The times they’re a changing


I cinici non riescono a capire che la terra è franata sotto i loro piedi che gli argomenti politici stantii che ci logorano da tempo non valgono più. Oggi non ci chiediamo se c’è troppo Stato o troppo poco Stato, ma ci chiediamo se la macchina dello Stato funziona – se aiuta le famiglie a trovare un lavoro retribuito in maniera dignitosa, a curarsi sopportando costi contenuti, ad avere una pensione dignitosa. Ogni qual volta la risposta è affermativa, abbiamo intenzione di continuare sulla stessa strada. Quando invece la risposta è negativa è nostra intenzione porre fine ai programmi pubblici che non funzionano. E quelli di noi che gestiscono il denaro pubblico debbono rispondere del loro operato – debbono spendere con saggezza, rivedere le cattive abitudini e operare alla luce del giorno – perché solo così facendo possiamo ripristinare il rapporto di fiducia tra il popolo e il governo.

Sappiamo infatti che la nostra composita eredità è una forza, non una debolezza. Siamo una nazione di cristiani e mussulmani, ebrei e indù e di non credenti. Si mescolano nel nostro Paese lingue e culture di ogni parte della terra e, dal momento che abbiamo assaggiato l’amara brodaglia della guerra civile e della segregazione e siamo emersi da quel buio capitolo della nostra storia più forti e più uniti, non possiamo non credere che i vecchi odii un giorno svaniranno, che i confini della tribù presto si dissolveranno, che nella misura in cui il mondo diventerà sempre più piccolo, si rivelerà la nostra comune umanità e che l’America deve svolgere il suo ruolo nell’aprire la strada ad una nuova era di pace.

Questo è il significato della nostra libertà e del nostro credo che uomini, donne e bambini di ogni razza e fede possano celebrare insieme in questo magnifico spazio e che un uomo il cui padre meno di 60 anni fa poteva non essere servito in un ristorante ora è dinanzi a voi dopo aver pronunciato un sacro giuramento.

Che i figli dei nostri figli possano dire che quando siamo stati messi alla prova non abbiamo consentito che il nostro viaggio fosse interrotto, che non abbiamo voltato le spalle, che non abbiamo esitato e, con lo sguardo fisso all’orizzonte e con la grazia di Dio su di noi, abbiamo portato avanti il grande dono della libertà e lo abbiamo consegnato alle generazioni future.

(Barack Hussein Obama, Washington, 20 gennaio 2008)

Parole di Politica

Grazie alla cortesia della rivista HOPE della Fondazione Madonna dell’Uliveto onlus, ospito l’intervento del prof.Romano Prodi pubblicato nel n.15-dicembre 2008

