Un fragile antifascismo.

Periodicamente riemergono gesti, comportamenti, affermazioni che testimoniano quanto l’antifascismo sia un fragile e indifeso fiore nelle italiche praterie. Saluti romani, mausolei per generali felloni, magliette saloine e quant’altro provocano brevi fiammate di indignazione e accorate chiamata alle armi di schiere sempre più disperse e divise, piuttosto impegnate a preparare la nuova, inevitabile, vittoria delle destra o del dilettantismo politico stellato.

Antifascismo fragile. Perché. Propongo qualche elemento di riflessione che, spero, sia di qualche utilità.

Il primo è quasi banale. L’antifascismo in Italia è fragile perché…l’Italia è stata fascista.

Fascista per opportunistica convenienza, certo (Longanesi diceva che “Essere fascisti è obbligatorio, ma non è impegnativo”), ma anche per convinzione, perché il fascismo era stato espressione dei tanti difetti e limiti di una nazione ancora giovane e nata su tante contraddizioni (frattura nord-sud, distacco fra Stato e Nazione, una monarchia certo non all’altezza del compito storico di costruire uno Stato moderno, la presenza ostile della Chiesa).

Un’Italia (fascista) che ha vissuto la transizione verso la democrazia sulla base di una sostanziale continuità di apparati dello Stato, istituzioni e uomini.

Un secondo elemento investe direttamente il fenomeno Resistenza. Defunto l’antifascismo degli anni anni trenta, con la firma del Patto Molotov-Ribbentrop, l’antifascismo che è alla base della lotta degli anni 1943-45 viene in qualche modo “reinventato” dagli alleati e facilitato, nello scenario italiano, dall’atteggiamento di collaborazione dell’Urss tradotto nella cosiddetta “svolta di Salerno”. Antifascismo per la prima volta unitario, il contributo degli italiani allo sforzo alleato contro il III Reich.

Ma la Resistenza non fu un fenomeno nazionale, l’avanzata degli alleati nella penisola, se evitò le tragedie dell’occupazione nazista, paradossalmente ebbe un effetto negativo sulla costruzione democratica in quelle zone del paese dove non si ebbe nessuna rottura fascismo\democrazia ma una quasi completa continuità di classi dirigenti, inclusi i rapporti fra Stato-chiesa e criminalità organizzata.

La durata della Resistenza fu quindi, com’era logico attendersi, vincolata all’andamento della campagna d’Italia combattuta dagli alleati. La cronologia rende bene questo dato di fatto. Napoli è liberata alla fine del settembre 1943, Roma il 4 giugno 1944, Firenze nell’agosto, Milano il 25 aprile 1945.

Ampie zone d’Italia che erano state fasciste fino al giorno prima non ebbero la Resistenza a sovvertire l’ordine sociale e politico pre-esistente, a fornire una nuova classe dirigente. L’Italia del “prima” si riversò nel “dopo” come i risultati del referendum del 2 giugno 1946 confermarono, con l’Italia spaccata in due, con un sud ancora monarchico e il nord repubblicano. Per questa parte d’Italia l’antifascismo rimase un fenomeno di minoranze politicizzate, un’eco lontana di fronte al potere reale e presente sul territorio.

Quando poi, nell’Italia della ricostruzione e della guerra fredda, l’antifascismo fu preso-e a buon diritto- come collante identitario dal solo partito comunista (la DC che avrebbe avuto altrettanto diritto di rivendicare la sua attiva partecipazione alla Resistenza scelse la via dell’atlantismo e dell’anticomunismo) si innescò il processo che vediamo oggi giungere alle estreme conseguenze.

Antifascismo come ideologia di parte, geograficamente vincolata e limitata.

Il post 1989 ha poi fatto il resto, la sinistra post-comunista trasformista e incapace di arrivare alla sua Bad Godesberg per ridefinire, finalmente, l’antifascismo nella categoria dell’antitotalitarismo, rialzava bandiere sempre più stanche e sfilacciate di fronte alle vecchie correnti sotterranee che potevano riemergere nel berlusconismo prima e nella polverizzazione degli schieramenti che stiamo vivendo.

Avrebbe potuto essere diversa questa storia dell’antifascismo nazionale? Senza entrare in narrazioni distopiche penso siano state perse varie occasioni per dare qualche possibilità a qualche migliaia di italiani (se non milioni) di sentirsi parte della vicenda storica che ha liberato l’Italia dal fascismo.

Dopo l’8 settembre oltre 600.000 militari italiani finirono prigionieri nei lager in Germania come IMI (Internati militari italiani). Di essi meno del 15% accettò di rientrare in patria aderendo alla RSI (e di questi una percentuale non trascurabile disertò per unirsi ai partigiani). Gli altri rimasero prigionieri. Dissero no. Almeno un 15% di loro morì per le condizioni durissime dell’internamento.

Furono partigiani? No, ma furono resistenti, i primi resistenti. Preferirono la fame, l’odio (per essere nella prospettiva dei tedeschi dei “traditori”) e le botte a proseguire a combattere coi nazisti e fascisti.

Dissero “no” come potevano fare. E lo fecero. Erano ragazzi di tutta Italia, soldati di un esercito nazionale. Quando tornarono in Puglia, Sicilia, Sardegna, Calabria dopo la fine del conflitto, non furono riconosciuti per quello che avevano fatto. Non furono considerati anche loro parte attiva di quella costruzione di una democrazia. Tornarono da sconfitti, vissero in pieno quella “solitudine del sopravissuto nel mondo del ritorno” descritta da Anna Bravo, reduci in un’Italia che voleva dimenticare e ripartire. E il loro fu il silenzio, per quasi tutti durato fino alla loro morte. Storie ritrovate da figli e nipoti, recuperate in solaio dentro a zaini e valigie abbandonate per 60 anni. Ognuno di loro avrebbe potuto essere un elemento attivo di democrazia in tanti parti d’Italia che, oggi lo vediamo, mostrano tutti i loro limiti di consapevolezza culturale ed etica, prima ancora che democratica in senso ampio. Una grande occasione perduta.

La Resistenza armata, l’icona del partigiano armato che scende a liberare le città (tutto vero ma non sufficiente) negli anni della guerra fredda e della monumentalizzazione della guerra di Liberazione poi, ha schiacciato la feconda complessità del fenomeno Resistenza (anzi delle tante Resistenze) che furono il nostro contributo alla vittoria alleata in Italia. Ha relegato sullo sfondo il ruolo femminile, l’azione di salvataggio degli ebrei dalla Shoah, le tante azioni singole e collettive di resistenza civile senza le quali proprio la celebrata resistenza armata non avrebbe potuto attecchire così in profondità in tante zone dell’Italia occupata.

