Una legge da cialtroni e un prete di montagna

Il 30 gennaio ricorreva il 65°anniversario della fucilazione di don Pasquino Borghi e dei “suoi”. Cerimonia al Poligono di tiro, intervento del sindaco DelRio che, parlando a braccio, ha detto cose giuste e sagge. E mi veniva in mente il progetto di legge n.1360 che un pugno di “onorevoli” (fra cui anche un reggiano) hanno presentato alla Camera. Pacificazione? Certo! Ancora meglio PaRificazione. Tutti uguali. Stessa dignità a tutti. A Don Pasquino e a chi gli sparò il colpo di grazia, a Enrico Zambonini, anarchico di Secchio e a chi andò ad arrestarlo per portarlo al carcere e alla morte senza uno straccio di processo, ai padri di famiglia di Rio Saliceto e Correggio e a chi decise che, senza colpa, dovessero morire. Purtroppo una morte violenta ci ha strappato galantuomini come Enzo Savorgnan, Capo della Provincia, Armando Wender, federale del Pfr, altrimenti anche per loro, finalmente, sarebbe giunto il momento del riscatto. Tutti uguali, tutti pari.
Mi chiedo allora in che razza di Stato siamo finiti, a che punto di putrefazione etica e culturale è giunta questa classe politica che cancella, rimuove, parifica. Mi chiedo anche che istruzione è stata data in questi anni e che istruzione i nostri figli trovano nelle nostre scuole, dove a insegnanti preparati e motivati al limiti del martirio si affiancano altri cialtroni, bigotti, ignoranti. Stessa paga, parificati anche loro. Da questa scuola che non insegna valori, etica, che massacra la nostra cultura antica e moderna, cosa aspettarci? L’altra mattina guardavo il Poligono di tiro dove i Cervi, don Pasquino e i suoi chiusero le loro vite. Vite vissute bene, a schiena dritta, con dignità. Mi chiedevo anche, da credente, perchè con le migliaia di santi sfornati a getto continuo negli ultimi anni (anche mons.Stepinac, il vescovo croato antisemita) a nessuno sia venuto in mente di proporre un prete di montagna, nato a Bibbiano e morto lì, 65 anni fa.


Riporto la lettera che sua madre indirizzò al Presidente del Tribunale che giudicava gli assassini del figlio:


”Bibbiano, 4 gennaio 1946.

Al Presidente della Corte d’Assise Straordinaria di Reggio Emilia.

In nome di Cristo e della Vergine santissima sull’esempio eroico dell’amato figlio don Pasquino ed in sua memoria, per la pacificazione degli animi da Lui auspicata col sacrificio della propria vita, perdono cristianamente all’esecutore materiale dell’iniqua sentenza il nominato Sergio P.[aderni].
In fede
Del Rio Orsola ved.Borghi”

Allora ho pensato che i santi esistono lo stesso, a prescindere dalle convenienze, e ci sono anche santi “laici”, magari anarchici o preti di montagna. Senza neppure che ci sia un posto, nella Reggio antifascista, dove si possa vedere quella tonaca bucata dai proiettili dei bravi “ragazzi di Salò”, dove si possa raccontare ai ragazzi di oggi che, sempre, in ogni generazione, come ci insegna il Talmud, ci sono almeno 36 giusti nel mondo, magari senza che neppure loro lo sappiano. 36 giusti che salvano quel mondo e noi tutti.