PAROLE DI POLITICA
Romano Prodi

Mi è stato chiesto di riflettere sul rapporto tra la parola e la politica, e cioè di dire la mia su un tema immenso e quasi smisurato. Confesso che non ce la faccio proprio ad affrontarlo tutto intero, con tutte le sue infinite implicazioni. Mi limiterò quindi a ragionare su un solo aspetto del rapporto fra la parola e la politica e cioè sulla parola come strumento di conquista del consenso politico. Per essere ancora più preciso sulla parola nella campagna elettorale.
Sotto molti aspetti si può affermare che, almeno negli ultimi duemila anni, nulla è cambiato nell’uso della parola per convincere gli elettori. Ma poi, guardando bene dentro alle cose, possiamo invece affermare che tutto è cambiato.
Cerchiamo di divertirci un poco partendo da due documenti di duemila anni fa per poi passare direttamente a oggi.
Il primo documento è un vero e proprio manuale scritto da Quinto Tullio Cicerone per aiutare il più illustre fratello Marco Tullio durante la campagna elettorale per il consolato nel 63 A.C.. Un documento raffinato ma anche estremamente semplice su cosa bisogna fare ma, soprattutto, su cosa bisogna dire per conquistare la fiducia degli elettori (Quinto Tullio
Cicerone, Manualetto di campagna elettorale, Ed. Salerno, Roma, 2006). Di insegnamenti che oggi potremmo chiamare “politicamente corretti» ne leggiamo ben pochi. La parola è ritenuta un semplice strumento per convincere gli elettori e, perciò, ogni parola, ogni promessa è lecita, purché raggiunga il suo scopo. La conquista del voto dipende dalla promessa di benefici, dalla speranza e, anche, dalla simpatia che si riesce il. suscitare in coloro che debbono depositare il loro voto nelle urne. La parola deve perciò essere esclusivamente dedicata a raggiungere questi tre obiettivi. Tutto il manuale elettorale è perciò dedicato a come promettere, a come creare speranze e simpatia, con qualsiasi strumento. E per raggiungere questo obiettivo tutto è lecito, a partire dalla simulazione, per cui il candidato non dovrà limitarsi a pronunciare solo le parole gradite ai suoi interlocutori, ma dovrà anche accompagnare alle parole le espressioni del volto e gli atteggiamenti che più saranno in grado di costruire consenso attorno alla propria persona. Il raffinato manuale non si limita tuttavia a questo e, come succede nelle migliori famiglie, si dedica accuratamente ad elencare gli strumenti di denigrazione da usare nei confronti degli avversari politici. Antonio e Catilina debbono essere perciò attaccati nel modo più violento possibile, calcando la mano sui loro debiti, le amicizie dubbie, lo sperpero del denaro, il lusso, la lussuria e tutti i vizi di cui si può macchiare un essere umano. Si adombrano anche ipotesi (non ben confermate) di delitti e nefandezze che, certamente, possono colpire l’immagine degli elettori. Un manuale completo, metodico e raffinato per un politico raffinato che, chiamandosi Cicerone sa, più di ogni altro, fare buon uso della parola.
Il secondo documento a cui voglio riferirmi, ci porta di fronte ad una realtà radicalmente più popolare, riguardo alla quale vengono usate parole semplici, dirette al popolo minuto, per una gara elettorale di livello locale. Mi riferisco alle divertentissime e semplici scritture murali di propaganda elettorale che ancora oggi si possono leggere sui muri di Pompei. Parole che il Vesuvio ha portato direttamente a noi. «I fruttivendoli chiedono di votare per Marco Cerinio». E tanti altri scritti in favore del candidato degli osti, dei professori, dei mulattieri o degli abitanti dei diversi quartieri. Nessuna raffinata motivazione: al massimo il candidato viene definito virtuoso, meritevole e capace di interpretare gli interessi della collettività. Parole semplici, che vengono ripetute migliaia di volte sui muri di tutta Pompei: basta pensare che più di mille di questi «murales» ante-litteram sono arrivati fino a noi.
In fondo analizzando questi due diversi esempi di espressione politica, si potrebbe concludere che, riguardo all’uso della parola, non vi è nulla di nuovo rispetto alle campagne elettorali di oggi: allora come oggi si usavano parole semplici per le persone semplici e parole raffinate per convincere gli elettori di livello più elevato.
Le similitudini sono evidentemente molte perché anche oggi la parola nelle campagne elettorali è usata per creare promesse, speranze, simpatie e, soprattutto, per denigrare gli avversari. E, oggi come allora, non vengono dedicate molte energie perché queste parole siano fra di loro coerenti e, complessivamente veritiere.
Le similitudini, però, si fermano qui perché la parola, nelle campagne elettorali moderne, viene accompagnata da strumenti che la rendono infinitamente più potente ed efficace rispetto a quanto avveniva in passato. Il primo strumento è la moltiplicazione in modo diretto ed indiretto della sua intensità attraverso i moderni canali di comunicazione. Ed in questi canali il modo indiretto prevale ormai sulla parola stessa. Un moderno manuale di campagna elettorale non solo non potrebbe mai contenere le scritte ingenue e dirette dei muri di Pompei, ma non potrebbe nemmeno accontentarsi dei complessi insegnamenti del fratello minore di Cicerone. L’attacco diretto all’avversario si rivolgerebbe facilmente contro chi lo pronuncia. Occorre qualcosa di più complesso: uno screditamento generale dell’avversario e di tutto quello che gli sta attorno. Una demolizione progressiva della sua personalità, un feroce uso del ridicolo: il tutto possibilmente in modo obliquo, nel quale il linguaggio del candidato è sempre accompagnato dagli echi presunti o reali degli effetti delle sue parole sugli elettori. Non basta la parola ma occorre dimostrare che essa ha prodotto effetti devastanti sugli avversari. Alla parola si accompagnano perciò le indagini demoscopiche e gli opinion polls. Essi non servono solo a mettere in luce la forza del «nostro candidato», ma ci abituano a modificare e ad adattare le parole che verranno pronunciate successivamente agli effetti delle parole precedenti, che appunto emergono dalle indagini e dagli opinion polls. La parola diventa quindi non solo strumentale ma sempre più provvisoria, in attesa di essere modificata a seconda delle reazioni che la parola precedente ha provocato. Viviamo cioè nel continuo inseguimento fra la parola e la sua eco. E l’eco diventa più importante della parola stessa.
Questo gioco fra la parola e la sua eco diventa così rapido che il cittadino, cioè l’elettore finisce con l’essere così stordito, da non capire più il significato delle parole stesse. Lo stordimento è tale che si perde una condizione indispensabile perché la parola sia efficace, e cioè la memoria. E senza la memoria diventa impossibile giudicare l’aspetto più importante della parola, e cioè la sua coerenza. Il martellamento diretto ed indiretto dei media raggiunge infatti dimensioni e ritmi tali per cui diventa sempre più difficile costruire i legami e i collegamenti che permettono alla parola di conservare il suo contenuto espressIvo.
Se è quindi vero che l’uso della parola nella campagna elettorale non sembra offrire novità radicali rispetto a duemila anni fa, esso è oggi totalmente diverso per effetto della presenza sempre più pervasiva del sistema dei media. L’eccesso di parole e il modo con cui questo eccesso viene gestito rende incomprensibile la realtà sottostante e rende sempre più difficile distinguere questa realtà dalla mistificazione. Il processo è andato così avanti per cui molti si chiedono se questo non mette addirittura a rischio la vita della democrazia stessa.
lo credo che questo processo di deterioramento stia procedendo in modo quasi inarrestabile e che sia perciò necessario ed urgente adottare importanti misure correttive. La democrazia, per funzionare, richiede infatti una presenza equilibrata della parola e dell’ascolto. Questo obiettivo non è però raggiungibile senza un uso misurato ed equilibrato dei media che trasportano ed amplificano la parola fino a falsarne completamente l’ascolto. Senza equilibrio e senza misura la parola non può arrivare né al cuore né al cervello. E se non vi arriva non dobbiamo stupirci se la democrazia si inaridisce e i cittadini diventano sempre più scettici e rabbiosi.

