I have a dream..

benedetto-xvi.jpgS.S.Benedetto XVI va’ in visita in Gran Bretagna. Evento storico. trombe e fanfare, pereppepè! Ma. C’è un piccolo ma. Chi vorrà andarlo ad ascoltare dovrà PAGARE. Contributo alle spese di viaggio, etc…Tutto normale, anche per ascoltare il Discorso della montagna c’era da pagare, o no? E pensate che mangiare quei pani e quei pesci fosse gratis, con quel che costava allora il catering?

I have a dream. Da povero cattolico affannato e tanto, tanto, peccatore. Sogno di vedere il papa andare in giro come un normale cittadino, al massimo con un segretario. Volare Ryanair. Scendere dall’aereo e prendere un’auto Hertz o magari salire ospite di un fedele e andarsene in giro a parlare con la gente.

Sogno che un papa un mattino si alzi e, illuminato dallo Spirito, dica: “Fratelli, è ora di cambiare. Fine dello Stato del Vaticano. Nominatevi voi un Presidente, un Re, un Sultano, ma lasciate la Fede al posto suo. Io ho altro da fare, far conoscere il Vangelo che già è un lavoraccio..Signori cardinali, se volete, lasciate le vostre gonne e le vostre papaline, sembrate delle uova di Pasqua, vestitevi da persone normali e andate ad aprire le tante chiese abbandonate, fate il vostro lavoro di pastori e lasciate perdere tutto il resto! Da oggi si cambia! Chi vuole restare nello Stato estero del Vaticano lo faccia, giochi con lo Ior e il potere ma sia chiaro che tutto ciò con il Vangelo c’entra tanto quanto il Presidente del Consiglio italiano con un galantuomo…fate voi!”

I have a dream! Un sogno, certo, ma se avvenisse qualcosa di simile scommettete che le Chiese si riempirebbero di nuovo, i seminari traboccherebbero di giovani entusiasti e, forse, il mondo andrebbe (un pochino) meglio?

p.s.

Un giorno la Trinità sta discutendo su dove passare le ferie.

Il Padre: “Io vorrei andare sull’Himalaya, bel posto, nevi eterne, aria pulita, potrei dare un’occhiata al mondo da lassù…”

Il figlio: “A me piacerebbe tornare in Palestina, magari riesco a mettere un po’ di pace in quel casino..”

Lo Spirito Santo: “A me, invece, piacerebbe andare a Roma, in Vaticano…sapete, non ci sono mai stato…”

Non ci posso credere…invece..

cepu.jpgQualche volta, anzi spesso, la realtà supera la fantasia. Uno pensa di aver visto già abbastanza, cose che “voi umani…”, invece no. C’è sempre di più nel Regno dei Birboni.

Il vecchio satiro plastificato va in visita all’Università. Possibile? Va in quel tempio di sapienza e merito che sono le nostre benemerite Accademie? Magari in quella Università di S.Raffaele Pisu dove alla figliolina hanno già assicurato una cattedra appena laureata? Magari per portare qualche altro fantastiliardo e garantire, oltre la cattedra, anche le penne e le gomme? Nahhhhh….lui va oltre, sempre. Dove ti va? Alla Sapienza? All’Alma Mater? Al Politecniko? Ingenui! Zuzzurelloni! Lui va al CEPU! Yes, al CEPU! Quello dove hanno bocciato il suo sodale “ditomedio” Bossi (scusate la parolaccia).

Al CEPU! Meraviglia? Siete dei bambinoni! Chi è docente di Storia Contemporanea al CEPU??? Il chiarissimo dott.prof.lup.mann.gran.masc. Marcello Dell’Utri! Lui! Il condannato fresco in Appello a 7 anni per concorso in associazione mafiosa. Docente di storia contemporanea! Del resto chi meglio di un fine intellettuale che ha avuto per maestri figure come l’eroico Mangano, può spiegarci la nostra Storia?

Siamo a vertici inattingibili! “Cose che voi umani…”, altro che  “navi in fiamme al largo dei bastioni di Orione”, quelle sono robe da boyscout. Questa è kultura, altrochè (sfpd).

p.s.

A corollario di questa meraviglia vi ricordo-perchè possiate prenotarne subito una copia-che in autunno, presso l’Editore Bompiani usciranno i (falsi) diari di Mussolini, a cura del medesimo docente CEPU. Sono falsi, bufale, note e stranote. Ma Bompiani pubblica. La responsabile editoriale, tale Elisabetta Sgarbi (sorella dell’urlante capelluto), ha dichiarato: “Non è compito nostro verificarne l’autenticità”. Capito? Come se il Direttore dell’Arcispedale S.Maria Nuova vi dicesse: “il dott. Carciofotti vi opera di appendicite e non è un chirurgo? Non è compito nostro verificarne la laurea..”. Siamo in un paese meraviglioso, o no?

