Fosse Ardeatine, storico tedesco accusa l’Italia

“Roma scelse di non perseguire gli assassini”

Il settimanale Spiegel rilancia la ricerca di Felix Bohr su documenti provienienti dall’AA, il vecchio ministero degli Esteri. Da cui verrebbe alla luce la volontà comune di Roma e Berlino, a fine anni 50, di evitare l’estradizione e il processo ai criminali. Le ragioni del governo democristiano: evitare di dare l’esempio ad altri Paesi per rivalersi sui criminali di guerra italiani, ma anche per non incrinare i rapporti con la Germania di Adenhauer e non dare un vantaggio propagandistico al Pci

BERLINO – Alla fine degli anni Cinquanta, le diplomazie di Italia e Germania collaborarono per evitare che i criminali nazisti responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine fossero estradati e chiamati a rispondere di quella terribile rappresaglia davanti alla giustizia italiana. Alla sbarra finirono solo Herbert Kappler ed Erich Priebke. Lo afferma la ricerca dello storico berlinese Felix Bohr, che il settimanale Spiegel rilancia pubblicandone estratti e conclusioni. Secondo la sua ricostruzione, Roma contribuì all’insabbiamento per evitare che il processo ai militari tedeschi fungesse da esempio per Paesi che, a loro volta, avrebbero chiesto all’Italia di consegnare gli italiani macchiatisi di crimini di guerra.

Bohr ha ripercorso la vicenda analizzando documenti rinvenuti nell’Archivio politico dell’Auswaertiges Amt (AA), il ministero degli Esteri tedesco. Lo storico si sarebbe imbattuto in una corrispondenza intercorsa nel 1959 tra l’ambasciata tedesca a Roma e l’AA, da cui emergerebbe la volontà delle parti di sottrarre al giudizio i criminali nazisti. In particolare, il consigliere d’ambasciata tedesco a Roma dell’epoca, Kurt von Tannstein, iscritto al partito nazista dal 1933, scriveva che l’obiettivo “auspicato da parte tedesca e italiana” era di “addormentare” le indagini sull’esecuzione del marzo 1944 in una cava della Città eterna, in cui morirono 335 civili e militari italiani.

Spiegel scrive che “l’iniziativa partì dal governo italiano”: i dirigenti democristiani

non avevano interesse a chiedere l’estradizione dei responsabili dell’eccidio residenti in Germania. Un diplomatico italiano di rango elevato spiegava che “il giorno in cui il primo criminale tedesco verrà estradato, ci sarà un’ondata di proteste in altri Paesi che a quel punto chiederanno l’estradizione dei criminali (di guerra, ndr) italiani”. Ma altre ragioni inducevano il governo italiano a frenare il desiderio di giustizia di una nazione. Una era certamente la volontà di non turbare i buoni rapporti con la Germania di Konrad Adenauer, alleata nella Nato. E poi, il disegno strategico di non fornire un vantaggio propagandistico al Partito comunista italiano.

I documenti scoperti da Bohr portano alla luce il contenuto di un colloquio che l’ambasciatore tedesco Manfred Klaiber ebbe nell’ottobre 1958 con il capo della procura militare di Roma, colonnello Massimo Tringali, nella sede diplomatica tedesca. Dopo il colloquio, Klaiber scriveva a Bonn che il colonnello Tringali aveva “espresso che da parte italiana non c’è alcun interesse a portare di nuovo all’attenzione dell’opinione pubblica l’intero problema della fucilazione degli ostaggi in Italia, in particolare di quelli alle Fosse Ardeatine”.

All’ambasciatore tedesco, Tringali aveva spiegato che ciò “non era auspicato per motivi generali di politica interna” e “esprimeva l’auspicio che dopo un doveroso e accurato esame, le autorità tedesche fossero in grado di confermare alla Procura militare che nessuno degli accusati era più in vita o che non era possibile rintracciare il loro luogo di residenza, oppure che le persone non erano identificabili a causa di inesattezze riguardo alla loro identità”.

Il colonnello italiano avrebbe aggiunto che, nel caso in cui le autorità tedesche fossero arrivate dopo un’inchiesta alla conclusione che tutti o parte dei responsabili dell’eccidio vivevano in Germania, “la Bundesrepublik era libera di richiamarsi all’accordo italo-tedesco di estradizione e di spiegare che le informazioni richieste non potevano essere fornite, in quanto la Bundesrepublik in base ai suoi regolamenti non estrada i propri cittadini”.

L’ambasciatore Klaiber, iscritto al partito nazista dal 1934 ed entrato sotto Hitler nel ministero degli Esteri del Terzo Reich, aveva aggiunto una nota personale in cui appoggiava la “ragionevole richiesta” italiana, a cui bisognava fornire una “risposta assolutamente negativa”. Il risultato fu che nel gennaio 1960 dall’AA di Bonn arrivò all’ambasciata tedesca a Roma la risposta che nel caso della maggior parte dei ricercati “non è possibile al momento rintracciare il luogo di residenza”, esprimendo anche il dubbio che “essi siano ancora in vita”. Un addetto dell’ambasciata annotò che “ciò corrisponde al risultato atteso”.

Le ricerche di Felix Bohr hanno invece accertato che, in alcuni casi, sarebbe stato facile rintracciare criminali nazisti che alle Fosse Ardeatine ebbero un ruolo non di secondo piano. Carl-Theodor Schuetz, che aveva comandato il plotone di esecuzione, lavorava presso il ‘Bundesnachrichtendienst’, i servizi segreti tedeschi. Kurt Winden, che secondo Kappler aveva collaborato alla scelta degli ostaggi da fucilare, nel 1959 era il responsabile dell’ufficio legale della Deutsche Bank a Francoforte. Per quanto riguarda invece l’Obersturmfuehrer Heinz Thunat, nel 1961 il suo indirizzo era “noto”, ma un funzionario dell’AA scrisse a Klaiber e Tannstein di comunicare agli italiani che “su Thunat non si è in grado di fornire informazioni”.

Risultato: il procedimento per gli altri responsabili dell’eccidio alle Fosse Ardeatine venne archiviato in Italia nel febbraio 1962.
 

(15 gennaio 2012)

http://www.repubblica.it/esteri/2012/01/15/news/germania_spiegel_accusa_italia_su_ardeatine-28158045/?ref=HREC1-4

Un Paese diseguale, feudale, non meritocratico (Sandro Trento*)

Vorrei tornare sul tema della diseguaglianza. In Italia la diseguaglianza nella distribuzione del reddito è alta se confrontata con la gran parte degli altri Paesi avanzati ed è rimasta alta per gran parte degli ultimi quindici anni.