Chi ci difende dai difensori?

Chi ci difende dai difensori, dai protettori, dai venditori di paura che battono le nostre contrade? Fra un qualunque extracomunitario e un leghista non ho dubbi su chi devo temere. Non ho dubbi su chi rappresenti un rischio concreto per la tenuta sociale, per il nostro (sempre più precario) essere una comunità. E su questo pericolo l’allarme va dato, anche se il tempo perduto è tanto. Le parole sono pietre e non si può accettare tutto con una alzata di spalle, liquidando quelle parole orrende come chiacchiere da bar. Certo, il livello è quello, ma la pericolosità resta tutta. Quanti conoscenti abbiamo sentito pronunciare la famosa frase: “Io non sono razzista. Però….” e giù roba da KuKluxKlan, da Borghezio o simile feccia? Quanti, anche già elettori di “sinistra”, grattando appena, si scoprivano antimeridionali, antiterroni, anti..?
Certo il frutto di quello che Serra ha definito (La Repubblica, 16.1.2009) il “deterioramento ambientale” è davanti a noi. Le vittime della “paura sociale, dell’ignoranza ottenebrante sulla quale soffia la demagogia razzista” sono quelle che poi pontificano sulla “sicurezza”, sul “adesso sono troppi”, anche senza arrivare a concepire idee appena più complesse, ignote al loro buio intellettuale e morale. Gente normale, padri e madri di famiglia, senza arrivare alla vergogna del Presidente del Consiglio provvisorio che racconta la barzelletta sui lager.
Allora bisogna rialzare le difese, ascoltare le parole e fermarle. Non lasciarle correre. Far capire che no, non è normale dire (e pensare) certe cose. Domani un nero diventa Presidente degli USA e noi siamo a riflettere di quanta cultura, istruzione, senso del bello, rispetto della persona ci sia ancora bisogno in questo povero e disperato paese.

