Intervento di Raoul Pupo al Quirinale in occasione del Giorno del Ricordo
L’odierna celebrazione cade ormai dopo sette anni dall’istituzione del Giorno del Ricordo, e non sono anni passati invano. Abbiamo assistito ad eventi che solo poco tempo fa erano impensabili, come l’incontro a Trieste nel 2010 fra i presidenti di Italia, Slovenia e Croazia e quello del 2011 a Pola fra i presidenti di Italia e Croazia. Si è trattato di gesti a lungo attesi per imprimere una svolta non solo alle relazioni fra stati, ma al rapporto dei tre popoli con il loro passato conflittuale. Ciò non modifica l’intento fondamentale della legge, che vuol segnare il riconoscimento pieno, da parte delle diverse componenti della comunità nazionale, dei sacrifici patiti dai giuliano-dalmati in nome dell’italianità, ma certamente apre prospettive nuove per le genti di frontiera e consente anche di guardare con maggior serenità alle vicende del secolo Ventesimo, accompagnando la memoria, per sua natura partecipe e dolente, con la storia, il cui sguardo è critico anche quand’è commosso.
Che cos’è dunque che oggi ricordiamo? Le vittime, certo, di quegli anni così terribili; i fatti di cui parla la legge istitutiva della giornata, alcuni chiamandoli per nome – come le foibe l’esodo – ed altri in maniera implicita. Ma al fondo, ciò che costituisce la sostanza del ricordo è un fenomeno che comprende vittime e fatti: è la parabola drammatica dell’italianità adriatica, vale a dire di quella forma della presenza italiana nell’Adriatico orientale che era cresciuta nel XIX secolo sulle fondamenta poderose della tradizione romana e veneziana e che si poneva come massima aspirazione, anzi, come unico possibile orizzonte di vita, lo stato nazionale. Quel tipo di italianità si è mantenuto nel piccolo lembo di Venezia Giulia sul quale dopo il secondo conflitto mondiale ha continuato ad esercitarsi la sovranità dello stato italiano, mentre invece altrove si è estinto. Naturalmente, ciò non impedisce che ancor oggi nelle terre adriatiche vi siano altre forme di presenza italiana, costituite non solo dalle tracce illustri del passato, ma anche da comunità vive, se pur minuscole. Ma certo, un filo si è spezzato.
Se teniamo gli occhi bassi, quella che oggi vogliamo ricordare può sembrare solo una storia minore, che riguarda qualche centinaio di migliaia di persone vissute nel fondo di uno dei tanti golfi del Mediterraneo. Se invece abbiamo la capacità di levare lo sguardo ai contesti nei quali le vicende adriatiche si sono svolte, ed al cui interno soltanto queste trovano spiegazione, ci accorgiamo che quella piccola storia costituisce una sorta di laboratorio, in cui si trovano condensati su di una scala geograficamente circoscritta alcuni dei grandi processi della contemporaneità nell’Europa di mezzo: contrasti nazionali intrecciati a conflitti sociali, effetti devastanti della dissoluzione degli imperi plurinazionali, oppressione totalitaria, guerre di aggressione, scatenamento delle persecuzioni razziali e creazione dell’universo concentrazionario, violenze di massa, spostamenti forzati di popolazione, conflittualità est-ovest lungo una delle frontiere della guerra fredda.
All’interno di quella visione larga, noi vediamo subito che la parabola dell’italianità adriatica non si è svolta nel vuoto, ma si è intrecciata con un’altra traiettoria, quella dello slavismo. Le due identità si sono formate quasi simultaneamente e si sono definite in buona misura per differenza l’una dall’altra nel corso della seconda metà dell’Ottocento. Così, quella che prima era una società regionale di origini assai varie, caratterizzata da un notevole grado di plurilinguismo – anche se la lingua d’uso veneta risultava prevalente – si è divisa rapidamente lungo linee di frattura nazionali sempre meno permeabili. E’ un esempio classico di quei processi di nazionalizzazione di massa parallela e competitiva, che hanno caratterizzato la storia dell’Europa centrale fra la metà dell’Ottocento e quella del Novecento: una storia finita male, proprio in applicazione dei principi fondanti del nazionalismo, come l’intolleranza nei confronti dell’altro e la concezione perversa secondo la quale la terra che tutti ospita appartiene ad un solo popolo, mentre gli altri vengono considerati ospiti sgraditi, quando non invasori da cui liberarsi ad ogni costo, per via di assimilazione o di espulsione. Un dramma dunque, nel senso che non vi era altra soluzione prevista per il conflitto se non la crisi di una delle identità nazionali presenti nei territori plurali.
