E io che mi lamentavo del PD!

1.

bersani_dalema.jpgE io che mi lamentavo del PD! Che non si desse da fare per fare nuovi iscritti! Leggo la seguente notizia:

“Massimo D’Alema sarà ospite della cena di finanziamento e apertura della campagna di tesseramento 2011 organizzata dal’Unione Provinciale del Pd di Reggio per venerdì 10 dicembre (ore 20) al Salone delle Feste di Correggio, in via Fazzano. L’appuntamento, parte della Festa dei diritti e della solidarietà, sarà presieduta da Roberto Ferrari, segretario provinciale Pd.”

Magnifico! Sublime! Come invitare il Conte Dracula alla festa dell’AVIS! Speriamo che sia predisposto un adeguato servizio d’ordine per disciplinare le folle che accorreranno. D’Alema, l’Aureliano Buendia di Gallipoli (quello che fece 333 rivoluzioni e congiure e le perse tutte, salvo due: far fuori Prodi e risuscitare il vecchio satiro…), che meraviglia…

(nella foto: D’Alema spiega a Bersani la sua ultima idea per conquistare il mondo)

2.

Matteo Renzi alla Ruota della Fortuna.jpg“Il nuovo che avanza…se avanza, buttiamolo via!” Diceva Lella Costa. Vogliamo parlare del buon Renzi? Il “rottamatore”, il nuovo che non solo avanza ma va a parlare col vecchio satiro. Parla di gnocca? Di feste, di nipoti varie? No. Parla di questioni ufficiali e urgenti: pattume. Bene. Giusto. Ma la prossima volta vada a Palazzo Chigi, se ci va come Sindaco di Firenze. Se va ad Arcore vuol dire che ci va come privato cittadino, a parlare di gnocca, di feste, etc…Appunto. “Io vado oltre le ideologie”, dice il Renzi. “Vado dove mi chiamano”. Attenzione, lo dicevano anche la Patty, Debby, Cinzia e Katiuscia, proprio quando andavano ad Arcore. O no?

(nella foto: Mike spiega a Renzi il decalogo del sindaco perfetto)

Se penso (Patrizia Valduga)

Ne ho visti nascere, in questi ultimi anni, di circoli, di comitati, di associazioni, di movimenti. Società civile, Libera, Libertà e Giustizia, Girotondi, Ammazzateci tutti, Popolo viola…I “grillini” sono ormai un partito, il Movimento a 5 stelle; e pensare che ci sono da anni alberghi con 7 stelle.

Sono nati in difesa di legalità, di laicità, di giustizia e Costituzione, mentre la Sinistra ufficiale andava perdendo consensi, comuni, province, regioni. La sinistra ufficiale si è forse domandata: che bisogno hanno questi qui di venir fuori come funghi ogni stagione? Non è a noi che spetta difendere quello che vogliono difendere loro? No, ogni stagione la sinistra ufficiale si è domandata solo: aderiamo a quella manifestazione? Firmiamo quell’appello? Li appoggiamo o li ignoriamo? E io mi domando adesso: cosa bisogna fare ancora perchè i D’Alema e i Veltroni e gli altri mollino l’osso? Bisogna accopparli?

D “Repubblica”, 15.5.2010.

Moro è più laico di Berlinguer (Luca Telese)

“Moro aveva una visione più laica e occidentale di Berlinguer“. Parola di Massimo D’Alema. Meraviglioso. L’ennesima puttanata antistorica, vien da dire pensando alla frequenza delle revisioni e delle piccole, miserabili abiure dei dirigenti post-comunisti quando parlano con prevedibile riflesso parricida, del leader che li ha cresciuti. Veltroni ci ha spiegato che Craxi era più moderno di lui. Fassino che è morto perché non aveva una linea politica. Caldarola che è stato la palla al piede della sinistra. Lo dicono ora, però: non quando sognavano carrierine sotto la sua segreteria. Sono cresciuti tutti con Berlinguer. Hanno scritto tutti un libro su di lui. A ogni anniversario tirano fuori il suo quadro e fanno bei discorsi per i militanti.

Poi, per il resto dell’anno, spiegano i suoi difetti, i suoi limiti, dimostrano la sua inadeguatezza alla modernità che presumono di frequentare con disinvoltura e talento. Ogni volta che arriva la sparata di un ex comunista contro Berlinguer, ti chiedi: perché? Se fosse davvero il leader impantanato che dipingono, non si capirebbe perché il popolo della sinistra ami così tanto lui (e stimi così poco loro). O forse è proprio per questo che scatta il tic. Berlinguer vinse le battaglie su divorzio e aborto. Moro combatteva contro. A quanto pare D’Alema è andato a lezione di laicità dalla Binetti.