Italo, Alcide e il mito (di Sergio Luzzatto)

Domenica 17 gennaio 1954, un vecchio contadino emiliano entrò nel palazzo del Quirinale per incontrare un vecchio proprietario terriero piemontese che era anche il primo presidente eletto della Repubblica italiana. Il vecchio contadino, Alcide Cervi, portava al petto sette medaglie d’argento, una per ciascuno dei suoi figli caduti nella Resistenza. Il vecchio proprietario e presidente, Luigi Einaudi, teneva a onorare di persona chi aveva pagato un prezzo tanto alto alla liberazione del paese. Poche settimane prima (correva il decimo anniversario della fucilazione dei fratelli Cervi) Einaudi aveva scoperto la figura di Alcide grazie a un articolo pubblicato sulla rivista dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, «Patria indipendente». L’articolo – che sta all’origine di un mito – era stato scritto da Italo Calvino.

Calvino era allora un tipico interprete del “lavoro culturale” svolto per conto del Partito comunista: autore e funzionario della casa editrice Einaudi, fondata vent’anni prima dal figlio del futuro presidente della Repubblica; collaboratore fisso dell’«Unità». Sul giornale di partito Calvino aveva pubblicato, negli ultimi giorni del 1953, un secondo articolo sui Cervi. Per scrivere quei pezzi il trentenne ex partigiano si era recato di persona a Gattatico, nella “bassa” emiliana fra Parma e Reggio. Aveva visitato la fattoria dove i sette fratelli resistenti (e il padre stesso) erano stati catturati dagli uomini di Salò il 25 novembre 1943, un mese prima di essere messi al muro senza processo, per rappresaglia dopo un attentato. Aveva incontrato papà Alcide, «basso e solido e nodoso come un ceppo d’albero»: «il padre scampato al terrore e al dolore», rimasto vedovo subito dopo la morte dei figli. Aveva parlato con almeno una delle vedove dei fratelli, e con la maggiore degli undici orfani, «la ragazza coi capelli rossi che quando i fascisti assediarono la casa aveva nove anni, e adesso ne ha diciannove».

Calvino era rimasto folgorato dalla visita a casa Cervi. Lo si capisce dal tono insieme complice e solenne, familiare e fiabesco, che impronta i suoi articoli del dicembre ’53. Articoli così eloquenti da folgorare – di riflesso – un “padre della patria” che si era imposto all’attenzione dell’opinione pubblica, dopo gli anni della Costituente, come il massimo cantore della Resistenza: il giurista fiorentino Piero Calamandrei. Sulle orme di Calvino, anche Calamandrei aveva visitato casa Cervi. E sulla falsariga degli articoli di Calvino, Calamandrei aveva preparato un discorso in onore di Alcide ch’egli tenne al teatro Eliseo di Roma il 17 gennaio 1954: lo stesso giorno in cui, al Quirinale, il contadino emiliano era stato ricevuto dal presidente piemontese.

Le fondamenta del mito dei fratelli Cervi furono gettate allora, nel mese scarso che separò la pubblicazione degli articoli di Calvino dall’orazione di Calamandrei. Allora prese corpo una sorta di tacita intesa fra il giovane narratore e il maturo giurista, per rappresentare i sette fratelli emiliani come il simbolo uno e plurimo dell’epos resistenziale: eroi degni della voce di Omero, o della penna di Ariosto. Il 12 gennaio 1954, su un cartoncino augurale della casa editrice Einaudi, Calvino si rivolse a Calamandrei come un discepolo al maestro, ma anche come un capostipite all’erede: «Caro professore, le cose che mi scrive sui miei articoli sui Cervi mi fanno molto piacere, soprattutto perché mi sta a cuore che la loro storia sia divulgata e sentita e intesa. Mi dispiace non poterLa sentire, domenica, a Roma. Chissà che cose belle saprà dirne, Lei, che sa ancora parlare di queste cose con parole non logore».

