Hans Küng: Ratzinger reciti il mea culpa sulla pedofilia

di Hans Küng, la Repubblica, 18 Marzo 2010

Si è detto che dopo aver ricevuto in udienza l`arcivescovo Robert Zollisch il Papa era «profondamente scosso» e «sconvolto» per i numerosi casi di abusi. Dal canto suo, il presidente [della Conferenza episcopale tedesca] ha chiesto perdono alle vittime, citando nuovamente le misure già adottate e quelle previste. Ma nessuno dei due ha risposto a una serie di domande di fondo che non è più possibile eludere. Stando ai risultati dell`ultimo sondaggio Emnid, solo il 10% degli interpellati trova soddisfacente l`opera di rielaborazione della Chiesa, mentre per l`86% dei tedeschi l`atteggiamento degli alti livelli della gerarchia ecclesiastica manca di chiarezza. Le loro critiche troveranno peraltro conferma nell`insistenza con cui i vescovi continuano a negare ogni rapporto tra l`obbligo del celibato e gli abusi commessi sui minori.

Prima domanda: Perché il Papa continua, contro la verità storica, a definire il «santo» celibato un «dono prezioso», ignorando il messaggio biblico che consente espressamente il matrimonio a tutti i titolari di cariche ecclesiastiche? Il celibato non è «santo», e non è neppure una grazia, bensì piuttosto una disgrazia, dal momento che esclude dal sacerdozio un gran numero di ottimi candidati, e ha indotto molti preti desiderosi di sposarsia rinunciare alla loro missione.
L`obbligo del celibato non è una verità di fede, ma solo una norma ecclesiastica che risale all`XI secolo, e avrebbe dovuto essere sospesa ovunque in seguito alle obiezioni dei riformatori dal XVI secolo.
In nome della verità, il Papa avrebbe dovuto quanto meno promettere un riesame di questa norma, da tempo auspicato dalla grande maggioranza del clero e della popolazione. Anche personalità come Alois Glück, presidente del Comitato centrale dei cattolici tedeschi, o Hans-Jochen Jaschke, vescovo ausiliare di Amburgo, si sono espresse in favore di un rapporto più sereno con la sessualità e della possibilità di far coesistere fianco a fianco sacerdoti celibi e sposati.

Seconda domanda: È possibile che «tutti gli esperti» abbiano escluso l`esistenza di qualsiasi rapporto tra la pedofilia e l`obbligo del celibato sacerdotale, come ha nuovamente asserito l`arcivescovo Zollitsch? Chi mai può conoscere il parere di «tutti gli esperti»!? Di fatto si potrebbero citare innumerevoli psicoanalisti e psicoterapeuti che al contrario hanno sottolineato questo rapporto: mentre l`obbligo del celibato impone ai preti di astenersi da qualunque attività sessuale, i loro impulsi sono però virulenti, col rischio che il tabù e l`inibizione sessuale li induca a ricercare una qualche compensazione. In nome della verità, la correlazione tra l`obbligo del celibato e gli abusi non può essere semplicemente negata, ma va presa invece in seria considerazione.
Lo ha ben chiarito ad esempio lo psicoterapeuta americano Richard Sipe, che a questi studi ha dedicato un quarto di secolo (cfr. «Knowledge of sexual activity and abuse within the clerical system of the Roman Catholic church», 2004): la forma di vita del celibato, e in particolare la socializzazione che la prepara (il più delle volte nei convitti e successivamente nei seminari) può favorire tendenze pedofile. Richard Sipe ha individuato un tipo di inibizione dello sviluppo psicosessuale più frequente nei celibi che nella media della popolazione; ma spesso la consapevolezza dei deficit dello sviluppo psicologico e delle tendenze sessuali si raggiunge solo dopo l`ordinazione al sacerdozio.

Terza domanda. Oltre a chiedere perdono alle vittime, i vescovi non dovrebbero finalmente riconoscere anche le proprie corresponsabilità? Per decenni, dato il tabù sulla norma del celibato, hanno occultato gli abusi, limitandosi a disporre il trasferimento dei responsabili. Tutelare i preti era più importante che proteggere bambini. C`è poi una differenza tra i casi individuali di abusi commessi nelle scuole, al di fuori della Chiesa cattolica, e gli abusi sistemici, spesso reiterati e frequenti, all`interno stesso della Chiesa cattolica romana, in cui vige tuttora una morale sessuale quanto mai rigida e repressiva, che culmina nella norma sul celibato. In nome della verità, anziché porre un ultimatum di 24 ore al ministro federale della giustizia, sopravvalutando peraltro gravemente l`autorità ecclesiastica, il presidente della Conferenza episcopale avrebbe dovuto finalmente dichiarare con chiarezza che d`ora in poi, in caso di reati di natura penale le gerarchie della Chiesa non cercheranno più di eludere l`azione giudiziaria dello Stato. O dovremo aspettare che per ricredersi, la gerarchia sia costretta a pagare risarcimenti dell`ordine di milioni di euro? Negli Usa la Chiesa cattolica ha dovuto versare a questo titolo, nel 2006, ben 1,3 miliardi di dollari; e in Irlanda, nel 2009 il governo ha stabilito con gli ordini religiosi un accordo – rovinoso per questi ultimi – per un fondo risarcimenti di 2,1 miliardi di euro. Cifre del genere sono assai più eloquenti dei dati statistici sulle percentuali dei celibi tra gli autori di reati sessuali, citati nel tentativo di sdrammatizzare il dibattito.