Da il Fatto Quotidiano dell’1 maggio

Una buona e una cattiva notizia

vino-rosso_19280jpg.jpegLa vita è complicata, mai tutto è nero o bianco. Qualche volta è rosso. Come il buon vino. E qui abbiamo una buona e una cattiva notizia. Iniziamo dalla cattiva: a forza di percepire lauti emolumenti a nostre spese il nostro generale Aureliano Buendia de Gallipoli, dopo aver solcato i mari con la sua navicella, ora si getta in un’altra impresa. A Montecastrilli in Umbria si è comprato un vigneto di tre ettari e una cantina dove produrrà e imbottiglierà il suo vino.

Già si vocifera sull’etichetta delle prime due prestigiose bottiglie: “Bicameral” un rosato leggero, molto leggero, con retrogusto sapido amarognolo, gusto di frutti maturi (molto maturi), un vino che riprende i vitigni già noti come Titanic; “Inciucione salentino“, un rosso possente, ad alta gradazione ma senza alcool, solo aria fritta.

Dov’è la buona notizia? Vedi mai che il nostro Aureliano si appassioni tanto al suo nuovo “giochino” e ci liberi delle sue geniali pensate…

La Repubblica, 19.4.2010

Il crepuscolo del dalemismo reale (L.Telese)

Chissà quanto deve essergli costato al lìder maximo, ieri, dopo la vittoria a valanga di Nichi Vendola, vergare quel comunicato apparentemente anodino, e in realtà amarissimo (almeno per lui): “La larga vittoria di Vendola nelle elezioni primarie del centrosinistra pugliese – spiegava dopo la scoppola il presidente di ItalianiEuropei – conferma il legame del presidente della nostra regione con tanta parte dell’elettorato del centrosinistra, compresi gli elettori del Pd”. Sublime.
Voltafaccia doloroso. Chissà quanto deve essergli costato, dopo sette giorni passati a combattere ventre a terra in Puglia contro Nichi, dopo le decine di comizi e le centinaia di telefonate, dopo le dichiarazioni roboanti, dopo aver gridato quello slogan-tormentone su tutte le piazze: “Abbiamo il dovere di difendere Nichi Vendola da se stesso!” (che ora si potrebbe tranquillamente applicare a lui).
“Non ho mai perso un’elezione!”, assicurava spavaldo con una certa spensierata approssimazione (che “dimenticava”, tanto per fare un esempio, le regionali che gli costarono Palazzo Chigi).Es ubito dopo aggiungeva: “Se Vendola vince le primarie perderà le secondarie!”.
Adesso è quasi divertente leggere il suo sermoncino, unitario ed encomiastico, indietro tutta compagni: “Ora il Pd – spiega come se non avesse mai detto tutto quello che ha detto – ritrovi la sua unità nello sforzo di costruire intorno al candidato Vendola la convergenza più ampia possibile e di rafforzare l’ispirazione riformista della nostra proposta di governo”. Parole simili a quelle di un altro convertito delle primarie, quel Michele Emiliano che due settimane fa diceva: “Nichi è un traditore!”, e che ieri salmodiava: “Vendola non ha dato una lezione a Boccia, ma a tutto il Pd” (ovvero anche a lui?).
La realpolitik d’abord. Però, se si prova a leggere questa ennesima sconfitta del dalemismo presi dalla lente dell’emotività o della febbre mediatica, si rischia di non capirne la portata. Per lungo tempo l’ex ministro degli Esteri aveva rappresentato l’incarnazione di un’idea antichissima e persino razionale della politica.
L’apologia della realpolitik, l’elevazione dell’iperrealismo pessimista a dogma, la necessità della manovra di corridoio non come compromesso di bassa lega, ma come sublimazione delle irrevocabili leggi dettate dalla scienza machiavellica. Il dalemismo non è stato un incidente della storia, ma la sublimazione di un mondo, un modo di vedere le cose.
Dalemismo tolemaico. Da ieri, dopo essere stato sconfitto nella sua Gallipoli per 800 a 200 (e nella Fasano del suo epigono Nicola Latorre con uno stacco ancora più netto), D’Alema dovrebbe avere il coraggio di rivedere le sue convinzioni tolemaiche: non è più la politica italiana che deve girare intorno alle certezze del lìder maximo, ma lui che deve capire che è giunto il momento di un passo indietro.
Sabina Guzzanti, nelle sue indimenticabili imitazioni lo raffigurava sempre intento a tessere grandi disegni, strategie, accordi, i cosiddetti “dalemoni”. E lui, che nella sua prima passione pugliese non indossava mai i jeans perché troppo pop, che passava ore a giocare a Risiko e spezzava i tappi di bottiglia con le mani per conquistarsi il nomignolo epico di “Spezza-ferro”, sotto sotto ha sempre gradito questo riconoscimento.