Occasioni perdute in un’Italia che ha dovuto attendere il 24 aprile 1964 perché “Se questo è un uomo” fosse trasmesso per la prima volta alla Radio nazionale, mentre già nel 1957 Gaetano Azzariti (che era stato presidente del cosiddetto “tribunale della razza”, istituita presso il dipartimento di Demografia e razza del ministero dell’Interno nel 1938) diventava presidente della Corte Costituzionale.

E oggi siamo a raccogliere i pezzi, ad accorgerci di quanto sia diventato brutto un paese dove, scomparsi i partiti (che facevano azione se non di educazione almeno di limitazione dei danni) ci attacchiamo a ritornelli un po’ logori, seppur in buona fede.

La scuola…”, vero, bene. Da anni parliamo con gli studenti, ma che fatica qualche decennio fa convincere il partigiano che quello che doveva raccontare in classe non era la storia della seconda guerra mondiale (lui che era arrivato, non per colpa, alla terza elementare) ma la sua vita di ragazzo di 20 in montagna, con la paura, la fame, le speranze di allora. Svolgere a pieno il proprio ruolo di testimone e non di inadeguato insegnante.

E che fatica convincere tanti che “se uno cosa era successa bisognava raccontarla” per superare i silenzi sulla violenza agìta nella resistenza, silenzi che tanto sono costati in termini di percezione diffusa della lotta partigiana.

La scuola. Vero, bene. Ma la famiglia? Che ruolo ha avuto nel formare questa diffusa mancanza di coscienza antitotalitaria? Chi ha formato i genitori ad evitare ragionamenti e pensieri razzisti poi trasferiti sui figli? Paradossalmente sono più “formati” i giovani di vent’anni che i loro padri e madri di quaranta o cinquanta. In oltre quindici anni abbiamo lavorato con migliaia di giovani portandoli nei “Viaggi della memoria” sui luoghi della Shoah e della Resistenza europea. Sono diventati spesso loro i formatori dei loro genitori, spesso consapevoli di quanto non fosse stato loro trasmesso negli anni.

Abbiamo detto della scomparsa dei partiti, o meglio della loro nebulizzazione, conseguenza diretta di non-scelte compiute quando il novecento, “secolo breve”, si concluse con la caduta del muro di Berlino.

Né in mondo dell’associazionismo gode di migliore salute. La stessa Anpi da depositaria di valori con la progressiva scomparsa dei protagonisti si è avviata a divenire una “normale” associazione politico-culturale dove trovano spazio istanze antagoniste, residui di anacronismi storici (come dirsi antifascisti e comunisti oggi?), assumendo ruoli politici nel dibattito nazionale, anziché rimanere la casa di tutti coloro che credono nell’antitotalitarismo di dimensioni almeno europee.

Nessuna conquista è per sempre” si ricorda tante volte e anche l’antifascismo, leggibile oggi solo come antitotalitarismo, deve ritrovare la sua strada, in una foresta sempre più oscura.

Guerra, guerre. Ancora sul terrorismo..

Continua il dibattito su questo blog con un nuovo intervento dell’amico Gianni:

Caro Massimo, permettimi di rientrare nel merito.
Ci sono due aspetti del tuo commento che mi mettono in disaccordo con te.
Il primo è la condanna tout court a Gallinari e al brigatismo in forma di anatema che non risparmia neanche la dignità della persona.
Il secondo è la distorsione della storia resistenziale.
Procedo per ordine.
La fantasia che ho voluto usare ipotizzando Gallinari alle prese con la lotta al nazifascismo serve per inquadrare la sua buona fede e l’abnegazione alla causa che lo muoveva, ma anche per rimarcare la tragicità dei suoi errori nell’aver abbracciato invece cause sbagliate.
Seppur i brigatisti reggiani si sentissero continuatori di una lotta resistenziale, ciò non fu perché quella lotta finì, pur con tutti i suoi strascichi e malumori, nel 45 con l’adesione alla dialettica del sistema democratico.
Per quanto marcio possa essere un sistema democratico (basta pensare all’oggi) è sempre un sistema da preferire rispetto a modelli che privano la libertà individuale; inoltre al suo interno contiene la possibilità di rivoluzionare le cose con gli stessi strumenti della democrazia.
Il risultato di quegli anni di lotta armata è devastante in tutti i suoi aspetti umani e politici, ed oggi ne continuiamo a pagare le conseguenze con una Italia ed una sinistra spostate a destra.
Il dramma quindi è un dramma politico.
Il secondo aspetto riguarda il tentativo di qualificare come criminali senza dignità Gallinari ed i brigatisti come lui, attraverso l’esercizio della retorica della “non violenza” e con paragoni falsificati con le lotte resistenziali.
E’ verissimo che molti fatti compiuti fossero disumani, quelli da te citati e altri.
Ma è sbagliato il teorema che li vuole criminali perché “…uccidere a sangue freddo persone, in nome di una qualunque ideologia, quello è e resta”, sottraendo al medesimo giudizio la lotta armata della Resistenza ed avvertendo che ogni paragone sarà trattato come oltraggio alla memoria.
La Masini che ha solo responsabilità politiche può permettersi di imbracciare il bastone e mettere tutti in riga dalle colonne del Carlino di ieri, semplificando il paragone delle due lotte armate attraverso la elevazione di quella resistenziale a insurrezione di popolo.
Tu no, per il tuo lavoro scientifico di storico specializzato nel periodo resistenziale che conosce bene i fatti ed ha scritto libri come “Combattere si può vincere bisogna. La scelta della violenza fra Resistenza e dopoguerra. Reggio Emilia 1943-1945”.
In esso tu descrivi con precisione come in un primo tempo c’era chi era contrario ad imbracciare la lotta armata e chi invece voleva un salto di qualità dell’antifascismo proprio attraverso l’innesco della violenza.
Tu ben descrivi le difficoltà che incontrarono i dirigenti comunisti locali nel trovare le persone che andassero a colpire a sangue freddo, e quando ciò iniziò il primo caso successe davanti agli occhi della figlia della vittima. Per non parlare poi delle esecuzioni fra le proprie fila, come testimoniato da libri quali “Il Commissario” di Osvaldo Poppi, o dalle vicende riguardanti il comandante Facio.
Inoltre per lunghi mesi la Resistenza non fu insurrezione popolare ma cospirazione. Fu una opzione alternativa e un riparo per i giovani che volevano sottrarsi all’arruolamento forzato e per i militari allo sbando.
Ma fu anche gesto eclatante di “sicariaggio” ad opera di persone inquadrate nei GAP, corpi “scelti” della Resistenza, che rimandano ai corpi speciali di un esercito.
Non possiamo trasformare e sterilizzare la storia cruda e reale in una favola retorica, quanto meno non lo puoi fare tu.
Se vuoi puoi giudicare e condannare fatti, mezzi e persone, se credi puoi dividere la Resistenza in buona e cattiva, ma non puoi trasfigurare le cose ad uso di una propaganda moralizzante e normalizzatrice.
Io Massimo non ti so dire se il fine viene o meno qualificato dal mezzo, se l’uccisione a freddo di uomini simbolo sia un assassinio o un atto di guerra.
Però so che se i partigiani avessero perso, il potere che si sarebbe consolidato non gli avrebbe dato l’onore delle armi considerandoli combattenti di un esercito (già erano chiamati terroristi nella RSI) e sarebbe stato loro negato ogni valore di scopo per il quale combattevano, relegandoli a criminali sanguinari.
Questo perché il giudizio del potere non è necessariamente la verità e non è neanche il giudizio della storia, ma può essere invece la propaganda di chi ha vinto.

