Al contrario, se la Resistenza non avesse avuto il consenso implicito ed esplicito della società civile non sarebbe riuscita a prevalere sul piano militare e politico. Bisogna piuttosto rammentare che l’intrinseca moralità della Resistenza sul piano storico deriva dal fatto che quei giovani combatterono non soltanto per la propria libertà, ma anche per quella di chi era contro di loro e di quanti scelsero di non schierarsi: lo ha dimostrato senza ombra di dubbio la storia successiva dell’Italia democratica e parlamentare.

Oggi questi atteggiamenti, alimentati dalla lunga stagione del berlusconismo con la sua corrosiva ideologia della divisione, segnano il passo e offrono l’occasione alla Resistenza di trasformarsi finalmente in un patrimonio nazionale condiviso anche sul piano del giudizio storico. Un giudizio in cui devono albergare un sentimento di pietas per gli sconfitti, la volontà di studiare in modo equanime – contestualizzando e non per rinfocolare odi di parte – tutta la Resistenza, anche quella più violenta, vendicativa e oscura, e, infine, il riconoscimento dell’importanza del percorso compiuto da quanti oggi, pur essendo cresciuti nel Movimento sociale, hanno dichiarato di riconoscersi nella condanna delle leggi razziali del 1938 e nei valori dell’antifascismo.

È indicativo che in un momento di crisi della politica e della rappresentanza come questo, stiano aumentando le iscrizioni all’Anpi da parte dei più giovani. Nell’Italia attuale è necessario recuperare lo spirito di collaborazione e di ricostruzione civica che ha animato il movimento partigiano da cui scaturì la stagione della Costituente in cui forse politiche di estrazione profondamente diversa impararono a conoscersi e seppero fare fronte comune nell’interesse nazionale. Quello spirito lontano e generoso è il testimone della Resistenza che serve oggi all’Italia.

(La Repubblica, 25.4.2012)

Quando i leghisti erano statisti (Marco Travaglio)

Facile prendersela oggi con Bossi e il suo clan. Come prendersela col duce nel 1945 e con Craxi nel 1993. Sono almeno dieci anni che della Lega delle origini, quella che contribuì ad abbattere la prima Repubblica e a salvare Mani Pulite da sicuro affossamento, s’è perso persino il ricordo. Eppure fior di intellettuali e opinionisti “indipendenti” hanno fatto finta di niente sino all’ultimo. Ancora nel 2008, ultima vittoria elettorale di Bossi e Berlusconi, davano mostra di credere alle magnifiche sorti e progressive del “federalismo”, ciechi e sordi dinanzi alla satrapia dell’anziano leader menomato e agli scandali della Credieuronord, dell’amico Fiorani e delle quote latte.

Stefano Folli predicava il 15 aprile 2008 sul “Sole-24 ore”: “Silvio Berlusconi è il leader che riesce a rappresentare la sintesi di un Paese moderato, ma voglioso di modernità… e sempre più insofferente verso i vincoli, i freni e le incongruenze di chi diffida del cambiamento. Ma non si comprende il senso della vittoria berlusconiana… se si sottovaluta il dato politico che l’accompagna: vale a dire l’impronta nordista che l’affermazione della Lega porta con sé… La Lega è un partito leale agli accordi di coalizione, anche perché ha tutta la convenienza a esserlo. La lealtà paga, visto che oggi tra Lombardia e Veneto abbiamo quasi una seconda Baviera, con Bossi nei panni che furono di Strauss e Stoiber. E la “questione settentrionale”, anche quando significa timore della globalizzazione e inquietudine verso gli immigrati, è incarnata dalla Lega… Bossi ha citato la priorità del federalismo fiscale. Ecco un esempio di riforma, certo urgente, che tuttavia esige un alto senso di responsabilità politica per non danneggiare una parte del Paese”. Sappiamo com’è poi finita, la seconda Baviera. Ma Folli è sempre lì a spiegare come va il mondo.