A fronte di questa stabilità vi sono stati però dei processi che hanno riguardato alcune categorie in particolare: si è avuto un impoverimento delle famiglie operaie e impiegatizie con rischi di scivolamento verso la povertà relativa; vi è una elevata volatilità del reddito per i giovani; si sono avuti all’estremo opposto fenomeni da “superstar”: fasce ristrette al top della distribuzione si sono appropriate di quote molto elevate del reddito complessivo. I lavoratori autonomi sono andati meglio di gran parte del ceto medio dipendente. Maurizio Franzini nel suo recente volume “Ricchi e poveri”, (UBE 2010) sottolinea il fatto che si riscontra a livello internazionale una correlazione tra trasmissione intergenerazionale delle posizioni economiche e alta diseguaglianza. I Paesi nei quali vi è alta diseguaglianza sono Paesi nei quali più vischioso è il cambiamento di ceto sociale da una generazione e l’altra. La trasmissione intergenerazionale (i figli dei poveri restano poveri e i figli dei ricchi restano ricchi) è alta negli Stati Uniti contrariamente allo stereotipo che vuole l’America come terrà di elevata mobilità sociale. Viceversa la trasmissione intergenerazionale è bassa in Svezia e in altri paesi Nordici, regioni di forte mobilità sociale.

L’Italia, come gli Stati Uniti, è un Paese ineguale e nel quale c’è poca mobilità sociale. Il coefficiente di correlazione tra i redditi dei figli e quelli dei padri è contenuto nei paesi Scandinavi, è invece pari allo 0,47 in USA, allo 0,50 nel Regno Unito e allo 0,51 in Italia. Questo significa che oltre metà della differenza di reddito che c’è tra due giovani lavoratori è spiegabile dalla differenza di reddito che sussiteva tra i rispettivi genitori. Le condizioni di nascita insomma hanno in Italia una forte influenza sulla posizione economica e sociale delle persone. I figli degli operai tendono a restare in una condizione di disagio economico, come i loro genitori. Si tratta di un tema cruciale. Infatti, un sistema economico ha legittimazione se è percepito come “equo”. Certo vi sono vari modi per definire l’equità ma diciamo che serve che tutti o il maggior numero dei cittadini deve avere sufficienti opportunità per salire nella gerarchia sociale. Se invece le posizioni sociali sono cristallizzate si ha un sistema di stampo feudale e la stessa democrazia assume connotazioni fragili.

Molto importante è capire quali siano i canali attraverso i quali si realizza la trasmissione intergenerazionale dei vantaggi e degli svantaggi economici. L’istruzione in un sistema economico “aperto” è uno dei canali più importanti per rompere la trasmissione intergenerazionale e per favorire l’ascesa sociale di chi per nascita appartiene a una classe sociale umile. Affinchè l’istruzione funzioni come “ascensore sociale” servono: 1) scuole di qualità 2) meccanismi di selezione meritocratici.

Scuole di qualità: le scuole devono fornire le competenze necessarie per il mercato del lavoro; devono essere molto meritocratiche: chi è bravo riceve i voti migliori; ci devono essere borse di studio adeguate per chi è bravo ma privo di mezzi economici.
Meritocrazia: per accedere ai lavori l’unico criterio deve essere quello del merito, della bravura, delle competenze. Chi è figlio di poveri ma ha studiato e ha meritato un titolo di studio con voto elevato deve poter avere accesso a un posto di prestigio ben retribuito.

In Italia manca la meritocrazia. La scuola non è meritocratica, salvo pochissime eccezioni. Chi ha figli in età scolastica sa che in classe si copia, che esistono le “interrogazioni programmate”, che si suggeriscono le risposte ai compagni interrogati. I programmi sono vecchi. Mancano poi vere borse di studio per i meritevoli. Le borse universitarie sono correlate solo al reddito dichiarato dai genitori: quasi sempre finiscono per essere assegnate ai figli degli evasori fiscali e non ai meritevoli senza mezzi.

Il mercato del lavoro non è meritocratico. Si accede ai vari lavori con le raccomandazioni, con le reti familiari, con gli amici di papà o di mamma. Ci si tramanda la professione da generazione a generazione. Siamo un Paese feudale e non un’economia “aperta”.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/01/14/paese-diseguale-feudale-meritocratico/183850/

*Professore ordinario presso la Facoltà di Economia dell’Università di Trento

Così il Reich pianificò lo sterminio degli ebrei esiste ancora una copia del protocollo

163622364-bd4ab44c-34c0-403b-b048-9ff7256368ea.jpgBERLINO – Esiste ancora una copia del protocollo della riunione segreta in cui, il 20 gennaio 1942, alti ufficiali delle SS e dignitari d’alto rango del Partito nazionalsocialista (Nsdap) e dell’amministrazione del Terzo Reich discussero e organizzarono con precisione e metodicità industriale il genocidio del popolo ebraico. Per decenni, è stato custodito come documento storico negli archivi dello Auswaertiges Amt, il ministero degli Esteri tedesco. Il documento fu trovato per caso, dopo la disfatta dell’Asse, da ufficiali delle forze armate americane, e consegnato ai giudici del processo di Norimberga, la grande istruttoria degli Alleati contro i criminali nazisti. Fu più volte fotocopiato e riprodotto in testi storici e scolastici, ma si pensava che l’originale non esistesse più. Invece eccolo qui: in quelle 15 pagine dattiloscritte ingiallite dal tempo, pubblicate da Welt online 1 (edizione digitale del quotidiano liberalconservatore vicino al governo Merkel) oggi tutti, soprattutto i giovani, possono ritrovare la prova schiacciante della Shoah. E’ l’ennesima smentita ai negazionisti, ai nostalgici e agli storici revisionisti che spudoratamente affermano che l’Olocausto sarebbe stato inventato a posteriori dai vincitori della seconda guerra mondiale (Usa, Regno Unito, Urss, la Polonia del governo in esilio a Londra, la Francia libera di De Gaulle e i molti Paesi e movimenti di resistenza loro alleati). Nossignore: tutto vero, confermato ancora una volta dalla lettura di quell’agghiacciante documento.

Era il freddo 20 gennaio 1942 quando un gruppo di alti responsabili nazisti si riunirono in una bella, lussuosa villa nel quartiere elegante di Wannsee, nell’area sudovest di Berlino. “Geheime Reichsache!”, cioè “top secret del Reich”, dice il timbro in rosso in cima al documento. L’idea di redigere il protocollo della riunione e di stamparne trenta copie venne ad Adolf Eichmann, l’alto ufficiale delle SS che fu poi il progettista-ingegnere dell’esecuzione dell’Olocausto nei minimi dettagli anche tecnici, dal numero di treni-bestiame piombati alla cadenza delle esecuzioni di massa quotidiane col gas Zyklone-B in dosi ben calcolate prodotto dalla diligente, moderna azienda IG Farben, con colpi alla nuca, con criminali esperimenti “medici” in cui i deportati erano cavie destinate alla morte, fino alla “sinergia” con governi e polizie collaborazioniste esistenti ovunque tranne che in Polonia nell’Europa occupata dall’Asse.

Già alla riga tre del documento, come si vede nelle immagini, una piccola frase chiarisce di cosa si trattava in quell’incontro al Wannsee: “die Endloesung der Judenfrage”, cioè “la soluzione finale del problema ebraico”, in esecuzione degli ordini del Fuehrer Adolf Hitler e del vertice della tirannide, a cominciare dallo spietato, sadico capo delle SS, Heinrich Himmler. Il testo del protocollo, redatto da Eichmann, parla chiaramente di “evacuazione verso l’Est”. Annotazioni d’accompagno scritte dal suo stretto collaboratore Reinhard Heydrich spiegano che si tratta “dell’esecuzione pratica della soluzione finale del problema ebraico”.