27 gennaio 2019_Giornata della memoria

27 gennaio 2019_Giornata della memoria

da “La Repubblica Padana”
Grande emozione oggi per la celebrazione della giornata della Memoria: Il Presidente della Repubblica card.Silvius Berluscony, accompagnato dal Ministro della Ferrea Difesa Abbiati e dalla Ministra della Suprema Inconoscenza Maria Stella Gelminy hanno conferito l’Ordine del Tricolore all’ultima SS italiana vivente: il cap.Bruno von Vespen.
In delegazione sono poi saliti al soglio pontificio dove sono stati ricevuti da SS Papa Benedetto XVII (al secolo Richard Williamson) che ha ricordato, nel suo breve messaggio di saluto, il prezzo pagato dai valorosi camerati nazionalsocialisti per la difesa della cristianità contro le trame giudo-demo-pluto-massoniche. Un sacrificio che deve rimanere nella memoria di tutti cittadini del Regno dell’Italia Padana.
Dopo un minuto di silenzio in memoria del Beato Benito Mussolini (di cui ricorreva ieri la ricorrenza del primo miracolo), terminato con un simpatico “A noi!”, si è proceduto alla benedizione delle croci (uncinate) augurali che verranno diffuse in milioni di copie in tutte le case italiane, giusto in coincidenza con la 15 edizione del Grande fratello dove, novità annunciata dal card.Berluscony, si confronteranno ausiliarie delle rinate Brigate Nere, simpatici membri della Neonata Banda Koch, insieme a un nano bergamasco, un faccendiere socialista, Paola Binetti, un ultrà sadomaso, Massimo D’Alema e altre personalità di rilievo.
Al termine dell’incontro con SS (Schutzstaffeln) Benedetto XVII, il card. Berluscony ha poi benedetto un treno di studenti in partenza per il Campo scuola di formazione politica nazionale e Padana, recentemente intitolato all’eroico difensore della cristinianità “SS.H.Priebke”, di cui è stata avviata la pratica di beatificazione.
Terminata la benedizione il card.Berluscony ha poi insignito, nel corso di una breve ma significativa cerimonia, del prestigioso Ordine della Panzana cerchiobottista di I classe, alcuni orfani di famosi giornalisti caduti nella cruenta lotta contro gli ultimi focolai dell’antifascismo, prima della definitiva messa fuori legge con la ben nota Legge del 2011, voluta dall’allora Ministro della Sublime Giustizia Platinette. Fra essi GianPierLuigi Battista, Pierpaolo Mieli e GianErnesto Galli della Loggia.
La gioiosa ricorrenza si è conclusa con la parata sui Fori Imperiali dei Battaglioni corazzati delle ètere lombarde, degli stangatori della Val Brembana e delle veline di Pronto intervento della Brigata Arcore.

Rieccolo!

RIECCOLO!
Era il 9 dicembre 2008 e invitavamo il (poco) reverendo Abramowicz a vergognarsi, unitamente ai compagnucci della Padania. Poteva mancare il nostro nei dintorni della Giornata della Memoria a sparare la sua cialtronata da negazionista? Eccolo, il nostro (poco) reverendo da Treviso a confermare le cosette del vescovo scomunicato sull’inesistenza dell’Olocausto. E noi, poveri credenti, peccatori recidivi ci dobbiamo rassegnare a convivere nella stessa medesima Chiesa con simili, belle, personcine…Per fortuna abbiamo chi gioca dalla nostra parte: no, non è il pastore tedesco (figurarsi!!), è un ragazzo ebreo di tanti anni fa, finito su una croce. Do you remember mrs. Williamson? Erinnern sich Sie, herr Abramowicz?

“Marco, vieni c’è Primo Levi al telefono” (2)


Data la mortalità elevatissima, pensa che la sua sopravvivenza sia dovuta a fortuna o ad altri fattori?
“Io penso che, in primo luogo, molto abbia giocato la fortuna. Inoltre non sono stato mai ammalato: mi sono ammalato più tardi, in modo provvidenziale. Ed ecco come avvenne. Io, lavorando in fabbrica, rubavo al laboratorio ciò che mi poteva servire per la sussistenza e puntualmente dividevo il bottino con Alberto; c’era infatti un patto tra di noi, per cui dividevamo fraternamente ogni colpo buono (ecco qui l’arte di arrangiarsi!). Un giorno che avevo rubato del tè in laboratorio, andai con Alberto a venderlo all’ospedale, dove ne avevano bisogno per gli ammalati. Ci pagarono con una gamella di zuppa, quasi gelata e già un po’ intaccata. Probabilmente era stata toccata da un malato di scarlattina: io presi la scarlattina, fui mandato in ospedale e sopravvissi; Alberto che aveva avuto la malattia da bambino, non ne fu contagiato e morì in campo. Altro fattore fondamentale per me è stato quell’operaio, Lorenzo, di Fossano, che mi ha portato per molti mesi quanto bastava per integrare le calorie mancanti. Egli, che pure non era un prigioniero, è tornato molto più disperato di me: era un uomo molto mite e molto pio, rozzo e insieme religioso, e era terrificato di quanto aveva visto, spaventato, ferito. È tornato in Italia da solo, a piedi, e non ha voluto più vivere. Ha incominciato a bere e, a me che lo andavo a trovare spesso, diceva molto freddamente che non desiderava più vivere, che ne aveva viste abbastanza. Morì tubercoloso; e infelice”.