Un altro folgorato sulla via di Gemonio fu Andrea Romano, già direttore del samizsdat dalemiano Italianieuropei, poi editor della berlusconiana Einaudi, ora testa d’uovo della montezemoliana Italia Futura e columnist prima de “La Stampa”, poi del “Riformista”, infine del “Sole”, lo stesso che l’altra sera pontificava in tv sull’ineluttabile fine del bossismo. Ecco cosa scriveva sulla “Stampa” il 16 aprile 2008: “La Lega potrebbe diventare il motore riformatore del governo Berlusconi… è un movimento politico ormai lontano dalla rappresentazione zotica e valligiana… ha accantonato definitivamente il teatrino secessionista… giustamente Stefano Folli sul “Sole-24ore” rimanda all’esempio della Csu bavarese”: insomma la Lega è un modello di “buona amministrazione locale”, piena di “giovani preparati come il piemontese Roberto Cota” (l’attuale catastrofico governatore del Piemonte), ergo sarà “il reagente indispensabile a una vera stagione di rinnovamento”. Certo, come no: vedi alla voce cerchio magico.

Se Romano citava Folli, Angelo Panebianco l’indomani sul “Corriere” citava Romano che citava Folli, in una travolgente catena di Sant’Antonio, anzi di Sant’Umberto: “Come ha osservato Andrea Romano, non si capisce la Lega Nord se non si tiene conto della capacità che Bossi ha avuto nel corso degli anni di fare crescere una classe dirigente locale, di giovani amministratori, spesso abili, e capaci di tenersi in sintonia con le domande dei loro amministrati”. Tipo Belsito, per dire.
L’altro giorno, sul “Corriere”, Antonio Polito rivelava di aver capito tutto da un pezzo (ovviamente all’insaputa degli eventuali lettori): “Già da tempo la Lega aveva dato segni evidenti di essersi trasformata da movimento in regime, con i tratti sovietici dell’inamovibilità del gruppo dirigente… Ma nessuno aveva immaginato che il regime fosse diventato una satrapia. Nemmeno Berlusconi”. Che strano: lo stesso Polito, direttore del “Riformista”, nell’aprile 2008 invitava il centrosinistra a rifuggire da un’opposizione severa e intransigente contro il nuovo governo Berlusconi-Bossi, e ad “aprire il dialogo con l’Italia berlusconiana” e naturalmente bossiana. È grazie a simili illuminazioni che Polito ha guadagnato la prima pagina del “Corriere”.

(L’Espresso, 13 aprile 2012)

I nuovi padroni del Nord (Curzio Maltese)

    Ma quant’è furbo, da uno a dieci, Beppe Grillo che sta girando l’Italia per spiegare che lo scandalo della Lega è una trama dei giudici servi di Monti contro l’opposizione? «Tocca alla Lega, poi a Di Pietro e quindi a noi!». Quant’è abile a urlare in piazza e su YouTube una tesi innocentista e complottista a proposito delle porcate della «family», quando perfino Bossi ha dovuto scaricare il figlio e il cerchio magico. A corteggiare i leghisti spaesati dagli scandali con il no alla cittadinanza per i figli d’immigrati, a costo di sfidare le ire dei blogger, e il ritorno alla parole d’ordine dello sciopero fiscale contro la corruzione politica. Eccolo il nuovo campione del Nord tartassato contro Roma Ladrona, Beppe Grillo. «Ho seguito qualche suo comizio e l’analogia col primo Bossi è impressionante» commenta Pippo Civati, consigliere del Pd, uno dei pochi esponenti del centrosinistra ad avere le antenne puntate sulla crisi leghista. «Per non dire che Grillo gli copia interi passaggi e slogan, gestacci compresi. Purtroppo funziona, anche per colpa nostra. Avremmo delle praterie davanti, dico il Pd e il centrosinistra in generale, ma rimaniamo fermi a guardare. E così c’è il rischio che il Nord salti dalla padella padana alla brace del populismo grillino, per certi versi perfino peggiore».

