I nuovi padroni del Nord (Curzio Maltese)

    Ma quant’è furbo, da uno a dieci, Beppe Grillo che sta girando l’Italia per spiegare che lo scandalo della Lega è una trama dei giudici servi di Monti contro l’opposizione? «Tocca alla Lega, poi a Di Pietro e quindi a noi!». Quant’è abile a urlare in piazza e su YouTube una tesi innocentista e complottista a proposito delle porcate della «family», quando perfino Bossi ha dovuto scaricare il figlio e il cerchio magico. A corteggiare i leghisti spaesati dagli scandali con il no alla cittadinanza per i figli d’immigrati, a costo di sfidare le ire dei blogger, e il ritorno alla parole d’ordine dello sciopero fiscale contro la corruzione politica. Eccolo il nuovo campione del Nord tartassato contro Roma Ladrona, Beppe Grillo. «Ho seguito qualche suo comizio e l’analogia col primo Bossi è impressionante» commenta Pippo Civati, consigliere del Pd, uno dei pochi esponenti del centrosinistra ad avere le antenne puntate sulla crisi leghista. «Per non dire che Grillo gli copia interi passaggi e slogan, gestacci compresi. Purtroppo funziona, anche per colpa nostra. Avremmo delle praterie davanti, dico il Pd e il centrosinistra in generale, ma rimaniamo fermi a guardare. E così c’è il rischio che il Nord salti dalla padella padana alla brace del populismo grillino, per certi versi perfino peggiore».

Un rischio che al momento è una certezza. A dar retta ai sondaggi, oltre la metà dell’elettorato in fuoriuscita dalla Lega oggi voterebbe Movimento 5 Stelle. L’altra metà si spalma in parti uguali fra Pd, Pdl e il resto. Merito del fiuto commerciale del comico genovese, ma anche dell’afasia dei grandi partiti. I berluscones sono troppo occupati a trattare con il governo Monti franchigie personali e aziendali per rivolgere lo sguardo al cataclisma leghista. Il Pd la questione settentrionale non l’ha mai capita e finirà al solito per candidare qualche industriale deluso dal sogno padano. Senza contare l’imbarazzo del caso Penati, che è la ragione per cui Bersani non si fa vedere in una piazza lombarda da quasi un anno. Il progetto di un centrosinistra del Nord era andato in pensione con Sergio Chiamparino e le giuste profezie di Massimo Cacciari sull’imminente crollo di rappresentanza della Lega sono state lasciate cadere nel vuoto. Sul territorio gli unici a muoversi, in ordine sparso, sono a sinistra i nuovi sindaci, a cominciare da Fassino e Pisapia, e a destra l’onnipresente sistema di potere ciellino di Formigoni, inossidabile lui sì a qualsiasi scandalo. Per il resto via libera all’Opa grillina. Una marcia di conquista partita dalla Val di Susa, luogo perfetto per un revival della Lega degli esordi, ecologista, no global, anti sistema, pronta a gettare il cuore montanaro oltre l’ostacolo degli interessi combinati di grande capitale, burocrazia europea, finanza mondiale e solita Roma ladrona.

Ma davvero basta imitare i comizi d’annata del Senatur, come fa Grillo, oppure impugnare la scopa e invocare il ritorno alle origini, alla Maroni, per riprendersi la rappresentanza del più importante pezzo d’Italia? Se si leva lo sguardo dalla cronache politiche e giudiziarie, dai piccoli spettacoli quotidiani di trasformismo mediatico, e lo si alza sull’immenso laboratorio che corre dal Monviso al delta del Po, in una sequenza ininterrotta di case, centri commerciali, capannoni e industrie, si capisce che è un’utopia nostalgica. Lega delle origini e poi il berlusconismo erano il racconto, a volte geniale, del Nord fra gli anni Ottanta e Novanta. Ma in questi vent’anni tutto è cambiato, il Nord ha vissuto una rivoluzione che nessuno ha ancora raccontato. La morte politica dell’asse Berlusconi-Bossi si è consumata proprio in questa incapacità di raccontare e rappresentare il nuovo, assai prima di perdersi nel dedalo maleodorante delle ruberie e degli scandali, nelle storie di escort e false lauree.