Informazione?

Polemiche, dichiarazioni indignate, si grida alla censura. Ma di cosa stiamo parlando? Siamo sicuri che la “informazione” sia quella cosa lì? Vespa-Santoro-Ballarì/Ballarò-Matrix? O siamo così assuefatti che crediamo davvero a tutto? E scattiamo a comando a urlare anche noi “censura”, “vergogna”, in perfetto stile da curva sud? Informazione? Stamattina Mino Fuccillo suggeriva in un corsivo intelligente di parlare non di “informazione” ma di “spettacolo”, con i suoi personaggi, trame e siparietti. Spettacolo, e ognuno si sceglie il suo, il suo plot, come una fiction o un giallo. Tanto per stare a San Toro: quanti si guardano Travaglio, fanno altro e aspettano Vauro? Informazione, spettacolo.

Chiedere scusa

Quel giorno del 2003 quando gli USA e la Gran Bretagna invasero l’Iraq ero a Berlino, assistevo ad una seduta del Bundestag, massima tensione per gli avvenimenti eppure quanta civiltà e misura negli interventi dei diversi parlamentari! E io lì a vergognarmi, pensando al nostro Parlamento ridotto ad un lupanare. E ancora non avevano stappato champagne e agitato fette di mortadella. E la Carfagna mostrava ancora le sue grazie sui paginoni patinati. Alla Porta di Brandeburgo ci unimmo al corteo degli studenti, Carlo Porta, classe 1918, fu il primo. Era contento di essere lì, ancora una volta a dire no. Ci hanno definito terroristi, cattocomunisti, filoiracheni, amici di Saddam. Oggi quel poveretto di Bush, prima di andarsene, lasciando macerie su macerie, chiede scusa e ammette di essersi sbagliato. Mi piacerebbe che qualcuno dei cialtroni che ci governa, degli “atei devoti”, dei “liberali sottolio”, avesse un attimo di dignità e chiedesse scusa. Ma non lo faranno, non ce la possono fare, e allora: vergognatevi, cialtroni!

40 anni fa , un ragazzo a Praga

40 anni fa. A Praga. Un ragazzo decise di essere la “torcia numero 1”. Ian Palach, un nome che è rimasto anche per chi allora era soltanto un ragazzino di 13 anni ma che, confusamente forse, o invece con la nettezza propria dei ragazzini, aveva capito che se qualcuno doveva uccidersi per protestare contro un socialismo, portato dai carri armati, forse quel socialismo era solo una dittatura e basta. Mentre quelli che oggi ci parlano di “riformismo” andavano in vacanza sul Mar Nero, insieme ai “compagni” sovietici. E quelli che oggi ci parlano di “fine delle ideologie” pochi anni dopo avrebbero inneggiato al colonnello Pinochet.
“Di nuovo Ian Hus sul rogo bruciava all’orizzonte del cielo di Praga”, quella storia l’abbiamo imparata anche da una canzone. 40 anni fa.