Prospero Gallinari ha perso la guerra che ha combattuto, ha ammesso di aver perso e ciò forse ha significato per lui aver capito l’errore tragico di averla intrapresa. Non ha abiurato scegliendo così la strada scomoda del non cercar sconti dal sistema che ha combattuto. Ha evitato di render pubblico il suo travaglio interiore e nulla ha fatto per scagionarsi dall’accusa più infamante di essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio Moro.
Non ha cercato attenuanti nell’opinione pubblica attraverso il pietismo. Forse perché le contraddizioni erano troppo devastanti da dirimere o forse perché ha così rivendicato il suo ruolo di combattente.
Tutto ciò non fa di lui un eroe, ma suscita rispetto anche nei suoi nemici, nonostante l’enormità dei suoi errori.
Gallinari ha riconosciuto nel nemico Cossiga che li ha combattuti, l’unico che riconoscesse loro l’onore delle armi e, proprio perché consapevole e determinato antagonista, anche l’unico che poi operò per chiudere la guerra degli anni di piombo con la liberazione dei detenuti, al pari dell’amnistia di Togliatti dopo la Liberazione.
Oggi, alla distanza di tanti anni dai fatti e dall’epilogo voluto da Cossiga, quale senso ha combattere e denigrare l’uomo Gallinari dopo aver combattuto e vinto il Gallinari politico e militare?
E’ solo un eccesso di preoccupazione democratica o la polemica è utile per aprire una nuova ulteriore fase di revisione storica?
Verso il brigatismo o verso la Resistenza? O verso una parte di quest’ultima?

In quest’epoca maleodorante evitiamo di offrire ai giovani polpette sterilizzanti, volte a innestar loro una morale di plastica ed il controllo delle loro emozioni; parlando di brigatismo spieghiamo loro il valore ed il primato della democrazia.

Caro Gianni,

ti ringrazio per il tuo contributo a discutere questioni che mi sembrano rilevanti nella costruzione di una comune consapevolezza civile. Non condividiamo le stesse idee ma è questo un altro fattore costruttivo, finchè c’è possibilità di discussione, intelligente e aperta.

Vengo alle questioni che continuano a dividerci. Certo la mia condanna al terrorismo è una condanna che lascia ben poco ai se e ai ma: come storico e come testimone degli eventi, posso approfondire quei fatti, leggerne le meccaniche, auspicare una totale disponibilità di fonti ma tutto questo non muta il giudizio su quel periodo. Un giudizio che coinvolge, logicamente, quanti di quel fenomeno politico-criminoso furono attori. Io non pratico, come dici, la retorica della non violenza, credo che la violenza sia nella storia umana un motore importante e spesso sia stata “levatrice della storia”, ma ogni violenza deve essere inserita nel contesto che l’ha prodotta e vincolata ai valori che la motivano. Uccidere, in tempo di pace persone inermi, per il senso che un’ideologia attribuisce loro, è un crimine e chi lo pratica è un “criminale”. E non credo che simili persone meritino nessun onore. Nelle mie considerazioni non ho mai parlato del caso specifico che ha animato le cronache di questi giorni, pietà per i morti ma nessun endorsement con quanto sono stati da vivi. In tutti questi anni mi ha sempre irritato vedere personaggi condannati per crimini di sangue apparire in tv a dire, spiegare, rilasciare interviste, come reduci di chissà quale meravigliosa avventura. Sono legalista: una volta scontata la pena il reo torna ad essere un cittadino, con tutti i diritti di “rifarsi una vita”. Un cittadino, non un maestro, un opinion maker. Tutti i protagonisti hanno scritto il loro libro (alcuni anche più di uno). Bene, bravi, grazie. Bastava quello. La mancanza di dignità sono stati loro a dimostrarla nel continuare ad apparire, a mostrarsi, a rivendicare. Questo da vivi. Ora che sono morti valga il classico “e il resto è silenzio”.

Vengo alla seconda questione, il nesso violenza-terrorismo-resistenza. Se qualcuno non ha capito quello che ho scritto chiedo scusa: non mi sono evidentemente spiegato bene. Citare un mio testo per equiparare resistenza-terrorismo, significa che quanto scritto è da buttare. Ma parto da un aneddoto: negli anni sessanta Giorgio Bocca richiese, per motivi di lavoro, il passaporto. Dopo qualche giorno giunse la chiamata dalla Questura di un funzionario che conosceva il giornalista che gli annunciava il rifiuto alla concessione del documento. Stupito, Bocca chiese perché. Il funzionario spiegò che la causa era l’informativa di un maresciallo dei carabineri di un paese delle montagna piemontese che riferiva che “il sunnominato Bocca Giorgio è stato visto aggirarsi armato per questa valle, insieme ad altre persone parimenti armate”.

“Sì, ero io-sbottò Bocca-ma era il 1944, eravamo partigiani…”.