La Lega delle origini, con Bossi solo in Parlamento, era il grido di rabbia delle comunità montane isolate e depresse. Ricordo uno dei primi comizi del Senatur, ancora scortato da Miglio, in una trattoria della Valmalenco, davanti a facce contadine stravolte dalla fatica, ma eccitate dalla favola, dove oggi c’è un Internet bar frequentato da ventenni che sembrano studenti di Stanford. Trento, Belluno, Sondrio, Aosta, Cuneo, culle del leghismo primigenio e pauperista, ispirato dagli autonomisti aostani e della Val d’Ossola, sono ormai da anni in cima alla classifica di reddito e qualità della vita pro del Sole 24 Ore, davanti a Milano, Bologna, Roma. Quando il sindacato leghista organizzava i primi comizi nella bergamasca, la Brembo e la Mapei erano piccole fabbriche con qualche decina di operai e ora sono colossi internazionali, con Squinzi e Bombassei che si giocano la presidenza di Confindustria all’ultimo voto. Alle prime assemblee di imprenditori leghisti, Daniele Vimercati mi faceva notare: «Guardali, si vestono allo stesso modo, hanno lo stesso capannone, tipo d’auto, villetta e perfino piante in giardino. Sono più uguali dei loro operai». Oggi la crisi ha spezzato le fila e prodotto una selezione darwiniana fra chi è cresciuto e chi sta fallendo. L’altro giorno nel Trevigiano un imprenditore agricolo si è impiccato nel capannone mentre il vicino festeggiava coi dipendenti il raddoppio delle esportazioni di soia per il biodiesel.

«La Lega è stato un formidabile imprenditore della paura del Nord davanti alla globalizzazione – è la lettura di Aldo Bonomi, sociologo, autore di uno dei migliori libri sul malessere del Nord, Il Rancore -. Ma bene o male in questi vent’anni la globalizzazione è arrivata e ha stravolto il paesaggio umano e sociale del paese, soprattutto delle aree più produttive. Di fronte a questo mutamento straordinario la Lega non ha saputo elaborare nuove risposte, è rimasta aggrappata ai vecchi miti, evocati oggi anche da Maroni: la Padania, il federalismo, la piccola patria. Ma oggi le questioni che interessano i ceti produttivi del Nord sono altre. Si chiamano default, riguardano la tenuta del paese intero come seconda potenza manifatturiera d’Europa. E’ cambiata l’imprenditoria, non più molecolare come vent’anni fa, ma selezionata dalla crisi fra una media industria in espansione, che regge da sola le sorti industriali dell’Italia, e una piccola in via di estinzione. E’ cambiato moltissimo il ceto medio, con l’avvento di quello che possiamo definire il terziario riflessivo. Nuove generazioni che lavorano soprattutto nel campo della comunicazione, il 27 per cento dei nuovi posti, e coltivano idee, sogni e bisogni molto distanti dai nostalgici archetipi leghisti. Si è rovesciato il rapporto fra il contado, per esempio la provincia pedemontana, e la metropoli. Per vent’anni il contado ha dato l’assalto alla città, con alla testa i condottieri di provincia Bossi e Berlusconi, assai più brianzolo che milanese. Ora sono la finanza, le banche, i saperi cittadini che tornano a mettere le mani sulla provincia, a investire nelle grandi reti, nella rete idrica, nel futuro della produzione energetica, nella green economy. E’ una trasformazione profonda, che ha influito anche sui sentimenti e sui risentimenti. Prenda la questione dell’immigrazione. A Milano la Lega, con la Moratti al seguito, ha impostato tutta la campagna contro Pisapia su questo tema e ha clamorosamente perso».

La Lega aveva insomma esaurito la spinta propulsiva anche prima degli scandali. «Sì, ma non bisogna commettere l’errore di considerare la crisi della Lega come la fine di una questione settentrionale che oggi è semmai ancora più viva e decisiva per il futuro dell’Italia. Altrimenti si rischia di evocare un’ondata di antipolitica ancora più disastrosa di quella che vent’anni fa ha consegnato il potere a Berlusconi e Bossi».

(da Repubblica, 13 aprile 2012 )

I nuovi padroni del Nord (Curzio Maltese)ultima modifica: 2012-04-20T17:17:24+02:00da pelikan-55
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