Quanto magnificamente sapesse parlare di queste cose Calamandrei avrebbe dimostrato l’anno successivo, quando celebrò il decimo anniversario della Liberazione raccogliendo in volume i suoi maggiori discorsi e le sue migliori epigrafi di argomento partigiano: Uomini e città della Resistenza valeva da cartaceo monumento ai caduti, e portava al centro il testo dell’orazione romana di Calamandrei. Ma più importanti ancora si rivelarono gli effetti del “lavoro culturale” di Calvino. L’eloquenza dei suoi due articoli sui fratelli Cervi fu infatti tale da spingere i dirigenti nazionali del Pci a lanciare una vera e propria campagna di propaganda, per trasformare i sette figli del cattolicissimo Alcide nella quintessenza del martirologio resistenziale comunista.

Anche il segretario generale del Pci, Palmiro Togliatti, compì (non era la sua prima volta) il pellegrinaggio a Gattatico: incontrò Alcide Cervi il 17 settembre 1954. E la Commissione stampa e propaganda del Pci – dove lavorava un giovane cronista dell’«Unità» che sarebbe divenuto, decenni dopo, un celebre “volto” televisivo: Sandro Curzi – decise di mobilitarsi per allestire un libro di memorie firmato da “papà Cervi”. L’onore toccò a un altro giornalista del quotidiano di partito, Renato Nicolai. Il quale, ricamando ad abundantiam sugli articoli di Calvino, su conversazioni col vecchio Alcide, su interviste con parenti o compaesani, e soprattutto sulle direttive della Commissione stampa e propaganda, produsse per gli Editori Riuniti un volumetto che l’Einaudi rimanda adesso in libreria, corredato da un’introduzione dello storico Luciano Casali. Pubblicato per la prima volta nell’autunno 1955, I miei sette figli fu uno straordinario bestseller. Venne promosso capillarmente presso le sezioni del Pci, fu messo in vendita attraverso un sistema di pagamento rateale, diventò un must nella bibliotechina di ogni buona famiglia comunista. Entro un anno dall’uscita, si calcola che ne fossero state diffuse quasi un milione di copie.

La storia dei fratelli Cervi – aveva detto Calamandrei nel discorso del teatro Eliseo – era talmente meravigliosa da non richiedere alcuna toilette: «Non c’è bisogno di abbellirla. I fatti parlano da sé». In realtà, da Italo Calvino in giù, l’intellighenzia comunista fece di tutto per abbellire una storia certo eroica, ma parecchio complicata. Perché nei due o tre mesi intercorsi fra l’inizio della Resistenza e la loro morte, i sette fratelli Cervi erano stati tutto fuorché altrettante incarnazioni del «rivoluzionario disciplinato», consapevole avanguardia di un «popolo alla macchia». Quando, all’indomani dell’8 settembre 1943, il movimento partigiano si presentava ancora informe, spontaneistico, velleitario, i Cervi si erano dati all’attività di renitenza e di sabotaggio con una convinzione ai limiti dell’incoscienza. Né erano mancate le frizioni fra loro e i dirigenti locali del Partito comunista clandestino, che accusavano i fratelli Cervi di comportarsi da «anarcoidi».

Fu per fare «leggenda» (com’ebbe a dire Calamandrei stesso) che i cantori dell’epos resistenziale trasformarono i fratelli Cervi in icone, quasi in santini. Riconoscendo un massimo di coerenza entro un percorso che era stato, dal cattolicesimo all’antifascismo e dall’antifascismo alla Resistenza, più appassionato che lucido, più coraggioso che accorto. E sottacendo le difficoltà ambientali, gli inciampi militari, l’isolamento politico dei sette fratelli durante la loro breve stagione da partigiani sull’Appennino. Fu per fare leggenda, e fu inoltre per segnalare agli italiani del dopoguerra come la storia della Resistenza nella “bassa” emiliana non fosse affatto riconducibile alla caricatura infamante che andava veicolandone la propaganda anticomunista, tutta impegnata a denunciare i crimini del cosiddetto «triangolo della morte».

Nei dintorni di Reggio Emilia, durante la guerra civile del 1943-45, i partigiani “rossi” erano stati vittime delle belve nazifasciste molto più che carnefici di agnelli innocenti. Era questa la lezione che veniva (e che ancora viene) dalla storia dei fratelli Cervi, fucilati senza processo senza che avessero, loro, mai ucciso nessuno. Era questa la «storia familiare» che per diventare «storia d’Italia» – teorizzò allora Calvino – aveva bisogno di farsi mito.

Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2010

Sergio Luzzatto insegna Storia Moderna all’Università di Torino

Martedì 27 a Campagnola

Festa del PD a Campagnola Emilia

Martedì 27 luglio, ore 21
serata ANPI con la presentazione del libro “Il primo giorno d’Inverno”  di Massimo  Storchi e Italo Rovali con la presenza della sezione Anpi di Campagnola.

programma della festa: http://www.partitodemocratico.re.it/site/pdre_webprofessional_it/progfeste/Campagnola_programma_politico.pdf

Grande Massimo! (D’Azeglio)

D'azeglio.jpg“L’Italia da circa mezzo secolo s’agita, si travaglia per divenire un sol popolo e farsi nazione. Ha riacquistato il suo territorio in gran parte. La lotta collo straniero è portata a buon porto, ma non è questa la difficoltà maggiore. La maggiore, la vera, quella che mantiene tutto incerto, tutto in forse, è la lotta interna. I più pericolosi nemici d’Italia non sono gli Austriaci, sono gl’Italiani. E perchè?

Per la ragione che gli Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico il loro retaggio; perchè pensano di riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro, perchè l’Italia, come tutti i popoli, non potrà divenire nazione, non potrà essere ordinata, ben amministrata, forte così con lo straniero, come contro i settari dell’interno, libera e di propria ragione, finchè grandi e piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere, e non lo faccia bene, od almeno il meglio che può. Ma a fare il proprio dovere, il più delle volte fastidioso, volgare, ignorato, ci vuol forza di volontà e persuasione che il dovere si deve adempiere non perchè diverte o frutta, ma perchè è dovere; e questa forza di volontà, questa persuasione, è quella preziosa dote che con un solo vocabolo si chiama carattere, onde, per dirla in una parola sola, il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gli Italiani.”

Massimo D’Azeglio, I miei ricordi, Torino 1949, pag.38.

Stasera a Reggio

Primo_Giorno_inverno_fronte_72-319x479.jpgMartedì 20 luglio 2010 ore 21.15
Antica Caffetteria TROPICAL
Piazza Del Monte 5 – Reggio Emilia
tel. 0522 436048

Per il quarto appuntamento di ”Un letterale assaggio reggiano”  
Scrittori che presentano libri e… libri che presentano scrittori
2° edizione | Reggio Emilia, 8-29 luglio 2010
<http://unletteraleassaggioreggiano.blogspot.com/>

Presentazione del libro
Il primo giorno d’inverno
Cervarolo, 20 marzo 1944 – una strage nazifascista dimenticata
Aliberti editore, Reggio Emilia 2010
con ospiti
Massimo Storchi e Italo Rovali
autori del libro

Direttore Artistico e conduttore degli incontri: Damiano Pignedoli

L’ultimo colpo alla memoria: Via Tasso a rischio per 50mila euro

di Lucina Cimino

C’è una piccola strada il cui solo nome, nella Capitale occupata dai nazisti, a pronunciarlo alle donne di Roma (madri, mogli, sorelle, che aspettavano con il cambio in mano sotto le finestre murate pregando che fosse loro restituito) metteva i brividi. Perché al numero 145 di via Tasso si trovava il carcere delle SS di Herbert Kappler. Oggi in quella via che porta dritta alla Basilica di San Giovanni, si respira di nuovo un’aria oscurantista, perché il Museo della Liberazione che è sorto all’interno di quelle stesse mura dagli anni 50 è a rischio chiusura, con tutto il suo patrimonio di memoria.

Hanno attraversato quel portone 2500 persone in 9 mesi, tra il ’43 e il ‘44. I cosiddetti prigionieri politici: comunisti, sindacalisti, badogliani. Interrogati violentemente fino alla tortura e rimandati nelle strette celle sanguinanti e piegati dal dolori affinché i compagni di sventura potessero vederli e fossero loro di monito. Tra quelle mura sono stati detenuti l’ex-presidente della Corte Costituzionale Giuliano Vassalli, il sindacalista Bruno Buozzi, l’italianista Carlo Salinari, il sacerdote don Pietro Pappagallo (che ispirò a Roberto Rossellini il personaggio interpretato da Aldo Fabrizi nel film “Roma Città Aperta”), il colonnello Giuseppe Montezemolo e tanti altri sconosciuti partigiani e cittadini, tra cui oltre 300 donne, che hanno lasciato sulle pareti delle celle i segni graffiati della loro resistenza: avvertimenti, firme, messaggi di incoraggiamento per i compagni, notizie ai famigliari.