Fu “un dalemone” l’operazione che portò alla caduta di Prodi, aperta da un vero e proprio discorso di metodo a Gargonza (fece indignare Umberto Eco) all’insegna dello slogan: “Prima i partiti”.
Fu un dalemone la cattedrale incompiuta della Bicamerale. E’ stato un dalemone il tentativo di usare Palazzo Chigi come piedistallo per costruire (come scrivevano i suoi “Lothar”) una leadership moderna e personale di tipo blairiano. Un lavoro paziente doveva portarlo alla presidenza della Camera (dove invece si piazzò Fausto Bertinotti) e un altrettanto meticoloso disegno doveva spalancargli le porte del Quirinale (dove invece Veltroni piazzò Giorgio Napolitano).
Nulla di tutto questo è riuscito: se si leggesse la carriera di D’Alema con gli occhi della realpolitik che lui voleva imporre alla Puglia, si dovrebbe registrare un cumulo di fiaschi. Ciò che resterà del “dalemismo reale”, paradossalmente è la scrittura quasi letteraria di un personaggio affascinante e drammatico, un carisma algido ma innegabile, un combattente indefesso, ma molto vicino alla dimensione fantastica del don Chisciotte di Cervantes.
La disgrazia (o la fortuna) di D’Alema, oggi, è l’essersi circondato da una setta di adoratori inventivi che lo seguirebbero anche nelle fiamme – i lothar – ma che non lo hanno preservato da se stesso. Solo un mese fa D’Alema si misurava i panni del ministero degli Esteri europeo, ora ripiega mestamente sulla poltrona del Copasir, che per lui è la caricatura di un incarico istituzionale, la parodia di una carriera.
Certo la Commissione di controllo sui servizi garantisce l’auto con il lampeggiatore blu, la vivificazione del titolo onorifico di “presidente” (che nella politica italiana non si nega nemmeno ai peones dei consigli comunali), l’ufficio e lo staff di quattro collaboratori a contratto.
Chi ha amato la linearità del pensiero dalemiano anche quando non ne condivideva una virgola, le battute salaci (“Le bugie hanno le gambe corte anche se portano i tacchi”), le definizioni folgoranti (“I cacicchi”, “L’inciucio”, “i flaccidi imbroglioni Prodi e Veltroni”), gli origami, il foot foot che faceva impazzire Striscia, le partite di Tetris a L’Unità e le regate da capitano coraggioso sul suo Ikarus, resta come deluso, da questa ricerca di un fondo pensione di Palazzo.
A Federico Geremicca, alla vigilia del voto pugliese, quando i sondaggi già annunciavano la débâcle consegnava parole scaramantiche: “Immagino già le sciocchezze che scriveranno: ‘La fine del dalemismo’, ‘la sconfitta del re di Puglia’, ‘il declino di D’Alema’. Sono anni che aspettano di poterlo dire”.
Invece noi de il Fatto – anime candide – non ci avevamo pensato. E’ stato lui a darci l’idea: sempre brillante, se non altro, nello scriversi l’epitaffio. A L’Espresso D’Alema, con piglio neo-andreottiano disse: “La sinistra è un male che solo l’esistenza della destra rende sopportabile”. Se Vendola ha un merito, è quello di aver dimostrato che è un bellissimo gioco di parole. Ma non è vero.

Da il Fatto Quotidiano del 26 gennaio

Patti scellerati

Breve storia dei 15 anni di patti scellerati tra D’Alema, Berlusconi e gli altri

di Peter Gomez e Marco Travaglio

In principio c’era solo una questione economica. La salvezza delle tv del Cavaliere in cambio della sua non opposizione al governo Dini. Poi dalla “roba” di Berlusconi si passò ai processi. I suoi e quelli degli altri. Dalla Bicamerale alle leggi ad personas del centrosinistra. Oggi siamo al bis, anzi al tris dell’”inciucio” (“accordo informale tra forze politiche di ideologie contrapposte che mira alla spartizione del potere”, Dizionario De Mauro, Paravia). Tutti (o quasi) vogliono riscrivere la Costituzione e Berlusconi apre al Pd in attesa d’incassare il salvacondotto definitivo: quello che lo renderà anche ufficialmente più uguale degli altri.

