“Visto? Ve l’avevamo detto!..”. Questo potrebbe essere il commento a quanto è accaduto nei giorni scorsi a Macerata. E chiudere tutto lì. Ma non sarebbe serio, nè-sopratutto produttivo. Perché voglio citare anch’io-come ha fatto il Direttore della Gazzetta- De Gregori, ma quando ci ricorda: “Attenzione, la storia siamo noi, nessuno si senta escluso..”.
E ripartire da lì, dalla storia, da una storia che coinvolge tutti gli italiani, antifascisti e non, senza distinzioni di appartenenza o (prossima) scelta elettorale. Coinvolge tutti perché arriva alle radici stessa della convivenza democratica, al nostro sentirci (o no) parte di questa nazione, ai nostri simboli più importanti come il Tricolore.
Si poteva prevedere l’accaduto? Sì, credo di sì. Quando si lasciano che le parole esprimano odio, divisione, vendetta, violenza, prima o poi arriva sempre un qualche sgangherato che mette in pratica quelle cattive parole, frutto di un cattivo pensiero, producendo violenza e dolore. Se si pensa che il Mein Kampf sia un libretto come un altro, che bandiere e vessilli nazisti e fascisti siano innocua paccottiglia da vendere ai mercatini, che si possa discutere se fare il saluto romano sia o no un espressione di un’idea o un reato, succede.
E’ sempre successo. Quando si finge (o si crede davvero) che tutto sia uguale, qualunque idea sia come un’altra, si perdono i punti di riferimento, quando si invitano ai talk show esponenti nazisti e fascisti come se tutto fosse normale, è chiaro che qualcosa si è già rotto e non da ora. Si dice che negli anni novanta si sia sdoganato il fascismo, si tira in ballo Berlusconi e la compagnia circense dell’epoca (e certo non fu piccolo lo shock nel vedere Fini accolto a una festa dell’Unità) ma la realtà è più semplice e più antica.
Non c’era nessun bisogno di sdoganare il fascismo perché il fascismo aveva continuato a fare parte della nostra storia e della nostra società anche dopo Piazzale Loreto. Era successo quasi subito quando, nel dicembre 1946 si era consentita la nascita del Movimento sociale (che non a caso come simbolo portava la fiamma accesa davanti alla salma del Duce), era continuato nel 1957 quando proprio di quella salma, dopo alterne vicende, era stata consentita la tumulazione della tomba di famiglia a Predappio, anzichè-come la Germania aveva insegnato-cremare quelle ossa e spargere le ceneri al vento (e ora si sta realizzando un Museo del fascismo proprio a Predappio…).
Era continuato consentendo la continuità di apparati e personale politico e amministrativo fra fascismo-RSI e Repubblica, consentendo, ad esempio, senza troppi clamori che un criminale di guerra, condannato all’ergastolo in Grecia per le azioni di strage compiute dalle nostre truppe di occupazione, continuasse in Italia la sua carriera burocratica fino a diventare Prefetto di Palermo prima e di Roma poi (si chiamava Giovanni Ravalli e tale rimase fino al 1974).
Abbiamo già scritto della debolezza dell’antifascismo italiano, del suo essere rimasto patrimonio solo di una parte del paese e non sentire diffuso, oggi ci sorprendiamo che, anche grazie ai social, si riveli questo umore fascioleghista, innervato di violenza, ignoranza (letterale) e disagio sociale.
Ci sorprendiamo che quello sgangherato che ha tentato una strage si sia coperto del simbolo nazionale per affermare un suo “diritto” alla cieca vendetta ma non siamo mai riusciti a ragionare proprio su quel simbolo che Reggio ha dato alla nazione.
Non siamo riusciti, anche in questo caso, a farlo condividere davvero. Perfino a Reggio il 7 gennaio si festeggia “soft”, scuole e negozi aperti, business as usual, come pretendere che la ricorrenza diventasse festa nazionale, festa vera per tutti gli italiani?
E poi abbiamo riflettuto su quel simbolo, che come Mario Luzi ci ricordò nel giorno del Bicentenario “Ne ha di macchie e di abusi, il Tricolore, di vergogne e di smarrimenti”?
Perché quel Tricolore fu portato e issato sul balcone del nostro Comune da Giorgio Morelli “Il solitario” il 24 aprile 1945, a segnare la sconfitta del fascismo e la liberazione della città, ma quello stesso Tricolore (nella copia donata dalla nostra città) sventolò su Addis Abeba, conquistata dalle truppe del criminale di guerra Rodolfo Graziani e quello stesso Tricolore veniva portato dalle nostre truppe nei massacri in Jugoslavia, Montenegro e Grecia nel 1941-1942.
Non esistono simboli magici, capaci di rigenerarsi miracolosamente, resta la loro storia, una storia dolorosa e complessa che la nostra società colpita da una sorta di “Alzheimer di massa” (come il prof.Melloni ha ricordato l’ultimo 7 gennaio) ha rimosso e\o rifiutato.
Si tira in ballo il sistema educativo, giusto (anche se nella scuola di fascismo, Shoah e Resistenza forse si è parlato di più negli ultimi quindici anni che nei cinquanta precedenti) si può fare certamente di più e meglio, ma una società non è solo le sue scuole, di ogni ordine e grado, è anche le famiglie, le associazioni, i “corpi intermedi” oggi così in affanno. Una società è anche, banalmente, fatta di singoli, persone, noi.
Quanti di noi hanno ascoltato in treno, per strada, dal vicino, dal conoscente il famoso incipit “io non sono razzista, però…” o la variante “Io non sono fascista, però..Mussolini ha fatto anche delle cose buone”? Dimenticando che il fascismo non è un’opinione ma è un crimine?
Cosa abbiamo fatto? Siamo rimasti tranquilli, in silenzio. Al massimo, arrivati a casa su Facebook abbiamo raccontato, sdegnati, da bravi democratici, la vergogna appena sentita, godendoci magari quel po’ di “like” che ci hanno fatto sentire meno soli.
Ecco, la prossima volta non restiamo in silenzio, con educazione ma con fermezza diciamo a quei signori che no, non è così, che il fascismo ha distrutto l’Italia, che la nostra Costituzione dichiara la uguaglianza di tutti, ma proprio tutti.
Perché questo ci riguarda uno ad uno, perché davvero “la storia siamo noi, nessuno si senta escluso.”