Il protocollo su ordine di Eichmann fu dattiloscritto in trenta copie. Più tardi però, quando fu loro chiaro che la guerra da loro scatenata si sarebbe conclusa con la disfatta tedesca, i gerarchi nazisti, le SS, la Gestapo, tutti i singoli personaggi e istituzioni che ne avevano una copia, la distrussero. In marzo e aprile del 1945, il regime eliminò migliaia di documenti che contenevano le prove dei crimini contro l’umanità, in una corsa contro il tempo contro gli Alleati vittoriosi: a Ovest gli angloamericani di Patton, Eisenhower, Bradley e Montgomery, a est l’Armata rossa guidata dai marescialli Zhukov e Rokossovskij, le unità militari dell’Armia Krajowa polacca comandata dal governo in esilio a Londra e le divisioni polacche nelle forze armate sovietiche.
   
Distrussero tutte le copie, tranne una, la numero sedici. Sembra che un funzionario del ministero degli Esteri, convinto nazista, e giudicato anche rozzo e corrotto, Martin Luther, riuscì a conservarla nel sogno di compromettere il suo ministro, Joachim von Ribbentrop. SS e Gestapo scoprirono i piani di Luther, che fu internato a Sachsenhausen. Ma nessuno distrusse la copia. Che restò negli archivi sotterranei del ministero. Dopo la disfatta del “Reich millenario”, i sovietici che avevano preso Berlino, setacciarono insieme a inquirenti Usa, britannici e francesi ogni archivio delle istituzioni naziste. Così quel protocollo finì in mano a Robert Kempner, un esule antinazista tedesco divenuto cittadino e ufficiale americano. Kempner non volle credere ai suoi occhi, e la trasmise subito a Telford Taylor, il giudice americano capo della Corte alleata che giudicò i capi del regime nazista a Norimberga. “Oh Dio, ma è un documento vero?”, disse il giudice Taylor sotto shock, poi lo esaminò subito coi colleghi britannico, sovietico e francese.

Il processo di Norimberga si concluse con numerose condanne a morte. Alcuni dei capi del nazismo, come Hermann Goering, si suicidarono. Degli estensori del protocollo, uno era già caduto vittima dei suoi crimini, l’altro avrebbe reso conto più tardi al mondo del suo ruolo. Reinhard Heydrich fu il sadico governatore di Praga occupata, ogni giorno faceva affiggere nelle strade manifesti con le foto dei resistenti o dei sospetti assassinati. Un commando suicida della resistenza cecoslovacca si assunse l’incarico (*) : si fece addestrare nel Regno Unito dalle truppe speciali britanniche, poi fu paracadutato presso Praga da aerei per missioni segrete della Royal Air Force. Uccisero Heydrich in un attentato, poi si tolsero la vita per non cadere prigionieri e non parlare sotto tortura.

Eichmann era fuggito in Argentina, ma il Mossad, l’efficientissimo servizio segreto dello Stato d’Israele intanto sorto, lo scovò, e in una straordinaria missione lo rapì e lo portò in Israele con un quadrimotore DC 4 cargo con false registrazioni di volo trasporto merci. Al processo a Gerusalemme Eichmann ammise freddo ogni colpa, senza mostrare alcun pentimento. Fu condannato a morte e impiccato. Ma la caccia agli ultimi criminali nazisti continua, guidata da Efraim Zuroff al Centro Simon Wiesenthal con la collaborazione dei servizi americani, israeliani, tedeschi e di altri Paesi. Quelle pagine ingiallite con il piano del più orrido crimine della Storia incoraggiano a ricordare, e a non smettere di ricercarli.

ANDREA TARQUINI
(La Repubblica, 12 gennaio 2012)

(*) Il commando , composto da Jan Kubis e Joseph Gabcik , aveva predisposto anche una via di fuga dopo l’attentato (compiuto il 27 maggio) con l’appoggio altri agenti ma il piano non ebbe fortuna. I due si rifugiarono nella cripta della chiesa di S.Cirilllo e Metodio dove, scoperti il 18 giugno, si uccisero dopo un lungo assedio insieme al ten. Jan Opalka, altro membro del commando. Heydrich era morto per le ferite il 4 giugno 1942.(n.d.A.)

Che cos’è la verità storica (Miguel Gotor)

magritte-la-verita-negata.jpgLa disputa tra realisti e antirealisti interroga anche gli storici invitandoli a selezionare una serie di strumenti critici con cui affrontare il relativismo concettuale tipico degli anti-realisti radicali e la critica alla nozione di fatto promossa dai post-modernisti. Il primo strumento è costituito dalla documentalità come resistenza, che usa la filologia a guisa di arma. I fatti saranno pure interpretazioni come sostenuto da Nietzsche, o sacchi vuoti che non stanno in piedi come scritto da Pirandello; e avrà anche ragione Borges nelle Ficciones, quando, commentando il capitolo IX del Don Chisciotte, quello in cui Cervantes definiva la storia la «madre della verità» sostiene: «L’ idea di Cervantes è meravigliosa: non vede nella storia l’ indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica per lui non è ciò che avvenne, ma ciò che giudichiamo che avvenne». D’ accordo, ma dai tempi di Lorenzo Valla, grazie alla rivoluzione umanistica, si è affermata un’ irriducibilità dell’ analisi del testo e una sua autonomia che connotano la disciplina storica e le consentono, attraverso la critica delle fonti e le relazioni con il contesto, di accertare l’ autenticità di un documento e la verità o la falsità del suo contenuto. Ciò avviene attraverso un metodo filologico che è il migliore antidoto allo scetticismo integrale e che fa della storia una disciplina laica che sottopone a ragione critica i discorsi istituzionali e istituzionalizzanti del potere e si fonda, come ha insegnato Marc Bloch, sul modo del relativo e degli uomini al plurale. Il secondo strumento respinge l’ identità tra storia e memoria che devono vivere nella loro reciproca autonomia. Se la verità storica dipendesse solo dal racconto dei testimoni oculari o dal ricordo dei protagonisti degli avvenimenti, sarebbe davvero poca cosa. Anzi, sia gli uni sia gli altri, non aiutano a capire perché – come ha insegnato Primo Levi in I sommersi e i salvati – la testimonianza oculare e la memoria individuale sono necessarie, ma non sufficienti alla comprensione storica. Entrambe, infatti, sono determinate da un impasto vivacemente umano di interessi, dimenticanze, censure, passioni, paure, ambiguità, dolori, segreti, rimpianti, fedeltà e obbedienze che costituiscono l’ inevitabile porto da cui si salpa, ma non il punto di arrivo di ogni avventura di conoscenza. La storia non può limitarsi a raccogliere e inventariare le testimonianze dei reduci, bensì deve criticarle nella loro emotività costitutiva, altrimenti rischia di diventare una disciplina della rappresentazione dei sentimenti e delle percezioni, incapace di mettere in relazione i discorsi tenuti con la posizione sociale di chi li tiene e i rapporti di forza entroi quali avvengono. Naturalmente, non si tratta di riproporre un neo-positivismo ingenuo dal carattere sociologico-documentario, indifferente al travaglio ermeneutico che ha attraversato la soggettività occidentale negli ultimi decenni.
Piuttosto, bisogna partire da quella consapevolezza per riflettere anche in ambito storiografico e non solo letterario sulla fecondità di una sorta di “realismo isterico” caratterizzato dal gusto maniacale per il dettaglio (Dio è nel particolare), dalla digressione che rivela il problema quanto più sembra allontanarsi dal suo oggetto e dalla fluvialità della trama che serve a proteggere con i suoi argini la sempre fragile e spesso tragica complessità della verità storica come ricerca. Il terzo strumento riguarda la dimensione civile della ricerca storica. In questi ultimi anni il mestiere di storico è stato caratterizzato da una deriva ermeneutica sempre più specialistica e parcellizzata direttamente proporzionale alla crisi del carattere etico-politico della disciplina.