Se nei miei saggi non sono riuscito a spiegare l’elemento-tempo, devo riconoscere che sono un storico mediocre e che è meglio (come forse farò) che cambi mestiere e mi dedichi al tombolo o al dècoupage. Il tempo è il fattore decisivo negli atti delle persone. Sparare a un fascista (armato o no) il 30 aprile 1945 nell’Italia del nord era un’azione militare e politica, sparare allo stesso fascista (armato o no) il 3 maggio 1945 era un omicidio. Perché il 2 maggio 1945 alle ore 12 in Italia finisce la guerra. Guerra. War. Krieg. Questa è la parola che da un senso o un altro allo stesso gesto. Guerra, e la regola da sempre è che vince chi ne uccide uno più dell’altro. Non esiste (per favore non dirlo a me!) una Resistenza buona e una cattiva, esiste una lotta armata in tempo di guerra, agita da uomini (i migliori come i peggiori). Ma era guerra. Seconda guerra mondiale. Non la guerra contro le multinazionali e il capitalismo decisa a tavolino da quattro strateghi che volevano cambiare il mondo. Sono stati sconfitti, e per fortuna! E sono stati sconfitti anche per l’impegno, per il no deciso, di operai ed ex partigiani, sono stati sconfitti dallo Stato ma anche dall’essere avanguardia del nulla.

Sconfitti ma quanti innocenti hanno pagato per niente? Caro Gianni, nel 1978 avevo 23 anni, ricordo il giorno di via Fani come fosse oggi, ma ricordo anche l’ubriacatura di ideologia, i volantini fumosi e incomprensibili, le assemblee deliranti, la violenza legalizzata sempre contro inermi, lo strizzare d’occhi di tanti a quei “compagni che sbagliavano”. Non c’era nessuna guerra, c’era un paese con i suoi problemi, in un contesto internazionale complicato e bloccato (che oggi quasi rimpiangiamo). C’erano tante cose in quegli anni, anche belle: entusiasmo, voglia di fare, sentimenti. Tutto spazzato via da quel delirio ideologico al quale ha risposto la durezza inevitabile dello Stato. Cossiga è la logica interfaccia di Gallinari e non mi ha stupito il suo atteggiamento.

Vedere riaffiorare oggi quelle facce, quelle parole, quei gesti mi provoca un misto fra pena e inquietudine.

Nessuna guerra e quindi nessun “militare” contro cui accanirsi oggi. Gli “sconfitti” hanno avuto anni da vivere che altri, per causa loro, non hanno potuto avere. Personalmente avrei preferito da loro un altro atteggiamento, un altro “stile”, ma da persone con la loro vicenda e personalità forse era chiedere troppo.

 

Il mezzo qualifica il fine

Ritorno ancora sulla riflessione sul terrorismo, riproposto dalle vicende degli ultimi giorni. L’amico Gianni così ha commentato il pezzo di B.Tobagi “Il carceriere di Moro trasformato in eroe” di pochi giorni fa:

Credo che il valore di quest’articolo stia nella frase
“La retorica del “dovere” e del “valore” della memoria è vacua, se prescinde da una riflessione che riconosca l’esistenza di letture del passato e della società profondamente divergenti (laddove riconoscere, ovviamente, non è giustificare), s’interroghi sulle motivazioni dei conflitti,…”
e di conseguenza nella firma di un figlio di vittima del terrorismo.
Altrimenti sarebbe un articoletto.
Così invece è proprio l’articolo ad uscire da beceri visioni di parte ed elevarsi nella più aperta delle considerazioni che fanno della storia un intreccio di protagonisti che comunque la storia ufficiale solitamente semplifica.

Personalmente non mi è capitato di ascoltare mitizzazioni su Gallinari al di là di quelle che leggo qui.
Ha fatto scelte, sicuramente perdenti e comunque sbagliate col senno del poi, visto la reazione a destra che ha avuto il paese.
Lui ne ha preso atto senza abiurare ma solo dichiarandosi sconfitto.
Ha cercato di mantenere una coerenza difficile perché in questi casi la si paga sulla propria persona, altri han fatto come lui, tanti invece han scelto percorsi più accomodanti. Ciò non fa di lui un eroe, ma sicuramente raccoglie il rispetto anche dei suoi nemici.
In questo blog ha senso fare anche un’altra considerazione di fantasia: se avesse vissuto nell’epoca della Resistenza sarebbe stato un Sintoni, un Toscanino, un Eros o in chiave più operativa un Robinson. Come loro, finito la guerra, non avrebbe fatto carriera, lasciando posto ai Sacchetti.
Invece è vissuto in un altro tempo e la storia ci dice che ha sbagliato, tragicamente per lui, per le vittime e per il paese.
Ma poi ne ha preso atto.

Il mezzo qualifica il fine, come ci ricorda Todorov, e parlando di terrorismo e anni di piombo l’osservazione mi sembra estremamente opportuna. Non si parla solo e soltanto di politica ma di uomini, di innocenti assassinati, di dolore sparso in nome di una ideologia che, proprio per i mezzi usati, ha dimostrato tutta la sua follia e potenziale criminogeno.

In questi giorni sono rimasto gelato nel ri-vedere interviste di brigatisti in cui si parlava di omicidi a sangue freddo descritti freddamente come “attacchi”. Attacco all’avv. Croce, 76 anni, partigiano, presidente dell’Ordine degli avvocati, freddato nell’androne di casa sua per aver voluto fare il proprio dovere fornendo-come previsto dalla legge- avvocati di ufficio agli imputati al processo contro le BR. Attacco? Sparare 3 colpi di pistola a una persona indifesa? Attacco? Catturare e uccidere a sangue freddo Roberto, il fratello di Patrizio Peci, per punirlo in via trasversale per il suo pentimento? Attacco uccidere Carlo Casalegno e Walter Tobagi? Eroico sparare a una persona indifesa?

Mantenere la propria coerenza. Bene, ma aggiungiamo l’aggettivo indispensabile: coerenza criminale, perché uccidere a sangue freddo persone, in nome di una qualunque ideologia, quello è e resta. Azione criminale. Poi la pietà ai morti copre tutto, come è giusto. Ma come ripetiamo da anni nel caso degli uccisi della guerra e dopoguerra: tutti i morti sono uguali, ma i vivi non sono stati tutti uguali e mi sembra moralmente inaccettabile mettere insieme Casalegno e Tobagi e i loro assassini. Per motivi etici e per rispetto della memoria storica.