Qualche episodio insolito che ricorda e che non è stato detto nei suoi libri.
“C’era con noi un medico ebreo osservante. Lei sa che la religione ebraica prevede dei digiuni molto rigorosi: in quei giorni non si mangia niente e neppure si lavora. Questo medico alla sera – dopo il lavoro – disse al capo-baracca che la zuppa non la voleva, perché era giorno di digiuno e lui non la poteva mangiare. Il capo-baracca era un comunista tedesco, abbastanza indurito dal suo mestiere (aveva dieci anni di lager alle spalle), però, colpito dalla forza morale del prigioniero, gli conservò la zuppa fino a quando quest’ultimo non terminò il suo digiuno. Questo atto di umanità mi aveva molto impressionato”.

Può stabilire un rapporto tra lei e gli altri scrittori di religione ebraica (Ginzburg, Bassani)?
“Un rapporto complesso c’è, evidentemente. L’ambiente di Natalia Ginzburg è il mio stesso ambiente; abbiamo parenti in comune; lei è nata Levi e suo fratello era il nostro medico. L’ambiente della borghesia ebraica torinese è quello in cui sono nato e cresciuto. Quello di Bassani è diverso; sia Bassani che i suoi personaggi appartengono ad un’altra borghesia ebraica, quella di Ferrara, che io conosco abbastanza poco. E che non mi piace tanto, perché erano una classe abbastanza consapevole dei propri privilegi, abbastanza esclusiva (vedi il famoso muro di cinta) e riservata e chiusa”.

Per quale motivo la Ginzburg le ha rifiutato il manoscritto?
“Premetto che non le serbo rancore (ma forse sì, per un certo periodo gliene ho serbato). Ho pensato a tante cose: forse era satura di manoscritti – fare il lettore in una casa editrice è un brutto mestiere; si è costretti a falciare… poi… è un fatto che, pur conoscendola bene, non abbiamo mai chiarito”.
Ha ancora dei contatti con i compagni del lager?
“Enick l’ho perso di vista completamente. Ho ritrovato invece quel Pikolo, quello del canto di Ulisse; con lui ci vediamo sovente; viene a fare le vacanze in Italia e fa il farmacista in un piccolo paese vicino a Strasburgo. È uno di quelli che hanno rimosso tutto: si è imborghesito completamente e non ama parlare di queste cose. Sono stato a trovarlo, l’ultima volta, con la Televisione italiana; gli ho chiesto di riceverci e mi ha risposto: te sì, ma le telecamere no. Poi però ha accettato anche loro, ma non volentieri”.

Che pensa dei giovani d’oggi?
“La differenza fondamentale tra la nostra giovinezza e la giovinezza attuale è nella speranza di un futuro migliore, che noi avevamo in modo clamoroso e che ci sosteneva anche negli anni peggiori, anche nel lager: la meta c’era e era costruire un mondo nuovo di uguali diritti, dove la violenza era abolita o relegata in un angolo, costruire il Paese per riportarlo a livello europeo. Invece, i giovani d’oggi, mi pare abbiamo molte meno speranze. In generale vedo che tendono a scopi immediati, e questo forse è anche abbastanza giusto, in quanto non distinguono un altro futuro. Mi pare, paradossalmente, che sia stata più facile la nostra giovinezza, perché oggi sono troppi i mostri all’orizzonte: c’è il problema della violenza, il problema energetico, dell’inquinamento; il mondo è diviso in blocchi, c’è una totale incapacità di prevedere l’avvenire e nessuno osa fare previsioni sensate di qui a due anni. C’è sempre il problema atomico. Trovo che sono pochi i giovani che pensano di fare o studiare in qualche modo per un loro preciso futuro. È il senso del tramonto dei valori, per cui bisogna godere e bruciare tutto subito”.