Quarta domanda: Il papa Benedetto XVI non dovrebbe assumersi a sua volta le proprie responsabilità, anziché lamentarsi di una campagna che sarebbe in atto contro la sua persona? Nessuno finora, in seno alla Chiesa, si è mai trovato sulla scrivania un così gran numero di denunce di abusi. Vorrei ricordare quanto segue: Per otto anni docente di teologia a Regensburg e in stretti rapporti col fratello Georg, maestro della cappella del Duomo (Domkapellmeister), Joseph Ratzinger era perfettamente al corrente della situazione dei Domspatzen, i piccoli cantori di Regensburg. E non si tratta qui dei ceffoni, purtroppo all`ordine del giornoa quei tempi, bensì anche di eventuali reati sessuali.
Arcivescovo di Monaco per cinque anni, in un periodo durante il quale un prete, trasferito nel suo episcopato, perpetrò una serie di ulteriori abusi che oggi sono venuti alla luce. Anche se Mons. Gerhard Gruber, suo vicario generale (oltre che mio ex collega di studi) si è assunta la piena responsabilità di questi episodi, la sua lealtà non poteva bastare a scagionare l`arcivescovo, responsabile anche sul piano amministrativo.
Per 24 anni Joseph Ratzinger è stato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nel cui ambito si prendeva atto dei più gravi reati sessuali commessi dal clero in tutto il mondo, per raccoglierli e trattarli nel più totale segreto («Secretum pontificium». Il 18 maggio 2001, con una lettera rivolta a tutti i vescovi sul tema delle «gravi trasgressioni», Joseph Ratzinger aveva confermato per gli abusi il «segreto pontificio», la cui violazione è punita dalla Chiesa).
Papa per cinque anni, non ha cambiato di una virgola questa prassi infausta.

In nome della verità Joseph Ratzinger, l`uomo che da decenni è il principale responsabile dell`occultamento di questi abusi a livello mondiale, avrebbe dovuto pronunciare a sua volta un «mea culpa». Così come lo ha fatto il vescovo di Limburg, Franz Peter Tebartz-van Elst, che in un`allocuzione trasmessa per radio il 14 marzo 2010 si è rivolto a tutti i fedeli in questi termini: «Poiché un`iniquità così atroce non può essere accettata né occultata, abbiamo bisogno di cambiare strada, di invertire la rotta per dare spazio alla verità. Per convertirci ed espiare, dobbiamo incominciare col riconoscere espressamente le colpe, fare atto di pentimento e manifestarlo, assumerci le responsabilità e aprire così la strada a un nuovo inizio».

(18 marzo 2010)

Reggio Emilia, la riserva indiana (Nicola Fangareggi)

L’analisi del voto regionale non si presta a semplificazioni eccessive pena il rischio di fare confusione e di approdare a conclusioni sbagliate. Un certo giornalismo grossolano non aiuta, ma tant’è: dalle testate nazionali più autorevoli all’ultimo dei fogli locali Reggio Emilia emerge nella trita narrazione luogo-comunista secondo cui l’ex roccaforte rossa sarebbe finita o in procinto di finire nelle mani dei barbari invasori leghisti.
Trattasi non di semplificazione, ma di sciocchezza. Bisogna avere la pazienza e la voglia di osservare i numeri per capire che è avvenuto il contrario e che le letture da rotocalco, quelle buone per un titolo a effetto ma della durata di un mattino, non fotografano correttamente la realtà. Che è molto diversa.
Il voto di Reggio dice che l’avanzata della Lega si è fermata sulle rive del Po e dell’Enza. E che al netto di un’astensione peraltro gigantesca il centrosinistra, nella sua accezione più estesa ma non per questo meno verosimile, si conferma nelle preferenze di due cittadini su tre.
Le urne del capoluogo non lasciano dubbi se si osserva il raffronto tra il voto regionale e quello amministrativo di dieci mesi fa. La Lega si ferma al 14,5%, tetto notevole sì, ma già consolidato nel 2009. A sinistra mutano gli equilibri ma la forza è quella del passato, se non superiore. Liberato dall’ipoteca spaggiariana il Pd in città conquista il 45,55%. Di Pietro balza al 7,8. I grillini crescono, seppure non come in altre città, e arrivano al 5,36. La sinistra tradizionale (Sel e comunisti) mette insieme a sua volta un cinque per cento. Dove sarebbe caduta la roccaforte?

Lega e Berlusconi si spartiscono i consensi di una fetta minoritaria che raggiunge a fatica il 33% dei voti. Gli stessi di dieci, di quindici anni fa. E ciò a dispetto di uno sfondamento al di sopra del Po che ha consegnato al Carroccio Veneto e Piemonte, ma che in Emilia si è fermato a Guastalla.
Altro che le dichiarazioni sovreccitate di Alessandri: per quanto la Lega possa avere lavorato bene sul territorio e per quanto il localismo a matrice xenofoba possa esercitare attrazione sull’elettorato emiliano in crisi di identità, il messaggio non fa breccia. Se ne facciano una ragione, le camicie verdi e i loro amici.