Violante confessa. Il 28 febbraio 2002 Luciano Violante, durante il dibattito alla Camera sulla legge Frattini sul conflitto d’interessi, si lascia sfuggire a Montecitorio la genesi dell’inciucio. A chi accusa la sinistra di voler espropriare il Cavaliere, il capogruppo ds replica: “L’on. Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – non adesso, nel 1994 quando ci fu il cambio di governo – che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l’on. Letta…Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto la legge sul conflitto d’interessi e dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni…Durante i governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte!”.
Senza volerlo, Violante ha detto la verità, anche se il suo partito si era sempre dimenticato di raccontarla agli elettori.

Come ti spengo i referendum. Quelli del dicembre ‘94 sono giorni duri per il Cavaliere. Il 7 dicembre la Consulta stabilisce che la Fininvest deve scendere da tre a due tv, dunque dovrà cedere Rete4 o trasferirla su satellite. Il 22 la Lega sfiducia il suo governo. Il gruppo Berlusconi, fiaccato dalla concorrenza Rai dei tre anni precedenti, è indebitato fino al collo (4500 miliardi di lire nel ‘92).
Le indagini della magistratura avanzano. E sono alle porte quattro referendum, proposti da Acli, Arci e Gruppo di Fiesole (un’associazione di giornalisti), che rimettono in discussione la legge Mammì lasciando al Biscione una sola rete, ridimensionano la raccolta pubblicitaria e vietano gli spot durante i film in tv. Per farli saltare, Berlusconi invoca le elezioni anticipate e promette che venderà le sue tv (“basta che non sia un esproprio”). Ma contemporaneamente tratta in segreto il suo appoggio a un governo tecnico. Così, dopo urli e mugugni, si astiene sul governo Dini (ex ministro di Berlusconi), anche perché alla Giustizia e alle Poste e Telecomunicazioni i ministri sono “fidati”: Filippo Mancuso e Agostino Gambino, già avvocato di Sindona. E il Pds (Violante dixit) gli garantisce che il referendum fallirà. La trattativa, a maggio, la conduce Gianni Letta per modificare la legge sulle tv ed evitare le urne.
Così il centrosinistra non fa campagna elettorale per il Sì, mentre tutte le reti Fininvest martellano l’opinione pubblica per il No. Poi il 22 maggio Berlusconi rovescia il tavolo del negoziato e l’11 giugno vince i referendum.

Silvio & Max, promessi sposi. Sul finire del ‘95 Berlusconi smette d’invocare le elezioni. Come scrive La Stampa, “si è preso una cotta per D’Alema” e lo chiama anche tre volte al giorno per “convincerlo che ‘la grande intesa si può fare’ e ‘andare al voto non conviene né a noi, né a voi’”. Cos’è successo? Deve quotare Mediaset in Borsa e ha bisogno del placet di tutto l’arco politico. Su di lui e i suoi manager si moltiplicano le indagini sui fondi neri esteri del gruppo. Così punta al governissimo.
Il 26 gennaio ‘96 il Cavaliere e D’Alema si presentano a braccetto da Bruno Vespa per parlare di riforme istituzionali. Il 2 febbraio Berlusconi annuncia: “L’accordo è fatto, di Massimo mi fido”. Poi vieta per iscritto a tutti i club di Forza Italia di usare la parola inciucio: devono parlare di “governo dei migliori”, da affidare al grand commis Antonio Maccanico. Il giorno 9, Silvio e Max s’incontrano a cena in casa Letta. Ma An punta i piedi e Prodi, candidato premier, pure. L’inciucio tramonta. Gasparri spara sul Cavaliere: “Noi siamo contrari ai conflitti d’interesse. E chi deve andare in galera ci vada”. Maccanico rinuncia all’incarico. Non prima di aver accusato il Polo: “Volevano che travalicassi la Costituzione”. Si va alle urne.

Maccanico Riparazioni. Il 21 aprile ‘96 l’Ulivo di Prodi vince le elezioni. La tesi 51 del programma elettorale è chiara: basta conflitto d’interessi e duopolio tv. Ma D’Alema se ne infischia e il 4 aprile, a due settimane dalle urne, rende visita a Mediaset incontrando Confalonieri e il Gabibbo e rassicurando le maestranze: “Non abbiate timore, non ci sarà nessun Day After, avremo la serenità necessaria per trovare intese. Mediaset è un grande patrimonio del paese”. In luglio la legge Maccanico manda in soffitta la sentenza della Consulta e concede una proroga sine die alle tre reti Fininvest. Intanto D’Alema e Berlusconi si accordano per riscrivere la seconda parte della Costituzione con un’apposita commissione Bicamerale. Il Cavaliere è imputato a Milano per corruzione, finanziamento illecito e falso in bilancio, indagato a Palermo per mafia e riciclaggio e a Firenze per concorso nelle stragi del 1993. In settembre, a La Spezia, esplode la “Tangentopoli-2” con l’arresto del banchiere Pacini Battaglia e del presidente delle Fs Lorenzo Necci, che vanta ottimi rapporti tanto con Berlusconi quanto con D’Alema. Terrorizzati dall’avanzata dei pm, centrodestra e centrosinistra si accordano per mettere in riga la magistratura. Ma restano da convincere i rispettivi elettori, tutt’altro che favorevoli all’inciucio. Si tratta di creare un clima emergenziale che giustifichi l’abbraccio fra i due poli che fino a quel momento se ne son dette e fatte di tutti i colori.