Come mai ha lasciato passare tanto tempo, quindici anni, da Se questo è un uomo alla seconda opera?
“Se questo è un uomo, edito nel ’47 presso De Silva, uscì in duemilacinquecento copie: avevo delle buone recensioni, ma ho avuto cinquemila lettori (un libro lo leggono due persone in media). Dopodiché… non ho avuto più incentivo a scrivere; mi pareva di avere fatto il mio dovere di testimone, di essermi scaricato delle mie tensioni e non sentivo il bisogno di scrivere altro. Solo dopo molti anni mi ha ripreso questo desiderio, perché si è ricominciato a parlare della Seconda guerra mondiale, e dei lager in specie, in modo diverso, in senso storico appunto. Verso il ’60, o forse prima, si tenne un ciclo di conferenze sul tema e io mi sono ritrovato protagonista: molti allora mi hanno incoraggiato a raccontare anche la seconda parte della mia esperienza, cioè il ritorno dalla Russia. Ripresi la penna anche per un altro motivo: era cessata la Guerra fredda e ora potevo raccontare la verità completa, umana. Prima era impossibile parlare della Russia: o se ne parlava come dell’inferno o come del paradiso. E io non me la sentivo, in un ambiente così, di scrivere un libro-verità come La tregua. Solo dopo la distensione è diventato possibile scrivere di queste cose in un linguaggio non retorico”.

Perché è nato Malabaila?
“Perché sarebbe stato scandaloso a quel tempo: non avrei potuto, io, lo scrittore di Se questo è un uomo venire fuori a quei tempi con aneddoti, storie fantastiche. Proposi allora questo pseudonimo all’editore, il quale accettò con entusiasmo, pensando forse di farne un “caso letterario”: poi il caso non ci fu, ed io ripresi il mio nome”.

(18 gennaio 2009)

“Marco, vieni, c’è Primo Levi al telefono”

“Marco, vieni, c’è Primo Levi al telefono…”. Marco Viglino aveva diciannove anni e si stava preparando alla maturità in un liceo cattolico privato quando una sera dell’aprile 1978 arrivò, a sorpresa, la telefonata dello scrittore dalla quale è nata l’intervista inedita che Repubblica ha proposto il 18 gennaio. Trent’anni dopo, l’autore di quella intervista è diventato magistrato, mentre a Torino è nato il centro di studi che dovrà raccogliere e catalogare il grande lascito di appunti e lettere dello scrittore

PRIMO LEVI
“Io, scampato al lager
per poterlo raccontare”
di MARCO VIGLINO

Mi ha colpito il suo desiderio di rendere testimonianza sulla tragica esperienza nel lager: quando è nato questo desiderio?
“Questo desiderio, del resto comune a molti, mi è nato nel lager. Volevamo sopravvivere anche e soprattutto per raccontare ciò che avevamo visto: questo era un discorso comune, nei pochi momenti di tregua che ci erano concessi. Del resto è un desiderio umano: lei non troverà mai un reduce che non racconti. (No, mi correggo, ve ne sono alcuni che non raccontano; ve ne sono alcuni che sono stati feriti talmente a fondo che hanno censurato il loro passato, l’hanno sepolto per non sentirselo più addosso). In primo luogo c’è il bisogno di scaricarsi, di buttare fuori quello che si ha dentro. Poi ci sono anche altri motivi… c’è forse anche il desiderio di farsi valere, di far sapere che siamo sopravvissuti a certe prove, che siamo stati più fortunati, o più abili, o più forti”.

Il punto di contatto tra i primi libri e quelli di fantascienza, mi pare possa essere la sua “indignazione”, che prima è rivolta al lager e poi verso certe storture della civiltà. È giusto?
“Sì, è giusto: è una domanda che mi fanno in molti e a cui veramente non sono il più autorizzato a rispondere, perché non è detto che chi scriva sappia sempre bene “perché” scrive. Io ho due radici: una è il senso del lager e l’altra è il senso della chimica con le sue dimensioni. Avevo in mente di scrivere qualcosa sulla storia naturale ancora prima di entrare nel lager: già da studente sentivo un desiderio del genere (non come progetto chiaro e distinto, ma come vaga aspirazione) e trovavo un terreno fertile nel mio mestiere di chimico. Perciò – dopo aver terminato Se questo è un uomo e La tregua – non è che io abbia “scritto” gli altri due libri: ho raccolto alcune idee e anche alcuni racconti che avevo già scritto prima. Per esempio, il primo racconto delle Storie naturali, quello del vecchio medico che raccoglie essenze, l’ho scritto prima di Se questo è un uomo. E… probabilmente sì, benché il tema sia diverso, anche gli altri scritti risentono dell’esperienza del lager, in una forma molto indiretta, in una forma di delusione profonda, di un ritirarsi dalla vita”.