………segue in:

http://www.reggio24ore.com/Sezione.jsp?titolo=Reggio+Emilia%2C+la+riserva+indiana&idSezione=12426

Il regno del Nord (Marco Revelli)

Dunque il Piemonte è stato annesso al lombardo-veneto. Alla vigilia del 150° anniversario dell’Unità d’Italia ha rovesciato il segno simbolico del proprio ruolo storico, come se la Seconda Guerra d’indipendenza fosse stata perduta. Come se a Solferino e San Martino avessero vinto gli altri. E infatti, appena finito di contare i voti, Zaia e Cota, all’unisono, si affrettano a proclamare la propria alleanza col Papa Re dall’accento asburgico, passando sul corpo delle donne e sul testo di una legge della Repubblica.
Non c’è dubbio che è questo il dato centrale delle elezioni. Il fatto che, con buona pace di Pier Luigi Bersani, dà per intero la misura della sconfitta del centro-sinistra: la “caduta” del Piemonte. Perché con essa la Lega, occupando con uomini propri tanto il Nord est che il Nord-ovest e aumentando il proprio già forte peso in Lombardia, unifica sotto le proprie bandiere pressoché tutto il Nord. “Governa”, di fatto, la Padania. Può dire – e di fatto così è – di non aver guadagnato solo due amministrazioni regionali della Repubblica, ma di aver conquistato “un regno”: il più “pesante” della penisola. D’ora in poi la geografia politica italiana non sarà più la stessa.
Il secondo fatto cruciale per leggere quanto è accaduto, è che Berlusconi non ha perso. E quindi, date le circostanze, ha stravinto. Più nulla, ma proprio nulla, di ciò che è e di ciò che fa, era sconosciuto. Tutti i suoi vizi, quelli privati come quelli pubblici, erano noti. Scritti nelle carte dei giudici e sulle prime pagine dei giornali. E tuttavia non solo non è crollato, come sarebbe stato naturale aspettarsi, ma ha finito per prevalere. Il suo “racconto” – sempre più narrazione di se stesso – ha continuato a rimanere il racconto prevalente. L’autentica “autobiografia della nazione”. Ognuno di quei vizi e di quei fatti, sarebbe bastato da solo, in qualsiasi altro paese normale, a segnare la fine di qualsiasi uomo politico. Sicuramente di qualsiasi Capo di stato. Qui no. E ora, nel lavacro elettorale, quei vizi e quei fatti, diventano “norma” perché come si sa – come gli anni Venti e Trenta dell’altro secolo ci hanno insegnato – l’illegalità impunita e la perversione accettata a furor di popolo si trasformano in legittimazione. Non solo l’inaccettabile viene accettato, ma diviene forma del senso comune prevalente. E attributo della sovranità.
Certo – si dirà – Berlusconi ha portato a casa la pelle, ma ha perso il partito. Ed è così. Nella sua lotta per la sopravvivenza ha messo in campo solo ed esclusivamente la propria persona. Anzi: la propria faccia. Il suo Sé abnorme. Quello che ha chiesto – e purtroppo ha ottenuto – è un plebiscito su se stesso. Ma ha rivelato anche il vuoto politico che ha intorno a sé, tra le proprie mura. Molti – davvero tantissimi – servi; pochi, quasi nessun politico. Il Pdl, più che un partito, si è rivelato una corte, da una parte; e un coacervo di interessi e di spezzoni d’identità dall’altra. Alla prova del voto quello che nelle intenzioni avrebbe dovuto diventare il partito egemonico della destra, è imploso miseramente. 
Il Pdl ha rivelato la propria inconsistenza organizzativa (fino al limite dell’incapacità di realizzare le operazioni più banali per un partito come la presentazione della lista). E la propria inoperosità identitaria e politica, tanto viscosa da aver neutralizzato persino l’identità forte di quello che era rimasto finora un vero partito, cioè An. 
Esattamente come il Pd, inerte nel gioco incrociato dei notabilati interni e delle trascorse storie personali e collettive, incapace di mobilitare passioni e di nobilitare interessi. Soprattutto esangue, privo di una propria corporeità sociale, di un proprio popolo, di una propria gente in nome della quale parlare e dalla quale essere riconosciuto. Prigioniero dell’era del vuoto che con la propria genesi ha inaugurato.
Ed è questo il terzo dato qualificante: il fallimento dell’operazione avviata nell’estate-autunno del 2007, con il proclama del predellino, da una parte, e con la kermesse mediatico-plebiscitaria veltroniana in preparazione delle primarie del non ancor nato Pd, dall’altra. Essa aveva, esplicitamente, l’obiettivo di ridisegnare l’architettura del sistema politico e istituzionale italiano intorno alla centralità di un bipolarismo ad alta vocazione egemonica. Di superare l’impasse in cui si era arenata la cosiddetta seconda Repubblica con una radicale semplificazione del sistema dei partiti intorno al doppio polo Pdl-Pd. Due entità – è bene ricordarlo -, che si auto-dichiaravano nuove, in corso di stampa si potrebbe dire. E che – nell’enfasi della retorica nuovista – si presentavano come un inedito. A quelle due incognite era affidato – in modo del tutto irresponsabile – il compito improbo di ritracciare in forma costituente il profilo del nostro assetto istituzionale, secondo la logica di una partita di poker in cui la posta era giocata “al buio”. 
Oggi sappiamo che quelle due entità che avrebbero dovuto diventare partiti, in realtà non sono mai arrivate. Che la produzione liofilizzata del Pdl e la fusione fredda del Pd si sono in qualche modo fermate a metà, lasciando in campo due ectoplasmi incerti sulla propria forma. Involucri dal contenuto eterogeneo, che non si è mai trasformato in amalgama: agglomerati di gruppi in esplicita competizione interna. E’ significativo che siano molte, in un campo e nell’altro, le vittime del “fuoco amico”, dal ministro Brunetta (disertato dai leghisti) alla governatrice Bresso (affondata più dai dissidi interni che dai grillini valsusini)… Ma è ancor più rilevante il fatto che è proprio da Pdl e Pd, in forma bipartisan e simmetrica, che si sono riversati al di fuori del sistema politico i quasi tre milioni di voti che mancano all’appello: cosa ancora in qualche misura comprensibile per il Pdl, rispetto al quale almeno una parte di elettorato moderato può esser stato disgustato dagli eccessi del leader. Ma assai meno scontata per il Pd, che avrebbe dovuto capitalizzare l’impresentabilità del suo avversario, facendo il pieno al di là dei suoi meriti.
Se persino in questa circostanza il suo stesso elettorato l’ha, almeno in parte, abbandonato, deve essere stato davvero elevato il suo potenziale “repellente”. L’effetto-delusione che esso ha alimentato: il senso di distacco, di auto-referenzialità, in qualche misura di arroganza e insieme di separatezza del suo ceto politico. La sua distanza dai territori e dalla gente che li abita. La sua incapacità di parlare un linguaggio condiviso, e di disegnare un orizzonte di valori credibili e comuni. Bersani che in diretta TV rivendica il merito di aver «invertito la tendenza», alludendo a una sorta di vittoria, mentre tutto il suo popolo, quello che l’ha votato, è piegato in due dalla sofferenza e dalla consapevolezza della sconfitta storica, è l’emblema dell’abisso scavato tra il ceto politico e il suo popolo. Dell’incapacità di parlare la stessa lingua e di condividere lo stesso universo di senso. Ci dice di una dirigenza di partito capace solo di guardare all’interno (e di guardarsi alle spalle), preoccupata più di parare i colpi degli avversari nel partito che di vedere ciò che avviene nel mondo esterno, simbolo vivente di un esodo, drammatico, della politica di sinistra dai luoghi della vita quotidiana.
Su questo terreno istituzionalmente liquefatto restano solo due corpi: il corpo solitario del Capo, sopravvissuto miracolosamente a se stesso e al “giudizio di dio” da lui stesso invocato; e il corpaccione collettivo della Lega, impastato di sangue e di suolo. Carisma da satrapo, e milizie territoriali da rude razza padana. Detteranno i modi e i tempi della transizione. E non sarà una passeggiata. Il triennio che ci aspetta non sarà segnato dalla lenta agonia del berlusconismo, nel quadro di una pacifica ri-normalizzazione. E men che meno – è quasi un’ovvietà – dal civile confronto sulle riforme. Tanto vale dirselo.

