Guerra, guerre. Ancora sul terrorismo..

Continua il dibattito su questo blog con un nuovo intervento dell’amico Gianni:

Caro Massimo, permettimi di rientrare nel merito.
Ci sono due aspetti del tuo commento che mi mettono in disaccordo con te.
Il primo è la condanna tout court a Gallinari e al brigatismo in forma di anatema che non risparmia neanche la dignità della persona.
Il secondo è la distorsione della storia resistenziale.
Procedo per ordine.
La fantasia che ho voluto usare ipotizzando Gallinari alle prese con la lotta al nazifascismo serve per inquadrare la sua buona fede e l’abnegazione alla causa che lo muoveva, ma anche per rimarcare la tragicità dei suoi errori nell’aver abbracciato invece cause sbagliate.
Seppur i brigatisti reggiani si sentissero continuatori di una lotta resistenziale, ciò non fu perché quella lotta finì, pur con tutti i suoi strascichi e malumori, nel 45 con l’adesione alla dialettica del sistema democratico.
Per quanto marcio possa essere un sistema democratico (basta pensare all’oggi) è sempre un sistema da preferire rispetto a modelli che privano la libertà individuale; inoltre al suo interno contiene la possibilità di rivoluzionare le cose con gli stessi strumenti della democrazia.
Il risultato di quegli anni di lotta armata è devastante in tutti i suoi aspetti umani e politici, ed oggi ne continuiamo a pagare le conseguenze con una Italia ed una sinistra spostate a destra.
Il dramma quindi è un dramma politico.
Il secondo aspetto riguarda il tentativo di qualificare come criminali senza dignità Gallinari ed i brigatisti come lui, attraverso l’esercizio della retorica della “non violenza” e con paragoni falsificati con le lotte resistenziali.
E’ verissimo che molti fatti compiuti fossero disumani, quelli da te citati e altri.
Ma è sbagliato il teorema che li vuole criminali perché “…uccidere a sangue freddo persone, in nome di una qualunque ideologia, quello è e resta”, sottraendo al medesimo giudizio la lotta armata della Resistenza ed avvertendo che ogni paragone sarà trattato come oltraggio alla memoria.
La Masini che ha solo responsabilità politiche può permettersi di imbracciare il bastone e mettere tutti in riga dalle colonne del Carlino di ieri, semplificando il paragone delle due lotte armate attraverso la elevazione di quella resistenziale a insurrezione di popolo.
Tu no, per il tuo lavoro scientifico di storico specializzato nel periodo resistenziale che conosce bene i fatti ed ha scritto libri come “Combattere si può vincere bisogna. La scelta della violenza fra Resistenza e dopoguerra. Reggio Emilia 1943-1945”.
In esso tu descrivi con precisione come in un primo tempo c’era chi era contrario ad imbracciare la lotta armata e chi invece voleva un salto di qualità dell’antifascismo proprio attraverso l’innesco della violenza.
Tu ben descrivi le difficoltà che incontrarono i dirigenti comunisti locali nel trovare le persone che andassero a colpire a sangue freddo, e quando ciò iniziò il primo caso successe davanti agli occhi della figlia della vittima. Per non parlare poi delle esecuzioni fra le proprie fila, come testimoniato da libri quali “Il Commissario” di Osvaldo Poppi, o dalle vicende riguardanti il comandante Facio.
Inoltre per lunghi mesi la Resistenza non fu insurrezione popolare ma cospirazione. Fu una opzione alternativa e un riparo per i giovani che volevano sottrarsi all’arruolamento forzato e per i militari allo sbando.
Ma fu anche gesto eclatante di “sicariaggio” ad opera di persone inquadrate nei GAP, corpi “scelti” della Resistenza, che rimandano ai corpi speciali di un esercito.
Non possiamo trasformare e sterilizzare la storia cruda e reale in una favola retorica, quanto meno non lo puoi fare tu.
Se vuoi puoi giudicare e condannare fatti, mezzi e persone, se credi puoi dividere la Resistenza in buona e cattiva, ma non puoi trasfigurare le cose ad uso di una propaganda moralizzante e normalizzatrice.
Io Massimo non ti so dire se il fine viene o meno qualificato dal mezzo, se l’uccisione a freddo di uomini simbolo sia un assassinio o un atto di guerra.
Però so che se i partigiani avessero perso, il potere che si sarebbe consolidato non gli avrebbe dato l’onore delle armi considerandoli combattenti di un esercito (già erano chiamati terroristi nella RSI) e sarebbe stato loro negato ogni valore di scopo per il quale combattevano, relegandoli a criminali sanguinari.
Questo perché il giudizio del potere non è necessariamente la verità e non è neanche il giudizio della storia, ma può essere invece la propaganda di chi ha vinto.

