Il perdono non è scordare ma dare fiducia

1.stories.priore.articoliquotidiani.Peccatrice_perdonata.jpgintervista a ENZO BIANCHI,
a cura di CHIARA CAROLI

«Dimenticare le colpe? Quello lo può fare solo Dio. Il perdono non può essere cancellazione, né oblio, né gesto di vanità o di arroganza. È un percorso arduo, faticoso. È un dono elargito senza opportunismo, nel nome della fiducia nei confronti dell’uomo». Un’assunzione di responsabilità condivisa, per costruire una giustizia davvero al servizio di una società fondata sui valori più alti: la solidarietà, la pace, la pietà. È una sfida intellettuale impegnativa quella che lancia padre Enzo Bianchi dal palcoscenico di Torino Spiritualità, dove ieri mattina, nel Cortile di Palazzo Carignano, ha dialogato con Gustavo Zagrebelsky sull’idea del perdono, del perdono concesso al “nemico”, inteso come realizzazione estrema della gratuità. «Il perdono non è un patteggiamento di pena — dice il priore di Bose — ma è il fondamento dei rapporti più limpidi e profondi. È reciprocità. È la riconciliazione, è l’andare oltre che offre una possibilità di futuro. E che si applica all’intera vicenda umana, dal privato di un tradimento tra marito e moglie a una grande vicenda storica come il conflitto tra Israele e Palestina».
Padre Bianchi, come distinguere il perdono dall’impunità?

«Il perdono non cancella la colpa ma è il riconoscimento che la persona è più grande del male che ha compiuto. È un atteggiamento costruttivo, che porta a sfuggire il rancore e rinunciare alla vendetta».

Zagrebelsky teme che la deresponsabilizzazione produca una società di eterni bambini perennemente ricondotti allo stato di fanciullezza, che dalla storia dei loro errori non sono in grado di imparare nulla. È d’accordo?

«Questa idea non mi convince e credo non aiuti il futuro. Non è la fanciullezza la malattia della nostra società, ma l’illegalità. In questo paese da almeno dieci anni è accettato come un fatto naturale che abbiano diritto di esistenza il sopruso e la mancanza di regole. È questa la causa dell’imbarbarimento».

Può esistere felicità senza responsabilità?

«No. Se parliamo della beatitudine evangelica, essa non può che realizzarsi nella responsabilità non solo di sé ma anche dell’altro, dell’altro che è mio fratello. Questa condivisione di responsabilità è la strada che fa crescere tutti e realizza una società matura».

Lei sostiene che una vera “communitas” contrassegnata dalla qualità della convivenza sociale e dalla solidarietà non può escludere “ciecamente” il perdono dal concetto e dalla prassi della giustizia. Come distinguere questa idea dall’iper-garantismo?

«La giustizia contiene in sé il concetto di perdono. La filosofia del diritto lo sta elaborando. L’idea di perdono non esclude quella di memoria. La colpa va ricordata, non dimenticata né cancellata. Il fine di una società umana costruita sull’amore deve lavorare per la riconciliazione e per la riabilitazione di chi ha peccato».

Riconciliazione in Sudafrica, in Israele. E qui, in Italia, tra carnefici e vittime del terrorismo. È possibile?

«Il cammino della riconciliazione è difficile. Nel privato è affidato alla coscienza e ai sentimenti dei parenti delle vittime. Ma a livello politico mi pare che lo Stato abbia già perdonato, attraverso l’indulto o gli sconti di pena. Il che non significa annullare la responsabilità ma offrire a chi ha commesso un delitto una via d’uscita per non essere identificato con la propria colpa e ricominciare una vita con dignità. C’è una virtù in tutti gli uomini, che la Bibbia chiama “immagine e somiglianza di Dio”, che nessun misfatto può cancellare del tutto».

Non crede che il buddismo, che quest’anno a Torino Spiritualità è stato protagonista con tre grandi maestri tibetani, abbia riposte più efficaci del Cristianesimo ai disagi interiori dell’uomo contemporaneo?

«Credo che la religione cristiana abbia qualcosa da imparare dal buddismo in materia di compassione e il buddismo dalla religione cristiana sul tema del perdono. Ma mi pare che l’approccio alle discipline orientali sia più intellettuale che autenticamente spirituale. È effetto della globalizzazione. Tutti vogliono conoscere un po’ di tutto. Ma non credo al bricolage dell’anima. Prendere sulle bancarelle un po’ di questo e un po’ di quello non può produrre che una spiritualità omologata e superficiale. Un pizzico di tutto non fa la buona cucina».

la Repubblica, 26 settembre 2010