La bufala del cimicione. L’11 ottobre Berlusconi mostra al mondo intero una microspia di dimensioni imbarazzanti trovata a Palazzo Grazioli. Giura che è “perfettamente funzionante”, in grado di trasmettere “fino a 300 metri”. Punta il dito contro le “procure eversive”. Spiega di aver subito avvertito, prim’ancora dei carabinieri, “l’amico Massimo”: cioè D’Alema, che assicura subito la sua solidarietà: “È un fatto grave, che testimonia il clima torbido di un paese inquinato da intrighi, manovre, veleni e sospetti. Bisogna reagire con fermezza, con un colpo di reni, riscrivendo le regole della convivenza civile e democratica”. Il 16 ottobre il presidente della Camera, Violante, convoca una seduta straordinaria e dà la parola al Cavaliere. Che scandisce: “Onorevoli colleghi, l’attività spionistica ai danni del leader dell’opposizione… rientra perfettamente nel panorama non limpido della vita nazionale. Mai, in nessun periodo della storia repubblicana, sono gravate sulla libera attività politica tante ombre e tanto minacciose”. Pisanu e Taradash additano le “procure deviate”. E l’Ulivo a rimorchio. La Procura di Roma appurerà che la microspia era un ferrovecchio inservibile per nulla funzionante. E che, a piazzarla in casa Berlusconi, era stato un amico del capo della sua sicurezza incaricato di “bonificare” Palazzo Grazioli. Ma intanto il falso cimicione (come poi nel 2009 il gesto del folle in Piazza Duomo) ha già svolto il suo ruolo.

Commissione Dalemoni. Il 22 gennaio ‘97 nasce la Bicamerale sotto la presidenza di D’Alema (votato pure da Forza Italia). La legge costituzionale che istituisce la commissione non fa alcun cenno alla Giustizia. Infatti all’inizio D’Alema dichiara: “Sulla giustizia non vedo questioni costituzionalmente rilevanti”. Ma Giuliano Ferrara avverte: “La giustizia è il problema politico numero uno. Il capo dell’opposizione è perseguitato dai giudici. D’Alema fermi gli aggressori e rimetta in riga i pm sotto controllo della politica. Vedrete che la sinistra qualcosa concederà”. Ottima profezia. D’Alema fa subito retromarcia: “Il rapporto fra magistratura e potere politico è uno dei temi che più seriamente dovrà impegnare la Commissione”. Il relatore sulla Giustizia è Marco Boato, ex Lotta continua, ex Psi, molto ostile alla magistratura. Il 30 ottobre ‘98 la bozza Boato viene approvata da tutti i partiti, tranne Rifondazione. Pare la riedizione del Piano di rinascita democratica di Licio Gelli: la magistratura non è più un “potere” dello Stato; carriere di pm e giudici separate, con due Csm in cui aumenta la presenza dei politici rispetto ai togati; i giudizi disciplinari sottratti al Csm e affidati a una “Corte di giustizia” con i magistrati ordinari in minoranza; le Procure non possono più prendere le notizie di reato, ma dovranno attendere le denunce della polizia (che dipende dal governo); l’azione penale non è più obbligatoria; “il ministro della Giustizia riferisce al Parlamento sull’esercizio dell’azione penale e sull’uso dei mezzi di indagine”. Inoltre, per amnistie e indulti, non è più necessaria la maggioranza dei due terzi, ma basta il 50 più 1. E proprio questo è lo scopo finale, come annuncia il solito Violante al Foglio: “Nel 1999, al termine delle riforme, si porrà la questione dell’amnistia”. Poi però, contestatissimo da elettori, magistrati e intellettuali, il centrosinistra non osa andare fino in fondo sull’amnistia.