La principale ragione di questo moto tendenziale credo sia comune ai principali saperi umanistici. Penso alla rielaborazione del trauma costituito da Auschwitz, che, trascorsi solo settant’ anni dall’ evento, ancora condiziona lo sviluppo dei modelli culturali. Tutte le discipline umane, ancora oggi, stanno provando a rispondere, ciascuna in base alla propria specificità, alla domanda che fu per primo formulata da Theodor Adorno: dopo Auschwitz è ancora possibile la poesia? E Dio, e la filosofia, e l’ arte, e il romanzo e la storia? Sono ancora possibili? Per quanto concerne la storia la ferita da ricucire è costituita dal negazionismo, ossia dal rifiuto dell’ esistenza dei campi di sterminio come fatto in sé. La qualità dei problemi sollevati da questa patologia culturale sono più rilevanti dell’effettiva portata quantitativa del fenomeno stesso. Nel negare l’ esistenza di un fatto riducendolo a mera interpretazione c’ è il lascito più concreto del progetto nazista, fondato sulla distruzione della documentalità, un obiettivo che è stato possibile programmare e in parte realizzare proprio in virtù della forza e dell’efficacia di quel programma totalitario. «Tanto non vi crederanno…»: quest’angosciosa provocazione di una SS spinse Levi alla scrittura. Dall’ imperativo di rispondere a una sfida tanto selvaggia si è registrata la condivisibile presa di conquista del centro della disciplina da parte della memoria e della testimonianza. Tuttavia, l’ estensione onnivora di questa prescrizione agli altri ambiti della ricerca, un’ estensione non a caso accompagnata da una messa in discussione dell’ unicità della Shoah come progetto di annientamento totalitario scaturito dal cuore della democrazia europea, ha progressivamente marginalizzato lo spazio della filologia e quello del metodo nella ricostruzione storica: dalla storia alle “storie”, ciascuno con la propria memoria identitaria da difendere e brandire.

Ciò ha favorito l’affermazione della “docufiction”, il cui fulcro è costituito dalla densità emotiva del racconto, qualunque esso sia: basta che quel sacco stia in piedi, anche se a tenerlo non sono più neppure le interpretazioni – che almeno si potrebbero discutere – ma il palcoscenico delle emozioni, il ricatto degli stati d’ animo e il loro consumo pubblicitario dentro una cornice populista che costituisce la malattia della democrazia contemporanea. Un male che si può ancora curare se restituiamo uno spazio critico ai fatti e alla realtà, come istanza culturale da proporre, un percorso in cui dunque il sapere storico, con i suoi metodi, può svolgere un’ importante funzione civile. Il problema sollevato è quello della tendenza al dispotismo della democrazia, già individuata da Tocqueville in pagine famose: forme della rappresentatività in crisi e retoriche della persuasione che vivono invece una stagione tecnologica di straordinario sviluppo e pervasività e che sono sempre più in grado di «degradare gli uomini senza tormentarli», in modo «più esteso e più dolce» che in passato, come scriveva l’ autore della Democrazia in America. In questo squilibrio tipico del nostro tempo tra la lentezza delle forme della politica e la velocità tecnologica della sua comunicazione senza pensiero e cultura e, dunque, in uno stato perenne di demagogia plebiscitaria, c’ è la profonda frattura dei nostri giorni.
Ragionare su come sanarla attiene alla funzione culturale delle discipline umanistiche, alla sfida del realismo con cui avranno la capacità di affrontarla: il nemico, quando è mortale, non è mai un’ interpretazione.

La Repubblica, 5.1.2012

Dopo il Tricolore

450px-Tricolore_italiano_spiegato_su_cielo_azzurro_33-2.jpgPost visita Monti a Reggio. Ho aspettato a scrivere, ho preso il sole della montagna sulle mie pietre a Fortezza Bastiani, ho bevuto un buon rosso, ho letto qualcosa, ho scritto (altro). Sabato mattina ho girato per Reggio, ero in piazza all’alzabandiera, ho cantato l’inno, mi sono tolto il capello davanti alle bandiere che salivano sui pennoni. Ho visto-merito forse del cerimoniale-un palco delle autorità più sobrio e meno intasato di tartufi e tartufoni. Poi sono andato in giro nelle piazze. Ho sentito persone parlare, apprezzare, non apprezzare, normale, logico. Ho visto 40 leghisti, ridicoli e penosi come solo loro sanno essere, contestare chi sta cercando di salvare il paese dalla bufera dove loro e il vecchio maiale ci hanno condotti. Ho visto 10 fascisti, in nero, capelli rasati, inneggiare all’Ungheria (sì, non quella del ’56, quella di oggi…), ho visto una cinquantina di militanti dell’estrema sinistra agitare le bandiere rosse, lanciando slogan che mi hanno fatto tornare giovane, stile cortei 1971-72. Ci mancava solo “Nixon boia” e “Giù le mani dal Vietnam”.

Non sono mai stato comunista, sono un vecchio azionista, antifascista e antitotalitario, ma riconosco il ruolo dei comunisti nella costruzione della nostra democrazia, un ruolo decisivo. Paradossale forse, visto che altrove il loro stato-guida della stessa democrazia fece carta straccia e peggio. Ma sono le strane acrobazie della storia. L’Europa è stata salvata dal nazifascismo anche grazie al contributo di un’altra dittatura. Per fortuna l’Italia ha avuto i comunisti senza avere il comunismo. Ci ha salvato la geografia o la buona sorte.

Però quelle bandiere, con quegli slogan, mi hanno fatto tristezza, vedere così ridotta un’idea nobile, ormai fuori dal Parlamento e dalla sensibilità generale. La gente passava li ascoltava, scuoteva la testa e se ne andava (Reggio Emilia non Catania). Marginali, attaccati a parole invecchiate, convinte ancora dei grandi complotti del capitale delle multinazionali. Fosse così facile! Ci fosse davvero la spectre-Goldman Sachs e compagnia bella! Sono ancora al FODRIA (Forze Oscure Della Reazione In Agguato) come si diceva negli anni ’50. Marginali per i complotti o perchè non hanno azzeccato una scelta politica da vent’anni a  oggi?

E poi mi sono sorpreso a trovare una logica in quella piazza dove a sinistra suonava uno strillo e a destra rispondeva un rutto. C’erano lì alcuni dei protagonisti della nostra crisi attuale, quelli recenti: i leghisti e i fascisti(che hanno collaborato a ogni atto del berlusconismo) e quelli antichi (quelli dell’estrema sinistra che fecero saltare per pura ideologia il primo-e migliore-governo del centro sinistra nel 1998). Erano lì, in tutto un centinaio di persone, a gridare la loro rabbia a chi sta cercando di fare qualcosa per tirarci fuori dal guano.

