Destra e sinistra esistono ancora (A.Giddens)

da: La Repubblica, 15.1.2013

Palazzo_magnani,_giano_bifronte.jpgDestra e sinistra sarebbero concetti superati, obsoleti, privi di senso, come qualcuno ora sostiene nella campagna elettorale italiana? Non sono d’accordo. Norberto Bobbio diceva che il significato di destra e sinistra cambia continuamente, e non c’è dubbio che oggi entrambi i termini significano qualcosa di diverso rispetto al passato. Ciononostante restano due concetti politici profondamente differenti e continuano ad avere un valore specifico anche nell’odierno mondo globalizzato.

La destra tradizionale di oggi in Europa e in generale in Occidente crede nel libero mercato, in uno stato poco invasivo e contenuto, in un conservatorismo sociale nella sfera privata. La sinistra crede in un governo attivo più che nello statalismo, in una maggiore regolamentazione del mercato, nel liberalismo sociale. Le differenze tra i due schieramenti sono ben visibili, sebbene non siano più così nette come un tempo. A sinistra non c’è più l’utopia socialista. A destra possono esserci aperture in campo sociale, come dimostra David Cameron in Gran Bretagna schierandosi a favore del matrimonio gay, peraltro con forte opposizione e disagio tra molti membri del suo stesso partito.
Inoltre oggi ci sono questioni, come quella dell’ambiente, che non sono più “di destra” o “di sinistra” sulla base dei vecchi parametri: il cambiamento climatico è un problema grave, urgente e profondo, che travalica ogni schieramento ideologico, perlomeno se guardato senza paraocchi.

In parte è vero quel che Tony Blair ha scritto nella sua autobiografia politica, dopo avere lasciato Downing Street: oggi vi sono forze che si distinguono per la propria “apertura” nei confronti della società e altre che si distinguono per una contrapposta “chiusura”. Due diverse mentalità, due modi di affrontare la realtà: apertura verso l’immigrazione, le nuove tecnologie, i cambiamenti sociali, in contrasto con chi preferirebbe chiudere le frontiere, respingere le innovazioni, mantenere lo status quo.
Ma questo contrasto non basta a definire la lotta politica. Rappresenta un programma e una visione troppo limitati. Ed è portatore di frequenti contraddizioni: vi sono partiti apertissimi quando si tratta di discutere di libero mercato, che vorrebbero privo di qualsiasi regola o laccio, e poi chiusissimi sul tema dell’immigrazione, senza comprendere che quest’ultima è una componente essenziale del liberalismo e che non può esserci un mercato “aperto” con una chiusura delle frontiere agli immigrati.
La discussione sul presunto superamento di concetti come “destra” e “sinistra” ha inoltre un difetto di fondo: induce a credere che, nel mondo di oggi, ci sia bisogno di meno politica di quello di una volta, ossia di meno ideologia, meno partiti, meno governo, come se tutto dipendesse dall’essere disponibili o contrari al cambiamento, inteso come generale progresso dell’umanità. Al contrario, ritengo invece che oggi ci sia bisogno di più politica di prima, perché i problemi globali, dalla drammatica crisi economico-finanziaria all’effetto serra, dimostrano che solo un intervento collettivo, programmatico, di sana governance internazionale, può mettere il nostro pianeta sulla strada giusta.

Una migliore definizione del confronto politico odierno verterebbe allora su un termine diventato assai popo-lare, seppure utilizzato spesso a sproposito: reformer.
Oggi tutti o perlomeno tanti si autodefiniscono così. Ma chi è, cos’è, un vero riformatore o riformista? In Europa è colui che comprende la profondità della crisi che stiamo attraversando e si rende conto delle risposte radicali che sono necessarie per superarla. Oggi tutti i Paesi industrializzati sono fortemente indebitati.
Tutti, chi più chi meno, hanno perso competitività sui mercati. Finora sono state indicate e discusse due vie d’uscita da questa situazione: incoraggiare la crescita economica con investimenti pubblici, oppure puntare sul rigore, sui tagli alla spesa pubblica, sugli aumenti delle tasse, in una parola sull’austerità. Ma riproporre l’alternativa tra il metodo keynesiano e il monetarismo potrebbe non bastare più. Certo, i tagli sono in qualche misura necessari. A mio parere, tuttavia, sono come le medicine: se non le prendi, ti ammali, ma se ne prendi troppe fai un’overdose e rischi di stare ancora peggio.