Prospero Gallinari ha perso la guerra che ha combattuto, ha ammesso di aver perso e ciò forse ha significato per lui aver capito l’errore tragico di averla intrapresa. Non ha abiurato scegliendo così la strada scomoda del non cercar sconti dal sistema che ha combattuto. Ha evitato di render pubblico il suo travaglio interiore e nulla ha fatto per scagionarsi dall’accusa più infamante di essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio Moro.
Non ha cercato attenuanti nell’opinione pubblica attraverso il pietismo. Forse perché le contraddizioni erano troppo devastanti da dirimere o forse perché ha così rivendicato il suo ruolo di combattente.
Tutto ciò non fa di lui un eroe, ma suscita rispetto anche nei suoi nemici, nonostante l’enormità dei suoi errori.
Gallinari ha riconosciuto nel nemico Cossiga che li ha combattuti, l’unico che riconoscesse loro l’onore delle armi e, proprio perché consapevole e determinato antagonista, anche l’unico che poi operò per chiudere la guerra degli anni di piombo con la liberazione dei detenuti, al pari dell’amnistia di Togliatti dopo la Liberazione.
Oggi, alla distanza di tanti anni dai fatti e dall’epilogo voluto da Cossiga, quale senso ha combattere e denigrare l’uomo Gallinari dopo aver combattuto e vinto il Gallinari politico e militare?
E’ solo un eccesso di preoccupazione democratica o la polemica è utile per aprire una nuova ulteriore fase di revisione storica?
Verso il brigatismo o verso la Resistenza? O verso una parte di quest’ultima?

In quest’epoca maleodorante evitiamo di offrire ai giovani polpette sterilizzanti, volte a innestar loro una morale di plastica ed il controllo delle loro emozioni; parlando di brigatismo spieghiamo loro il valore ed il primato della democrazia.

Caro Gianni,

ti ringrazio per il tuo contributo a discutere questioni che mi sembrano rilevanti nella costruzione di una comune consapevolezza civile. Non condividiamo le stesse idee ma è questo un altro fattore costruttivo, finchè c’è possibilità di discussione, intelligente e aperta.

Vengo alle questioni che continuano a dividerci. Certo la mia condanna al terrorismo è una condanna che lascia ben poco ai se e ai ma: come storico e come testimone degli eventi, posso approfondire quei fatti, leggerne le meccaniche, auspicare una totale disponibilità di fonti ma tutto questo non muta il giudizio su quel periodo. Un giudizio che coinvolge, logicamente, quanti di quel fenomeno politico-criminoso furono attori. Io non pratico, come dici, la retorica della non violenza, credo che la violenza sia nella storia umana un motore importante e spesso sia stata “levatrice della storia”, ma ogni violenza deve essere inserita nel contesto che l’ha prodotta e vincolata ai valori che la motivano. Uccidere, in tempo di pace persone inermi, per il senso che un’ideologia attribuisce loro, è un crimine e chi lo pratica è un “criminale”. E non credo che simili persone meritino nessun onore. Nelle mie considerazioni non ho mai parlato del caso specifico che ha animato le cronache di questi giorni, pietà per i morti ma nessun endorsement con quanto sono stati da vivi. In tutti questi anni mi ha sempre irritato vedere personaggi condannati per crimini di sangue apparire in tv a dire, spiegare, rilasciare interviste, come reduci di chissà quale meravigliosa avventura. Sono legalista: una volta scontata la pena il reo torna ad essere un cittadino, con tutti i diritti di “rifarsi una vita”. Un cittadino, non un maestro, un opinion maker. Tutti i protagonisti hanno scritto il loro libro (alcuni anche più di uno). Bene, bravi, grazie. Bastava quello. La mancanza di dignità sono stati loro a dimostrarla nel continuare ad apparire, a mostrarsi, a rivendicare. Questo da vivi. Ora che sono morti valga il classico “e il resto è silenzio”.

Vengo alla seconda questione, il nesso violenza-terrorismo-resistenza. Se qualcuno non ha capito quello che ho scritto chiedo scusa: non mi sono evidentemente spiegato bene. Citare un mio testo per equiparare resistenza-terrorismo, significa che quanto scritto è da buttare. Ma parto da un aneddoto: negli anni sessanta Giorgio Bocca richiese, per motivi di lavoro, il passaporto. Dopo qualche giorno giunse la chiamata dalla Questura di un funzionario che conosceva il giornalista che gli annunciava il rifiuto alla concessione del documento. Stupito, Bocca chiese perché. Il funzionario spiegò che la causa era l’informativa di un maresciallo dei carabineri di un paese delle montagna piemontese che riferiva che “il sunnominato Bocca Giorgio è stato visto aggirarsi armato per questa valle, insieme ad altre persone parimenti armate”.