C’erano tanti amici in piazza e sono stato colpito da un colloquio fra un amico e una parente. Lei aveva appena finito di lanciare moccoli contro la retata di Cortina (“così rovinano l’economia e il turismo”), l’altro contro Monti che “se la prende con la povera gente”. In pochi istanti si sono trovati d’accordo, un compromesso storico sorprendente. Temo per lasciare tutto come resta.

Tutto sta cambiando o è già cambiato e non ce ne vogliamo accorgere. Abbiamo scambiato per stelle fisse quelle che sono parte dell’universo, mobili e mutevoli. Non abbiamo capito che l’unico modo per difendere i diritti è quello di lavorarci su, aggiornarli, pensarne di nuovi, renderci conto della realtà. In guerra, come in una partita, giocare in difesa significa essere perdenti. Il nemico/avversario ha i suoi piani di attacco e noi? Una bella trincea sempre più vuota dove tenere alta la nostra bandierina sempre più lacera e sbiadita.

Due esempi personali: non sono entrato nell’Università  certamente perché non sono abbastanza bravo (nonostante abbia un curriculum non indifferente) ma soprattutto perché il mio professore dell’epoca non era un barone, non aveva peso per proporre i “suoi”. Bologna, Emilia rossa, anni ottanta. Niente di male, me ne sono fatto una ragione. Roba passata. Poi però quando qualcuno ha tentato riforme, ecco la sollevazione. Fino alla ridicola EnteroGelmina. A quel punto “allarmi, compagni!”. Tutti in piazza? A far cosa? A prendere aria fresca o difendere privilegi?

Articolo 18 e difesa dei “diritti”. Nel corso della mia attività lavorativa (fatta di precariato, assunzioni, precariato, assunzioni) chi mi ha mai tutelato? L’articolo 18? Attualmente sono assunto. Grazie. Bene. Ma se domani i finanziamenti venissero a mancare io sarei licenziato senza se e senza ma. Allora difendiamo l’articolo 18 come Fort Alamo o ci mettiamo a pensare come difendere tutti lavoratori, fissi, precari, mobili, pieghevoli e quant’altro? Difenderli nei loro diritti ma affermando anche i loro doveri. Qualcuno ricorda ancora la teoria del “salario come variabile indipendente” o “a salario di merda lavoro di merda”?

I diritti sono un po’ come l’amore: se dai per scontato, se non ci ripensi tutti i giorni, prima o poi trovi a letto tua moglie/marito con qualcun altro. Ci lamentiamo perché stanno smantellando il welfare (anche su questo vorrei poi capire dove finisce il welfare e inizia il privilegio..) ma abbiamo un’idea realistica di un nuovo welfare che non sia “lo Stato deve pagare”?

Pensiamo ancora che le liberalizzazioni siano un danno? Abbiamo qualche rimpianto per la pianificazione di Stato o per la Camera dei Fasci e delle Corporazioni?

Mi sono giocato i miei lettori di sinistra, ma siamo certi che fossero di sinistra quelli che stavano sotto le bandiere rosse? Sono di sinistra quelli che vogliono che tutto resti com’è? Molti paesi europei, con diverse culture politiche e diversa etica, queste cose le hanno capite da decenni. Noi ci arriviamo adesso per contrarietà, ma anche in questo caso non dobbiamo buttare via il bimbo con l’acqua sporca. L’intervento di Monti è stato duro ma, mi sembra/spero, che la gente abbia capito, è finito un periodo dove tutti abbiamo avuto (in misura diversa) la nostra fetta di torta mangiata senza passare dalla cassa. Magari è il momento di riflettere sul nostro appetito, pensare che abbiamo smangiucchiato anche la fetta dei nostri figli e iniziare un po’ di dieta. Non so se Monti ce la farà, spero di sì, sento già tassisti, farmacisti, notai, tubisti, gelatai pronti alla lotta, ma certamente se dovesse fallire quelli che la pagheranno di più, e a carissimo prezzo, saranno proprio quelli che gli antiMontiani dicono di volere difendere.

Per ora mi accontento di avere un governo rispettabile, un premier preparato che sa di cosa parla e che anche in Europa ascoltano e rispettano. Sembrava fantascienza due mesi fa, non dimentichiamolo.

Buon 2012.

 

 

Super Mario!!

 ovale_pcm.gif

4 Gennaio 2012

Il Presidente del Consiglio ha appreso da fonti di stampa che il Senatore Roberto Calderoli avrebbe presentato in data odierna un’interrogazione a risposta scritta con la quale chiede di dar conto delle modalità di svolgimento della cena del 31 dicembre 2011 del medesimo Presidente del Consiglio.

Il Presidente Monti precisa che non c’è stato alcun tipo di festeggiamento presso Palazzo Chigi, ma si è tenuta presso l’appartamento, residenza di servizio del Presidente del Consiglio, una semplice cena di natura privata, dalle ore 20.00 del 31 dicembre 2011 alle ore 00.15 del 1° gennaio 2012, alla quale hanno partecipato: Mario Monti e la moglie, a titolo di residenti pro tempore nell’appartamento suddetto, nonché quali invitati la figlia e il figlio, con i rispettivi coniugi, una sorella della signora Monti con il coniuge, quattro bambini, nipoti dei coniugi Monti, di età compresa tra un anno e mezzo e i sei anni.

Tutti gli invitati alla cena, che hanno trascorso a Roma il periodo dal 27 dicembre al 2 gennaio, risiedevano all’Hotel Nazionale, ovviamente a loro spese.

Gli oneri della serata sono stati sostenuti personalmente da Mario Monti, che, come l’interrogante ricorderà, ha rinunciato alle remunerazioni previste per le posizioni di Presidente del Consiglio e di Ministro dell’economia e delle finanze.

Gli acquisti sono stati effettuati dalla signora Monti a proprie spese presso alcuni negozi siti in Piazza Santa Emerenziana (tortellini e dolce) e in via Cola di Rienzo (cotechino e lenticchie).

La cena è stata preparata e servita in tavola dalla signora Monti. Non vi è perciò stato alcun onere diretto o indiretto per spese di personale.

Il Presidente Monti non si sente tuttavia di escludere che, in relazione al numero relativamente elevato degli invitati (10 ospiti), possano esservi stati per l’Amministrazione di Palazzo Chigi oneri lievemente superiori a quelli abituali per quanto riguarda il consumo di energia elettrica, gas e acqua corrente.

Nel dare risposta al Senatore Calderoli, il Presidente Monti esprime la propria gratitudine per la richiesta di chiarimenti, poiché anche a suo parere sarebbe “inopportuno e offensivo verso i cittadini organizzare una festa utilizzando strutture e personale pubblici”. Come risulta dalle circostanze di fatto sopra indicate, non si è trattato di “una festa” organizzata “utilizzando strutture e personale pubblici”.

