La Resistenza imparata dai nonni (Leonardo Tondelli)

partigiani.jpgMa è vero che la Gelmini vuole cancellare la Resistenza dalle scuole? Sì e no. Non è vero che i nuovi programmi ministeriali abbiano eliminato la lotta antifascista. È semplicemente successo che i collaboratori della Gelmini, dovendo sintetizzare il programma di Storia del Novecento in una paginetta, non abbiano usato la parola “Resistenza”. Per loro stessa ammissione, affrontare la Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra senza toccare l’argomento è praticamente impossibile. Dipenderà poi da ogni singolo insegnante, che alla paginetta allegata a una circolare darà un’occhiata a settembre, per poi rinchiuderla in un cassetto e non guardarla probabilmente mai più. L’approccio degli insegnanti dipende molto più dai libri di testo, e sui libri per ora la Resistenza resiste.

È curioso che si accusi la Gelmini di questo tipo di revisionismo: si dà per scontato che la Resistenza sia un punto fermo dei programmi di Storia della scuola dell’obbligo. Eppure, se ci pensate bene, fino a poco tempo fa non lo era affatto. Sono piuttosto rari quelli della mia generazione che hanno fatto in tempo a studiare i partigiani a scuola: e questo non a causa del programma: sui foglietti del ministero magari la parola “Resistenza” c’era. Ma poi mancava il tempo, a Pasqua si arrivava a Sarajevo e il fascismo era confinato negli ultimi mesi. Ciononostante in qualche modo ce l’abbiamo fatta anche noi, a crescere antifascisti. Viceversa, oggi i programmi dedicano alla Storia del Novecento un anno intero di scuola dell’obbligo: c’è tutto il tempo per affrontare i totalitarismi e capire l’insidiosa differenza tra repubblichini e repubblicani; ci sono le giornate della Memoria e del Ricordo, da osservare nelle scuole di ogni ordine e grado; in pratica, non abbiamo mai avuto una scuola così antifascista; eppure le svastiche incise nei banchi non sono un granché diminuite.

Forse quello che rende ancora così affascinante quel periodo della nostra Storia recente è proprio il fatto che abbiamo dovuto studiarcelo da soli, con strumenti che la solita scuola gentiliana non ci dava. A differenza della Grande Guerra, con le sue triplici alleanze e le sue battaglie, ridotte a uno sbiadito ricordo scolastico, la Resistenza abbiamo dovuto impararla dai nonni: riuscivamo ancora a leggerla in certe scritte sbiadite sui muri tra i quali siamo cresciuti, e nei rancori di persone che conoscevamo. Se l’avessimo studiata a scuola forse l’avremmo sentita molto meno nostra. È una mia teoria: la scuola rende noioso qualsiasi argomento, e la Resistenza non merita di diventare un argomento noioso. Nessun professore di Storia potrà mai davanti a sé la platea di un concerto di piazza, come è successo ancora una volta al comandante Diavolo a Carpi, lo scorso 25 aprile.

I partigiani non erano soldati come gli altri. Non meritavano i soliti monumenti, e forse ha un senso che non si riesca a confinarli in una paginetta di riassunto del Novecento. Del resto, se negli ultimi anni erano riusciti a entrare a scuola, probabilmente non è lontano il giorno in cui ne usciranno: non a causa di una circolare ministeriale, ma perché di Storia se ne insegnerà sempre meno. Nei licei, ad esempio, le quattro ore di Storia e geografia dovrebbero ridursi a tre. A quel punto probabilmente si tratterà di scegliere se insegnare i partigiani o la Cina, i repubblichini o l’Australia. Non ci sarà nessun bisogno di cancellare la Resistenza dal programma: anzi, sarà facile attribuire la colpa agli insegnanti, che non riescono a procedere spediti lungo il ‘900 con classi di quasi trenta alunni. Insomma, è possibile che i nostri figli dovranno arrangiarsi a impararla in casa o in strada. Come abbiamo fatto noi. E non è detto che sia per forza un male.

http://www.unita.it/rubriche/hounateoria/98188

Silenzio, parla il Corsera

Riporto integralmente il pezzo di G.Caliceti, apparso oggi su Reggio 24Ore:

Dopo il ritratto di Gelmini come un San Sebastiano trafitto dalle polemiche firmato da Galli Della Loggia, ieri dal Corriere della sera arrivano le parole di stima al ministro attraverso la penna di Aldo Cazzullo.