“Sì, ero io-sbottò Bocca-ma era il 1944, eravamo partigiani…”.

Se nei miei saggi non sono riuscito a spiegare l’elemento-tempo, devo riconoscere che sono un storico mediocre e che è meglio (come forse farò) che cambi mestiere e mi dedichi al tombolo o al dècoupage. Il tempo è il fattore decisivo negli atti delle persone. Sparare a un fascista (armato o no) il 30 aprile 1945 nell’Italia del nord era un’azione militare e politica, sparare allo stesso fascista (armato o no) il 3 maggio 1945 era un omicidio. Perché il 2 maggio 1945 alle ore 12 in Italia finisce la guerra. Guerra. War. Krieg. Questa è la parola che da un senso o un altro allo stesso gesto. Guerra, e la regola da sempre è che vince chi ne uccide uno più dell’altro. Non esiste (per favore non dirlo a me!) una Resistenza buona e una cattiva, esiste una lotta armata in tempo di guerra, agita da uomini (i migliori come i peggiori). Ma era guerra. Seconda guerra mondiale. Non la guerra contro le multinazionali e il capitalismo decisa a tavolino da quattro strateghi che volevano cambiare il mondo. Sono stati sconfitti, e per fortuna! E sono stati sconfitti anche per l’impegno, per il no deciso, di operai ed ex partigiani, sono stati sconfitti dallo Stato ma anche dall’essere avanguardia del nulla.

Sconfitti ma quanti innocenti hanno pagato per niente? Caro Gianni, nel 1978 avevo 23 anni, ricordo il giorno di via Fani come fosse oggi, ma ricordo anche l’ubriacatura di ideologia, i volantini fumosi e incomprensibili, le assemblee deliranti, la violenza legalizzata sempre contro inermi, lo strizzare d’occhi di tanti a quei “compagni che sbagliavano”. Non c’era nessuna guerra, c’era un paese con i suoi problemi, in un contesto internazionale complicato e bloccato (che oggi quasi rimpiangiamo). C’erano tante cose in quegli anni, anche belle: entusiasmo, voglia di fare, sentimenti. Tutto spazzato via da quel delirio ideologico al quale ha risposto la durezza inevitabile dello Stato. Cossiga è la logica interfaccia di Gallinari e non mi ha stupito il suo atteggiamento.

Vedere riaffiorare oggi quelle facce, quelle parole, quei gesti mi provoca un misto fra pena e inquietudine.

Nessuna guerra e quindi nessun “militare” contro cui accanirsi oggi. Gli “sconfitti” hanno avuto anni da vivere che altri, per causa loro, non hanno potuto avere. Personalmente avrei preferito da loro un altro atteggiamento, un altro “stile”, ma da persone con la loro vicenda e personalità forse era chiedere troppo.

 

Destra e sinistra esistono ancora (A.Giddens)

da: La Repubblica, 15.1.2013

Palazzo_magnani,_giano_bifronte.jpgDestra e sinistra sarebbero concetti superati, obsoleti, privi di senso, come qualcuno ora sostiene nella campagna elettorale italiana? Non sono d’accordo. Norberto Bobbio diceva che il significato di destra e sinistra cambia continuamente, e non c’è dubbio che oggi entrambi i termini significano qualcosa di diverso rispetto al passato. Ciononostante restano due concetti politici profondamente differenti e continuano ad avere un valore specifico anche nell’odierno mondo globalizzato.

La destra tradizionale di oggi in Europa e in generale in Occidente crede nel libero mercato, in uno stato poco invasivo e contenuto, in un conservatorismo sociale nella sfera privata. La sinistra crede in un governo attivo più che nello statalismo, in una maggiore regolamentazione del mercato, nel liberalismo sociale. Le differenze tra i due schieramenti sono ben visibili, sebbene non siano più così nette come un tempo. A sinistra non c’è più l’utopia socialista. A destra possono esserci aperture in campo sociale, come dimostra David Cameron in Gran Bretagna schierandosi a favore del matrimonio gay, peraltro con forte opposizione e disagio tra molti membri del suo stesso partito.
Inoltre oggi ci sono questioni, come quella dell’ambiente, che non sono più “di destra” o “di sinistra” sulla base dei vecchi parametri: il cambiamento climatico è un problema grave, urgente e profondo, che travalica ogni schieramento ideologico, perlomeno se guardato senza paraocchi.