D’altronde il Presidente Monti evita accuratamente di utilizzare mezzi dello Stato se non per ragioni strettamente legate all’esercizio delle sue funzioni, quali gli incontri con rappresentanti istituzionali o con membri di governo stranieri. Pertanto, il Presidente, per raggiungere il proprio domicilio a Milano, utilizza il treno, a meno che non siano previsti la partenza o l’arrivo a Milano da un viaggio ufficiale.

 

http://www.governo.it/Presidente/Comunicati/dettaglio.asp?d=66033&pg=1%2C2121%2C3027&pg_c=1

 

Due dubbi:

1. Ma chi puffo è sto’ Calderoli? Quel demente che si era sposato con il rito celtico?

2. Una cena senza Apicella? Senza un paio di ragazze di gamba svelta? Con nipotini/ne vere? Nahhhh..! Invito Supermario a non eccedere in correttezza e rigore: non ci siamo abituati….

Tagli alle spese militari: iniziamo con gli F-35 da 15 miliardi di euro (U.DeGiovannangeli)

 

cover-f-35_in_the_clouds_1920x10802.jpgNon è solo questione di risparmiare in una situazione di crisi. La sfida è un`altra e ben più ambiziosa: tagliare per rendere più efficiente, funzionale, produttivo il nostro sistema di Difesa. Ridurre le spese militari non significa sottrarsi ad impegni assunti dall`Italia in organismi sovranazionali, dall`Onu alla Nato, ma orientare gli investimenti, razionalizzandoli, operando di «forbice» e non di «mannaia». A partire dalla vicenda al centro da giorni di un acceso dibattito politico: l’acquisto da parte del nostro Paese di 131 caccia bombardieri F35. L’Italia dovrebbe iniziare ad acquistare i primi quattro aerei quest’anno. Gli altri, entro il 2023. La spesa totale aggiornata è di almeno 15 miliardi di euro considerando che per i progetti aeronautici, i costi maggiori si hanno proprio per il mantenimento e la gestione dei mezzi aerei. I velivoli dovranno essere consegnati due anni dopo la firma del contratto d’acquisto. In termini monetari, ciò si traduce in un costo annuo medio per l’Italia di 1.250 milioni. Dal 2012 al 2023, infatti, la spesa va dai 460 ai 1.495 milioni di euro all’anno. Una spesa eccessiva, un investimento da rimodulare e non solo perché siamo in una situazione di crisi. Ridurre, non azzerare. Senza che questo comporti una «diminutio» italiana nel sistema politico-militare internazionale e senza che una sospensione comporti una penale.

Parlamentari e analisti ascoltati da l’Unità concordano sul fatto che 131 caccia non servono e che è ragionevole una riduzione degli acquisti a 40-50. Ciò porta con sé la necessità di aprire un tavolo con i nostri partner internazionali e riflettere, in quell’ambito, se quel programma ha davvero un futuro e, se sì, quale. Nessun obbligo, dunque, tanto più che anche Stati Uniti e Gran Bretagna stanno procedendo al rallentamento del programma F35, con riduzione di ordini e ripensamenti graduali. Un ripensamento strategico che non riguarda solo Washington e Londra. Norvegia, Canada, Australia e Turchia hanno di recente messo in discussione la loro partecipazione al programma, in qualche caso arrivando a una vera e propria sospensione, mentre in Olanda la Corte dei conti ha aperto un dossier sull’argomento.

 

Ma il dossier che l’Italia dovrebbe aprire al più presto è più ampio e ambizioso, investendo il complesso delle nostre spese militari con una visione strategica e non ragionieristica. Una necessità che non sembra sfuggire al ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola: «Oggi lo strumento militare, così come è strutturato, non è più sostenibile. Questa è la realtà. E la realtà, oggi, impone una revisione dello strumento per conservare ciò che più conta, la sua operatività e la sua efficacia..»: così Di Paola nel tradizionale messaggio di fine anno rivolto al personale, civile e militare, della Difesa. Revisione dello strumento militare significa, ad esempio, riflettere sulla dimensione dei nostri investimenti in armamenti. Non ci sono solo gli F35, ma l’ultima trance del programma per i caccia Eurofighter (5 miliardi); l’acquisto di 8 aerei senza pilota (1,3 miliardi); l’acquisto di 100 nuovi elicotteri NH-90 (4 miliardi); l’acquisto di 10 fregate Fremm (5 miliardi); 2 sommergibili militari (1 miliardo); il programma per i sistemi digitali dell`Esercito che costerà alla fine oltre 12 miliardi di euro. Un ripensamento che deve riguardare anche la dimensione quantitativa delle nostre Forze Armate.

Questi i dati: le Forze Armate italiane contano complessivamente 178.600 unità (Esercito 104.000; Marina 32.300; Aeronautica 42.300). La Gran Bretagna conta, complessivamente, 177.00 unità in divisa; la Germania 152.000; la Spagna, 135.000; l`Olanda 44.700; il Canada, 41.800.

Molti analisti, non certo tacciabili di veteropacifismo, considerano l’organico delle nostre Forze Armate eccessivo, non giustificabile dal nostro impegno in missioni all’estero né funzionale ad una visione più dinamica, e integrata, di un moderno ed efficiente sistema di difesa. La riduzione ipotizzabile è di 30-40mila unità. Ma l’anomalia italiana, in questo campo, investe un dato che non ha eguali tra i Paesi europei a noi dimensionabili, e anche oltre: il rapporto tra stipendi del personale e bilancio complessivo della Difesa. Il bilancio 2011 della Difesa prevede 14 miliardi di euro.

Anche considerando i fondi per le missioni si arriva a 15,5 miliardi di euro. E di questo totale ben 9,5 miliardi sono destinati al personale: oltre i due terzi del bilancio. La spesa per il personale invece di diminuire è aumentata di quasi l’1%: un incremento che non risponde di certo a criteri di «buona amministrazione».

Quanto alla «dieta» declamata dal Governo Berlusconi-Tremonti-La Russa, rimarca generale Leonardo Tricarico (ex capo di stato maggiore dell`Aeronautica e socio della Fondazione Icsa), i tagli non hanno abolito gli sprechi ma hanno inciso «sugli stanziamenti per l’esercizio, ossia addestramento, manutenzione e infrastrutture»: insomma, un disastro. Riflette in proposito Andrea Nativi, curatore del Rapporto Difesa 2011 della Fondazione Icsa: «La situazione della Difesa italiana è sempre più precaria perché si continua a rimandare quell’intervento complessivo di razionalizzazione che tutti i partner stanno realizzando o hanno già realizzato…». L’Italia ha perso tempo prezioso. E il costo del «non decidere», rileva sempre Nativi, «è elevato perché si continuano a sprecare soldi mantenendo una struttura inadeguata e perché i partner si stanno muovendo».

Rischiamo di rimanere gli unici a non aver dato mano alla ristrutturazione delle Forze Armate. Un ben triste primato. Triste e costoso.