Die Zeit: Abusi sessuali, le responsabilità di Joseph Ratzinger

di Claudia Keller, Die Zeit, (traduzione dal tedesco di José F. Padova)


Durante gli anni ’50 e ’60, nell’arcidiocesi americana di Milwaukee, un prete cattolico avrebbe abusato di più di cento minorenni. Quando nella metà degli anni ’90 il caso fu riferito alla competente Congregazione per la dottrina della fede in Vaticano, l’allora capo della Congregazione [ndt.: un tempo nota come Sant’Uffizio], il cardinale Joseph Ratzinger, non avrebbe fatto nulla per sospendere quel prete dalle sue funzioni. Tutto ciò è stato riportato dal New York Times lo scorso giovedì con il riferimento a documenti che il quotidiano aveva ricevuto da parte degli avvocati delle vittime. Il portavoce del Vaticano, Federico Lombardi, respinse l’accusa che la Congregazione fosse rimasta inerte. Il Vaticano, in considerazione dell’età e della salute malferma dell’ecclesiastico, avrebbe rinunciato a infliggergli una pena religiosa, come la riduzione allo stato laicale. Roma avrebbe però pregato l’arcidiocesi di Milwaukee di prendere adeguate misure contro il prete, che allora viveva già in clausura e poco tempo dopo morì.

Il fatto [criminale] non fu denunciato alle autorità statali. Il Vaticano non lo aveva ordinato. E il Vaticano considera sé stesso, al più tardi dal 2001, come suprema istanza per i casi di abuso sessuale. Così aveva disposto papa Giovanni Paolo II nella sua Lettera apostolica “Sulla difesa della santità dei sacramenti” del 30 aprile 2001. Nella Disposizione attuativa del 18 maggio 2001 “Delle trasgressioni più gravi” il cardinale Joseph Ratzinger aveva chiarito ancor più nettamente che anche l’abuso sessuale su minorenni è un grave delitto, che in futuro avrebbe dovuto essere giudicato soltanto dalla Congregazione per la dottrina della fede.