Dal 1955 i locali di via Tasso sono diventati il “Museo Storico della Liberazione”, visitato ogni giorno da decine di scolaresche. Alle pareti documenti e profili dei caduti per la libertà. Ora però tutto questo corposo patrimonio di memoria, che ricorda che Roma è una città antifascista, capitale di uno stato la cui Costituzione si fonda sui valori scaturiti dalla Resistenza, ebbene tutto questo rischia di chiudere. «Il Museo compariva fin nei primi comunicati ufficiali ministeriali sui tagli finanziari – dice Antonio Parisella, presidente – anche se ancora non c’è arrivata nessuna comunicazione al riguardo». La situazione è grave e Parisella la sintetizza così: «Se il governo ci taglia i fondi, c’è il rischio che dopo la chiusura estiva non riapriamo, se non ce li taglia, riusciremo ad andare avanti fino a febbraio o marzo».

Il museo si regge su un finanziamento statale del valore nominale di 100 milioni di lire del 2000, e cioè 50 mila euro, che, in base ad una legge del ‘57 dovrebbero garantire il funzionamento dell’istituto, che, è bene ricordarlo, si basa sul lavoro volontario. E nel frattempo il potere d’acquisto si è dimezzato e le spese sono cresciute perché sono stati acquisiti altri due appartamenti dello stabile e perché i visitatori sono aumentati nell’ultimo decennio da 7/8 mila a 12/13 mila unità. Inutile in questo contesto aspettarsi installazioni multimediali o finanche revisione dell’impianto elettrico. «Abbiamo un impianto audio-video obsoleto, i muri andrebbero ritinteggiati, non possiamo aumentare le ore di apertura d’inverno per non far lievitare i costi di energia elettrica, i volantini li autoproduciamo con le fotocopie, abbiamo esigenza di produrre materiali informativi in lingua straniera: siamo sulle guide ma poi i turisti vengono qui e hanno pochi strumenti per la visita».

Tutto è fermo all’allestimento del ‘55, basato sul modello “sacrario militare”. «Vorremmo togliere i quadretti e mettere i pc – continua Parisella – senza togliere nulla al valore etico e civile del posto, ma ci vuole una scelta politica di investire sul Museo, non solo centrale ma anche delle amministrazioni locali per adeguarlo agli standard degli analoghi delle capitali europee». Già, gli enti locali. Il presidente del museo ha scritto a maggio una lettera indirizzata al sindaco Gianni Alemanno, al presidente della Provincia di Roma, Zingaretti e a Renata Polverini, presidente della Regione Lazio e ad Andrea Mondello, presidente della Camera di commercio. Chiedeva loro di accordarsi per integrare il contributo statale per garantire la gestione ordinaria dei servizi e di chiedere alle società partecipate di quegli enti che invece contribuissero per le spese straordinarie (come le audio guide, adesso a far da guida alle scolaresche ci pensano insegnanti in pensione). Finora nessuna risposta ufficiale, solo qualche disponibilità espressa oralmente.

«La Cgil il 25 aprile ci ha inviato 500 euro e anche associazioni, gruppi, circoli Anpi ogni tanto ci fanno giungere contributi significativi, anche se modesti. Ma per andare avanti abbiamo bisogno di un flusso abbastanza continuo anche dei contributi di cittadini e società civile: lo sviluppo sarà in mano loro». Per questo hanno lanciato un appello su Facebook: «La solidarietà è tantissima, ma i versamenti finora sono pochi, anche se per creare – dice ancora Parisella – un atteggiamento di disponibilità a partecipare al finanziamento del Museo serve un po’ di tempo». Museo che, tra l’altro, è stato vittima di un attentato dinamitardo di stampo antisemita nel 99 ed è spesso oggetto di scritte naziste, le ultime il 27 gennaio 2010, «vederlo chiuso farebbe piacere a molti».

L’Unità, 20.7.2010

Come in Italia…

germany.gifIn Germania, in occasione dei recenti Campionati del mondo di calcio, prima di ogni partita (tutte trasmesse in chiaro) andava in onda questo spot: http://www.youtube.com/watch?v=gBzJWF8-E74

Per i non germanofoni la voce fuori campo chiede: “Cos’hanno in comune tutte queste persone?” e la risposta è “I loro figli giocano nella nazionale di calcio della Germania”. Inno e fine. Viva.

In Itaglia, nel paese dei Birboni, cosa potevamo mandare in onda prima delle (poche) partite fatte vedere? Calderoli e borghezio (scusate la parolaccia) che berciavano su Balotelli negro di…? Al massimo le chiappe di Belen Rodriguez che tanto non fanno mai male…