Un rischio che al momento è una certezza. A dar retta ai sondaggi, oltre la metà dell’elettorato in fuoriuscita dalla Lega oggi voterebbe Movimento 5 Stelle. L’altra metà si spalma in parti uguali fra Pd, Pdl e il resto. Merito del fiuto commerciale del comico genovese, ma anche dell’afasia dei grandi partiti. I berluscones sono troppo occupati a trattare con il governo Monti franchigie personali e aziendali per rivolgere lo sguardo al cataclisma leghista. Il Pd la questione settentrionale non l’ha mai capita e finirà al solito per candidare qualche industriale deluso dal sogno padano. Senza contare l’imbarazzo del caso Penati, che è la ragione per cui Bersani non si fa vedere in una piazza lombarda da quasi un anno. Il progetto di un centrosinistra del Nord era andato in pensione con Sergio Chiamparino e le giuste profezie di Massimo Cacciari sull’imminente crollo di rappresentanza della Lega sono state lasciate cadere nel vuoto. Sul territorio gli unici a muoversi, in ordine sparso, sono a sinistra i nuovi sindaci, a cominciare da Fassino e Pisapia, e a destra l’onnipresente sistema di potere ciellino di Formigoni, inossidabile lui sì a qualsiasi scandalo. Per il resto via libera all’Opa grillina. Una marcia di conquista partita dalla Val di Susa, luogo perfetto per un revival della Lega degli esordi, ecologista, no global, anti sistema, pronta a gettare il cuore montanaro oltre l’ostacolo degli interessi combinati di grande capitale, burocrazia europea, finanza mondiale e solita Roma ladrona.

Ma davvero basta imitare i comizi d’annata del Senatur, come fa Grillo, oppure impugnare la scopa e invocare il ritorno alle origini, alla Maroni, per riprendersi la rappresentanza del più importante pezzo d’Italia? Se si leva lo sguardo dalla cronache politiche e giudiziarie, dai piccoli spettacoli quotidiani di trasformismo mediatico, e lo si alza sull’immenso laboratorio che corre dal Monviso al delta del Po, in una sequenza ininterrotta di case, centri commerciali, capannoni e industrie, si capisce che è un’utopia nostalgica. Lega delle origini e poi il berlusconismo erano il racconto, a volte geniale, del Nord fra gli anni Ottanta e Novanta. Ma in questi vent’anni tutto è cambiato, il Nord ha vissuto una rivoluzione che nessuno ha ancora raccontato. La morte politica dell’asse Berlusconi-Bossi si è consumata proprio in questa incapacità di raccontare e rappresentare il nuovo, assai prima di perdersi nel dedalo maleodorante delle ruberie e degli scandali, nelle storie di escort e false lauree.

La Lega delle origini, con Bossi solo in Parlamento, era il grido di rabbia delle comunità montane isolate e depresse. Ricordo uno dei primi comizi del Senatur, ancora scortato da Miglio, in una trattoria della Valmalenco, davanti a facce contadine stravolte dalla fatica, ma eccitate dalla favola, dove oggi c’è un Internet bar frequentato da ventenni che sembrano studenti di Stanford. Trento, Belluno, Sondrio, Aosta, Cuneo, culle del leghismo primigenio e pauperista, ispirato dagli autonomisti aostani e della Val d’Ossola, sono ormai da anni in cima alla classifica di reddito e qualità della vita pro del Sole 24 Ore, davanti a Milano, Bologna, Roma. Quando il sindacato leghista organizzava i primi comizi nella bergamasca, la Brembo e la Mapei erano piccole fabbriche con qualche decina di operai e ora sono colossi internazionali, con Squinzi e Bombassei che si giocano la presidenza di Confindustria all’ultimo voto. Alle prime assemblee di imprenditori leghisti, Daniele Vimercati mi faceva notare: «Guardali, si vestono allo stesso modo, hanno lo stesso capannone, tipo d’auto, villetta e perfino piante in giardino. Sono più uguali dei loro operai». Oggi la crisi ha spezzato le fila e prodotto una selezione darwiniana fra chi è cresciuto e chi sta fallendo. L’altro giorno nel Trevigiano un imprenditore agricolo si è impiccato nel capannone mentre il vicino festeggiava coi dipendenti il raddoppio delle esportazioni di soia per il biodiesel.