Si era giunti a quello scritto perché nel 2001 erano venuti alla luce centinaia di casi d’abuso nelle diocesi americane. Fino al 2001 le diocesi locali erano competenti per gli accertamenti necessari quando un prete era accusato di atti sessuali abusivi. Tuttavia Giovanni Paolo II e il cardinale Ratzinger avevano la sensazione che i vescovi americani non approfondissero con sufficiente fermezza le accuse, e quindi fecero diventare la materia di competenza della Suprema Autorità [papale]. Con lo scritto “Sulla difesa della santità dei sacramenti” essi fissarono la competenza a loro stessi rispettivamente alla Congregazione per la dottrina della fede.

La Congregazione per la dottrina della fede è la Suprema Corte di giustizia della Chiesa cattolica, competente non soltanto per un milione di ecclesiastici, ma anche per il miliardo circa di cristiani cattolici. Supremo giudice è il Prefetto della Congregazione, che dal 1982 al 2005 era il cardinale Joseph Ratzinger. Quindi dal 2001, dalla data della Istruzione “Sulla difesa della santità dei sacramenti”, egli aveva la più alta responsabilità su come a livello mondiale i vescovi cattolici dovevano comportarsi nei confronti dei preti pedofili. Infatti dal 2001 in poi nessun vescovo può trattare questi casi di propria iniziativa, ma ogni caso fondatamente sospetto deve essere comunicato a Roma e le diocesi devono attendere da Roma le istruzioni su come intervenire in seguito. La Congregazione per la dottrina della fede si riserva anche di intraprendere accertamenti in propria istanza. Il Vaticano, secondo dati diffusi pubblicamente, dal 2001 in poi è venuto a conoscenza di 3.000 casi sospetti, per il 20% soltanto dei quali è stata comminata una pena, mentre nel 60% il processo è stato archiviato. Su chi come prete cattolico abusa di un bambino incombe, secondo il diritto della Chiesa, la sollevazione dall’incarico o la pena massima, la rimozione dallo status ecclesiastico.

Gli scritti romani dell’anno 2001 mostrano però chiaramente quanto grande sia la spaccatura fra il diritto della Chiesa e quello dello Stato. Così, per esempio, è altrettanto grave [per la Chiesa] se un prete ha rapporti sessuali con bambini o se infrange il segreto confessionale o se butta via l’ostia eucaristica. La pena più pesante colpisce i preti che “impartiscono l’assoluzione a un corresponsabile di peccati contro il sesto comandamento (adulterio)”. Un prete che ha fatto questo, ben diversamente da un colpevole di abuso sessuale, viene scomunicato ipso facto, senza attendere le indagini e la condanna. L’abuso del diritto di assolvere è dunque più grave dell’abuso sessuale su un bambino.

Nei documenti ecclesiastici non si parla nemmeno di cooperazione con le autorità statali. Al contrario: questi gravi delitti “sottostanno al segreto pontificio”, vi viene detto, il grado più alto di riservatezza della Santa Sede. Inoltre, le lettere del 2001 spiegano che nessuno all’infuori di un prete può essere oggetto di procedimento per abuso sessuale. Nel Vaticano infatti i poteri legislativo, giudicante ed esecutivo coincidono – un’assurdità assoluta secondo il concetto democratico di diritto.

http://temi.repubblica.it/micromega-online/die-zeit-abusi-sessuali-le-responsabilita-di-joseph-ratzinger/

Bersani, abbiamo perso (L.Ravera)

Caro Bersani, per quel poco che ho imparato, affacciandomi appena, sul baratro della politica-politica, dovrei dire che è andata bene. Scusa ma non ci riesco. Sono, nonostante l’età, una principiante. Quindi mi applico una grande «P» sulla schiena e provo a dire la verità: abbiamo perso. Abbiamo perso perché non abbiamo vinto. E di questo avevano bisogno gli italiani: che vincesse il centrosinistra. Non era difficile: il Pdl marciava scomposto, eroso dai conflitti interni, a credibilità ridotta per i pasticci e gli scandali (ci sarà pure un tot di gente onesta che si scandalizza e si disamora dei ladri e dei puttanieri!). Il Lazio aveva una candidata forte, una che, nonostante 40 anni di politica-politica, non era né sputtanata né inerte. La Puglia pure aveva un candidato forte. Nicky e Emma: due forze della natura e della cultura. Una autocandidata e poi accettata. L’altro imposto. Era un buon cavallo anche la Bresso: l’atteggiamento sprezzante verso Beppe Grillo, l’ha pagato lei. Povera Mercedes. Dove Grillo è stato considerato un alleato e non un rompicoglioni folcloristico si è vinto. Dove Grillo è stato escluso si è perso. Perché, caro Bersani, la presunzione rende stupidi. Grillo è il punto di riferimento di un’ ampia area di dissenso verso il Governo e sfiducia verso la partitocrazia (tutta, pd incluso). Non sono degli idioti qualunquisti. Hanno delle ottime condivisibli ragioni per prendere la via del «vaffa’…». Occorre ascoltarli. Come occorre ascoltare tutti quegli operai del nord che hanno votato Lega. Lo dico a te, Bersani, perché sei cresciuto in un partito che sapeva bene chi rappresentava e perché. Piantatela di corteggiare il centro. Non è lì la maggioranza degli italiani. La maggioranza degli italiani è sull’orlo di una crisi di nervi. Di identità. Di appartenenza. Dovete andare a prenderli uno per uno. Prima che sia troppo tardi.

http://www.unita.it/news/lidia_ravera/96927/bersani_abbiamo_perso

La nuova geografia del voto (L.Ricolfi)

Berlusconi dice che con il voto di domenica gli elettori hanno premiato il suo governo. Non è esatto, visto che il partito del premier ha perso voti sia in assoluto sia in percentuale, e li ha persi tanto rispetto alle Europee quanto rispetto alle Politiche. E non è nemmeno vero che le perdite del Pdl siano state compensate dal successo della Lega: il vantaggio del centro-destra rispetto al centro-sinistra si è circa dimezzato rispetto al 2008-2009.