Ciò è accaduto anche nelle terre adriatiche e lungo questo percorso, un momento di svolta è costituito dalla prima guerra mondiale: alla sua conclusione infatti, la regione Giulia ha cessato di appartenere ad un impero pre-nazionale e multiculturale, per entrare a far parte di uno “stato per la nazione” – prima di quello degli italiani e poi di quello degli slavi del sud – cioè di una forma di stato creata da un’élite nazionale allo scopo di realizzare senza alcun limite tutte le potenzialità della nazione di appartenenza. Nei territori misti è cambiata quindi radicalmente la natura dei conflitti nazionali: se prima la competizione si concentrava sui poteri locali e lo stato cercava di mediare, in maniera più o meno equilibrata, fra le nazioni sorgenti, dopo la finis Austriae i gruppi nazionali vincitori potevano giocare tutta la forza del loro stato per sbaragliare la nazionalità avversa. In cima all’Adriatico la differenza si è vista subito, con l’avvio dei primi esodi incrociati:sloveni e croati dai territori assegnati all’Italia, italiani dalla Dalmazia assegnata alla Iugoslavia.
Anche altre parti d’Europa hanno vissuto dinamiche simili, che lungo le sponde adriatiche sono state inasprite dal succedersi di due regimi, quello fascista italiano e quello comunista jugoslavo, impegnati entrambi, se pur con diverse capacità e risultati, a realizzare le proprie ambizioni totalitarie. Per loro natura, i due regimi esprimevano forti cariche di violenza, che in parte si richiamavano, in parte rispondevano a logiche diverse: è naturale infatti che quanto accade prima condizioni quel che viene dopo, ma all’interno di una rete causale in cui agiscono soggetti e progetti autonomi. L’elemento decisivo è stato in ogni caso l’esperienza delle due guerre mondiali.
Il primo conflitto ha insegnato l’uso sistematico della violenza come strumento della lotta politica e in Italia – e quindi anche nella Venezia Giulia – il soggetto che nel dopoguerra ha imparato meglio la lezione, è stato il fascismo. Gli anni Venti e Trenta quindi sono stati la stagione dello squadrismo, con il suo portato di sopraffazioni, devastazioni e uccisioni, che poi si è trasformato in violenza repressiva dello stato ed ha generato la risposta terrorista. Si trattava del massimo di violenza concepibile in quel momento e in quel contesto, di più non ne serviva ed a nessuno poteva venire in mente.
Ben più tragiche, per proporzione e capacità distruttiva, sono state le dinamiche sprigionate dalla seconda guerra mondiale, che ha spostato in maniera radicale i confini del pensabile. E’ stata guerra totale, in cui i civili sono diventati obiettivo specifico di operazioni belliche. Sul fronte orientale è stata fin dall’inizio guerra senza regole, divenuta ben presto guerra di sterminio. Qui dunque si è affermata una nuova logica, quella della strage, e sul quel fronte è stata coinvolta anche l’Italia dopo l’aggressione alla Jugoslavia e, soprattutto, dopo le occupazioni e le annessioni, che hanno scatenato l’inferno in quel Paese: guerra di liberazione, guerra civile, guerra rivoluzionaria, repressione da parte delle forze dell’Asse. L’esplosione cumulativa di violenza è stata massima e di quel fronte nelle terre giuliane sono progressivamente cominciati a giungere gli echi degli orrori perpetrati non solo nei lontani boschi balcanici, ma nella contigua provincia di Lubiana. Poi, la Venezia Giulia è divenuta essa stessa fronte di guerra e l’8 settembre 1943 ha segnato un momento di svolta: con la temporanea presa del potere da parte dei movimenti di liberazione sloveno e croato e con l’occupazione germanica, diversa rispetto a quella del resto d’Italia, la regione Giulia, che è sempre stata area di cerniera tra mondo mediterraneo e danubiano, è entrata in pieno nelle logiche estreme dell’Europa orientale, nella storia cioè di quelle che Timoty Snyder ha chiamato le “terre di sangue”.