«La Lega è stato un formidabile imprenditore della paura del Nord davanti alla globalizzazione – è la lettura di Aldo Bonomi, sociologo, autore di uno dei migliori libri sul malessere del Nord, Il Rancore -. Ma bene o male in questi vent’anni la globalizzazione è arrivata e ha stravolto il paesaggio umano e sociale del paese, soprattutto delle aree più produttive. Di fronte a questo mutamento straordinario la Lega non ha saputo elaborare nuove risposte, è rimasta aggrappata ai vecchi miti, evocati oggi anche da Maroni: la Padania, il federalismo, la piccola patria. Ma oggi le questioni che interessano i ceti produttivi del Nord sono altre. Si chiamano default, riguardano la tenuta del paese intero come seconda potenza manifatturiera d’Europa. E’ cambiata l’imprenditoria, non più molecolare come vent’anni fa, ma selezionata dalla crisi fra una media industria in espansione, che regge da sola le sorti industriali dell’Italia, e una piccola in via di estinzione. E’ cambiato moltissimo il ceto medio, con l’avvento di quello che possiamo definire il terziario riflessivo. Nuove generazioni che lavorano soprattutto nel campo della comunicazione, il 27 per cento dei nuovi posti, e coltivano idee, sogni e bisogni molto distanti dai nostalgici archetipi leghisti. Si è rovesciato il rapporto fra il contado, per esempio la provincia pedemontana, e la metropoli. Per vent’anni il contado ha dato l’assalto alla città, con alla testa i condottieri di provincia Bossi e Berlusconi, assai più brianzolo che milanese. Ora sono la finanza, le banche, i saperi cittadini che tornano a mettere le mani sulla provincia, a investire nelle grandi reti, nella rete idrica, nel futuro della produzione energetica, nella green economy. E’ una trasformazione profonda, che ha influito anche sui sentimenti e sui risentimenti. Prenda la questione dell’immigrazione. A Milano la Lega, con la Moratti al seguito, ha impostato tutta la campagna contro Pisapia su questo tema e ha clamorosamente perso».

La Lega aveva insomma esaurito la spinta propulsiva anche prima degli scandali. «Sì, ma non bisogna commettere l’errore di considerare la crisi della Lega come la fine di una questione settentrionale che oggi è semmai ancora più viva e decisiva per il futuro dell’Italia. Altrimenti si rischia di evocare un’ondata di antipolitica ancora più disastrosa di quella che vent’anni fa ha consegnato il potere a Berlusconi e Bossi».

(da Repubblica, 13 aprile 2012 )

Una buona battaglia…

Invito i miei 25 lettori a sostenere questa buona battaglia di impegno culturale, civile e, quindi, politico. Si può sottoscrivere la seguente petizione a: http://www.firmiamo.it/perimuseicivici-reggioemilia

Altre info sul blog: http://amicideimuseicivici.blogspot.it/

Nel 2007 l’Amministrazione Comunale di Reggio Emilia ha dato l’incarico del riallestimento dei musei civici allo Studio Rota. Il progetto risponde solo in minima parte alle esigenze di un museo civico come quello reggiano: da un lato propone soluzioni eclatanti quanto discutibili, dall’altro non offre alcun racconto organico della vita antica e moderna della città e del suo territorio. Occorre investire nel museo assicurando la piena funzionalità dei diversi ambienti e la manutenzione delle collezioni storiche, ma occorre anche che ci sia un investimento più profondo sul piano dei contenuti, delle forme comunicative e della didattica.

Confermiamo e sottoscriviamo i contenuti delle lettere inviate alla stampa da un gruppo di cittadini reggiani (20.2 e 5.3.2012) e chiediamo all’Amministrazione che il progetto venga non solo presentato, ma condiviso e discusso pubblicamente nei suoi dettagli e che vengano abbandonate soluzioni, sia interne che esterne all’edificio, tanto estranee ai “fini di ordine culturale, scientifico, educativo”  perseguiti dal museo, quanto costose, in particolare alla luce della attuale situazione economica e sociale.