Tra i personaggi che si incontrano nei suoi libri, Lei mostra particolare simpatia e indulgenza verso alcuni che incarnano una certa “furbizia” o arte di arrangiarsi, come Cesare o il Greco.
“Anzitutto questi personaggi agiscono in un contesto tutto particolare, che è quello della fine della guerra: ora, su questo fondale, direi che si può essere abbastanza indulgenti. Non ammetterei, oggi, un Greco; lo eviterei, mi terrei lontano da lui, ma in quel momento lo sentivo quasi un maestro. Egli soleva dire: la guerra è sempre. E poi ancora mi diceva: “Vedi le scarpe belle che io ho: è perché sono andato a rubarle nei magazzini dei russi. Tu sei uno sciocco, non sei andato a cercarle”. Io rispondevo che pensavo che la guerra fosse finita e che i russi avrebbero provveduto. “La guerra è sempre”, mi ripeteva, e, allora, io ero d’accordo con lui. Oggi sarei più severo nei suoi riguardi, così anche nei riguardi di Cesare: ma la furbizia di Cesare era così solare, così aperta, così ingenua in fondo e così innocua che mi sta bene ancora adesso. Non sarei un censore tanto severo da escluderla, in quella forma: furbizia così “italiana”, sempre mescolata con bonomia. Cesare ingrassava i pesci con l’acqua, poi però, davanti ai bambini affamati della donna russa, glieli regala. Questo fa parte di un’arte di vivere che è vecchia come il mondo e davanti alla quale non si può essere troppo severi”.

Quella carica di ribellione che sta alla radice dei primi due libri si è attenuata con gli anni oppure no?
“Io contesto “quella carica di ribellione”: di indignazione sì; di ribellione purtroppo no perché non c’era modo, almeno per chi era al mio livello. Ribellioni in senso tecnico ve ne sono state, in alcuni lager: l’episodio che ho raccontato di quell’impiccato che muore gridando “io sono l’ultimo!” si ricollega a una ribellione che c’era stata in un altro campo: i prigionieri avevano fatto saltare i forni crematori pochi giorni prima e costui, di cui non conosco neppure il nome, era implicato nella faccenda, probabilmente aveva procurato dell’esplosivo. Riprendendo, l’indignazione sì persiste, ma diciamo che si è ramificata. Sarebbe stupido oggi continuare a vedere il nemico solo lì, solo il nazista, anche se a mio parere è ancora il principale. Però il mondo di oggi è molto più articolato che non quello di una volta. Non erano bei tempi quelli in cui io ero giovane, però avevano il grande vantaggio che erano netti; l’alternativa amico/nemico era molto netta e la scelta non era difficile. Oggi lo è molto di più. Perciò anche l’indignazione persiste, ma è… erga omnes. Verso molti, non più verso “quelli””.

Nella famosa lettera al suo editore tedesco, lei dice che non può capire i tedeschi e quindi non si sente di giudicarli.
“No, ho detto che non li capisco, ma li giudico sì”.

E come, allora?
“Li giudico male: sì, anche i tedeschi di oggi. Non tutti, naturalmente; io ho molti amici tedeschi, anche per il fatto che parlo la loro lingua, e mi interessano, e mi rifiuto di giudicarli in blocco. Però devo dire che, statisticamente, sono un paese pericoloso. Sono un pericolo intanto perché sono divisi in due e questo essi non lo accettano: pochi fra i tedeschi accettano questa divisione. E poi hanno delle virtù che diventano pericolose: questa loro straordinaria passione per la disciplina (che a noi manca – ed è male – ma loro ne hanno troppa!) per cui sono pronti ad accodarsi a chiunque comandi, mi fa paura”.