Ed è passato dal 5-6% al 2-3%. Ha dunque ragione Bersani, che parla di «inversione di tendenza» e dice che il Pd ha recuperato, sia pure di poco, rispetto al deludente risultato delle Europee?

Direi proprio di no. Intanto perché un piccolo indebolimento della maggioranza di governo in un’elezione intermedia è fisiologico, e di norma segnala solo che gli elettori sono usciti dalla luna di miele e richiamano il governo a onorare gli impegni. E poi perché i conti del Pd, se fatti correttamente, non rivelano un rafforzamento rispetto alle Europee, ma un ulteriore indebolimento. Nel 2009 il Pd aveva ottenuto il 26,6% da solo, e il 29,1% conteggiando i radicali, che allora si erano presentati in tutte le regioni. Nelle elezioni regionali appena avvenute ha ottenuto il 26,1%, che diventa il 26,7% aggiungendo i radicali (presenti in poche regioni), e circa il 28% assegnando al Pd i voti delle liste collegate a un candidato presidente del Pd stesso. Dunque se si tiene conto di tutto (assenza dei radicali e liste del presidente), la forza di attrazione del Pd non è aumentata, ma diminuita, sia pure di poco: il Pd è al minimo storico, altroché inversione di tendenza.

Tutto fermo, dunque? Non proprio. Il risultato elettorale contiene almeno due novità notevoli.

La prima è il trionfo del partito dello scontento e la conseguente (momentanea?) disfatta del bipartitismo. Ci sono sei strumenti elettorali per esprimere la propria insoddisfazione: non andare a votare, votare scheda bianca, votare scheda nulla, votare Bossi, votare Di Pietro, votare Beppe Grillo. Ebbene, li abbiamo usati tutti massicciamente: l’astensione è al massimo storico (36,5%), il voto alla Lega anche (12,3% dei voti validi), il populismo di sinistra (Di Pietro + Grillo) non è mai stato così forte (8,7% dei voti validi). Specularmente, il voto ai due maggiori partiti, Pd e Pdl, supera a mala pena il 50% dei voti validi.

Ma, per capire veramente a che punto siamo arrivati, più che sui voti validi è utile ragionare sul corpo elettorale. Fatto 100 il numero di aventi diritto al voto, circa 40 non hanno scelto alcun partito o lista, 12 hanno votato Lega, Italia dei valori o lista Grillo, 29 hanno votato uno dei due partitoni (Pd o Pdl), e i restanti 19 si sono suddivisi fra le decine di partiti e liste restanti. Tenuto conto che circa il 10-15% dell’astensione è dovuta a cause di forza maggiore, possiamo dire che il partito del «non voto per scelta», costituito da astensionisti volontari, schede bianche e nulle, è compreso fra il 25% e il 30% del corpo elettorale, ossia pesa più o meno come Pdl e Pd messi insieme, la cui somma non raggiunge il 30%. Non era mai successo prima e dovrebbe far riflettere: il principale partito di governo è votato da circa 1 italiano su 7, mentre ben 3 italiani su 7 semplicemente non partecipano al gioco.

La seconda novità è la distribuzione geografica del successo della Lega. La Lega sfonda in quattro regioni: Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte. Cresce un po’ di meno in Toscana e Marche. Cresce ancora meno in Umbria e Liguria. Non si presenta dal Lazio in giù. Ebbene, è sorprendente constatare che il tasso di penetrazione della Lega è strettamente correlato al ruolo economico dei territori. Le regioni a maggiore penetrazione leghista sono le regioni più produttive del Paese, quelle che «tirano la carretta» e sono quindi in forte credito con buona parte delle altre (circa 55 miliardi di euro all’anno). Le regioni a media penetrazione della Lega – Toscana e Marche – sono anch’esse in credito ma in misura meno drammatica. Le regioni a bassa o nulla penetrazione della Lega (Liguria, Umbria, Lazio e Mezzogiorno) sono in debito con tutte le altre (i calcoli sui crediti e debiti delle regioni sono esposti nel mio libro Il sacco del Nord).

Anche questo risultato fa riflettere. I dirigenti della Lega sognavano il «quadrilatero del Nord», ovvero la conquista al centro-destra delle tre grandi regioni subalpine (Piemonte, Lombardia, Veneto) più la Liguria. Ma a giudicare dai dati economici di fondo dovrebbero forse correggere il loro sogno: la Liguria fa parte delle regioni debitrici, mentre l’Emilia Romagna è la seconda regione creditrice dopo la Lombardia. Se finora non è stata ancora conquistata completamente dalla Lega è soprattutto per due motivi: la forza inerziale della tradizione comunista, la concorrenza esercitata dalla sinistra populista (Di Pietro + Grillo), che per ora è riuscita a intercettare una parte consistente delle inquietudini degli elettori, e forse non a caso ha ottenuto proprio in Emilia Romagna il successo più strepitoso, triplicando i voti rispetto a quelli del 2008.