 

Unità, 4.1.2012

http://rassegna.governo.it/rs_pdf/pdf/18YM/18YM2B.pdf

Stanze di silenzio (Gabriella Caramore)

Non molto tempo fa ho ricevuto in trasmissione (Uomini e Profeti, Radio 3) la lettera di una docente di Psicologia dei Processi Sociali all’Università di Milano-Bicocca, Chiara Volpato, autrice, tra l’altro, di un intelligente – e angoscioso – volume sui processi di legittimazione della violenza nella storia, che passano attraverso procedure di deumanizzazione di persone o gruppi sociali (Deumanizzazione, Laterza 2011). La professoressa Volpato ha raccontato di una sua studentessa turca, di religione musulmana, che si è rivolta a lei perché l’aiutasse a trovare un posto dove poter pregare, ogni giorno per pochi minuti, dato che sta nel campus dalla mattina alla sera. La professoressa si è messa in moto, interpellando varie autorità all’interno dell’Università, ma una soluzione non si è trovata, se non quella – certamente poco pratica e un po’ bizzarra – di cedere di tanto in tanto il suo studio per consentire alla studentessa di pregare.
Casi analoghi sono stati segnalati a Torino, e immagino che la situazione di Roma e di altre città italiane non sia tanto diversa. Tenuto conto, che verosimilmente, non saranno molti gli studenti desiderosi di uno spazio in cui pregare durante le ore di studio, anche perché quasi sempre nelle sedi universitarie gli studenti cattolici posso usufruire di un luogo di culto vero e proprio, mi chiedo se sarebbe così difficile trovare in una università una stanza bella, accogliente, ariosa, priva di simboli identificativi, in cui qualcuno possa esprimere in libertà e tranquillità quei gesti di culto che la sua tradizione gli chiede, e qualcun altro magari raccogliersi per un momento di silenzio, di meditazione, di colloquio con se stesso. Forse, all’uscita da quella stanza, studenti e studentesse di culture e fedi diverse si potrebbero anche incontrare e scambiare qualche parola tra loro.
 
L’idea di una “stanza del silenzio”, si sa, non è nuova. Il primo – a quanto ne so – a mettere in pratica la semplice intuizione di un luogo di meditazione e di preghiera aperto a qualunque culto, o anche a nessun culto, fu il segretario delle Nazioni Unite, Dag Hammarskjöld, che il 17 settembre del 1961 morì in un incidente aereo, le cui cause non furono mai del tutto chiarite, mentre era impegnato ad affrontare la tragedia di una guerra rovinosa nel Congo. Era il 1957 quando fu aperta al pubblico, nella Hall dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e dunque nel cuore pulsante ma anche fragile dell’intricata politica dei paesi di tutto il mondo, una “stanza” di meditazione e di preghiera. Hammarskjöld ne aveva seguito da vicino il progetto. Aveva un’idea precisa: doveva essere un luogo spoglio, dalle linee essenziali. Un raggio di luce, attraversando lo spazio, si sarebbe posato su una pietra solida, rocciosa, proveniente dal suo paese, la Svezia. Il raggio avrebbe ricordato “come la luce della spirito dà vita alla materia”, e quel blocco consistente di materiale ferroso, emblema di stabilità nel continuo mutamento delle cose, richiamando la “resistenza” e la “fede” che fanno da base a ogni sforzo umano, avrebbe evocato un “altare, vuoto non perché non vi è un Dio, non perché è un altare a un Dio ignoto, ma perché è dedicato al Dio che l’uomo adora sotto molti nomi e in molte forme”. “Ciascuno di noi ha dentro di sé un centro di quiete avvolto dal silenzio . Questo palazzo, dedicato al lavoro e alla discussione al servizio della pace, doveva avere una stanza dedicata al silenzio, in senso esteriore, e alla quiete, in senso interiore. L’obiettivo è stato di creare in questa piccola stanza un luogo le cui porte possano essere aperte agli spazi infiniti del pensiero e della preghiera”. Così aveva lasciato scritto in un semplice dépliant, all’ingresso di questa singolare “stanza di quiete”, quell’uomo politico davvero singolare Dag Hammarskjöld. Traeva le sue certezze dall’ambito del dovere, le sue inquietudini da quello dello Spirito. Si mescolavano nel suo sangue tradizioni consolidate e certamente diverse: da un lato quella militare e politica del padre, secondo la quale “nessuna vita dava più soddisfazione di una vita di servizio disinteressato al proprio paese e all’umanità”; dall’altro la tradizione religiosa luterana della madre: “dalla mia ascendenza materna ho ereditato la convinzione che, nel vero senso dell’evangelo, tutti gli uomini sono uguali in quanto figli di Dio e devono essere accostati e trattati da noi come i nostri signori in Dio”.
 
Qua e là l’idea di Dag Hammarskjöld è stata ripresa. Anche nel nostro paese. In alcuni luoghi si sono inaugurati pomposamente questi centri del silenzio, in altri quasi nascostamente, magari all’ombra di piccole e generose parrocchie. Ma perché non farne una consuetudine diffusa sul territorio?
Penso a Roma, alla sua religiosità incombente e distratta allo stesso tempo. E a come sarebbe bello e salutare per lo spirito di questa città far sorgere in ogni quartiere, almeno, ma certo l’ideale sarebbe pensare a una mappa più fitta, delle “stanze del silenzio”, dove chi passa possa sostare un momento, in preghiera, ma anche “in pensieri”, dove la propria preghiera e il proprio pensiero potrebbero incontrare, al fondo del proprio percorso, silenziosamente, le preghiere ei i pensieri di altri.
Irrealizzabile? Perché? Quasi ovunque ormai si vedono negozi chiusi, saracinesche abbassate. Possibile che un piccolo sforzo di una circoscrizione, di una parrocchia, di un grande e ricco magazzino non potrebbe riuscire ad alzarne una? La gestione? Con una sovvenzione minima – ma davvero minima – gli abitanti del quartiere o della zona potrebbero darsi il turno per una pulizia, per una discreta sorveglianza, per una iniziativa. Chissà se, in questo modo, coloro che si sentono respinti dal gelo e dalla distanza che si respira ormai in certe chiese non potrebbero ridare fiato a una loro sopita spiritualità.
E mi piace pensare che in questo modo proprio Roma, la “capitale” del cattolicesimo, potrebbe così rianimare la sua vocazione “cattolica” – cioè universale – dando accoglienza agli “spazi infiniti” di ogni preghiera e di ogni pensiero.

http://www.doppiozero.com/materiali/che-fare/stanze-di-silenzio

Ricordo che un simile spazio esiste all’interno del Reichstag a Berlino.

Grazie!

FortezzaBastiani.JPGFine/inizio anno tempo di bilanci eccetera. Un bilancio però mi sembra giusto farlo e comunicarlo qui, nel luogo più opportuno. Fortezza Bastiani.

Nel trascorso 2011 questo “luogo di storia, storie e altre vicende” è stato visitato 50.867 volte da una media di 4238 visitatori/mese. Sono state viste (speriamo anche lette) 120.425 pagine.

Perbacco. Grazie a tutti!

Orgoglio personale e vanità a parte, due considerazioni, una pessimistica, l’altra meno.

Quella pessimistica: lo stato culturale e sociale nazionale ed europeo è davvero in crisi se tante persone, nel corso del giorno finiscono a leggere le fanfaluche che un vecchio tasso come lo scrivente propone. E tanto più preoccupante il fatto che ci tornino con impegno degno di miglior causa.

Quella meno (pessimistica): ci sono tante persone che hanno voglia di leggere, magari sorridere, anche incaxarsi ma continuando ad utilizzare la materia grigia che il buon Dio ci ha fornito. Non è poco.