“Quando la settimana scorsa Mariastella Gelmini ha denunciato, in un’intervista al Corriere, la persistenza di aree di militanza politica nella scuola, si sono levate contro di lei molte critiche. Ora appare chiaro che il ministro non aveva torto.” Di cosa si sarebbero macchiati alcuni docenti italiani? Di aver gridato pace subito o ritiro delle truppe?
No, di non aver fatto osservare in modo compatto ai propri studenti il minuto di silenzio per i soldati morti. E così Cazzullo usa morti e bambini per difendere Gelmini. E ci da una lezione di pedagogia di guerra. E si rammarica perchè la scuola riesce a trasformare anche un’occasione di unità nazionale in un punto di divisione e si ostina a leggere qualsiasi vicenda attraverso le lenti della politica, peggio ancora dell’ideologia.

Forse sarebbe meglio che Cazzullo lasci stare i morti e i bambini. E ci dica piuttosto se trova naturale – o troppo politico o ideologico – che oggi, già alle elementari, un bambino italiano non sappia il nome del Papa o del presidente della Repubblica ma quello di Berlusconi. Accadeva così solo in un altro periodo storico dell’Italia.
Bello riempirsi la bocca con parole come Dio, Patria, Famiglia. Importanti, per carità. Ma solo se calate nella realtà, altrimenti restano esercizi di retorica.
Posso assicurare a Cazzullo che, scendendo nella trincea della scuola primaria italiana di oggi, ci si accorge per esempio che ci sono tante famiglie molto diverse da quelle che abbiamo in mente. E bambini che credono in religioni differenti. E gli stessi concetti di “patria” o di “unità nazionale”, o semplicemente di “nazione”, almeno per come forse lo si aveva in mente nel primo dopoguerra, oggi sono assolutamente sorpassati dalla realtà.

Bisognerebbe riflettere sulla frase di un mio ex alunno extracomunitario: forse se non ci dicevano che eravamo tutti nati in nazioni diverse sarebbe stato più facile vivere e andare d’accordo.

L’editorialista del Corsera ha scritto anche, riferendosi al dolore provato dai familiari dei soldati morti nella basilica di San Paolo, che quel dolore è stato la migliore delle lezioni. E anche i piccoli l’hanno capita benissimo. Ecco, speriamo che il futuro non ci riservi una scuola in cui la migliore delle lezioni che possiamo dare a un bambino o a un ragazzo sia la morte di un padre in missione di pace (o di guerra). Non credo sia questo il mondo che i cittadini italiani di domani, ma anche i loro genitori e docenti di oggi, si augurano per il loro futuro nè per quello dei loro figli.

http://www.reggio24ore.com/Sezione.jsp?titolo=Silenzio%2C+parla+il+Corsera&idSezione=6005

Lettera aperta alla gelmini (C.Magris)

Dante e Verga? Basta. Mi son de Trieste

Ministro, cambiamo i programmi: «El moroso de la Nona» al posto della Divina Commedia

Signor ministro, mi permetto di scriverLe per suggerirLe l’opportunità di ispirare pure la politica del Ministero da Lei diretto, ovvero l’Istruzione — a ogni livello, dalla scuola elementare all’università — e la cultura del nostro Paese, ai criteri che ispirano la proposta della Lega di rivedere l’art. 12 della Costituzione, ridimensionando il Tricolore quale simbolo dell’unità del Paese, affiancandogli bandiere e inni regionali. Programma peraltro moderato, visto che già l’unità regionale assomiglia troppo a quella dell’Italia che si vuole disgregare.