In parte è vero quel che Tony Blair ha scritto nella sua autobiografia politica, dopo avere lasciato Downing Street: oggi vi sono forze che si distinguono per la propria “apertura” nei confronti della società e altre che si distinguono per una contrapposta “chiusura”. Due diverse mentalità, due modi di affrontare la realtà: apertura verso l’immigrazione, le nuove tecnologie, i cambiamenti sociali, in contrasto con chi preferirebbe chiudere le frontiere, respingere le innovazioni, mantenere lo status quo.
Ma questo contrasto non basta a definire la lotta politica. Rappresenta un programma e una visione troppo limitati. Ed è portatore di frequenti contraddizioni: vi sono partiti apertissimi quando si tratta di discutere di libero mercato, che vorrebbero privo di qualsiasi regola o laccio, e poi chiusissimi sul tema dell’immigrazione, senza comprendere che quest’ultima è una componente essenziale del liberalismo e che non può esserci un mercato “aperto” con una chiusura delle frontiere agli immigrati.
La discussione sul presunto superamento di concetti come “destra” e “sinistra” ha inoltre un difetto di fondo: induce a credere che, nel mondo di oggi, ci sia bisogno di meno politica di quello di una volta, ossia di meno ideologia, meno partiti, meno governo, come se tutto dipendesse dall’essere disponibili o contrari al cambiamento, inteso come generale progresso dell’umanità. Al contrario, ritengo invece che oggi ci sia bisogno di più politica di prima, perché i problemi globali, dalla drammatica crisi economico-finanziaria all’effetto serra, dimostrano che solo un intervento collettivo, programmatico, di sana governance internazionale, può mettere il nostro pianeta sulla strada giusta.

Una migliore definizione del confronto politico odierno verterebbe allora su un termine diventato assai popo-lare, seppure utilizzato spesso a sproposito: reformer.
Oggi tutti o perlomeno tanti si autodefiniscono così. Ma chi è, cos’è, un vero riformatore o riformista? In Europa è colui che comprende la profondità della crisi che stiamo attraversando e si rende conto delle risposte radicali che sono necessarie per superarla. Oggi tutti i Paesi industrializzati sono fortemente indebitati.
Tutti, chi più chi meno, hanno perso competitività sui mercati. Finora sono state indicate e discusse due vie d’uscita da questa situazione: incoraggiare la crescita economica con investimenti pubblici, oppure puntare sul rigore, sui tagli alla spesa pubblica, sugli aumenti delle tasse, in una parola sull’austerità. Ma riproporre l’alternativa tra il metodo keynesiano e il monetarismo potrebbe non bastare più. Certo, i tagli sono in qualche misura necessari. A mio parere, tuttavia, sono come le medicine: se non le prendi, ti ammali, ma se ne prendi troppe fai un’overdose e rischi di stare ancora peggio.

E allora che fare? Ciò che un autentico riformatore europeo dovrebbe porsi come obiettivo è una ripresa sostenibile. Una ripresa in grado di preservare un welfare state che richiede sicuramente tagli e accorgimenti per fare i conti con un nuovo scenario demografico e sociale; ma che al tempo stesso non indirizzi i principali benefici della crescita sullo 0,1 per cento della popolazione, sulle fasce più alte di reddito.
Una ripresa sostenibile significa un modello economico che eviti di distruggere l’ambiente e la classe media: non credo che l’Occidente uscirà dalla crisi e diventerà più competitivo semplicemente vendendo sempre più automobili alla Cina, fino a quando i cinesi ne avranno tante quanto noi, o di più. Né continuando a indebitarsi, per poi aspettarsi che siano i giovani d’oggi, molti dei quali sono disoccupati, a pagare i nostri debiti quando saranno diventati adulti: sia i debiti in campo economico che quelli in campo ambientale.
Come realizzare un’impresa così immane e complessa? Io continuo a credere che sia possibile, attraverso un genuino riformismo di sinistra. Lo stesso spirito di quella Terza Via a cui ho dedicato una parte dei miei studi teorici, il cui primo artefice non è stato in realtà Blair, come si è talvolta indotti a credere, ma piuttosto Bill Clinton e il partito democratico negli Stati Uniti. Dunque un progressismo capace di conquistare consensi al centro, comprendendo le legittime preoccupazioni dei ceti medi su questioni come sicurezza, tasse e immigrazione, ma senza rinunciare alle aspirazioni di una società più giusta e più egualitaria, rese ancora più impellenti oggi dalle conseguenze del crack finanziario e dalle minacce del cambiamento climatico.
La Terza Via va perciò adeguata ai problemi del ventunesimo secolo, ma anche alle nuove opportunità che il secolo appena cominciato lascia intravedere, non ultima quella di una nuova rivoluzione industriale e tecnologica, che sarà necessaria perché nessun Paese potrà veramente risollevarsi dalla crisi se non produce più niente. Tra queste opportunità vi sono quelle che può cogliere l’Europa: secondo vari studiosi la nostra Unione, oggi afflitta da lacerazioni e difficoltà, ha il potenziale per uscire da questo periodo non solo rinsaldata e rinvigorita, ma perfino più forte degli Stati Uniti. È uno scenario che richiede ottimismo, ma è uno scenario possibile: a patto di usare più politica, non meno politica. E di credere che “destra” e “sinistra” vogliano ancora dire qualcosa.