Ringrazio tutti dall’alto degli spalti di Fortezza Bastiani (in presenza o in spirito), non ho promesse o buoni propositi, vedremo, giorno per giorno, cosa ci porterà la vita che, ricordo, è quella malattia che ci porta inevitabilmente alla morte.

E poi-e chi mi conosce bene lo sa-: “Se son d’umore nero allora scrivo, frugando dentro alle nostre miserie, di solito ho da far cose più serie, costruire su macerie o mantenermi vivo“.

“L’anno moriva (assai) dolcemente” (brontolii di un vecchio bastian contrario)

“L’anno moriva assai dolcemente”, inizia così Il Piacere di Gabriele D’Annunzio e così finisce questo 2011. Ho qualche dubbio su quel “assai” ma la fine è dolce, quasi dolciastra. I giorni fra Natale e Capodanno sono sempre particolari, giorni sospesi, indefiniti. Dagli spalti di Fortezza Bastiani vedo ormai svanire i flussi delle carovane dei grandi compratori, tutti soddisfatti della mutanda rossa per stanotte, del Moscato da mangiare col panettone (scelta atroce, ma tant’è..). Signora mia, che dire, non ci sono più i veglioni di una volta…A dire il vero, forse, anche la volta di una volta non è più quella volta di allora. Tutto cambia perchè tutto, si spera, resti come sempre. Cambiare è come ballare con le scarpe strette: fa male, ognuno annidato nella sua cuccia calda, ci ripetiamo la storica battuta di Igor al dott. Frankenstein: “Capo, potrebbe essere pericoloso…vada avanti lei!”. Tutto ci spaventa, il minimo stormire di fronda può essere l’avviso dell tifone in un paese dove tutto è fermo, bloccato. Una specie di enorme puzzle sociale dove ogni tesserina sostiene quella vicina, ferme, inchiodate a descrivere un quadro ormai cadente e ammuffito.

In quale paese per scrivere sui giornali un poveretto deve dare un’esame di stato? Bielorussia, Corea del Nord? No, Italia, of course. In compenso ognuno di noi sborsa qualche euro l’anno per mentenere in vita giornali che nessuno legge. E’ la democrazia. Sarà. A me sembra solo assistenzalismo sovietico. Tanto più quando la carta stampata è finita, morta. Vogliamo diventare un paese “normale” e non riusciamo a tenere puliti i cessi degli autogrill. Aprono nuovi distributori di benzina lowcost e subito i benzinai protestano: la “mia” benzina è migliore, per questo costa di più. Roba che non ci credevamo nemmeno ai tempi della “Supercortemaggiore, la potente benzina italiana”, inventata da quel geniaccio di Mattei, buonanima. Mi piacerebbe vivere in un paese dove ognuno può fare il lavoro che vuole (se ne è capace) senza mostrare un certificato di nascita o un albero genealogico.

Non riusciamo a liberalizzare i taxi e vogliamo abbassare lo spread? Per decenni siamo (sono) andati in pensione a 55 anni (o anche meno), belli freschi, pimpanti, pronti a dedicarsi ai proprio hobby e viaggi, prendendo mensili che qualcun’altro dovrà pagare. Abbiamo onorevoli che (glielo auguriamo) camperanno ancora trent’anni a 6000 euro di pensione al mese. Euro nostri. Sono soddisfazioni…

Continuiamo a considerare l’insegnamento una specie di ufficio assistenza dove infilare chi non trova altro da fare nella vita, trascurando che la scuola è il primo giacimento culturale, il miglior investimento sul futuro. Non è obbligatorio insegnare, dovrebbero essere i migliori a farlo e invece (Dio mio! I diritti acquisiti, le graduatorie i 24 sindacati!) perpetuiamo il vecchio patto scellerato della DC di allora con la classe docente “tu fai poco, io non ti chiedo niente, ma ricordati nelle urne..”. E poi piangiamo perchè abbiamo avuto la Gelmini? In fondo era la cura omeopatica ad un paziente ormai defunto.

Ci siamo liberati (per ora) della gentaglia forzista-fascista-leghista e già abbiamo scordato tutto e vogliamo questo e quello, “sarà tre volte Natale e Pasqua tutto l’anno” e c’incaxiamo perchè ci dicono che “no”, non si potrà. Anzichè cominciare di nuovo, come i nostri genitori, a risparmiare, spendere meno, cambiare stile di vita, non per contrarietà ma per convinzione. Ricostruire una morale pubblica non è facile. E’ difficile pensare ai “lavoratori” quando si fanno le vacanze a New York. I tempi stanno cambiando, toglietevi dalla vecchia strada se non potete dare una mano o sarete spazzati via. Lo cantava Bob Dylan quasi cinquanta anni fa ma è più comodo applicare il vecchio adagio mafioso “china la testa che passa la piena”, ognuno nel suo nido a godere a spese degli altri.

Perchè in questa Italia che forse si salverà non ci sono vergini e santi. Tutti abbiamo visto quello che succedeva e siamo stati zitti. Come per il fascismo: abbiamo usato la Resistenza come alibi, per chiudere i conti ancora prima di farli. Ci siamo inventati le cartoline precetto che riempivano le piazze. Le piazze erano piene perchè gli italiani ci credevano e i pochi (pochissimi) che avevano capito o erano in galera o se stavano chiusi in casa a farsi i propri, modesti, rispettabili, affari. Noi italiani adoriamo i mascalzoni, i ladri, i puttanieri perchè ci rispecchiano. Benito, Bettino, Giulio, Silvio sono i nostri zietti, debosciati ma simpatici. I galantuomini, i pochi, dopo poco ci rompono gli zebedei, i Parri, Einaudi, De Gasperi, Ciampi, Monti sono il nostro scandalo. Ci dimostrano che si può, si potrebbe, si dovrebbe. Ma. Ma costa fatica, impegno, rigore, onestà. Che palle! Volete mettere la broda calda del trògolo? Il rutto da bar? La carrambata televisiva, la tetta catodica? Studiare, lavorare, dire no. Meglio il grido “sciopero-lotta” lanciato come un riflesso condizionato. Troppo faticoso e, come, ricordava Gadda, la eterna “porca rogna italiana del denigramento di se stessi”, gia avviata, a destra come a sinistra contro questo governo così poco rappresentativo dell’italica speme. Professori, tecnici, nessuna ragazza di gamba svelta, nessun demente della ValSeriana. Gente che sa di quel che parla, almeno. No, non è democrazia.

E poi una cosa mi angoscia e terrorizza: L’Aureliano Buendia di Gallipoli tace, oddio! Che cosa starà facendo? Quale diabolica strategia starà architettendo per perdere l’ennesima volta?

L’anno muore dolcemente, come sempre del resto. Bocca se n’è andato e Sallusti è ancora in giro. Jobs ci ha lasciato e Bill Gates no. Solo all’ultimo il padreterno s’è ricordato che don Verzè aveva 91 anni e che magari…

L’anno muore dolcemente, arriva il 2012 e per dirla con il poeta: “Ho ancora la forza…”

http://www.youtube.com/watch?v=wN0r5XBy6HY

Good night and good luck!