Com’è che allora, sempre in quella lettera, lei dice che i tedeschi, oltre ad essere pericolo, sono speranza per l’Europa?
“Ecco… la lettera io l’ho scritta molti anni fa, nel ’60, sulla corda dell’entusiasmo che avevo provato io per il fatto che un editore tedesco aveva accettato di pubblicare la mia testimonianza, e anche a seguito di vari contatti che avevo avuto allora con i giovani tedeschi degli anni Sessanta. E mi era sembrato che la Germania fosse veramente un’altra. Sembrava una roccaforte della democrazia, allora: oggi un po’ meno, anzi molto meno”.

Come reagiva vedendo i compagni di sventura andare ogni giorno alla morte a causa della selezione: lo prendeva, alla fine, come un dato di fatto, o questo le procurava ogni volta lo stesso dolore e lo stesso disgusto?
“Ci si incontrava, al mattino, all’appello e quando ne mancava uno, era considerato di cattivo gusto andare a fondo, un po’ come capita oggi quando uno muore di cancro: non se ne parla volentieri. Era una forma di accettazione, in sostanza, per cui l’atteggiamento verso il compagno morto in selezione non era molto diverso da quello verso uno morto di morte naturale. Quel mio amico Alberto, di cui ho parlato a lungo, era in campo con il padre: era un ragazzo molto intelligente e insieme parlavamo sovente di queste cose, senza inibizioni e senza cedere a questa tendenza di negare la verità. Pure, quando il padre fu scelto per la selezione, Alberto disse di essere sicuro che suo padre non era mandato nelle “camere” bensì veniva trasferito con altri prigionieri in un altro campo di convalescenza. E io ero stupito e impressionato nel constatare come il mio amico si fosse prontamente costruito un riparo, per celarsi una realtà altrimenti intollerabile”.
(1-continua)

Il silenzio dei credenti?

DURA PRESA DI POSIZIONE DEL PRESIDENTE DELL’UNIONE DELLE COMUNITA’ ITALIANE RENZO GATTEGNA

“Ci auguriamo che prenda una decisione sul vescovo antisemita”
Gli ebrei: “Infame negare la Shoah la Chiesa deve intervenire”

ROMA – La remissione della scomunica dei vescovi lefebvriani “è una questione che deve essere tenuta separata dalle opinioni storiche. La prima è un fatto interno alla chiesa su cui non abbiamo niente da dire, sulle tesi negazioniste, invece, abbiamo molto da dire perchè sono un’infamia”. Il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna torna sulla polemica tra Vaticano e mondo ebraico suscitata dalla decisione di Papa Benedetto xvi di riabilitare quattro vescovi lefebvriani. Nei giorni scorsi la comunità ebraica aveva parlato di una Chiesa “contaminata” da affermazioni antisemite, oggi Gattegna rincara la dose e chiede una esplicità presa di distanza del Vaticano dalle parole di monsignor Williamson (uno dei riabilitati) che ha sostenuto tesi negazioniste sulla Shoah.

“In questo momento – spiega Gattegna – siamo attenti osservatori delle decisioni che la chiesa prenderà in merito a chi sostiene tesi negazioniste. Ci auguriamo che ci sia una smentita di queste tesi che chiarisca ogni dubbio a riguardo”.

Critico anche il presidente della comunità ebraica di Milano, Leone Soued. “Il ritiro della sua scomunica – dice Soued – porta a un momento di riflessione ma la Chiesa ha immediatamente chiarito che è un reintegro soltanto nella sua veste religiosa e non tanto con riguardo alle sue idee personali, prima fra tutte la negazione della Shoah”. La decisione, comunque, “deve portare – sottolinea Soued – a una profonda riflessione nei rapporti con la Chiesa, che ultimamente sono stati difficili ma devono assolutamente continuare”.

(http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/esteri/benedetto-xvi-29/leggi-infamia/leggi-infamia.html)

E noi credenti possiamo tacere? Pensiamo che sia una questione fra ebrei e lo Stato estero del Vaticano?