Io ne ho viste cose che voi umani…

“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.”

 

Anch’io, nel mio piccolo, posso dire di “aver visto cose..” in questi anni di onorato lavoro.

Ho visto piantare un albero della Libertà nel bicentenario della Rivoluzione francese, albero benedetto addirittura dal reverendo parroco. Albero poi, per fortuna, seccatosi, forse per la vergogna.

Ho visto celebrare i fratelli Cervi facendoli paladini della lotta contro le tossicodipendenze al grido di “Se fossero vivi lotterebbero contro la droga!”.

Ho visto un Assessore al Bilancio inneggiare ai Viaggi della memoria in una pubblica manifestazione. Assessore di un Comune che aveva appena tagliato il contributo ai medesimi Viaggi.

 

Ma non avevo ancora visto una mostra “storica”(?!), anzi, pardon “Una sorta di laboratorio di riflessione sul futuro della collettività fatta come esito di una raccolta differenziata di cose varie e disperse, portate “random”da volenterosi cittadini. Sì perché in questo weekend con l’iniziativa “Gli oggetti ci parlano” ci viene richiesto proprio questo: portare cose, roba, insomma vuotare i solai, far saltare per questa settimana il mercatino del riciclo e consegnare festosi la merce.

 

Perché? “…per meditare sul nostro futuro, fare scelte importanti, ma anche ricordarci l’attitudine delle generazioni che ci hanno proceduto e che hanno creduto fortemente in un’idea di progetto positiva e condivisa, che una volta realizzata ha determinato cambiamenti significativi nelle abitudini e nella quotidianità…Questi oggetti verranno catalogati, schedati per liste tematiche e fotografati. Cosa portare? Quattro le aree tematiche della mostra: come mangeremo, come vestiremo, come condivideremo, come parteciperemo.”

Domanda: ma cos’è l’attitudine delle generazioni che ci hanno proceduto? Attitudine a cosa?

Come diceva il poeta “..quelli che ti spiegano le tue idee senza fartele capire, oh yeah!”

 

turkey-hat_3519.jpgComunque via alla caccia a “scatole portacappelli di modiste famose… carte geografiche d’epoca, reclame di viaggi, riviste,.. uova di struzzo, zampe di elefante montate… elettrodomestici di marca (aspirapolvere, lavapiatti, robot da cucina, macchine per il caffè.. macchine per scrivere, vecchi telefoni,… calze di nylon…”. Mancano solo i classici “tacchi, dadi e datteri” e poi l’elenco è completo.

 

Non è meraviglioso? La fantasia che ci libera finalmente da quei mucchi di roba accumulata negli anni, perché venderla? Regaliamola gioiosi e felici, convinti che qualcuno, ben più intelligente di noi, poveri accumulatori inconsapevoli, provvederà a dare un senso a tutto, a svelarci il senso delle nostre “attitudini”. Quale il progetto, quale il fine? Realizzare le famose “period room” che ci racconteranno come siamo stati ma soprattutto come saremo. Basta aspettare e capiremo tutto nella futura epifania di stampo televisivo. E pensare che noi eravamo abituati a realizzare mostre con il procedimento opposto: prima sapere di cosa vogliamo parlare e poi andare a cercare gli oggetti e i documenti che ci potevano servire. Vecchi, obsoleti, polverosi. Per fortuna che c’è chi è così avanti. Avanti dove, come? Non importa, avanti! E tutto “agratis”. Geniale.

 

Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di ridere….