Inciucio forever. Così Berlusconi fa saltare la Bicamerale, avendo peraltro ottenuto in due anni tutto ciò che gli serve: niente legge sul conflitto d’interessi, niente antitrust sulle tv e una serie di leggi anti-giustizia. Il centrosinistra continua a lavorare per lui anche. Elimina lo scomodo gip Rossato dal processo Mondadori con la legge sull’incompatibilità fra Gip e Gup scritta dall’avvocato dalemiano Guido Calvi. Salva dal carcere Previti e Dell’Utri. E addirittura abroga di fatto i pentiti di mafia con la riforma Fassino del 2000, che li priva di gran parte dei benefici che fino a quel momento avevano indotto molti boss a collaborare. Nel ’98 Gherardo Colombo dice al Corriere della Sera: “La Bicamerale è figlia dei ricatti incrociati fra destra e sinistra”. È la miglior lettura di come vanno le cose nella politica italiana, più che mai attuale undici anni dopo. Già, perché oggi si ricomincia. Ancora Berlusconi. Ancora Violante. Ancora D’Alema.

da Il Fatto Quotidiano del 22 dicembre 2009

Prima si corrompono le parole…

Ancora sul nostro Aureliano Buendia da Gallipoli. Prima si corrompono le parole, poi le idee, e il gioco è fatto.

INCIUCIO. Il termine è entrato nel gergo della politica italiana in seguito all’uso che ne fece il giornalista Mino Fuccillo, in un’intervista a Massimo D’Alema per il quotidiano la Repubblica, il 28 ottobre 1995. Da allora, “inciucio” è divenuto un termine comune per riferirsi ad un accordo informale fra forze politiche di ideologie contrapposte che mette in atto un do ut des o addirittura una vera e propria spartizione del potere. Nel caso italiano, un tacito patto di non-belligeranza sarebbe stato stipulato, secondo alcuni giornalisti, tra Massimo D’Alema, presidente dei Democratici di Sinistra, allora ancora segretario, e Silvio Berlusconi, durante una cena a casa di Gianni Letta, il cd. “patto della crostata” (in riferimento al dolce preparato per quell’occasione dalla signora Letta).
Secondo questa versione, D’Alema si sarebbe impegnato a non fare andare in porto una legge sulla regolamentazione delle frequenze televisive: a tale fine si sarebbe prestato l’allora presidente della ottava Commissione permanente del Senato, Claudio Petruccioli, non calendarizzando l’esame degli articoli del disegno di legge n. 1138 per tutta la XIII legislatura. Tale legge infatti avrebbe costretto il gruppo Mediaset a vendere una delle proprie reti (in tal caso avrebbe scelto probabilmente la meno importante, Rete 4). Inoltre, in quel periodo, Mediaset era in procinto di quotarsi in borsa, e una legge di quel calibro avrebbe fatto colare a picco il valore delle azioni. L’eventuale prezzo che l’altro contraente (Silvio Berlusconi) avrebbe promesso come merce di scambio, non è noto. D’Alema bollò come “inciuci” (cioè pettegolezzi privi di fondamento) tali affermazioni. A causa probabilmente della scarsa conoscenza dei dialetti meridionali da parte dell’intervistatore, al termine fu attribuito un significato distorto, che è poi quello per il quale oggi viene più frequentemente utilizzato.

http://it.wikipedia.org/wiki/Inciucio

«I comunisti italiani hanno sempre dovuto difendersi da questo tipo di accuse – ricorda D’Alema – C’è sempre stato qualcuno più a sinistra, una cultura azionista che ha sempre contestato questo, …dall’articolo 7 in giù che è stato il primo grande “inciucio”… ma questi “inciuci” sono stati molto importanti per costruire la convivenza in Italia, oggi è più complicato, ma sarebbero utili anche adesso. Invece questa cultura azionista non ha mai fatto bene al paese…».

http://www.repubblica.it/2009/12/sezioni/politica/giustizia-22/dalema-elogio/dalema-elogio.html

Alcune cosette al nostro Aureliano che pare dilettarsi con parole più grandi di lui. L’accordo fra Pci e DC per l’inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione all’art.7 fu un inciucio tanto quanto la moltiplicazione dei pane e dei pesci fu un’operazione gastronomica…Si trattò di un’operazione politica, che personalmente da cattolico non approvo, ma giocata alla luce del sole, nel quadro di un dibattito politico ed etico di altissimo livello, in sede di Assemblea Costituente. Un accordo fra parti uguali, con uguali diritti e che godevano il reciproco rispetto. Anzichè infliggerci le sue geniali trovate, il buon Aureliano si rilegga i verbali della Costituente e poi torni a settembre.