Adiuvamos eos ut pudeant (Aiutiamoli a vergognarsi /6)

Adiuvamos eos ut pudeant (Aiutiamoli a vergognarsi /6)

Il Vaticano ha ritirato la scomunica ai vescovi lefebvriani.
Adiuvamos eos ut pudeant. Che si vergognino. Ma davvero! Modesta richiesta di un povero cristiano che è stanco, di vedere la gerarchia insultare il diritto, il buon senso, la storia. Una gerarchia che rappresenta sè stessa, autoriproducente. Le chiese si svuotano, i seminari sono in vendita, ci vorrebbero segni profetici e questi cosa fanno? Sordi ai segni dei tempi, rincorrono piccoli brandelli di potere, illusioni di rivincita, incuranti del distacco morale, prima ancora che politico di quel popolo di Dio che pretenderebbero di rappresentare.
Ma le vie della Provvidenza, si sa, sono infinite. Anche questo Papa, alla fine, penso sia provvidenziale, per la nostra salvezza, come sconto dei nostri peccati, come una penitenza, come una lunga Quaresima.

Alberigo_301006_DossettiConcilio.pdf

Il vescovo: “L’olocausto non è mai esistito”

Tale Richard Williamson, nominato vescovo da tale Marcel Lefebvre, ha dichiarato: “..Sì,..secondo me le camere a gas non sono mai esistite..L’antisemitismo può essere cattivo solo quando è contro la verità, ma se c’è qualcosa di vero non può essere cattivo.” Un suo sodale, tale Franz Schmidburger, responsabile della Fraternità [lefebvriana] in Germania afferma che gli ebrei di oggi portano la colpa del deicidio, finchè non prenderanno le distanze dai loro avi e non riconosceranno la natura divina di Gesù Cristo.

(La Repubblica, 23.1.2009)

Al signor Williamson, al suo sodale Schmidburger e ai loro amici non chiedo di vergognarsi, perchè per poterlo fare ci vuole coscienza e onestà, doti di cui sono notoriamente sprovvisti, chiedo invece di vergognarsi alle gerarchie vaticane se si realizzasse quanto ventilato negli ultimi giorni, ovvero il ritiro della scomunica ai lefebvriani che sarebbe stata nelle intenzioni del pontefice germanico. Ricordo che non è stata mai ritirata la scomunica irrogata ai comunisti nel 1949.

La destra ci riprova: è un’infamia

LA DESTRA CI RIPROVA: E’ UN’INFAMIA
Vittorio Emiliani

Criminalizzare la Resistenza, i suoi eroi è una pratica diffusa, tesa a dimostrare che democrazia e Costituzione sono nate dalla vendetta, dal sangue dei vinti. Ci provarono, attivamente, anche nei primi anni ’50: a migliaia (5.144 soltanto a Modena), ex resistenti vennero incarcerati e processati. Dopo mesi e anni di galera molti furono assolti. Ora la destra getta nuovo fango su Arrigo Boldrini, decorato sul campo di medaglia d’oro dal generale dell’VIII Armata, Richard Mac Creery. Organizzatore della più incredibile e coraggiosa resistenza di pianura. Nel Ravennate nazisti e repubblichini fra i più feroci imperversarono: 70 stragi, 426 civili uccisi, intere famiglie (Baffè, Foletti, Orsini) spente. Uno dei suoi uomini, il ventiduenne Umberto Ricci, torturato, ferito, malato, scrisse ai genitori e agli amici: «Io ho l’onore di rinnovare qui a Ravenna l’impiccagione. Però non ho nessuna paura della morte». Impiccato con Lina Vacchi il 24 agosto ’44 al Ponte degli Allocchi, fu lasciato marcire appeso. Dieci suoi compagni vennero fucilati.
Agli uomini di Bulow dobbiamo anche la salvezza dei monumenti ravennati. Gli Alleati erano decisi a bombardare preventivamente la città. Boldrini li scongiurò: «I nazifascisti si sono già ritirati». Poi chiese e ottenne di venire incorporato nell’VIII Armata. Bulow sperava – me lo disse anni dopo – di arrivare con gli Alleati fino a Trieste e di costituire una sorta di cordone protettivo rispetto ai partigiani di Tito. Purtroppo non gli fu concesso. Nel 1949 alcuni dei suoi furono accusati di aver partecipato all’eccidio di Codevigo: assolti. Nel ’91 la Procura di Padova giudicò «infondata» un’altra denuncia. Anche Cossiga lanciò un’accusa contro Bulow, per poi riconoscere che «fonti storiche e giudiziarie escludono in modo inoppugnabile tale coinvolgimento». Ora ci riprovano, infami.