Il parallelo Resistenza-terrorismo ha goduto purtroppo di buona fama e stampa, ma credo sia uno dei peggiori anacronismi mai concepiti sotto l’italico cielo. La Resistenza nacque e sviluppò in una situazione, oggettiva, di guerra aperta (si parla della Seconda Guerra Mondiale). Gli antifascisti prima dell’8 settembre per 20 anni presero bastonate e carcere (e peggio) ma non spararono mai un colpo di pistola. La violenza la portò Salò, fu la RSI a scatenare la guerra civile, i partigiani scelsero la violenza (subendone tutte le conseguenze) come mezzo inevitabile in una situazione di occupazione straniera e collaborazionismo fascista.

Negli anni 70 non c’era nessuna guerra, nessuna occupazione, nessun collaborazionista, se non nel delirio ideologico di chi dichiarò guerra allo Stato, di chi, nel chiuso di qualche stanza, per troppe e cattive letture o per troppa ignoranza e fanatismo, decise che era ora di fare la “rivoluzione”, imponendo una stagione di assassini e sofferenza a civili, alle loro famiglie e atutto il paese. Non sbagliarono con il senno di poi. Sbagliarono e basta. I partigiani fecero la scelta giusta, non con il senno di poi, ma con il senso profondo di quella scelta, fatta allora. Quindi nessun parallelo è possibile fra brigatisti e partigiani, salvo insultarne  la memoria e stravolgere il senso della loro scelta che ci ha portato alla democrazia.

Immaginando un assurdo “what if” domandiamoci cosa sarebbe accaduto se avessero vinto le BR: possiamo pensare ad una Italia divenuta “socialista” come uno qualunque dei disgraziati paesi dell’est e governata da una classe dirigente espressa dalle fila dei “coerenti” combattenti delle BR? La risposta è già nella domanda.

Antipatico

25 aprile 1.jpgNon si può essere sempre simpatici. Gli amici servono anche a dire cose che magari subito ci danno un po’ fastidio ma poi magari…

Festa Reggio apre il 19 agosto (giorno del mio genetliaco, troppo gentili) con un dibattito dal titolo “Resistenza come risorsa politica”. Il commento di Reggio 24H è stato “Frattanto si avvicina la ripresa post ferragostana. Per la serie “Fracassiamoci i coglioni subito”, Festareggio aprirà le danze con un interessantissimo dibattito intitolato “La Resistenza come risorsa politica”. E chi se lo perde?”

Io me lo perdo e non solo perchè sarò impegnato in bagordi (ho qualche bottiglia a FB che attende la sua ora, a proposito: c’è da da bere anche per gli amici…) ma perchè quando ho saputo dell’iniziativa il mio commento è stato “Risorsa per chi? Per Filippi e amici?”

In una città che ha cancellato la propria memoria, che spende soldi nella Fottigrafia Europea e chiude gli Archivi, che non trova quattro eurini per i Viaggi della Memoria, un’approccio simile mi sembra davvero…inadeguato.

Abbiamo passato anni a descrivere i danni fatti dalla politica sulla storia della Resistenza e sui suoi valori e adesso andiamo ad offrirci a chi, oltretutto, dimostra -nei fatti- di credere così poco proprio in quei valori? Torniamo a fare della Resistenza una cosa di parte, e di una piccola e confusa parte?

Fracassiamo i cabasisi ai pochi, allontaniamo i tanti. Comunicazione zero. Ce la suoniamo e ce la cantiamo fra noi. Rimaniamo come siamo: MARGINALI, noiosi, vecchi, un piccolo bacino di voti da mantenere col minimo sforzo (quattro chiacchiere e 1/2 euro).

Per dirla con Nanni: “Continuiamo a farci del male…”

La Resistenza imparata dai nonni (Leonardo Tondelli)

partigiani.jpgMa è vero che la Gelmini vuole cancellare la Resistenza dalle scuole? Sì e no. Non è vero che i nuovi programmi ministeriali abbiano eliminato la lotta antifascista. È semplicemente successo che i collaboratori della Gelmini, dovendo sintetizzare il programma di Storia del Novecento in una paginetta, non abbiano usato la parola “Resistenza”. Per loro stessa ammissione, affrontare la Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra senza toccare l’argomento è praticamente impossibile. Dipenderà poi da ogni singolo insegnante, che alla paginetta allegata a una circolare darà un’occhiata a settembre, per poi rinchiuderla in un cassetto e non guardarla probabilmente mai più. L’approccio degli insegnanti dipende molto più dai libri di testo, e sui libri per ora la Resistenza resiste.

È curioso che si accusi la Gelmini di questo tipo di revisionismo: si dà per scontato che la Resistenza sia un punto fermo dei programmi di Storia della scuola dell’obbligo. Eppure, se ci pensate bene, fino a poco tempo fa non lo era affatto. Sono piuttosto rari quelli della mia generazione che hanno fatto in tempo a studiare i partigiani a scuola: e questo non a causa del programma: sui foglietti del ministero magari la parola “Resistenza” c’era. Ma poi mancava il tempo, a Pasqua si arrivava a Sarajevo e il fascismo era confinato negli ultimi mesi. Ciononostante in qualche modo ce l’abbiamo fatta anche noi, a crescere antifascisti. Viceversa, oggi i programmi dedicano alla Storia del Novecento un anno intero di scuola dell’obbligo: c’è tutto il tempo per affrontare i totalitarismi e capire l’insidiosa differenza tra repubblichini e repubblicani; ci sono le giornate della Memoria e del Ricordo, da osservare nelle scuole di ogni ordine e grado; in pratica, non abbiamo mai avuto una scuola così antifascista; eppure le svastiche incise nei banchi non sono un granché diminuite.

Forse quello che rende ancora così affascinante quel periodo della nostra Storia recente è proprio il fatto che abbiamo dovuto studiarcelo da soli, con strumenti che la solita scuola gentiliana non ci dava. A differenza della Grande Guerra, con le sue triplici alleanze e le sue battaglie, ridotte a uno sbiadito ricordo scolastico, la Resistenza abbiamo dovuto impararla dai nonni: riuscivamo ancora a leggerla in certe scritte sbiadite sui muri tra i quali siamo cresciuti, e nei rancori di persone che conoscevamo. Se l’avessimo studiata a scuola forse l’avremmo sentita molto meno nostra. È una mia teoria: la scuola rende noioso qualsiasi argomento, e la Resistenza non merita di diventare un argomento noioso. Nessun professore di Storia potrà mai davanti a sé la platea di un concerto di piazza, come è successo ancora una volta al comandante Diavolo a Carpi, lo scorso 25 aprile.