Ma chi è, cos’è, un vero riformatore o riformista? In Europa è colui che comprende la profondità della crisi che stiamo attraversando e si rende conto delle risposte radicali che sono necessarie per superarla.” Questo mi sembra un punto decisivo, la necessità di risposte radicali a una crisi che non è occasionale ma sistemica. Riformare significa-letteralmente-dare nuova forma (e sostanza) a qualcosa che prima esisteva e che dopo sarà diverso. Riformare significa spezzare equilibri, privilegi, steccati, abitudini. Dopo una riforma le cose sono diverse, migliori nelle intenzioni, ma comunque diverse. Allora, pur accettando la classificazione di Giddens in destra/sinistra, introdurrei una ulteriore coppia di valori: conservazione/innovazione. Lo spettacolo che in questi anni la sinistra ha dato è stato spesso quello di un  (pur nobile) conservatorismo, che si chiamasse “difesa dei diritti acquisiti”, “difesa di principi”, “difesa della professionalità..”. Difesa, sempre difesa. Le conquiste non vanno difese, vanno fatte crescere verso nuove conquiste. Arroccarsi sulle conquiste di altri anni ed epoche è tattica perdente. La crisi richiede risposte radicali, sottolinea Giddens, ma non ci sembra ci siano vie di uscita alla situazione di un paese in cui nulla funziona e in cui nulla può essere cambiato. Un paese inchiodato dagli Ordini professionali, dalle lobby (dai taxisti ai farmacisti, perchè non i tassidermisti?), dalle cordate, dagli apparati, dalle famiglie estese a intere città. Muri questi contro cui la sinistra anzichè lottare duramente ha finito troppo spesso per adattarsi come il polpo sullo scoglio.

Soluzioni radicali. Vere riforme quindi. E come? Perchè le vere riforme non si fanno a somma zero. C’è chi guadagna e chi perde. La questione è che la preoccupazione che sia la maggioranza a guadagnare non sembra un elemento decisivo, visto che sono le minoranze attive a decidere. E sono le minoranze ad intessere la rete di legami e clientele che divora il paese, perchè la corruzione, come l’inefficienza, non sono accidenti, sono parte fondamentale di un sistema che mantiene, foraggia, centinaia di migliaia di persone, le loro famiglie, i loro figlioletti, suocere incluse. Il paese non è migliore di chi lo amministra, basta pensare a quella che era la Regione leader, quella più “moderna” , sede della “capitale morale”: Lombardia/Milano. Dopo il saccheggio operato in questi venti anni dal connubio politica/affarismo/religione sintetizzato dalla santa alleanza PdL/Lega/CL, con drammatici legami con la criminalità organizzata, come si potrebbe pensare che il consenso elettorale possa sostenere ancora simili gaglioffi? Eppure…Perchè la corruzione, lo sperpero servono, creano posti di lavoro, elargiscono risorse, costruiscono legami. Un sistema di potere che si alimenta nel pubblico e distribuisce nel privato. Riforme? Jamais! Di fronte a questo paese conta ancora la categorizzazione destra/sinistra ma che capacità esiste nella sinistra di cessare di essere conservativa e diventare davvero riformista? Ma con durezza, senza timore. Nei programmi elettorali non c’è (quasi) nulla. Ma volendo essere ottimisti, in campagna elettorale, si sa, si scherza…

Il mezzo qualifica il fine

Ritorno ancora sulla riflessione sul terrorismo, riproposto dalle vicende degli ultimi giorni. L’amico Gianni così ha commentato il pezzo di B.Tobagi “Il carceriere di Moro trasformato in eroe” di pochi giorni fa:

Credo che il valore di quest’articolo stia nella frase
“La retorica del “dovere” e del “valore” della memoria è vacua, se prescinde da una riflessione che riconosca l’esistenza di letture del passato e della società profondamente divergenti (laddove riconoscere, ovviamente, non è giustificare), s’interroghi sulle motivazioni dei conflitti,…”
e di conseguenza nella firma di un figlio di vittima del terrorismo.
Altrimenti sarebbe un articoletto.
Così invece è proprio l’articolo ad uscire da beceri visioni di parte ed elevarsi nella più aperta delle considerazioni che fanno della storia un intreccio di protagonisti che comunque la storia ufficiale solitamente semplifica.