Ci sono le province, i comuni, le città, con i loro gonfaloni e le loro incontaminate identità; ci sono anche i rioni, con le loro osterie e le loro canzonacce, scurrili ma espressione di un’identità ancor più compatta e pura. Penso ad esempio che a Trieste l’Inno di Mameli dovrebbe venir sostituito, anche e soprattutto in occasione di visite ufficiali (ad esempio del presidente del Consiglio o del ministro per la Semplificazione) dall’Inno «No go le ciave del portòn», triestino doc.

Ma bandiere e inni sono soltanto simbo­li, sia pur importanti, validi solo se esprimo­no un’autentica realtà culturale del Paese. È dunque opportuno che il Ministero da Lei diretto si adoperi per promuovere un’istru­zione e una cultura capaci di creare una ve­ra, compatta, pura, identità locale.

La letteratura dovrebbe ad esempio esse­re insegnata soltanto su base regionale: nel Veneto, Dante, Leopardi, Manzoni, Svevo, Verga devono essere assolutamente sostitui­ti dalla conoscenza approfondita del Moro­so de la nona di Giacinto Gallina e questo vale per ogni regione, provincia, comune, frazione e rione. Anche la scienza deve esse­re insegnata secondo questo criterio; l’ope­ra di Galileo, doverosamente obbligatoria nei programmi in vigore in Toscana, deve essere esclusa da quelli vigenti in Lombar­dia e in Sicilia. Tutt’al più la sua fisica po­trebbe costituire materia di studio anche in altre regioni, ma debitamente tradotta; ad esempio, a Udine, nel friulano dei miei avi. Le ronde, costituite notoriamente da pro­fondi studiosi di storia locale, potrebbero essere adibite al controllo e alla requisizio­ne dei libri indebitamente presenti in una provincia, ad esempio eventuali esemplari del Cantico delle creature di San Francesco illecitamente infiltrati in una biblioteca sco­lastica di Alessandria o di Caserta.

Per quel che riguarda la Storia dell’Arte, che Michelangelo e Leonardo se lo tengano i maledetti toscani, noi di Trieste cosa c’en­triamo con il Giudizio Universale? E per la musica, massimo rispetto per Verdi, Mozart o Wagner, che come gli immigrati vanno be­ne a casa loro, ma noi ci riconosciamo di più nella Mula de Parenzo, che «ga messo su botega / de tuto la vendeva / fora che bacalà».

Come ho già detto, non solo l’Italia, ma già la regione, la provincia e il comune rap­presentano una unità coatta e prevaricatri­ce, un brutto retaggio dei giacobini e di quei mazziniani, garibaldini e liberali che hanno fatto l’Italia. Bisogna rivalutare il rio­ne, cellula dell’identità. Io, per esempio, so­no cresciuto nel rione triestino di Via del Ronco e nel quartiere che lo comprende; perché dovrei leggere Saba, che andava inve­ce sempre in Viale XX Settembre o in Via San Nicolò e oltretutto scriveva in italiano? Neanche Giotti e Marin vanno bene, perché è vero che scrivono in dialetto, ma pretendo­no di parlare a tutti; cantano l’amore, la fra­ternità, la luce della sera, l’ombra della mor­te e non «quel buso in mia contrada»; si ri­volgono a tutti — non solo agli italiani, che sarebbe già troppo, ma a tutti. Insomma, so­no rinnegati.