L’onda triste

“…Ed è polemica anche alla Sapienza. Dall’assemblea degli studenti di Fisica, cuore dell’Onda, ieri pomeriggio è uscito un nuovo documento destinato a far discutere. Un appello rivolto al direttore del Dipartimento e a tutti i ricercatori italiani, con la richiesta espressa di «interrompere ogni collaborazione con le istituzioni di ricerca israeliane, pubbliche o private, per sostenere la pressione sociale internazionale che richiede la fine degli attacchi di Israele ai territori palestinesi».

Contrarie le prime reazioni dei professori. Il direttore del Dipartimento di Fisica, Giancarlo Ruocco, è responsabile da tre anni di un progetto sulla fotonica in collaborazione con tre università israeliane, tra cui Tel Aviv. Dice già che il progetto andrà avanti. «L’unica cosa che farò è convocare per mercoledì prossimo il consiglio dei docenti (150 scienziati tra cui Cabibbo, Parisi e Maiani ndr) e sottoporre loro il documento. Daremo una risposta collegiale». Epperò, a titolo individuale, ecco arrivare già severe bocciature: «È allucinante », s’indigna Carlo Di Castro, docente di Meccanica Statistica a La Sapienza e membro della comunità ebraica di Roma. «Anche ammesso che si debba condannare l’intervento attuale, come si fa a confondere la politica del governo israeliano con la libera produzione culturale del Paese? Questi studenti non sanno che con la nascita dello Stato d’Israele nel 1948 si ebbe l’affermazione della libertà e della vita sulla tirannide e la barbarie».

È allarmato infine David Meghnagi, ex vicepresidente dell’Ucei e docente di Psicologia clinica a Roma Tre: «Già in Francia nel 2003 e poi in Inghilterra fu organizzato un boicottaggio degli accademici israeliani. Nel 2005 promossi un appello contro questo boicottaggio. E il 26 gennaio, inaugurando il Master in Didattica della Shoah, con 20 università da tutto il mondo, anche israeliane, faremo sentire di nuovo la nostra voce».

(http://www.corriere.it/cronache/09_gennaio_15/lite_santoro_annunziata_annozero_6ed76b2a-e34d-11dd-abc2-00144f02aabc.shtml)

Solo in Italia…(3)

PARTIGIANI UGUALI AI FASCISTI? UN’OFFESA
Nicola Tranfaglia

“Siamo di nuovo al punto di prima. Durante il quinquennio 2001-2006 che ha visto la seconda, lunga esperienza di Silvio Berlusconi alla guida del governo italiano abbiamo già assistito al tentativo di equiparare giuridicamente (dal punto di vista storico l’operazione è ancora più difficile) i combattenti della guerra partigiana, e i soldati, regolari e irregolari, della repubblica sociale italiana, gli alleati consapevoli del Terzo Reich sconfitti al termine di venti mesi feroci e terribili dalle truppe angloamericane che risalivano la penisola e dalla resistenza italiana. Quel tentativo fallì.

Qualcuno direbbe: perché c’era ancora in Italia una opinione pubblica democratica o perché l’opera di berlusconizzazione del paese era ancora incompiuta? Non lo so. Fatto sta che quel parlamento alla fine aveva bloccato il progetto di legge per equiparare partigiani e repubblichini. Ora l’occasione si ripresenta e nel giugno scorso una carovana che vede in prima linea alcuni socialisti che hanno scelto la destra (come l’on. Caldoro e l’on. Barani) insieme con una truppa composta da deputati di Alleanza Nazionale che sembrano in polemica aperta con le recenti dichiarazioni del loro leader, attuale presidente della Camera, Gianfranco Fini. Quest’ultimo infatti è ormai approdato all’idea che l’antifascismo è un requisito essenziale della democrazia repubblicana. La carovana anzidetta è tornata alla carica con il progetto numero 1360 che accentua l’assurdità del provvedimento della precedente legislatura.