Personalmente non mi è capitato di ascoltare mitizzazioni su Gallinari al di là di quelle che leggo qui.
Ha fatto scelte, sicuramente perdenti e comunque sbagliate col senno del poi, visto la reazione a destra che ha avuto il paese.
Lui ne ha preso atto senza abiurare ma solo dichiarandosi sconfitto.
Ha cercato di mantenere una coerenza difficile perché in questi casi la si paga sulla propria persona, altri han fatto come lui, tanti invece han scelto percorsi più accomodanti. Ciò non fa di lui un eroe, ma sicuramente raccoglie il rispetto anche dei suoi nemici.
In questo blog ha senso fare anche un’altra considerazione di fantasia: se avesse vissuto nell’epoca della Resistenza sarebbe stato un Sintoni, un Toscanino, un Eros o in chiave più operativa un Robinson. Come loro, finito la guerra, non avrebbe fatto carriera, lasciando posto ai Sacchetti.
Invece è vissuto in un altro tempo e la storia ci dice che ha sbagliato, tragicamente per lui, per le vittime e per il paese.
Ma poi ne ha preso atto.

Il mezzo qualifica il fine, come ci ricorda Todorov, e parlando di terrorismo e anni di piombo l’osservazione mi sembra estremamente opportuna. Non si parla solo e soltanto di politica ma di uomini, di innocenti assassinati, di dolore sparso in nome di una ideologia che, proprio per i mezzi usati, ha dimostrato tutta la sua follia e potenziale criminogeno.

In questi giorni sono rimasto gelato nel ri-vedere interviste di brigatisti in cui si parlava di omicidi a sangue freddo descritti freddamente come “attacchi”. Attacco all’avv. Croce, 76 anni, partigiano, presidente dell’Ordine degli avvocati, freddato nell’androne di casa sua per aver voluto fare il proprio dovere fornendo-come previsto dalla legge- avvocati di ufficio agli imputati al processo contro le BR. Attacco? Sparare 3 colpi di pistola a una persona indifesa? Attacco? Catturare e uccidere a sangue freddo Roberto, il fratello di Patrizio Peci, per punirlo in via trasversale per il suo pentimento? Attacco uccidere Carlo Casalegno e Walter Tobagi? Eroico sparare a una persona indifesa?

Mantenere la propria coerenza. Bene, ma aggiungiamo l’aggettivo indispensabile: coerenza criminale, perché uccidere a sangue freddo persone, in nome di una qualunque ideologia, quello è e resta. Azione criminale. Poi la pietà ai morti copre tutto, come è giusto. Ma come ripetiamo da anni nel caso degli uccisi della guerra e dopoguerra: tutti i morti sono uguali, ma i vivi non sono stati tutti uguali e mi sembra moralmente inaccettabile mettere insieme Casalegno e Tobagi e i loro assassini. Per motivi etici e per rispetto della memoria storica.

Il parallelo Resistenza-terrorismo ha goduto purtroppo di buona fama e stampa, ma credo sia uno dei peggiori anacronismi mai concepiti sotto l’italico cielo. La Resistenza nacque e sviluppò in una situazione, oggettiva, di guerra aperta (si parla della Seconda Guerra Mondiale). Gli antifascisti prima dell’8 settembre per 20 anni presero bastonate e carcere (e peggio) ma non spararono mai un colpo di pistola. La violenza la portò Salò, fu la RSI a scatenare la guerra civile, i partigiani scelsero la violenza (subendone tutte le conseguenze) come mezzo inevitabile in una situazione di occupazione straniera e collaborazionismo fascista.

Negli anni 70 non c’era nessuna guerra, nessuna occupazione, nessun collaborazionista, se non nel delirio ideologico di chi dichiarò guerra allo Stato, di chi, nel chiuso di qualche stanza, per troppe e cattive letture o per troppa ignoranza e fanatismo, decise che era ora di fare la “rivoluzione”, imponendo una stagione di assassini e sofferenza a civili, alle loro famiglie e atutto il paese. Non sbagliarono con il senno di poi. Sbagliarono e basta. I partigiani fecero la scelta giusta, non con il senno di poi, ma con il senso profondo di quella scelta, fatta allora. Quindi nessun parallelo è possibile fra brigatisti e partigiani, salvo insultarne  la memoria e stravolgere il senso della loro scelta che ci ha portato alla democrazia.