Così la mappa politica dell’Italia che si comincia a intravedere dopo le Regionali ha non pochi tratti inediti. A Nord una fascia di quattro grandi regioni, le più produttive del Paese, affacciate sul fiume Po: il Piemonte è già entrato nel club, l’Emilia Romagna potrebbe entrarci al prossimo giro. Al centro la classica zona rossa, che già ora si stende fino alla Liguria (rimasta al centro-sinistra), e che domani potrebbe perdere l’Emilia Romagna: un’area sostanzialmente in pareggio, che riceve più o meno quanto dà. A Sud della zona rossa il resto del Paese – dal Lazio alla Sicilia – dove la Lega non può attecchire perché tutte le sue regioni producono di meno di quello che consumano.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7165&ID_sezione=&sezione=

Quarantenni fatevi avanti (P.Gomez)

I risultati delle Regionali sono salutari per il Paese e un’opportunità (l’ultima) per il centrosinistra. Dalle urne è uscito un responso chiaro e, checché se ne dica, ben poco favorevole al Cavaliere: il centrodestra ha vinto – generalmente per insussistenza degli avversari – ma Berlusconi ha perso. Dalle Politiche in poi il Pdl (al pari del Pd) è in costante emorragia di voti: nel giro di due anni ha addirittura lasciato per strada il 7 per cento dei consensi. E ora il neonato partito del premier vale quanto valeva la vecchia Forza Italia. Segno che il giudizio di Dio, più volte invocato da Berlusconi contro i giudici e l’informazione, è stato un flop. Dio (gli elettori) si è astenuto o ha votato Lega. Con questi numeri parlare ancora di riforme – a partire dall’unica che interessa all’anziano leader del Pdl: la reintroduzione dell’autorizzazione a procedere – non ha senso.

Se si mettesse davvero mano alla Costituzione, il referendum confermativo, previsto per le leggi fondamentali che non hanno una maggioranza qualificata, è destinato a chiudersi con una sonora bocciatura. Resta, è vero, la via delle riforme condivise sempre invocata dai brontosauri della partitocrazia. Ma si tratta di un percorso politicamente suicida. Saggiamente ben pochi tra gli elettori (di destra e di sinistra) ne sentono il bisogno. Perché al Paese più che nuove regole servono il rispetto di quelle vecchie e una nuova classe dirigente. Per questo la sconfitta della nomenklatura del Pd è un’opportunità.

Se nel Lazio e in Piemonte il centrosinistra avesse vinto (ci voleva un niente), oggi Pier Luigi Bersani racconterebbe di avercela fatta. Per fortuna è andata diversamente. Ed è arrivata l’ora delle centinaia di funzionari, militanti e amministratori locali onesti, con meno di quarant’anni. Adesso tocca a loro. Devono scegliere: o ribellarsi per prendere il potere nel partito, o morire con esso prima ancora di essere nati. Per gli Italiani comunque andrà a finire, sarà una liberazione.

da: Il Fatto, 31 marzo 2010

http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2464651&title=2464651

I partiti sono morti (N.Fangareggi)

La battuta più illuminata del post voto è di Nichi Vendola: i morti seppelliscono i morti, concentriamoci sui vivi. La seconda è di Beppe Grillo: non siamo di destra o di sinistra, siamo avanti.
Antipolitica? Al contrario. E’ il mondo in cui entriamo.
I partiti sono inadeguati: roba vecchia, stantia, in via di decomposizione. Questione seria, visto che sui partiti si è retta l’unità del paese dal dopoguerra in poi. Ma è la realtà e negarla non serve.
Vedo la pena di tanti giovani accingersi a maneggiare i vecchi arnesi del fare politica come unico sentiero possibile alla partecipazione. Un calvario. Presto si stancheranno. I social network sono pieni e le sezioni sono vuote. Il teatrino non regge. Bisogna fare piazza pulita. Occuparsi dei vivi, appunto, non dei morti.
I giornali di carta si riempiono di cicalecci sulle poltrone: chi farà l’assessore, chi il consigliere eccetera. Morti anche loro. I giornali vendono sempre di meno. Non sono interattivi. Li leggono solo i vecchi. Presto scompariranno con essi.
Non è un problema di gusti.
E’ il mondo che cambia e dice che le forme organizzative della democrazia sono più che decotte. Sono marce.
Non è nuovismo: il nuovismo è una moda e le mode non mi interessano. Insisto: è la realtà. Di oggi, non di domani.
Mi diranno che il Pd ha preso comunque il 40-45%. Ribatto: c’è un crollo verticale dei votanti. Anche in Emilia e anche a Reggio.
Consolarsi con un assessorato o peggio illudersi di essere un modello per l’Italia è segno di profonda inconsapevolezza.
Il Pd non è un partito, è una congerie di clan, amici, titolari di incarichi pubblici. Messo così non ha avvenire.
E il Pdl? Un partito non lo è mai stato. Mi spiace per Fini: si è svegliato tardi. Il Pdl non ha nemmeno mai fatto un congresso. Ma a che servono i congressi? A che servono i delegati, le assemblee, le sezioni? Roba vecchia, finita, sepolta.
Vendola evoca le “virtù civiche”. Vorrei capire meglio ma condivido. La partecipazione esiste eccome. E’ il resto che non c’è più.
Sento Bersani affannarsi: “non abbiamo vinto, ma non abbiamo neanche perso”.
Ho rispetto per Bersani. Poveretto. Capisco la sua pena. Ma al di là della riserva indiana è finita anche per lui.
Si dice: la Lega. Certo: il Nord è leghista e la Lega è un partito. Vent’anni fa si diceva lo stesso: la Lega è l’antipolitica. Poi si è visto com’è andata.
La Lega ha lo stesso problema degli altri. Si chiama modernità. Ossia temi concretissimi e urgenti. Lavoro, reddito, salute, scuola. Se risponde, bene. Se non risponde tornerà nelle valli.
Tre anni senza elezioni per fare le riforme. Le riforme? Vediamo. Lega e Berlusconi hanno il potere in mano da dieci anni meno due. L’Italia sta meglio, per caso? Qualcuno se ne è accorto?
Ma hanno i numeri per riprovarci. Vediamo come li useranno. Per scassare la Costituzione? Per devastare il territorio? Per raccontare tramite i tanti Minzolini agli italiani della tv che hanno abbassato le tasse ed eliminato clientele e ruberie?
Condivido Vendola e condivido Grillo. Ci sono una destra e una sinistra. Poi c’è un avanti. In quell’avanti c’è il nostro avvenire. Su quello bisogna muoversi.
http://www.reggio24ore.com/Sezione.jsp?titolo=I+partiti+sono+morti&idSezione=12231

