Piuttosto, bisogna partire da quella consapevolezza per riflettere anche in ambito storiografico e non solo letterario sulla fecondità di una sorta di “realismo isterico” caratterizzato dal gusto maniacale per il dettaglio (Dio è nel particolare), dalla digressione che rivela il problema quanto più sembra allontanarsi dal suo oggetto e dalla fluvialità della trama che serve a proteggere con i suoi argini la sempre fragile e spesso tragica complessità della verità storica come ricerca. Il terzo strumento riguarda la dimensione civile della ricerca storica. In questi ultimi anni il mestiere di storico è stato caratterizzato da una deriva ermeneutica sempre più specialistica e parcellizzata direttamente proporzionale alla crisi del carattere etico-politico della disciplina.
La principale ragione di questo moto tendenziale credo sia comune ai principali saperi umanistici. Penso alla rielaborazione del trauma costituito da Auschwitz, che, trascorsi solo settant’ anni dall’ evento, ancora condiziona lo sviluppo dei modelli culturali. Tutte le discipline umane, ancora oggi, stanno provando a rispondere, ciascuna in base alla propria specificità, alla domanda che fu per primo formulata da Theodor Adorno: dopo Auschwitz è ancora possibile la poesia? E Dio, e la filosofia, e l’ arte, e il romanzo e la storia? Sono ancora possibili? Per quanto concerne la storia la ferita da ricucire è costituita dal negazionismo, ossia dal rifiuto dell’ esistenza dei campi di sterminio come fatto in sé. La qualità dei problemi sollevati da questa patologia culturale sono più rilevanti dell’effettiva portata quantitativa del fenomeno stesso. Nel negare l’ esistenza di un fatto riducendolo a mera interpretazione c’ è il lascito più concreto del progetto nazista, fondato sulla distruzione della documentalità, un obiettivo che è stato possibile programmare e in parte realizzare proprio in virtù della forza e dell’efficacia di quel programma totalitario. «Tanto non vi crederanno…»: quest’angosciosa provocazione di una SS spinse Levi alla scrittura. Dall’ imperativo di rispondere a una sfida tanto selvaggia si è registrata la condivisibile presa di conquista del centro della disciplina da parte della memoria e della testimonianza. Tuttavia, l’ estensione onnivora di questa prescrizione agli altri ambiti della ricerca, un’ estensione non a caso accompagnata da una messa in discussione dell’ unicità della Shoah come progetto di annientamento totalitario scaturito dal cuore della democrazia europea, ha progressivamente marginalizzato lo spazio della filologia e quello del metodo nella ricostruzione storica: dalla storia alle “storie”, ciascuno con la propria memoria identitaria da difendere e brandire.
Ciò ha favorito l’affermazione della “docufiction”, il cui fulcro è costituito dalla densità emotiva del racconto, qualunque esso sia: basta che quel sacco stia in piedi, anche se a tenerlo non sono più neppure le interpretazioni – che almeno si potrebbero discutere – ma il palcoscenico delle emozioni, il ricatto degli stati d’ animo e il loro consumo pubblicitario dentro una cornice populista che costituisce la malattia della democrazia contemporanea. Un male che si può ancora curare se restituiamo uno spazio critico ai fatti e alla realtà, come istanza culturale da proporre, un percorso in cui dunque il sapere storico, con i suoi metodi, può svolgere un’ importante funzione civile. Il problema sollevato è quello della tendenza al dispotismo della democrazia, già individuata da Tocqueville in pagine famose: forme della rappresentatività in crisi e retoriche della persuasione che vivono invece una stagione tecnologica di straordinario sviluppo e pervasività e che sono sempre più in grado di «degradare gli uomini senza tormentarli», in modo «più esteso e più dolce» che in passato, come scriveva l’ autore della Democrazia in America. In questo squilibrio tipico del nostro tempo tra la lentezza delle forme della politica e la velocità tecnologica della sua comunicazione senza pensiero e cultura e, dunque, in uno stato perenne di demagogia plebiscitaria, c’ è la profonda frattura dei nostri giorni.
Ragionare su come sanarla attiene alla funzione culturale delle discipline umanistiche, alla sfida del realismo con cui avranno la capacità di affrontarla: il nemico, quando è mortale, non è mai un’ interpretazione.
La Repubblica, 5.1.2012