Nella nuova proposta legislativa si ipotizza la costituzione di un Ordine Tricolore presieduto dal Capo dello Stato che avrebbe al suo interno l’istituto nazionale della Resistenza e quello storico della Repubblica Sociale Italiana e prevede che combattenti siano considerati non soltanto i soldati e gli ufficiali delle quattro divisioni di fanteria della RSI ma anche i componenti della Guardia Nazionale Repubblicana, delle Brigate Nere, delle Bande feroci come la Banda Carità e la Banda Koch che, nei venti mesi di guerra contro i partigiani e i civili italiani, oppositori dei nazisti, provocarono morti e lutti assai gravi nell’Italia occupata dalle truppe del Terzo Reich.

Un’offesa terribile per i caduti nella guerra che liberò l’Italia dalla barbarie nazista e che vide cadere quasi duecentomila persone tra partigiani e cittadini del nostro paese. Di fronte a quello che ancora una volta, malgrado le parole di Fini, Alleanza Nazionale, sostenuta da Berlusconi, vuol fare nel nostro parlamento c’è da sperare che anche questa volta il progetto non vada avanti. Un giurista di grande peso come Giuliano Vassalli, ex presidente della Corte Costituzionale, più volte ministro della repubblica, ha dichiarato nei giorni scorsi che non deve esserci” nessun riconoscimento ai repubblichini. Erano e restano nemici dello Stato.” E ha ricordato :”Che cosa vogliono ancora? Hanno avuto tutto, l’amnistia di Togliatti, la legittimazione democratica immediata, l’MSI in parlamento, adesso sono al potere. Eppure non esiste paese in Europa in cui i collaborazionisti dei nazisti sono stati premiati.”

(L’Unità, 15.1.2009_www.nicolatranfaglia.com)

Pro Judaeis aut pro nobis?

PAPA, L’ACCUSA DEL RABBINO DI VENEZIA
“Con lui cancellati 50 anni di dialogo”

L’attacco contenuto in un editoriale per il mensile dei gesuiti “Popoli”
“Sulla preghiera per la conversione degli ebrei sono mancate le risposte della Cei”

ROMA – Con Benedetto XVI, la Chiesa sta cancellando i suoi ultimi “cinquanta anni di storia” nel dialogo tra ebraismo e cattolicesimo: a lanciare la critica è il rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Richetti, che – in un editoriale per il mensile dei gesuiti “Popoli”, ha spiegato i motivi che hanno portato il rabbinato italiano a non partecipare alla prossima Giornata sull’ebraismo, indetta per il 17 gennaio dalla Conferenza espiscopale.

Il rabbino di Venezia ricorda innanzitutto la decisione di Benedetto XVI di reintrodurre, con il messale pre-conciliare, la preghiera del Venerdì Santo per la conversione degli ebrei. Il rabbinato italiano – riferisce Richetti – ha chiesto spiegazioni ed un ripensamento: con risposte ufficiose, “una risposta della Conferenza episcopale, sia pure sollecitata, è mancata”, e la Chiesa – afferma l’esponente ebraico – ha fatto presente che “gli ebrei non hanno niente da temere”, in quanto “la speranza espressa dalla preghiera ‘Pro Judaeis’ è ‘puramente escatologica’, è una speranza relativa alla ‘fine dei tempi’ e non invita a fare proselitismo attivo”.

“Queste risposte – osserva tuttavia Richetti – non hanno affatto accontentato il Rabbinato italiano. Se io ritengo, sia pure in chiave escatologica, che il mio vicino debba diventare come me per essere degno di salvezza, non rispetto la sua identità. Non si tratta, quindi, di ipersensibilità: si tratta del più banale senso del rispetto dovuto all’altro come creatura di Dio”.

“Se a ciò aggiungiamo – aggiunge Richetti – le più recenti prese di posizione del Papa in merito al dialogo, definito inutile perchè in ogni caso va testimoniata la superiorità della fede cristiana, è evidente che stiamo andando verso la cancellazione degli ultimi cinquant’anni di storia della Chiesa”.

Poi la conclusione, durissima: “In quest’ottica, l’interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa è la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma autorità”

(http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/esteri/benedetto-xvi-29/rabbini-papa/rabbini-papa.html)