I partigiani non erano soldati come gli altri. Non meritavano i soliti monumenti, e forse ha un senso che non si riesca a confinarli in una paginetta di riassunto del Novecento. Del resto, se negli ultimi anni erano riusciti a entrare a scuola, probabilmente non è lontano il giorno in cui ne usciranno: non a causa di una circolare ministeriale, ma perché di Storia se ne insegnerà sempre meno. Nei licei, ad esempio, le quattro ore di Storia e geografia dovrebbero ridursi a tre. A quel punto probabilmente si tratterà di scegliere se insegnare i partigiani o la Cina, i repubblichini o l’Australia. Non ci sarà nessun bisogno di cancellare la Resistenza dal programma: anzi, sarà facile attribuire la colpa agli insegnanti, che non riescono a procedere spediti lungo il ‘900 con classi di quasi trenta alunni. Insomma, è possibile che i nostri figli dovranno arrangiarsi a impararla in casa o in strada. Come abbiamo fatto noi. E non è detto che sia per forza un male.

http://www.unita.it/rubriche/hounateoria/98188

25 aprile, ora e sempre Resistenza (A.D’Orsi)

25aprile1945.jpgIl 25 Aprile non può, nemmeno a 65 anni di distanza, essere considerata una tra le tante date celebrative: oggi più che mai quella data vibra di passione civile, e non soltanto di memoria storica. In fondo, è un quindicennio che la vittoria sul nazifascismo è ritornato ad essere un momento essenziale della battaglia politica, oltre che culturale, in questo sfortunato Paese. Bisogna, paradossalmente, dire grazie a Silvio Berlusconi, e ai suoi alleati-succubi, se ora noi crediamo di nuovo, con forza, nell’importanza della «celebrazione» del 25 Aprile. E non è un caso che in tante parti d’Italia, le vecchie sezioni dell’Anpi (la gloriosa associazione dei partigiani), siano state rivitalizzate da manipoli di giovani, mentre via via scomparivano, ad uno ad uno, i reduci di quella guerra fondativa della nostra Repubblica. Negli ultimi tre giorni, personalmente, sono stato invitato a parlare, da circoli Anpi, a Carpi, a Viterbo, ad Avellino. E in tutti i casi, si tratta di circoli nei quali i giovani – trentenni – hanno raccolto il testimone dai vecchi combattenti, e tentano, ben oltre la data canonica, di difendere princìpi, valori, e ideali dell’antifascismo.

Dopo i decenni dell’azione prima sotterranea, poi via via più palese del revisionismo, giunto negli ultimi anni a trasformarsi in «rovescismo», volto non solo a delegittimare i risultati politici della lotta partigiana, ma a rovesciare la verità acclarata dei fatti, siamo giunti alla resa dei conti finale. L’attacco prima storiografico, poi scopertamente ideologico, infine direttamente politico, alla Resistenza, è diventato attacco alla Costituzione Repubblicana, e ai fondamenti stessi dello Stato di diritto. Il Piano Gelli, in sostanza, con Berlusconi, è giunto alle soglie della sua piena realizzazione, e se la banda che si è impadronita del potere non è ancora riuscita a portare a termine il suo disegno di scasso istituzionale, ciò è dovuto anche alla mobilitazione permanente che, pur tra enormi difficoltà, si è manifestata e si manifesta ogni giorno, dovunque in Italia, dalle Isole alle Alpi, dal Sud che resiste alla mafia, alla camorra e alla ‘ndrangheta, al Nord che non vuole saperne di indossare la camicia verde, e men che meno di sfilare adunato in «ronde padane».

La guerra che si combatté in Italia fra l’8 settembre del ’43 e il 25 aprile del ’45 contenne, come ormai è noto, tre distinte guerre. Innanzi tutto, si trattò di una guerra di liberazione nazionale: non a caso parliamo di «liberazione», come sinonimo di Resistenza. La guerra contro un alleato trasformatosi nemico, occupante il suolo della patria. Guerra nazionale, dunque, anche se combattuta da un esercito di irregolari, anzi da un non esercito, contro due eserciti regolari, quello nazista e quello repubblichino, egualmente feroci.

In secondo luogo, una guerra sociale: lotta di classe, per un altro genere di liberazione, non più dal nemico esterno, ma dal nemico interno, il nemico di classe: fu l’improvviso ritorno, dopo le avvisaglie del marzo ’43, del protagonismo di vasti strati di ceti subalterni che, dopo un ventennio di compressione, si riaffacciavano, potentemente, a reclamare diritti sociali, economici e politici. In questa guerra emergeva l’ansia di una giustizia dei poveri, gli oppressi, coloro che erano rimasti senza voce per troppo tempo; c’era la speranza del cambiamento politico e sociale. Questo fu «il vento del Nord», espressione oggi compromessa da un improprio uso leghista: e la «Resistenza tradita» significò la mancata realizzazione di quegli obiettivi sociali, come per decenni la Sinistra, quando faceva il suo mestiere, denunciò.

Infine, una guerra civile: italiani contro italiani, antifascisti contro fascisti, guerra di ideali e di interessi insieme, di valori e di opzioni politiche. Sottesa a questo scontro c’era la necessità di individuare e combattere i nemici anche tra i connazionali (di lingua e di suolo), ma non nel senso della nazione democratica, come scelta condivisa di valori e ideali.

Le tre guerre si mescolarono. Nella guerra civile vi era la guerra di classe, nella guerra nazionale la guerra civile: i fascisti difendevano interessi padronali, perlopiù, ed erano alleati (subordinati) dei tedeschi: dunque combattendo i fascisti si combatteva il padronato e il nazismo. E combattendo i padroni si combattevano i tedeschi e i fascisti; mentre combattendo contro l’invasore tedesco (dunque per la patria italiana) si combatteva contro il regime fascista, che invano tentava di rinascere dalle proprie ceneri, proprio grazie al poco disinteressato aiuto tedesco.

Più che alle pure pregevolissime ricerche storiche, ci sono dei testi d’altro genere a cui occorrerebbe sempre ritornare, per capire la nuda essenza del 25 Aprile, e la sua luminosa bellezza: le Lettere dei condannati a morte della Resistenza (esistono in commercio sia quelle della Resistenza italiana, sia quelle della Resistenza europea). Vi possiamo trovare quanto basta per non perdere di vista il senso profondo di quella guerra. Difficile resistere alla commozione davanti alla semplicità innocente di quei ragazzi e ragazze, donne e uomini maturi, che si sono battuti, immolati, o hanno sacrificato affetti, beni, tempo, carriera, vita, per difendere un bene che oggi è di nuovo a rischio: la libertà di tutti. Da questo punto di vista, con un pizzico di retorica, vorrei ribadire forte e chiaro che nessun “rovescismo” può cancellare il significato della Resistenza, atto davvero di liberazione, di creazione di un nuova Italia, che cercava di ribaltare tutto quanto, dal punto di vista prima di tutto etico, aveva significato il fascismo e il suo regime.