Ma non occorre che indichi a Lei, Signor Ministro, esempi concreti di come meglio distruggere quello che resta dell’unità d’Ita­lia. Finora abbiamo creduto che il senso pro­fondo di quell’unità non fosse in alcuna con­traddizione con l’amore altrettanto profon­do che ognuno di noi porta alla propria cit­tà, al proprio dialetto, parlato ogni giorno ma spontaneamente e senza alcuna posa ideologica che lo falsifica. Proprio chi è pro­fondamente legato alla propria terra natale, alla propria casa, a quel paesaggio in cui da bambino ha scoperto il mondo, si sente pro­fondamente offeso da queste falsificazioni ideologiche che mutilano non solo e non tanto l’Italia, quanto soprattutto i suoi innu­merevoli, diversi e incantevoli volti che con­corrono a formare la sua realtà. Ci riconosce­vamo in quella frase di Dante in cui egli dice che, a furia di bere l’acqua dell’Arno, aveva imparato ad amare fortemente Firenze, ag­giungendo però che la nostra patria è il mondo come per i pesci il mare. Sbagliava? Oggi certo sembrano più attuali altri suoi versi: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello!».

Con osservanza

Claudio Magris

Che dire al maestro? Grazie.

(http://www.corriere.it/cultura/09_agosto_07/dante_verga_claudio_magris_2bef846e-8316-11de-ac4b-00144f02aabc.shtml)

Se non c’è il codice fiscale…

Mentre stiamo ancora aspettando qualche risultato, dopo i primi instant-poll, che ci confermino (o no) sul grado di putrescenza del paese, mi colpisce una notiziola apparsa sul web. A Napoli una studentessa ucraina è bravissima, parla 6 lingue, nel suo paese ha già il titolo di studio ma qui no. Non può dare la maturità, perchè? Grazie a una delle tante gelminate, chi non ha il codice fiscale (e quindi è cittadino italiano), non può fare la maturità.

Mi sembra giusto: il codice fiscale è fondamentale in un paese dove pagare le tasse è un simpatico hobby di qualche maniaco. E poi: se incominciamo a dare titoli di studio a tutti quelli bravi (ma non italioti), come faremo con la massa di idioti figli di papà, ignoranti come zucche, ma già con la laurea prenotata per eredità? Una studentessa reggiana, collega di mia figlia, diceva con un pizzico di vanità: “io farò i test di ammissione, ne so poco, ma tanto lo so che il mio papà…”. E se poi ti arriva la prima ucraina? Un po’ di decenza, prima i nostri ignoranti, poi, se mai, gli altri, ma se mai, eh?

p.s. Ma la Gelmini non era quella tizia che s’era andata a fare al sud il concorsino aggiustato? Vedete? Così si fa, forse non aveva altre doti, non era versata in un qualche capitolo del kamasutra, però ce l’ha fatta! Ministra! E se ce l’ha fatta una come lei, allora tutti (ma proprio tutti) abbiamo qualche speranza (ucraine escluse, ovvio).

http://www.repubblica.it/2009/05/sezioni/scuola_e_universita/servizi/padova-permesso-soggiorno/napoli-ucraina/napoli-ucraina.html

Scuole e istruzione di confine

Sette genitori di bambini residenti a Muggia, comune italiano prossimo ai confini sloveni, hanno iscritto i loro figli alla scuola elementare slovena, per l’anno scolastico 2009-2010. Come ci racconta Alessandra Longo (Repubblica, 11.4.09): “i piccoli allievi in fuga dalla Gelmini studieranno oltreconfine su testi italiani, impareranno l’inglese e anche lo sloveno come “lingua d’ambiente”. Buon per loro che sono vicini ai confini. Noi italiani dell’interno invece? Che bisogno abbiamo di scuole? Abbiamo già quel che ci serve: la televisione! E poi, semplice, i problemi si risolvono all’italiana: chi ha soldi manda i figli nella scuola privata cattolica dove viene garantito l’orario prolungato, niente extracomunitari e maestro unico, ben controllato e garantito. E chi i soldi non ne ha? Semplice, come genialmente riassunse Altan in una delle sue folgoranti vignette, all’interlocutore che interrogava il premier sul tema: “E se sono poveri?”, il cavalier Banana rispondeva serafico: “Cazzi loro!”.