 

http://www.fotografiaeuropea.it/fe2012/gli-oggetti-ci-parlano-2/

 

 

Uovo di Pasqua

Sotto l’albero di Natale abbiamo trovato il ritiro del vecchio satiro plastificato, nell’uovo di Pasqua la caduta rovinosa del patetico guitto che ha condotto la lega (che, come dice mio figlio, non merita neppure la maiuscola) ha dare il suo contributo allo scassamento del povero paese. Bene. Buona Pasqua. Però. Sono caduti i capi, i vice si stanno scannando, i famigli cercano di salvare l’argenteria e le playstation, ma tutto rimane come prima. Questi satiri, questi buffoni da bar, questi lusi-belsito qualcuno li aveva messi sulle loro poltrone, qualcuno li aveva votati. Loro sono caduti, fuggiti, carcerati ma i milioni di elettori sono ancora a piede libero, pronti al nuovo leader, al nuovo Masaniello, a destra come (purtroppo) a sinistra. Dopo la caduta berlusconiana, riflettendo con i miei 25 lettori, richiamavo tutti alla necessità del rigore, della serietà, dell’autocritica, perchè in quella stagione di guano che si stava concludendo in qualche modo c’eravamo finiti dentro tutti. Invece no. E’ ripresa la solita giostra, ognuno a difesa del suo pitale mezzo vuoto (o pieno cambia poco) a replicare coattivamente parole, riti, concetti che il tempo ha prima logorato e poi resi inutili. Ognuno a volere tutto e a volerlo subito, ognuno in preda alla sindrome del NIMBY (not in my backyard): riforme? Sì, ma prima quella degli altri…Sacrifici? Sì, però prima lui/lei/loro…

Ho preso aspre rampogne anche da quella che considero la mia parte, additato come un “NP” (nemico del popolo), solo perchè ho suggerito che c’era altro nel mondo e in un paese che non funziona che l’art.18, ricordando che in oltre 25 anni di lavoro (onorato, credo) non ho mai sentito una volta vicino ai miei problemi alcuna forza sindacale. Continuiamo ad affrontare problemi del XXI secolo con parole nate nel XIX (riformista/massimalista/padrone), con analoghi strumenti di lotta (sciopero) e con la medesima mentalità (il complotto, il conflitto…). Allora si bloccavano le ferrovie oggi le autostrade ma la mentalità è-ahimè- cambiata ben poco. Ci indignamo per i rimborsi elettorali spaventosi (con cui davvero potremmo fare qualcosa per i giovani) però non ci indignamo se i partiti che ancora votiamo  (non si sa se per abitudine o per masochismo) al massimo propongono la riduzione dei decimali a quegli stessi rimborsi. Parliamo di casta e poi non pretendiamo che almeno i nostri eletti si dimezzino-qui e ora- i loro assurdi stipendi. o che torni un poco di democrazia nella gestione delle nostre città. Come si diceva una volta “Signora..viene la rivoluzione e non ho niente da mettermi…!”.

Cambiare giacca è facile, partito anche, ma cambiare mentalità e morale è quasi impossibile. Abituati al tifo da curva sud, alla difesa eterna del nostro “particulare”, risulta difficile sederci a un tavolo e ragionare, ripartire da noi, applicare una sano e diverso  NIMBY (NOW in my back yard), almeno per salvare noi stessi perchè gli altri e il mondo è tutta un’altra questione. Non ci riuscirono i partigiani scesi dalle montagne un aprile di tanti anni fa. Anzichè ragionare su cosa avrebbe dovuto cambiare (e sul perchè non è cambiato), sul fatto che quei 20 mesi portavano in sè i germi di una rivoluzione morale che non ci fu,  stiamo ancora a perdere tempo a discutere con i fascisti se ci fu qualche morto in più o in meno, dedichiamo il 25 aprile alla lotta contro la mafia anzichè ricordare che quel 25 aprile avrebbe comportato anche la sconfitta della mafia se fosse andato avanti. Tranne poi, ovviamente, dimenticarci del 25 aprile e della mafia il giorno dopo.

Buona Pasqua, comunque, a Fortezza Bastiani tira il vento e le gocce di pioggi battono sui vetri, ierisera ho mangiato la cena di Pessach, ho bevuto i quattro calici di vino, ho mangiato il “maror”, le erbe amare. Una lattuga, le prime foglie sono dolci poi mentre si procede all’interno il gusto è sempre più amaro. Come la schiavitù che all’inizio può essere anche rassicurante, con tutte le responsabilità nelle mani del “padrone”, ma poi diviene insopportabile. Buona Pasqua.