In tal modo, in cima all’Adriatico si sono saldate la propensione nazista allo sterminio e le pratiche estreme di lotta bolsceviche e staliniane. E’ all’interno di quel contesto che si collocano crimini come il campo di morte della risiera e le stragi delle foibe. Queste ultime rappresentano l’estensione alla Venezia Giulia dei criteri d’intervento che il movimento di liberazione jugoslavo correntemente applicava nella lotta senza quartiere contro gli occupatori, i loro collaboratori ed ogni tipo di avversario politico, come pure nella presa del potere della primavera del 1945. Ciò spiega come mai a cader vittima della repressione nella Venezia Giulia non siano stati soltanto collaboratori dei nazisti e fascisti veri e presunti, responsabili o meno di precedenti angherie nei confronti degli slavi, uomini delle istituzioni e rappresentanti a vario titolo del potere italiano, militari e membri delle forze di polizia, ma anche semplici cittadini di sentimenti patriottici e sloveni anticomunisti, come pure antifascisti e resistenti che si battevano per la conservazione della sovranità italiana sulla regione, tutti accomunati nella categoria di “nemici del popolo”, dai quali la nuova società doveva venir epurata.
Più ancora però che i picchi della violenza, a trasformare completamente gli assetti dell’area giuliana sono stati gli esiti delle politiche delle minoranze applicate prima dal regime fascista italiano e poi da quello comunista jugoslavo. Ben visibili sono le loro differenze, che non riguardano solo i presupposti ideologici, ma anche lo scarto fra i propositi enunciati e i risultati raggiunti: il fascismo si è impegnato a realizzare la “bonifica etnica”, ma quel che ha ottenuto, è stato di decapitare, impoverire ed umiliare le comunità slovene e croate che nella loro maggioranza sono rimaste salde sul territorio. Il regime di Tito invece ha proclamato la “fratellanza italo-slava”, ma gli italiani sono stati costretti ad andarsene al 90%.
Più utile invece, per leggere meglio le contraddizioni, è partire dalle somiglianze. Entrambe, quella fascista italiana e quella comunista jugoslava, erano politiche di integrazione selettiva, ovviamente non rispettose della volontà dei singoli.Il meccanismo è sempre lo stesso: la leadership dominante individua, all’interno del gruppo minoritario, componenti diverse: alcune sono giudicate compatibili – se pure a certe condizioni – con il nuovo ordine, altre no.
In concreto, il regime fascista isolava all’interno della società slovena e croata una minoranza che riteneva assolutamente irriducibile, costituita dalla classe dirigente slava. Sparita questa, si riteneva che la maggioranza della popolazione potesse venir assimilata grazie alle tradizionali politiche di nazionalizzazione, irrobustite dalla forza repressiva e dalle capacità di penetrazione di un regime che voleva essere totalitario.
Il regime comunista jugoslavo ha applicato il medesimo meccanismo, ma il profilo sociale della popolazione italiana era diverso e quindi l’esito ne è uscito rovesciato: quelle che in omaggio all’ideologia venivano chiamate le “masse popolari”, costituivano in realtà solo una minoranza all’interno del gruppo nazionale italiano. Questa componente comunque veniva ritenuta jugoslavizzabile e per farlo venne costruita la politica della “fratellanza”. Invece il resto della popolazione italiana, che era la parte più consistente, subì in pieno il peso di una rivoluzione nazionale e sociale nel cui ambito stava dalla parte sbagliata.