Immaginando un assurdo “what if” domandiamoci cosa sarebbe accaduto se avessero vinto le BR: possiamo pensare ad una Italia divenuta “socialista” come uno qualunque dei disgraziati paesi dell’est e governata da una classe dirigente espressa dalle fila dei “coerenti” combattenti delle BR? La risposta è già nella domanda.

Il carceriere di Moro trasformato in eroe (B.Tobagi)

 

La morte dell’ex Br Gallinari conquista i sommari dei tg: l’agenda mediatica lo consacra come protagonista della storia. In parallelo, fioriscono in rete gli encomi funebri al “compagno Prospero”. Con buona pace delle sofferte riflessioni avviate, ai tempi, da Rossanda sui “compagni che sbagliano”.
Commenti marginali, ma numerosi: “Riposa in pace guerriero”; “Un nome rosso e partigiano”; “Un saluto militante e riconoscente” scrivono i Proletari Comunisti, “onore e gloria”. Dal centro sociale Tempo rosso: “È morto un comunista, come noi contadino nella metropoli”. “Volato via troppo presto” scrive Baruda.net, “spero solo che al tuo funerale ci saranno migliaia di pugni chiusi a salutarti, perché le pagine dei giornali non si riescono a leggere, perché la sola lezione che possiamo dare a questo Stato, come ai nostri figli, è darti un saluto imponente. A pugno chiuso”.

Segue una poesia di Osip Mandel’stam: tragica ironia involontaria, citare un poeta imprigionato nei gulag in memoria di un militante delle Br che sognavano la dittatura del proletariato. Prevedibile che l’ex brigatista Ricciardi commemori “una vita dedicata alla lotta di classe… mettendo in gioco la propria esistenza per raccogliere e rilanciare la spinta rivoluzionaria che proveniva dal cuore stesso della classe operaia” (poco importa se gli operai, tra cui pure vi furono simpatizzanti, presero le distanze in blocco, manifestarono contro il sequestro Moro). Assai meno la ragazza classe 1989 che su Facebook saluta a pugno chiuso il “guerrigliero e compagno rivoluzionario”.

È l’ennesimo sintomo di un più vasto problema di rapporto con il passato. La società dello spettacolo, contraddistinta dall’eterno presente, fa sparire “la conoscenza storica in generale”, scrisse Guy Debord nei suoi Commentari, “e in primo luogo quasi tutte le informazioni e i commenti ragionevoli sul passato più recente”. Da decenni nel discorso pubblico il passato è nuvola confusa di narrazioni, mere propaggini strumentali al presente: ogni gruppo coltiva il proprio, e quando un soggetto è sufficientemente forte in termini mediatici, impone una propria versione dei fatti, conflittuale e alternativa.

Pensate alle rappresentazioni di Mani Pulite; a Craxi, esule/latitante; alle fantasiose versioni della caduta del governo Berlusconi nel novembre 2011. Il senso della storia repubblicano è affidato a un coacervo di “memorie frammentate”, ancor più che “divise”, prodotte da una pluralità di gruppi portatori non solo di memorie, ma di istanze valoriali profondamente diverse nella trasmissione e valutazione degli eventi passati. Tra le enclave più persistenti ci sono proprio le memorie “negate”.

Nella celebrazione della compatta risposta delle masse alla violenza brigatista, dal racconto del terrorismo degli anni Settanta si sono rimossi dati scomodi, per esempio le simpatie raccolte dai brigatisti in tanti mondi diversi, giovani frustrati e anziani rancorosi per la “resistenza tradita”, sottoproletari e intellettuali, e un retaggio di rabbie antiche che sopravvivono e si ripropongono (rinfocolate da vent’anni di berlusconismo e dai sacrifici dell’era Monti). Merita attenzione anche il fatto che molti stigmatizzano come a Gallinari, malato di cuore, furono a lungo negati i permessi e la detenzione domiciliare.

L’omaggio all’ex Br si mescola alla condanna delle “carceri infami”. Questo fa comprendere quanto sia importante che la battaglia per dare condizioni di vita dignitose ai detenuti e avviare un serio percorso politico almeno sulla limitazione, se non proprio sul superamento, della detenzione carceraria in favore di pene alternative, diventi sempre più un patrimonio comune, sulla base del dettato costituzionale e non del “rifiuto del sistema”.