Se oggi possiamo discuterne liberamente come liberamente possiamo discutere e litigare di politica e di qualsiasi altro tema (almeno finché ce lo lasceranno fare i nuovi padroni, che gli spazi di libertà cercano diuturnamente di comprimere e limitare), lo dobbiamo anche e, almeno sul piano morale, innanzi tutto a quegli eroi perlopiù sconosciuti, eroi ora per caso, ora per scelta, ora per necessità, i cui nomi a stento si leggono sulle sbiadite targhe delle nostre strade, davanti alle quali le amministrazioni comunali o le locali sezioni e i nuovi circoli dell’Anpi mettono un fiore pietoso ad ogni ricorrenza del 25 Aprile, aggiungendo magari un tricolore, a sottolineare che la Repubblica è il frutto di quel sangue. Ad esse gettiamo un’occhiata distratta e rapida, specie quando quei fiori sono freschi: e la prima cosa che ci colpisce è la varietà di collocazione sociale, con una netta prevalenza dei ceti popolari: operaio, tipografo, tramviere, impiegato, studente, insegnante, ferroviere, artigiano, manovale… Il secondo elemento che balza all’occhio pur distratto, è l’età: ad essere «barbarmente trucidati» – come spesso si esprime il canonico stile marmoreo – sono fanciulli (dai 14 anni in su) o poco più che tali; gente semplice, umile, ma determinata e forte.

Davanti a quelle pietre, come davanti ai testi dei condannati, scritti sovente su materiali di fortuna, prima che il boia giungesse a prelevarli dalle celle per portarli al patibolo, abbiamo il dovere morale non soltanto del rispetto e della memoria solidale, ma quello civile, ciascuno nel suo ambito, di raccogliere il testimone – come i giovani che animano le sezioni dell’Anpi, oggi – per le nuove battaglie che premono, a cominciare dalla strenua difesa della Costituzione Repubblicana, sottoposta a un attacco incessante, tendenzialmente devastante. Al cospetto di quei martiri, e dinnanzi alla necessità di questa battaglia (che difende tutti, anche coloro che la pensano diversamente), nessuno potrà dire, domani, che non aveva capito.

Angelo d’Orsi

Giacomo Ulivi, anni 19

Cari amici,
vi vorrei confessare, innanzi tutto, che tre volte ho strappato e scritto questa lettera. L’avevo iniziata con uno sguardo in giro, con un sincero rimpianto per le rovine che ci circondano, ma, nel passare da questo all’ argomento di cui desidero parlarvi, temevo di apparire «falso», di inzuccherare con un preambolo patetico una pillola propagandistica. E questa parola temo come un’offesa immeritata: non si tratta di propaganda ma di un esame che vorrei fare con voi.
Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti. Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami al flagello. Vorrei che con me conveniste quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. …
Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete, perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco, per esempio, quanti di noi “sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia ed al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà: nel desiderio invincibile di «quiete », anche se laboriosa, è il segno dell’errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. E il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un’opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent’anni da ogni lato, è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della «sporcizia» della politica che mi sembra sia stato inspirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è lavoro di «specialisti ».
Duro lavoro, che ha le sue esigenze: e queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle che stanno alla base dell’opera di qualunque ladro e grassatore; Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora che nella vita politica – se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri – ci siamo scaraventati dagli eventi. Qui sta la nostra colpa, io credo: come mai, noi italiani, con tanti secoli di esperienza, usciti da un meraviglioso processo di liberazione, in cui non altri che i nostri nonni dettero prova di qualità uniche in Europa, di un attaccamento alla cosa pubblica, il che vuol dire a se stessi, senza esempio forse, abbiamo abdicato, lasciato ogni diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola? Che cosa abbiamo creduto? Creduto grazie al cielo niente ma in ogni modo ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente.
Questa ci ha depredato, buttato in un’avventura senza fine; e questo è il lato più «roseo» io credo. Il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale, la mentalità di molti di noi. Credetemi, la «cosa pubblica» è noi stessi, ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come « patriottismo » o amore per la madre che in lacrime e in catene ci chiama, visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda. Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura, è sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo? L’egoismo ci dispiace sentire questa parola – è come una doccia fredda, vero? Sempre, tutte le pillole ci sono state propinate col dolce intorno; tutto è stato ammantato di retorica. Facciamoci forza, impariamo a sentire l’amaro; non dobbiamo celarlo con un paravento ideale, perché nell’ombra si dilati indisturbato.

Ricordate, siete uomini, avete il dovere, se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere: che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro a un pericolo negativo? Bisognerà fare molto. Provate a chiedervi un giorno, quale stato, per l’idea che avete voi stessi della vera vita, vi pare ben ordinato: per questo informatevi a giudizi obbiettivi. Se credete nella libertà democratica, in cui nei limiti della costituzione, voi stessi potreste indirizzare la cosa pubblica, oppure aspettate una nuova concezione, piu equalitaria della vita e della proprietà. E se accettate la prima soluzione, desiderate che la facoltà di eleggere, per esempio, sia di tutti, in modo che il corpo eletto sia espressione diretta e genuina del nostro Paese, o restringerla ai più preparati oggi, per giungere ad un progressivo allargamento? Questo ed altro dovete chiedervi. Dovete convincervi, e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure a rinunciare.
Oggi bisogna combattere contro l’oppressore. Questo’ è il primo dovere per noi tutti ma è bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi ed il ripetersi di tutto quanto si è abbattuto su di noi.
Termino questa lunga lettera un po’ confusa, lo so, ma spontanea, scusandomi ed augurandoci buon lavoro.