Si parla di accordi fra uguali, diversi magari per ideologie, storie e prospettive ma uguali nel rispetto della controparte e delle regole del gioco. Quando invece si va a trattare, di nascosto, nei salotti o nei caminetti, con una sorta di banda Bassotti quale quella che ci governa, allora le cose cambiano e i termini con loro. Il lessico è importante. Togliatti non è D’Alema e De Gasperi non è il vecchio satiro. Se tratto con qualcuno che so che gioca sporco, che cerca scappatoie per i propri fini e ne accetto le trasgressioni per il mio tornaconto, allora quello è un inciucio. Se poi Aureliano ha ereditato la parte peggiore del Pci, la vecchia morale leninista per cui è giusto e corretto quello che in quel momento serve ai miei scopi, il problema è aperto. Ricordo almeno che l’orizzonte ideale leninista era la dittatura del proletariato e si risolse nel massacro che tutti sappiamo, quello del nostro Aureliano è-per fortuna (sua)- il semplice mantenimento del proprio ruolo di travet del potere, disposto a tutto pur di conservare sè stesso e i propri famigli.

Ultima cosa che mi ha reso se non (quasi) felice, certamente orgoglioso. La critica fatta dal nostro: “Invece questa cultura azionista non ha mai fatto bene al paese…”. Gli azionisti (insieme ai socialisti) votarono contro l’art.7, ispirandosi all’idea di un’Italia repubblicana e laica, rispettosa di tutte le confessioni. Un’Italia rigorosa, moderna ed europea che non ha mai visto la luce. In quel partito militavano uomini come Parri, Calamandrei, Ernesto Rossi, Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi. Non fecero bene al nostro paese? Caro Aureliano, forse il problema è che non fecero abbastanza bene al nostro paese…

E’ tornato Aureliano Buendia di Gallipoli

“E’ un mondo difficile è vita intensa felicità a momenti e futuro incerto…” ci ricorda il poeta, ma per fortuna abbiamo i nostri punti fermi, pochi ma sicuri. Il nostro Aureliano Buendia di Gallipoli è uno di questi. Ha promosso 32 sollevazioni armate e le ha perse tutte. Ma che importa? Quando si è il più intelligente, il più astuto, il più migliore, che si pretende? Anche di vincere? Signora mia, non si può avere tutto nella vita! Abbiamo sperato tutti, per un istante, nell’impossibile vittoria in Europa. Magari si levava dai cabasisi e da Ministro degli esteri europeo andava a tramare un po’ più in là, magari avrebbe fatto scoppiare una guerra fra Lituania e Banato, o una crisi navale fra Svizzera e Liechtenstein, ma almeno risparmiava il bel paese dalle sue genialate. Invece no, “E’ un mondo difficile è vita intensa felicità a momenti e futuro incerto…” e rieccolo qui a proporre, supporre, disporre, imporre, transporre, frapporre le solite trovate geniali (secondo lui) a noi, poveri mortali che non abbiamo capito nulla.

Una leggina per il premier, per dargli respiro, perchè no? Del resto il suo scherano latorre, quello del pizzino a bocchino (scusate, ma non è una battuta oscena, è peggio, è la realtà) ci ricorda che “le vicende giudiziarie sono un conto e il dovere di governare è un altro. Berlusconi ha vinto le elezioni e deve svolgere questa funzione: i governi, infatti, cadono quando viene meno una maggioranza parlamentare”. Da ciò deduciamo che un premier, ancora supportato dalla sua maggioranza, potrebbe governare anche da Regina Coeli. Interpretazione garantista e fantasiosa da non trascurare.

“Molti anni dopo il colonnello Aureliano Buendìa, di fronte al plotone d’esecuzione, si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.” Ecco, noi non abbiamo avuto la fortuna di quel padre che ci abbia avviato ai misteri della conoscenza, però una cosa l’abbiamo capita, e bene: “Con questi dirigenti non vinceremo mai…Ci vorranno generazioni prima che il centrosinistra torni a vincere” (N.Moretti, Piazza Navona, 3 febbraio 2002).

Notiziole italiote..

Il nostro generale Aureliano Buendia di Gallipoli ha perso un’altra battaglia. L’Europa non ha riconosciuto l’occasione storica di avere la sua politica estera guidata da un simile geniale stratega della sconfitta. Il genio è stato silurato dallo stesso PSE, per voce del buon Schultz (quello definito kapo dal nostro satiro plastificato). Peggio per l’Europa, tiè! Oddio, è adesso il generale torna in Italia….