A voi la scelta (C.De Gregorio)

Riprendiamo da dove eravamo rimasti, ora che la notte è passata e la realtà si illumina. Il centrosinistra ha perso due regioni cruciali, il Piemonte e il Lazio: un colpo durissimo, per quanto la sconfitta sia stata di misura. Perdere di poco aggrava non allevia l’amarezza. Resta dunque compresso tra il Sud in mano alla destra, con la fulgida eccezione della Puglia, e il Nord dominato dalla Lega che cala verso il centro come una colata lavica inesorabile. I dati dell’Emilia dicono che – se non cambieranno le cose – sarà la prossima a tingersi di verde. Una tenaglia. Scrivevo ieri notte: il paese è stanco. Questo è un voto di delusione e di rabbia. È così: delusione e rabbia verso un centrosinistra che ha disatteso le aspettative. Che rispetto a quel che l’elettorato chiedeva non ha avuto abbastanza coraggio: di cambiare la sua classe dirigente, di puntare sul rinnovamento, su logiche nuove e non solo su somme aritmetiche di alleanze possibili, su un progetto chiaro semplice e alternativo che fosse anche – come dice Vendola – un nuovo «racconto». Anche un linguaggio diverso, certo. La delusione e la rabbia accomuna pezzi di elettorato distanti come i leghisti, i dipietristi, i sostenitori di Grillo. È un sentimento che cresce in provincia, nell’Italia profonda. Tra coloro che hanno votato Lega ci sono milioni di delusi dal Pd. «Si dedica agli ultimi e dimentica i penultimi, che siamo noi» dice uno di loro a Paolo Stefanini nel suo bel libro Avanti Po: ceti popolari, piccola borghesia. Tra gli elettori di Di Pietro ci sono milioni che trovano questo Pd troppo prudente, timido, troppo rivolto al centro di Casini. Moltissimi hanno trovato casa in una posizione ancor più netta, quella di Grillo. Tra le centinaia di mail arrivate ieri eccone una. Scrive Carla Ferrari: «Ho votato Grillo per stanchezza, per desiderio di cambiamento senza grosse aspettative, per dare un segnale al Pd, perché stanca dei soliti meccanismi di potere. Non credo che il Movimento 5 stelle abbia tolto la “manciata utile”: se non ci fosse stato, non avrei votato. Lavoro in una biblioteca trasformata in istituzione dal sindaco Cofferati a fine mandato. Viviamo una situazione di abbandono senza precedenti dopo essere stati il fiore all’occhiello con Bologna capitale della cultura. Non riesco più a porgere l’altra guancia. Sono convinta che la manciata utile l’abbiano buttata nel cestino le mani che stanno smantellando il “modello emiliano” un pezzo alla volta, candidando personaggi impresentabili. A loro preferisco gli ingenui, gli inesperti: rappresentano di più il mio smarrimento, la mia confusione, il mio desiderio di cambiamento». Penso che questo sentimento di stanchezza e di rivolta, di delusione sia vastissimo. È quello che ha vinto le elezioni. Ora abbiamo davanti tre anni durante i quali questo governo proverà a dare il colpo finale al Paese a partire dalle riforme istituzionali. Ne cambierà i connotati. Una lunga marcia che esige che ci si attrezzi di quel che è mancato o non c’è stato abbastanza. Energie nuove, nuove logiche. Più idee, più concretezza, più visione. Più contatto con l’Italia reale, meno analisi a tavolino e più ascolto. Il coraggio di cambiare davvero. L’alternativa, dicono i nostri lettori, è andarsene: fisicamente altrove, o chiusi dentro. A voi la scelta. Noi restiamo.