L’applicazione di tali strategie ha rivelato non poche sorprese. La classe dirigente slovena e croata è stata in effetti in buona misura spazzata via dal fascismo, ma il giudizio in base al quale le masse culturalmente inermi sarebbero state facilmente italianizzate, è risultato clamorosamente sbagliato. Qualche successo hanno avuto le politiche fasciste di sostegno selettivo all’emigrazione, ma neanche queste sono riuscite a risolvere il problema nel senso della prevista nazionalizzazione integrale dei territori di frontiera.
Sull’altro versante, la duplice rivoluzione – comunista e nazionale – jugoslava ha creato effettivamente per la componente italiana considerata “borghese” – e quindi tradizionale depositaria dei sentimenti di italianità – condizioni di invivibilità tali da spingerla all’esodo. Invece, i destinatari della politica della “fratellanza” si sono rivelati assai meno numerosi del previsto, per due motivi. In primo luogo, perché le maggiori concentrazioni di classe operaia – cioè quelle di Trieste e Monfalcone – dopo una breve parentesi nella primavera del 1945 sono rimaste fuori dai confini dello stato jugoslavo. In secondo luogo, perché tutti gli strati popolari ma non proletari (contadini, pescatori, marittimi) sono restati fedeli ai valori ed alle appartenenze tradizionali (lingua, patria, Chiesa, proprietà) e son quindi confluiti anch’essi nella vasta schiera dei “nemici del popolo”. Ma non basta, perché la stessa classe operaia di lingua italiana, dopo una fase di entusiasmo iniziale, ha finito per trovare inaccettabili le condizioni dell’integrazione, percependo – in buona parte già prima della crisi del Cominform del 1948 – un eccessivo sbilanciamento del regime jugoslavo in senso nazionalista.
Il risultato cumulativo è stata la generalizzazione di un duplice rifiuto: rifiuto dello stato e del regime jugoslavo da parte della stragrande maggioranza della popolazione italiana; rifiuto degli italiani, considerati – se pur per ragioni diverse – di fatto non integrabili, da parte delle autorità jugoslave, specialmente da quelle più vicine al territorio. L’esito ultimo quindi è stato l’esodo della quasi totalità della popolazione italiana, cui si sono agganciate anche aliquote non indifferenti di popolazione di madrelingua croata e slovena, perché l’esodo è stato un fenomeno che ha sconvolto come un sisma la società locale, generando uno smarrimento generale. Così, anche sulle sponde adriatiche è arrivata l’onda lunga della grande semplificazione che in un breve volger di tempo ha distrutto la maggior ricchezza dell’Europa di mezzo, il suo essere il luogo della diversità di lingue, culture, tradizioni.
Ma questa è una storia di molti anni fa. Da quella stagione terribile sono trascorse generazioni e sono mutati completamente gli assetti internazionali. In Italia la memoria del sacrificio dei giuliano-dalmati è stata salvata ed ora le diverse memorie di frontiera cominciano a riconoscersi e rispettarsi, nella loro insopprimibile soggettività. Molti fra gli studiosi di confine, già araldi delle storia delle nazioni, parlano ormai di “sguardo congiunto” e sperimentano percorsi di storia post-nazionale. Le comunità italiane giuliano-dalmate in esilio e quelle che ancor vivono sulla loro terra di origine hanno avviato un dialogo sempre più intenso. Le istituzioni degli stati si sono spese al massimo livello per la riconciliazione fra i popoli. La prospettiva dell’integrazione europea è largamente condivisa, anche se il percorso è per tutti faticoso.
Ciò che è accaduto non si può cambiare, ma si può cominciare una storia nuova, non dimentica di quanto di positivo – e non è poco, in termini di cultura e di consuetudine civile – i secoli passati hanno prodotto. In questo senso, l’inizio di un millennio ancora incerto sulla direzione da prendere, propone una sfida di alto profilo: andar oltre la semplice tolleranza di gruppi minoritari in perenne affanno e far crescere invece i semi di diversità che ancora sopravvivono sulle rive adriatiche per ricostruire, se pur in misura assai più limitata che un tempo, un tessuto plurale, certo più adatto, rispetto all’esclusivismo nazionale, a reggere l’impatto della globalizzazione.