Geografia. Esiste la Comunità Montana Murgia Tarantina. 40 metri sul livello del mare. Il governo Prodi ne aveva decretato lo scioglimento ma gli 11 impiegati e i 34 fra assessori e consiglieri sono ancora lì. Prima hanno creato L’Unione dei Comuni della Murgia tarantina, poi nel 2009 la legge regionale che scioglieva gli enti inutili fu dichiarata anticostituzionale. “La comunità così com’è non è una cosa bella-ha dichiarato il presidente Arcangelo Rizzi-io non ho mai condiviso l’impianto che le è stato dato”. Perchè non si è dimesso? Saperlo…

Perfetto! Come ogni mistero italiano che si rispetti nella questione marrazzo-trans mancava solo il morto. Fatto. Il poveretto/a Brenda è stata trovata cadavere in casa sua. Siamo sempre il paese dei veleni e dei pugnali, delle cortigiane e dei servizi (deviati o no). In realtà il nostro miglior storico è stato Giuseppe Verdi (e si suoi librettisti). Rileggetevi Rigoletto, Un ballo in maschera, la Forza del destino e poi se ne riparla (si fa per dire).

BrunettoGridolo ha colpito ancora. Per migliorare il funzionamento degli uffici giudiziari il dirigente (digerente) del personale del Tribunale di Genova ha vietato l’esposizione negli uffici di calendari di George Clooney e di Beckham. Ohh! Era ora, signora mia, un po’ di severità a questa gente! Che poi manchi il personale, i bagni siano da terzo mondo, i fili elettrici siano scoperti sono particolari. Mi ricorda quel suicida timoroso che, deciso a saltare dal 15° piano, si mise un paio di scarpe con la suola di gomma “così quando arrivo mi faccio meno male” disse. Ma in fondo c’è anche un limite culturale, a questi buffoni, centrali o periferici, nessuno ha mai insegnato un po’ di senso dell’umorismo, (o del ridicolo) se non l’intelligenza che, come noto già per il coraggio di don Abbondio “uno se non ce l’ha, non se la dà”.

Roma, ore 12.10 Notizia Ansa

Giustizia: Berlusconi, occorre parità accusa-difesa

“E’ ‘indispensabile’ una ‘riforma costituzionale della giustizia che porra’ in condizioni di effettiva parita’ l’accusa e la difesa nel processo’. E’ quanto si legge nel messaggio inviato dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi alla Conferenza nazionale dell’Avvocatura.” Giusto: è già pronto un decreto legge: nei prossimi processi l’avvocatoghedinik (scusate la parolaccia) sosterrà sia l’accusa che la difesa del vecchio satiro plastificato. Più semplice di così…


Vi ricordate Aureliano Buendia?

Vi ricordate Aureliano Buendia? In Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, era il figlio del capostipite José Arcadio .

Divenne famoso per essere diventato comandante generale delle forze rivoluzionarie e per aver preso parte a 32 rivoluzioni armate e per averle perse tutte e 32.

Se è vero che uno dei problemi della sinistra italica è la sua classe dirigente, come non ricordare fra gli altri, il primo, il leader, il Maximo? Il “nostro” generale Aureliano Buendia. Il geniale, intelligente, avveduto, strategico, diabolico, enciclopedico, vero politico?

Massimo Aureliano Buendia D’Alema, sempre sconfitto ma sempre risorto, sempre pronto alla coltellata finale (all’amico). “Non sono cattivo, è che mi disegnano così” potrebbe dire, senza avere le curve di Jessica Rabbit, ma il ghigno del barbiere di provincia.

Il nulla totale se non la politica per la politica. Nessun contenuto se non il potere. La miglior interfaccia del vecchio satiro plastificato.

Aureliano Buendia divenne famoso per essere diventato comandante generale delle forze rivoluzionarie e per aver preso parte a 32 rivoluzioni armate e per averle perse tutte e 32, ebbe 17 figli maschi da 17 donne diverse, sfuggì a 14 attentati, a 73 imboscate e a un plotone di esecuzione, sopravvisse a una dose di stricnina nel caffè che sarebbe bastata a ammazzare un cavallo. L’unica ferita che subì fu procurata da lui stesso dopo aver firmato la capitolazione di Neerlandia che mise fine a quasi 20 anni di guerra civile. Passò la vecchiaia facendo e disfacendo pesciolini d’oro.

Il nostro minimod’alema, da stime precise dell’Istituto Barlumen, ha già superato le 64 sconfitte ma è ancora lì, dei pesciolini d’oro non sa che farsene, la stricnina gli guasta appena l’alito, sempre pronto a sostenere un candidato, un governo, un segretario, pronto a scaricarlo tre minuti dopo.

Noi ci scandalizziamo di come il popolo di destra adori il vecchio satiro, ma ci siamo mai chiesti perchè ci siano tanti ancora a sinistra ad amare un simile arnese?