Le memorie sono tante, è fisiologico che sia così. La retorica del “dovere” e del “valore” della memoria è vacua, se prescinde da una riflessione che riconosca l’esistenza di letture del passato e della società profondamente divergenti (laddove riconoscere, ovviamente, non è giustificare), s’interroghi sulle motivazioni dei conflitti, cerchi di persuadere soprattutto chi è più lontano alla condivisione di uno zoccolo duro di evidenze fattuali e di un terreno di valori condivisi. Quando questo percorso manca, non deve stupire che le enclave sopravvivano e orgogliose rivendichino il proprio passato, espellendo i dati di realtà scomodi e tenendo in vita pericolose “leggende nere”.

B.Tobagi

La Repubblica, 15.1.2013

 

Colpa del telegrafista?

p-rubens-battaglia-anghiari.gifAnno nuovo a Fortezza Bastiani. Siamo rimasti silenziosi ben nascosti sui nostri spalti mentre le pallottole fischiavano da tutte le parti, poche munizioni e molti nemici. Situazione poco simpatica. Alte perdite. Onore ai caduti ma abbiamo tenuto la posizione. Ora un po’ di infermeria rimetterà tutto a posto (o quasi).

Quando il fumo e la nebbia si è diradata il panorama apparso non è confortante. Campagna elettorale la chiamano, a me sembra uno di quegli incubi “post cavoletti di Bruxelles a cena”, dove non c’è nessun buono ma tutti urlano, berciano, dicono cose che sarebbero orribili non fossero ridicole et similia.

Qui a Fortezza ormai non arrivano più i quotidiani, i tartari hanno tagliato le vie di rifornimento e ci accontentiamo dei segnali di fumo e dei messaggi in morse che arrivano grazie a specchietti luminosi riflessi al tramonto. Le notizie devono essere state male interpretate dal nostro telegrafista (come fargliene una colpa? Negli ultimi assalti ha perso una gamba, il piede dell’altra, 7 dita delle mani su dieci, l’ascella destra e un molare) perché il foglio-notizie che ci ha presentato riporta queste informazioni:

1. Il generale Aureliano Buendia di Gallipoli (quello che fece 66 rivoluzioni e le perse tutte) si candida a Ministro degli Esteri, aveva dichiarato di abbandonare la caserma dove prestava servizio dai tempi dell’Urss e vuole rientrare allo Stato Maggiore? Impossibile.

2. Il vecchio porco plastificato gira per tutte le tivu del Regno ad ogni ora e i sondaggi lo danno in risalita. Fantascienza.

3. L’ex comico di Genova ha detto che i voti di Casapound sono voti come gli altri, tanto quel conta sono i “progetti”. Ridicolo.

4. Sarebbe nato un movimento di “moderati in rivoluzione”, guidato da un tale milionario non si sa come. Come se fosse nata l’associazione “mondine nel deserto” o la “protezione nazista delle sinagoghe”. Fantasioso.

5. Pare che un magistrato si sia candidato senza dimettersi dalla magistratura medesima, era finito in Guatemala ma poi la nostalgia l’ha riportato a casetta. Oceanico.

6. Il cardinal Kamillo Rovini sarebbe in moto per fare ancora danni, oltre la montagna di boiate degli ultimi 25 anni, gira in tv a presentare un libro dove spiega che i problemi del mondo sono tutti colpa della Rivoluzione francese. Ributtante.

7. Il buon vecchio zio Mario si sarebbe messo nei Casini senza doppi Fini e andrebbe in giro a dire che vuol cambiar l’Italia. Con quei compagnucci? Abuso edilizio.

8. Fra Secchia e Crostolo un Barbieri (Emerenzio) dice che dopo 42 anni non si candiderà più, mentre l’Uomo di Marmo dice che sì, lui si candida ancora, tanto sono solo 36 anni che fa politica, insomma ha finito l’apprendistato e nei prossimi cinque anni darà il meglio (e comunque arriverà a 41 anni, sempre meno di Barbieri). Epocale.

9. Nel 2013 si farà ancora Fotografia Europea, crisi o non crisi, Modena o non Modena (che nel 2014 aprirà un grande centro internazionale della Fotografia, roba tosta, alla modenese, micca fuffa). Abbagliante.

10. Alle elezioni è stato candidato quel tale Moggi che truccava anche le partite di Subbuteo del nipotino. Del resto fra ladri, corrotti, battone, culi di pietra e profeti di sventura, uno così quasi non si nota. Falloso.

 Queste le notizie. Impossibile, povero telegrafista, chissà cos’ha capito…