GIACOMO ULIVI
Di anni 19 – studente di terzo anno alla facoltà di legge dell’Università di Parma – nato a Baccanelli San Pancrazio (Parma) il 29 ottobre 1925 -. Dal febbraio 1944 è incaricato dei collegamenti fra il C.L.N. di Parma ed il C.L.N. di Carrara nonché con ufficiali inglesi – collabora all’avvio ed all’organizzazione di renitenti alla leva sull’ Appennino tosco-emiliano – cat- turato una prima volta 1’11 marzo 1944, riesce a fuggire rifugiandosi a Modena, mentre la madre viene anch’essa arrestata e sottoposta ad interrogatori e minacce – riprende il lavoro organizzativo – è catturato una seconda volta dai tedeschi nei dintorni di Modena – riesce ancora a fuggire -. Catturato una terza volta il 30 ottobre 1944 in Via Farini a Modena, ad opera di militi delle Brigate Nere – tradotto nelle carceri dell’Accademia Militare – torturato -. Dapprima amnistiato, poi fucilato per rappresaglia il mattino del 10 novembre 1944, sulla Piazza Grande di Modena, da plotone della G.N.R., con Alfonso Piazza e Emilio Po -Medaglia d’ Argento al Valor Militare.
(Lettera scritta agli amici fra il secondo e l’ultimo arresto.)

Gioia e vigilanza

Il presidente (provvisorio) del Consiglio ha partecipato alle celebrazioni del 25 aprile. Bene. Ha fatto un bel discorso. Bene. Ha affermato che sarà ritirato l’infame Ddl n.1360. Bene. Una volta tanto perchè non essere soddisfatti? Abbiamo vinto. Una bella vittoria. Ne abbiamo avute così poche negli ultimi tempi che non mi lascerei scappare l’occasione. Ma.

Ma. Tratterrei le grida di giubilo che qualche solerte commentatore oggi (sul Corrierino a.e.) lancia sulla fine del conflitto, sulle meraviglie di una nazione pacificata, come se anzichè con il cavalier banana avessimo a che fare con Adenauer.

Io limiterei il giubilo e starei a vedere. Come per un alcoolista incallito vi fidereste della sua redenzione al suo primo analcoolico bevuto? O per un tossico alla prima canna rifiutata?

Aspettiamo, abbiamo a  che fare con un capo pirata che anzichè consultare il sestante si affida al suo ufficio marketing che gli detta strategie e prodotti da promuovere. Gli avranno detto che il “pacchetto-Resistenza” poteva alzare lo share e lui, lesto, si è adeguato.

Vedremo. Vigilanza democratica si chiamava. Occhi aperti e stiamo a vedere, senza scambiare, però, Capitan Uncino con la Fatina azzurra.

25 aprile: un grazie a..

Buon 25 aprile, festa di libertà per tutti!

25 Aprile, un grazie

ai partigiani combattenti che ebbero il coraggio di dire “no” e accettarono il rischio, perchè per una buona causa si può anche morire

alle donne, ragazze, bambine che rischiarono la loro vita ogni giorno perchè sulle montagne e in pianura quei ragazzi potessero combattere

ai sacerdoti che aprirono le loro canoniche a chi aveva bisogno, incarnando, giorno per giorno, un Vangelo che la Chiesa ufficiale aveva dimenticato per troppo tempo

a quei ragazzi americani, inglesi, francesi, polacchi, australiani, neozelandesi….che vennero nelle nostre terre ad aiutarci a riprendere la nostra dignità

a quei ragazzi tedeschi che capirono che la libertà, la pace e l’umanità era qualcosa che si poteva difendere e conquistare anche gettando le armi di una patria divenuta criminale

a quei ragazzi sovietici che combatterono insieme ai nostri ragazzi per la nostra libertà, pagando poi con la loro al ritorno a casa

a quei ragazzi in grigioverde che, gettati nei lager ed etichettati come IMI, rifiutarono il compromesso e rimasero a fare la loro resistenza là, al freddo, alla fame, con la morte in agguato ogni giorno

a quei ragazzi del nuovo esercito italiano che decisero che si poteva ancora combattere ma stavolta per la propria patria e non per offendere o invadere quella altrui

a tutti quegli italiani che, nel silenzio, ogni giorno, dissero il loro “no”, con azioni piccole, singole, disperse ma che contarono proprio per il loro valore di scelta individuale

Grazie a tutti se oggi siamo liberi!

Per ricordare: Padova, 1 dicembre 1943

Padova, 1 dicembre 1943

Sono rimasto a capo della vostra Università finchè speravo di mantenerla immune dall’offesa fascista e dalla minaccia germanica; fino a che speravo di difendervi da servitù politiche e militari e di proteggere con la mia fede pubblicamente professata la vostra sede costretta al silenzio o al segreto. Tale proposito mi ha fatto resistere, contro il malessere che sempre più mi invadeva, nel restare a un posto che ai lontani e agli estranei poteva apparire di pacifica convivenza  mentre era posto di ininterrotto combattimento.

Oggi il dovere mi chiama altrove.

Oggi non è più possibile sperare che l’Università resti asilo indisturbato di libere coscienze operose, mentre lo straniero preme alle porte dei nostri istituti e l’ordine di un governo, che-per la defezione di un vecchio complice-ardisce chiamarsi repubblicano, vorrebbe convertire la gioventù universitaria in una milizia di mercenari e di sgherri massacratori. Nel giorno inaugurale dell’anno accademico avete veduto un manipolo di questi sciagurati, violatori dell’Aula Magna, travolti sotto l’immensa ondata del vsotro infrenabile sdegno. Ed io, giovani studenti, ho atteso questo giorno in cui avreste riconsacrato il vostro tempio per più di vent’anni profanato e benedico il destino di avermi dato la gioia di una così solenne comunione con l’anima vostra. Ma quelli che per un ventennio hanno vilipeso ogni onorevole cosa e mentito e calunniato, hanno tramutato in vanteria la disfatta e nei loro annunzi mendaci hanno soffocato il vostro grido e si sono appropriata la mia parola.

Studenti: non posso lasciare l’ufficio di rettore dell’Universitàdi Padova senza rivolgervi un ultimo appello. Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra patria; vi ha gettato tra cumuli di rovine: voi dovete tra queste rovine portare la luce di una fede, l’impeto dell’azione, e ricomporre la giovinezza e la Patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dalla ignavia, dalla servilità criminosa, voi, insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell’Italia e costituire il popolo italiano. Non frugate nelle memorie o nei nascondigli del passato i soli responsabili di episodi delittuosi, dietro i sicari c’è tutta una moltitudine che quei delitti ha voluto o ha coperto con il silensio e la codarda rassegnazione; c’è tutta la classe dirigente italiana sospinta dalla inettitudine e dalla colpa verso la sua totale rovina.

Studenti: mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi, maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta insieme combattuta. Per la fede che vi illumina, per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l’oppressore disponga ancora della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dalla servitù e dalla ignominia, aggiungete al labaro della vostra Università la gloria di una nuova e più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace del mondo.

Il Rettore

Concetto Marchesi