(L’Unità, 23.1.2009)

La Shoah sul web: www.zwangsarbeit-archiv.de

L’ORRORE DELLA SHOAH SUL WEB
on line 600 testimonianze
Racconti di sopravvissuti a disposizione di studiosi, scuole, giornalisti
dal corrispondente ANDREA TARQUINI

BERLINO – La tragedia e le inenarrabili sofferenze dei forzati di Hitler rivive su internet con 600 interviste-testimonianza e racconti in diretta, grazie a un team di storici tedeschi. Da oggi è aperto, operativo, e funziona gratis per ricercatori, storici, professori e scuole, giornalisti, il sito www.zwangsarbeit-archiv.de. E’ un’iniziativa eccezionale che un team di decine di storici e ricercatori delle università berlinesi, appoggiati attivamente prima dal governo di Gerard Schroeder prima e da quello di Angela Merkel poi, hanno realizzato e mettono ora a disposizione della Memoria del mondo.

Circa 600 sono le testimonianze raccolte nel link. L’utente le può chiamare: alcune sono audio e video insieme, altre solo audio. I sopravvissuti raccontano quegli anni terribili in cui furono strappati alla loro terra e ai loro cari, deportati nei territori occupati dal ‘Reich millenario’, e costretti a lavorare in condizioni bestiali, malnutriti, maltrattati, e spesso percossi e torturati ogni giorno dagli aguzzini hitleriani. 341 uomini e 249 donne sono i sopravvissuti che i team dei ricercatori tedeschi sono riusciti a trovare sparsi per il mondo: la maggior parte attualmente vive in Russia, Ucraina o Polonia, o negli Usa, o in Israele, altri in Europa occidentale. Un terzo almeno degli intervistati sono ebrei, altri gitani, altri erano solo cittadini dei paesi occupati sospettati di simpatie per la resistenza o giudicati abbastanza giovani e forti da essere abili al lavoro.

I tempi erano già pessimi per il Terzo Reich, la scommessa hitleriana di vincere la guerra era già perduta. Prima la Royal Air Force aveva battuto l’aviazione nazista, cioè la Luftwaffe, nella battaglia aerea sull’Inghilterra. Poi l’America di F. D. Roosevelt aggredita dal Giappone era entrata in guerra con tutto il suo imbattibile potenziale industriale, e grazie a ingenti forniture militari del massimo livello americane e britanniche, alla sua stessa industria militare e al sacrificio spaventoso della sua gente (27 milioni di morti) l’Unione sovietica aveva respinto l’attacco della Wehrmacht alle porte di Mosca e a Stalingrado e l’Armata rossa avanzava verso ovest. Dalla Polonia alla Francia, dall’Olanda alla Norvegia, gruppi partigiani sfidavano l’occupante. La macchina da guerra nazista aveva bisogno di produrre sempre più armi, e si affidò ai forzati trattando milioni di persone come schiavi, come bestie.

“Io sono l’unico sopravvissuto della mia famiglia, tutta scomparsa nella deportazione”, racconta in una delle testimonianze online Henry F., ebreo ungherese, oggi abitante ad Atlanta, Georgia, Usa. “Ci picchiavano ogni giorno, era bestiale”. Altri sopravvissuti hanno ricordi diversi. Come il francese René: “A volte i capi tedeschi erano umani o quasi umani con noi, semplicemente perché tenerci in vita serviva loro per continuare a farci produrre le armi per la loro guerra”.

L’iniziativa del sito è partita dalla Fondazione tedesca per il ricordo e il futuro, creata nel 2001. E’ l’istituzione che dopo l’accordo tra Berlino e le organizzazioni ebraiche e dei sopravvissuti alla Shoah ha gestito il pagamento di risarcimenti alle vittime per oltre 4 miliardi di euro presi dal bilancio tedesco. Ma non contano solo i soldi, fa capire Felix Kolmer del Comitato internazionale di Auschwitz. Per i sopravvissuti, dice all’agenzia France Presse, conta anche che pure con Internet ci sia in futuro per loro una garanzia di non sparire dalla Memoria.

(http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/esteri/shoah-2009/shoah-2009/shoah-2009.html)