E allora che fare? Ciò che un autentico riformatore europeo dovrebbe porsi come obiettivo è una ripresa sostenibile. Una ripresa in grado di preservare un welfare state che richiede sicuramente tagli e accorgimenti per fare i conti con un nuovo scenario demografico e sociale; ma che al tempo stesso non indirizzi i principali benefici della crescita sullo 0,1 per cento della popolazione, sulle fasce più alte di reddito.
Una ripresa sostenibile significa un modello economico che eviti di distruggere l’ambiente e la classe media: non credo che l’Occidente uscirà dalla crisi e diventerà più competitivo semplicemente vendendo sempre più automobili alla Cina, fino a quando i cinesi ne avranno tante quanto noi, o di più. Né continuando a indebitarsi, per poi aspettarsi che siano i giovani d’oggi, molti dei quali sono disoccupati, a pagare i nostri debiti quando saranno diventati adulti: sia i debiti in campo economico che quelli in campo ambientale.
Come realizzare un’impresa così immane e complessa? Io continuo a credere che sia possibile, attraverso un genuino riformismo di sinistra. Lo stesso spirito di quella Terza Via a cui ho dedicato una parte dei miei studi teorici, il cui primo artefice non è stato in realtà Blair, come si è talvolta indotti a credere, ma piuttosto Bill Clinton e il partito democratico negli Stati Uniti. Dunque un progressismo capace di conquistare consensi al centro, comprendendo le legittime preoccupazioni dei ceti medi su questioni come sicurezza, tasse e immigrazione, ma senza rinunciare alle aspirazioni di una società più giusta e più egualitaria, rese ancora più impellenti oggi dalle conseguenze del crack finanziario e dalle minacce del cambiamento climatico.
La Terza Via va perciò adeguata ai problemi del ventunesimo secolo, ma anche alle nuove opportunità che il secolo appena cominciato lascia intravedere, non ultima quella di una nuova rivoluzione industriale e tecnologica, che sarà necessaria perché nessun Paese potrà veramente risollevarsi dalla crisi se non produce più niente. Tra queste opportunità vi sono quelle che può cogliere l’Europa: secondo vari studiosi la nostra Unione, oggi afflitta da lacerazioni e difficoltà, ha il potenziale per uscire da questo periodo non solo rinsaldata e rinvigorita, ma perfino più forte degli Stati Uniti. È uno scenario che richiede ottimismo, ma è uno scenario possibile: a patto di usare più politica, non meno politica. E di credere che “destra” e “sinistra” vogliano ancora dire qualcosa.

Ma chi è, cos’è, un vero riformatore o riformista? In Europa è colui che comprende la profondità della crisi che stiamo attraversando e si rende conto delle risposte radicali che sono necessarie per superarla.” Questo mi sembra un punto decisivo, la necessità di risposte radicali a una crisi che non è occasionale ma sistemica. Riformare significa-letteralmente-dare nuova forma (e sostanza) a qualcosa che prima esisteva e che dopo sarà diverso. Riformare significa spezzare equilibri, privilegi, steccati, abitudini. Dopo una riforma le cose sono diverse, migliori nelle intenzioni, ma comunque diverse. Allora, pur accettando la classificazione di Giddens in destra/sinistra, introdurrei una ulteriore coppia di valori: conservazione/innovazione. Lo spettacolo che in questi anni la sinistra ha dato è stato spesso quello di un  (pur nobile) conservatorismo, che si chiamasse “difesa dei diritti acquisiti”, “difesa di principi”, “difesa della professionalità..”. Difesa, sempre difesa. Le conquiste non vanno difese, vanno fatte crescere verso nuove conquiste. Arroccarsi sulle conquiste di altri anni ed epoche è tattica perdente. La crisi richiede risposte radicali, sottolinea Giddens, ma non ci sembra ci siano vie di uscita alla situazione di un paese in cui nulla funziona e in cui nulla può essere cambiato. Un paese inchiodato dagli Ordini professionali, dalle lobby (dai taxisti ai farmacisti, perchè non i tassidermisti?), dalle cordate, dagli apparati, dalle famiglie estese a intere città. Muri questi contro cui la sinistra anzichè lottare duramente ha finito troppo spesso per adattarsi come il polpo sullo scoglio.

Soluzioni radicali. Vere riforme quindi. E come? Perchè le vere riforme non si fanno a somma zero. C’è chi guadagna e chi perde. La questione è che la preoccupazione che sia la maggioranza a guadagnare non sembra un elemento decisivo, visto che sono le minoranze attive a decidere. E sono le minoranze ad intessere la rete di legami e clientele che divora il paese, perchè la corruzione, come l’inefficienza, non sono accidenti, sono parte fondamentale di un sistema che mantiene, foraggia, centinaia di migliaia di persone, le loro famiglie, i loro figlioletti, suocere incluse. Il paese non è migliore di chi lo amministra, basta pensare a quella che era la Regione leader, quella più “moderna” , sede della “capitale morale”: Lombardia/Milano. Dopo il saccheggio operato in questi venti anni dal connubio politica/affarismo/religione sintetizzato dalla santa alleanza PdL/Lega/CL, con drammatici legami con la criminalità organizzata, come si potrebbe pensare che il consenso elettorale possa sostenere ancora simili gaglioffi? Eppure…Perchè la corruzione, lo sperpero servono, creano posti di lavoro, elargiscono risorse, costruiscono legami. Un sistema di potere che si alimenta nel pubblico e distribuisce nel privato. Riforme? Jamais! Di fronte a questo paese conta ancora la categorizzazione destra/sinistra ma che capacità esiste nella sinistra di cessare di essere conservativa e diventare davvero riformista? Ma con durezza, senza timore. Nei programmi elettorali non c’è (quasi) nulla. Ma volendo essere ottimisti, in campagna elettorale, si sa, si scherza…

Destra e sinistra esistono ancora (A.Giddens)ultima modifica: 2013-01-18T09:32:00+01:00da pelikan-55
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